Alessio Brugnoli's Blog, page 126
December 20, 2018
Forma Urbis (Parte IV)
[image error]
La mappa non è il territorio e il nome non è la cosa designata è una frase di Alfred Korzybski, su cui Batheson ha costruito una profonda riflessione sul fatto che sia il nostro cervello, con le sue euristiche e il suo background di esperienze personali e di cultura condivisa nel contesto sociale in cui si vive, a costruire le immagini che noi crediamo di “percepire”.
Frase che può essere anche letta in un contesto assai più ristretto: la cartografia non è una rappresentazione approssimata, per motivi geometrici, del territorio,
evidenziare la giusta direzione della bussola, inconsciamente, con il fatto di porre l’Europa al centro del mondo, distorcendo al contempo l’apparente distribuzione delle masse terrestri, così che i due terzi della superficie del globo sembrano trovarsi alle alte latitudini, ha creato una gerarchia simbolica e visiva, ponendo noi al di sopra degli altri.
Questa non neutralità, oltre a fornirci indizi sull’evoluzione culturale, ci è utile anche interpretare e comprendere indizi, all’apparenza poco chiari: per esempio, parlando della Forma Urbis, ci da indicazioni ben precise sull’esistenza di una precedente versione augustea, di cui abbiamo perso le tracce, ma il cui substrato ideologico appare chiaro nella mappa del III sec. fatta realizzare da Settimio Severo.
Se ci facciamo caso, l’orientamento della Forma Urbis si discosta dai punti cardinali di circa 45 gradi, con l’asse verticale puntato in alto a Sud-Est. Da una parte, questo orientamento con la collocazione, nella parte bassa dell’asse, della zona del Tarentum (santuario delle divinità infere Ditis et Proserpina) e della porta Caelimontana all’ estremità superiore (con il lemma iniziale Caeliche ricorda la dimora degli dei superi), del campus scaeleratus di porta Collina all’estremità sinistra dell’asse trasversale (sinistro = infausto) e del nemus Caesarum, i successori cooptati di Augusto, Gaio e Lucio, all’estremità destra (destro = fausto) dello stesso, è compatibile con la determinazione del templum, ovvero lo spazio sacro su cui si proiettava la suddivisione della volta celeste, su cui si basava l’aruspicina etrusca.
La quale, secondo la tradizione annalistica, aveva supportato Romolo in tutta la ritualità connessa alla fondazione di Roma: per cui, il committente della mappa, in qualche modo voleva connettersi a tale universo simbolico, riproponendosi come nuovo fondatore dell’Urbe.
Se poi prolunghiamo idealmente verso l’alto l’asse verticale del disegno, in direzione Sud-Est, si notano alcune interessanti coincidenze: in primo luogo, appena fuori dalla città, a circa 1.5 km, il vettore si allinea esattamente con il rettifilo della via Latina, fino ai piedi dei monti Albani, per una distanza di quasi 13 km; in secondo luogo, poco oltre, il vettore raggiunge esattamente la cima del Monte Cavo, su cui si ergeva il venerabile santuario della lega latina, dedicato a Iuppiter Latiaris. Infine, prendendo come unità di misura la lunghezza dell’asse verticale della mappa, la sua proiezione nella campagna
raggiunge sette moduli, per un totale di 22.400 m: una misura assai prossima alla reale distanza del santuario di Giove Laziale (22.500 m)
Secondo la tradizione, fu Tarquinio Prisco che proclamo’ questo antico tempio come unico per i popoli Latini , Ernici e Volsci. Inoltre Giove Laziale conferiva il potere a chi veniva eletto a capo della Confederazione Latina , cioè’ il Dictator Latinus . Sul Mons Albanus , tra la fine dell’ anno in corso e l’inizio di quello nuovo , forse tra Gennaio e Marzo , anno che in antico iniziava il 1 di Marzo con l’ inizio della Primavera, non il 1 di Gennaio come oggi , si svolgevano le Feriae latinae, per celebrare il foedus, il patto sacro tra i popoli latini.
Per cui la Forma Urbis, come l’Ara Pacis e l’Eneide, presupponeva un interesse antiquario e la volontà di valorizzare e recuperare in chiave ideologica le antiche radici dell’Urbe: idee e principi che poco hanno a che vedere con Settimio Severo, sempre occupato tra guerre, rivolte e cospirazioni, ma molto rispecchiano la propaganda augustea…
Rinvenuto un nuovo frammento appartenente alla Forma Urbis severiana
Un nuovo prezioso tassello va a incastonarsi nel vasto e complesso mosaico che racconta la topografia della Roma antica. Si tratta di un frammento della Forma Urbis severiana, la grande planimetria di Roma antica incisa su lastre di marmo tra il 203 e il 211 d.C, che verrà presentato, ricomposto con gli altri della lastra cui appartiene, il 25 febbraio, all’Auditorium del Museo dell’Ara Pacis, dove rimarrà in esposizione fino al 17 marzo. L’evento sarà introdotto dal Sovrintendente Capitolino ai beni Culturali, Claudio Parisi Presicce e dal direttore dei Musei Vaticani,Massimo Paolucci e costituirà l’occasione per illustrare i risultati delle ricerche che gli archeologi di entrambe le istituzioni hanno effettuato in maniera congiunta.
Sinergia tra i Musei Capitolini e i Musei Vaticani
La giornata di studi sulla pianta marmorea severiana e l’esposizione al pubblico di questo importante nucleo della Forma Urbis costituiscono il frutto della sinergia…
View original post 631 altre parole
Dialoghi surreali
[image error]
Per chi può essere interessato, condivido il resoconto dell’incontro tra le organizzatrici della manifestazione Tutti per Roma, Roma per tutti e la nostra ehm efficientissima e proattiva sindaca
Care amiche e cari amici,
non è semplice riassumere i contenuti dell’incontro con Virginia Raggi, che oggi puntualmente ci ha accolto alle 14.30, dedicandoci poi due ore del suo tempo. Alla presenza di tre suoi collaboratori, siamo stati seduti attorno al grande tavolo della sala dell’Arazzo in Campidoglio dove abbiamo aperto e analizzato uno dei nostri documenti: la mappa dei 56 luoghi/situazioni di degrado della città, scelti tra gli innumerevoli che abbiamo censito insieme a voi. Le abbiamo poi consegnato un dossier sulle nostre attività, un librone con 600 fotografie che abbiamo selezionato fra le 6000 che sono arrivate al gruppo facebook di “Tutti per Roma” e la copia dei 320 articoli stampa usciti nel periodo 15 ottobre – 15 novembre sul sit in in Campidoglio.
Inizialmente la sindaca ha ribadito due cose: che la manifestazione del 27 ottobre era stata strumentalizzata dai partiti e che il Comune non ha fondi sufficienti per fare fronte alle emergenze della città.
Noi ci siamo palesemente risentite, ricordandole che la piazza è stata ricca, composita e trasversale, unita dalla rabbia per l’abbandono e il preassappochismo degli interventi del Comune e della voglia di voltare pagina e di avere risposte e di vedere i RISULTATI di due anni e mezzo di lavoro della macchina comunale. Quanto ai fondi che non ci sono, le è stato ricordato che anche quello che c’è viene male utilizzato (o comunicato).
Della preannunciata esposizione del Piano 2019-21, oggetto della riunione, nemmeno l’ombra perché è “ancora in bozza”… Siamo quindi passate all’esposizione dei problemi di Roma, concentrandoci molto a cercare di capire come il sindaco di Roma pensi di risolvere la piaga dei rifiuti che riempiono le strade. “Questo è una vera e propria emergenza, anche sanitaria che fa disperare i cittadini. “ abbiamo detto.
La Raggi ha spiegato che la soluzione arriverà quando, in un futuro non molto prossimo, tutti i materiali saranno riciclati e riconvertiti come si fa già in città come San Francisco. “Il comune deve ritirare i rifiuti, ha detto la Raggi, ma lo smaltimento spetta alla regione che non sta collaborando”. Ma anche sul ritiro, oltre alla narrazione delle sperimentazioni in corso in due municipi e dell’acquisto di nuovi cassonetti, non ci sono state fornite sufficienti informazioni. Le è stato ricordato che Roma è fatta di zone e quartieri tutti diversi fra loro, per cu vanno trovate soluzioni ad hoc, specifiche e particolareggiate. Che non possono comunque essere realizzate senza adeguata informazione e senza la collaborazione di tutti. Arriveranno però nuovi cestini, quando Soprintendenza e Prefettura avranno dato il loro consenso alla proposta del Comune.
Abbiamo informato il sindaco e i suoi collaboratori che il sistema di segnalazione di disservizi di AMA, Atac e Acea non funzionano e che i cittadini non ricevono mai risposte o riscontri. Virginia Raggi non ne era a conoscenza. Ha detto che si informerà meglio.
Sulla crisi del trasporto pubblico ci ha annunciato che verranno messi su strada entro giugno 2019 25 minibus elettrici, e in data imprecisata 400 autobus che sono in fabbricazione e 227 che saranno presi in affitto. Per le fermate chiuse della metro non ci sono state risposte, tranne che la fermata Repubblica è posta sotto sequestro della magistratura.
Gli impegni ottenuti:
1. a gennaio si farà un giro della città, sulla base della nostra mappa, e convocando cittadini, gruppi e comitati nei luoghi individuati. Perché è ora che la sindaca ascolti, veda e parli davvero con tutti e comprenda quello che forse fino ad oggi non ha ancora del tutto realizzato: a Roma non funziona quasi più niente;
2. su ciascuna delle 56 segnalazioni mappate verrà fornita una risposta specifica (si tratta di strade buie o piene di buche, mercati rionali desolanti, parchi luridi e con giochi bimbi distrutti, montagne di rifiuti abbandonati, mezzi di trasporto pubblici e loro infrastrutture senza manutenzione, monumenti storici ed edifici pubblici, scuole …).
Durante l’incontro sono stati altresì citati molti altri temi, dalla difficoltà a portare a termine le gare pubbliche al decentramento amministrativo incompiuto, dalla sicurezza, al verde, alla mancanza di alloggi per i più bisognosi, al censimento del patrimonio immobiliare pubblico. Per ognuno di questi si dovrà lavorare (loro, ma anche noi..) per trovare risposte credibili e per misurare i risultati raggiunti.
Uscendo, ci siamo chieste come sia possibile che la voce della città e dei suoi cittadini arrivi tanto rarefatta in Palazzo Senatorio. Bisogna farsi sentire ancora e ancora. Noi ci proveremo senza sosta. Perché o ci muoviamo tutti per cambiare le cose in meglio o saranno le cose a cambiare noi, in peggio.
Insomma, un dialogo che non sfigurerebbe in una pièces di Ionesco e che ci fa capire bene in mani abbiamo messo la città…
December 19, 2018
L’attualità del Nerone di Petrolini
Ogni tanto, mi diverto a prendere bonariamente in giro Stefàno per la sua sovraesposizione mediatica e per l’adulazione, simile a quella del Nerone di Petrolini, che gli riserva sempre Roma fa Schifo, che qualunque qualcosa dica, dalla ricetta della carbonara al congestion charge, applaude indiscriminatamente.
Il problema è che entrambi difendono un modello di sviluppo della città approssimato e superficiale, basato sul dilettantismo da bar sport. Pensiamo alle due grandi soluzioni che entrambi propugnano per risolvere il traffico romano: le preferenziali e le ciclabili.
Entrambi, sono cose buone e doverose, non fraintendetemi: il problema è che vengono realizzate con delle modalità da fare rizzare i capelli. Cito ad esempio ai cordoli: giorni fa, mi sono trovato davanti una foto di via Emanuele Filiberto di fine Ottocento: all’epoca già erano presenti e magari, per i romani, rappresentavano il massimo del progresso e della tecnologia.
Può sembrare strano a Stefàno e ai suoi araldi, ma i tempi sono cambiati: stiamo vivendo una nuova rivoluzione industriale, centrata sul 5G, sull’edge computing e sull’IA, che nei prossimi anni cambierà profondamente il modo di intendere il trasporto pubblico e privato e che da oggi, a costi assai più bassi dei cordoli, permetterebbero una gestione della mobilità più intelligente, flessibile e meno invasiva. Trasformazione che è in corso nelle principali città europee e in cui Roma non solo è in coda alla classifica, ma non appare neppure nei principali benchmark.
Oppure per la questione piste ciclabili: ce ne sono poche, dovrebbero essercene molte di più, anche per togliere tutti gli alibi ai ciclisti romani, che tendono a essere ancora più indisciplinati degli automobilisti, ma devono essere realizzate bene, con costi congrui ai computi metrici di settore e integrate con un servizio di bike sharing serio, che tuteli le bici e sanzioni severamente i furbi e i teppisti.
Un modello da dilettanti allo sbaraglio che non riguarda solo la mobilità, ma l’intera sistema città, dai rifiuti alle metropolitane, in cui, anche nel rapporto con la società civile, si naviga a vista… Penso alla storia comica, della Raggi e dei manifestanti di Tutti per Roma. Roma per tutti.
Vi ricordate di come la nostra amata sindaca ne disse peste e corna ? Cito dall’intervento che fece all’epoca su FB
Dalle immagini li ho riconosciuti subito. Non era difficile, errano gli stessi volti provati e stanchi, le stesse chiome bianche della precedente disastrosa manifestazione di rilancio del Pd in piazza del Popolo. Gli stessi volti che non abbiamo mai visto in periferia – aggiunge – gli stessi volti bastonati di chi è scomparso alle ultime elezioni.
Ho visto vecchi politici che rivogliono la poltrona e rappresentano soltanto se stessi: il partito con uno zoccolo duro al centro di Roma e ormai scomparso nel resto della città. Hanno nascosto le bandiere di partito, forse perché ormai gli stessi sostenitori del Pd hanno un certo imbarazzo a dire che sono del Pd. Quindi con il loro giornale volevano far credere che in piazza fosse scesa la società civile. Invece, hanno provato semplicemente a strumentalizzare i cittadini per fini partitici.
Anche stavolta li abbiamo scoperti. Quelli del Pd erano riconoscibilissimi: signore con borse firmate da mille euro indossate come fossero magliette di Che Guevara e – accessorio immancabile – i barboncini a guinzaglio (ovviamente con pedigree). I più audaci hanno osato una maglietta ‘No cordoli’ che evidentemente li schiera a favore dei suv in doppia fila e contro le corsie preferenziali per i mezzi pubblici. La società civile siamo noi, altro che quelli dello stop alle preferenziali”.
Il Pd è in cerca di un riscatto politico che tarda a venire e mai verrà – aggiunge – ha provato a camuffarsi e a dire basta. La mia risposta al Pd è ferma: avanti a testa alta. Non mi lascio incantare dalle sirene degli orfani di “mafia Capitale”, da chi vuole il ritorno di Buzzi e Carminati; da chi vuole privatizzare le nostre aziende pubbliche come l’Atac; dai radical chic; dagli pseudo intellettuali che non hanno mai preso un autobus in vita loro o fatto la spesa al mercato
Ebbene, dopo tanta crassa sicumera, la Raggi questo pomeriggio, testa bassa e coda tra le gambe, per discutere dello stato della città e per ricevere suggerimenti su come uscire fuori dal pantano in cui ci ha infilato.
E a cui, a sentire i partecipanti, la Sindaca è
apparsa molto vaga. Ci aspettavamo risposte concrete, invece nulla, nemmeno sugli autobus
Sinceramente, mi sarei meravigliato del contrario…
December 18, 2018
Per fare un albero ci vuole un sacco
[image error]
Sabato scorso, l’Arco di Gallieno ha realizzato nei giardini di Piazza Vittorio un’installazione artistica, intitolata “Per fare un albero ci vuole un sacco” in cui, cito dall’evento,
L’albero di travertino del parco di Piazza Vittorio sarà addobbato dagli artisti di AdG con palle virtuali realizzate a partire da una documentazione grafica/fotografica dei rifiuti sempre più invadenti abbandonati nelle strade del quartiere Esquilino, per attirare l’attenzione su quella che è ormai un’emergenza
Ora, se mi chiamassi, tirando un nome a caso, Massimo, in questo post potrei attaccare un epico pippone sulla qualità estetica dell’intervento, sul fatto che si sia tradita l’intenzione originale dell’architetto che ha progettato la decorazione del giardino, sui permessi concessi da Comune, Sovraintendenza o qualche altro ente a caso o sul fatto che l’intervento, non essendo stato il bozzetto discusso con i tutti i bipedi, i quadrupedi e i volatili dell’area, non sarebbe né partecipato, né condiviso… Grazie a Dio, dato che mi chiamo Alessio, posso dire che di tutto questo onanismo mentale, non me ne può fregare di meno…
Al di là dei gusti estetici, che sono personali, a me l’installazione non dispiace, ma altri miei amici l’hanno trovata bruttina e banale, non posso che essere felice, di qualsiasi intervento artistico realizzato nel Rione, specie se utile ad attirare l’attenzione su un problema, quello dell’immondizia, che a Roma, se non stesse scivolando nel drammatico, sarebbe ridicolo… L’unico appunto è che forse, l’opera poteva essere pubblicizzata e valorizzata meglio.
Ho avuto l’impressione che sui vari gruppi social dell’Esquilino, la notizia della sua inaugurazione sia passata quasi inosservata, mobilitando meno persone di quanto sarebbe stato possibile, anche perché è assai probabile che queste siano venute più per la tradizionale foto di Natale, che per l’evento artistico in sé.
Per questo, do giusta visibilità alla seconda parte dell’evento
L’albero di Natale offrirà i suoi frutti il 6 gennaio: verrà organizzata un’asta con le foto, i disegni e gli oggetti creati dagli artisti. I fondi eventualmente raccolti serviranno all’Associazione per promuovere future iniziative.
Ora, qualcuno potrebbe storcere il naso… Mi immagino già l’obiezione
Ma come è stato fatto tutto questo non per il bene dell’Esquilino, ma per guadagnarci sopra ?
Signori, creare Arte costa denaro, tempo e sacrifici, specie in giorni come questi, in cui chi abbiamo eletto disprezza il Bello e il Buono e considera l’Ignoranza una virtù… E’ necessario aiutare in tutti i modi chi si impegna in tale battaglia contro il Nulla… Per cui, il giorno della Befana, partecipate numerosi.
December 17, 2018
Annibale, Napoleone e Rommel: alcune delle battaglie piu sopravvalutate della storia
Per quanto riguarda lo studio della storia il sistema scolastico italiano adotta una metodologia di studio imperniata sue due principi:
Lo studio diacronico;
Lo studio delle res gestae;
Il risultato pratico è che per quasi tutti la storia è una sfilza di nomi e date da associare a sovrani e battaglie trascurando tutto il resto e dimenticando rapidamente il dimenticabile. Essendo la storia una disciplina immensa e non padroneggiabile in toto, la scuola inevitabilmente porta a favorire alcune parti – la storia italiana nel nostro caso – e alcune tematiche a discapito di altre.
Se consideriamo solo le battaglie storiche, a cui la scuola dedica un’attenzione spasmodica, è facile sconfinare nell’ucronia: come sarebbe andata la storia se le cose fossero andate diversamente? Ma in alcuni casi è possibile dare una risposta netta: non sarebbe cambiato nulla. Vediamo perché.
—- Canne… il capolavoro superfluo —-
Siamo nell’estate del 216…
View original post 1.305 altre parole
Il quadrato magico del SATOR (Parte 1)
[image error]
Il palindromo (dal greco antico πάλιν “di nuovo” e δρóμος “percorso”, col significato “che può essere percorso in entrambi i sensi”), per chi non se lo ricordasse è una sequenza di caratteri che, letta al contrario, rimane invariata. Per esempio, in italiano: “i topi non avevano nipoti”. Il concetto è principalmente riferito a parole, frasi e numeri. Secondo una leggenda l’inventore e il primo virtuoso del genere sarebbe stato il poeta greco Sotade, vissuto ad Alessandria d’Egitto nel III secolo.
Tra i palindromi più famosi, vi è il quadrato magico del SATOR, una frase latina
S A T O R
A R E P O
T E N E T
O P E R A
R O T A S
che, oltre ad essere leggibile dal dritto al rovescio e viceversa, può essere rappresentata in un quadrato di 5 x 5 caselle all’interno del quale si può leggere nelle quattro direzioni possibili: da sinistra verso destra, e viceversa, oppure dall’alto verso il basso, e viceversa.
Inizialmente si credette che il Quadrato fosse un’invenzione medievale, perché tutti i ritrovamenti fino ad allora effettuati non erano databili prima del IX secolo. Ma nel 1868 uno scavo archeologico tra le rovine dell’antica città romana di Corinium (oggi Cirencester, nel Gloucestershire, in Inghilterra) rivelò la curiosa iscrizione sull’intonaco di una casa databile al III sec. d.C.. In tale frammento, oggi conservato al museo archeologico della stessa città, il Quadrato appare nella sua versione speculare, che inizia con la parola ROTAS
Si cominciò allora a diffondere la convinzione che esso rappresentava un modo adottato dai primi Cristiani, la cui fede religiosa era ancora contrastata e vietata dai Romani, per adorare la croce in forma dissimulata: le due parole TENET, infatti, disegnano al centro del quadrato un croce perfetta, centrata sull’unica lettera N. L’ipotesi si rafforzò allorché Felix Grossner, pastore evangelista di Chemnitz, scoprì dopo numerose prove che le 25 lettere del quadrato potevano essere disposte in modo da formare le parole PATERNOSTER incrociate e poste tra le lettere A ed O, corrispondenti, in questa interpretazione, alle lettere Alfa ed Omega dell’alfabeto greco, il principio e la fine di tutte le cose.
A rinforzare ulteriormente la tesi cristiana contribuì un’ulteriore scoperta, avvenuta nella città siriana di Dura-Europos, sull’Eufrate, antica colonia romana (300-256 a.C.). In essa furono ritrovato quattro esemplari del Quadrato Magico, tutti nella versione speculare, databili attorno al 200-220 dell’era Cristiana.
Ipotesi che fu messa in crisi però nel 1925 quando gli scavi archeologici che interessarono i resti dell’antica città di Pompei, sepolta dalle ceneri dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., rivelarono sull’intonaco della casa di Quinto Paquio Proculo l’iscrizione (sebbene mutila) del quadrato magico. Undici anni più tardi, nel 1936, ne fu rinvenuta un’altra, stavolta completa, sulla scanalatura di una colonna mediana nel portico occidentale della Grande Palestra.
Ora è possibile che prima dell’eruzione del Vesuvio vi fossero cristiani a Pompei: la questione però è che l’interpretazione cristiana, con la presenza dell’Alfa e dell’Omega, presupponeva la conoscenza del versetto dell’Apocalisse
Io sono l’Alfa e l’Omega, l’inizio e la fine, colui che è, che è stato e che sarà
libro che, nelle ipotesi più ottimistiche, che prendono per fondata la testimonianza di Ireneo di Lione, è stato scritto almeno nel 96 d.C.
Così come sono infondate le ipotesi che fanno riferimento alla cabala e alla numerologia: facendo un poco di calcoli, il sistema di equazioni che lo rappresenta non ha soluzione univoca, ma N soluzioni con ben quattro gradi di libertà.
Dato che, durante gli scavi archeologici di Pompei, venne alla luce anche un altro quadrato palindromo (sulla parete di una casa nel Vicolo Meridionale della Regio I, che divide l’insula VI, dove si trovano la Casa del Criptoportico e la Casa di Lucio Celio Secondo, dall’insula X, dove si trova la Casa del Menandro), di ordine più piccolo rispetto al SATOR, ma con caratteristiche analoghe
R O M A
O L I M
M I L O
A M O R
E’ possibile ipotizzare come questa tipologia di quadrati magici fossero una sorta di gioco enigmistico dell’epoca, una sorta di anagrammi anfibologi, contenente volutamente più chiavi di lettura che si rivelavano differentemente a seconda del livello di conoscenza e profondità del lettore.
Ad esempio, nel caso del SATOR, il lettore meno colto si sarebbe fermato alla lettura letterale e forse avrebbe afferrato i significati simbolici abbastanza comuni nel mondo antico, come i quattro elementi pitagorici, traendo la lettura, riga per riga: “Il seminatore, tiene, la falce, le opere agricole, le ruote”. Una persona più acuta avrebbe compreso l’anfibologia e le avrebbe trasferite dalla sfera terrestre a quella celeste, cogliendo il legame tra seminatore agricolo e Seminatore celeste, scorgendo la lettura, riga per riga,: “Il Creatore, tiene, il Grande Carro, le costellazioni, le stelle”. Chi fosse dotato poi di cultura, sia letteraria che filosofica, avrebbe intuito la chiave di interpretazione bustrofedica ricca di metafore, traendo lettura, riga per riga: “Dio, si prende cura, del Creato, come l’uomo si prende cura, dei suoi campi.
Nella Tarda Antichità, in cui c’è una vera passione per i giochi di parole e gli acrostici, qualche intellettuale, giocando con il Sator, si accorse di come si potesse leggere anche in chiave cristiana: da quel momento in poi, fu adottato come elemento decorativo in ambito ecclesiastico, specie se benedettino.
December 16, 2018
San Pietro in Cryptis a Ofena
Appena fuori dall’abitato di Ofena, sulla discesa verso la Valle del Tirino, vi è il borgo di San Pietro, ai cui limiti, sulla via che conduce al Convento dei Cappuccini, incontriamo la Chiesa di San Pietro in Cryptis o ad Cryptas (alle grotte), un gioiello medievale che sino a pochi anni era abbandonato a se stesso, tanto da avere per parecchio tempo il tetto crollato
Di matrice benedettina, la chiesa si presenta ad un’unica navata con abside semicircolare, e presenta una particolare distribuzione su due livelli: infatti, la stessa è detta anche Chiesa delle Grotte appunto per la presenza, a livello sottostante, di “grotte”, ossia ambienti ipogei di origine paleocristiana, ancora oggetti di studio.
La chiesa è preceduta da una specie di pronao con due bifore romaniche otturate del XIII secolo e da un pavimento in mosaico bianco e nero a forme geometriche. Il portale è opera di Silvestro da Ofena, come ricorda l’iscrizione che riporta appunto l’anno di esecuzione, il 1196. Da questo anno in poi non abbiamo più notizie della chiesa fino al 1470 quando Sante di Rocca di Mezzo fu nominato, oltre che capitano di Ofena, anche preposto della chiesa. Si sa poi che la prepositura nel 1525 fu affidata dal Papa Clemente VII a Girolamo del Pozzo, parente di Alfonzo Piccolomini, conte di Celano. La prepositura
fu fornita di una rendita di 40 ducati d’oro perciò, da questo momento, il beneficio viene conteso tra varie famiglie. Nel 1547 il priorato fu dato dall’abate di S. Pietro ad Oratorium, a Pompeo Piccolomini e nel 1629 a Federico Capponi, fiorentino, che era anche abate di Capestrano. La rendita era salita a 80 ducati. Nel 1733 il beneficio passò a Francesco Maria Corsi di Capestrano.
All’interno sono conservati, in condizioni precarie, affreschi del Quattrocento: sull’altare maggiore sono raffigurati Cristo, Angeli e Santi; su un altare a destra, sotto un arco gotico vi sono affreschi raffiguranti un’Annunciazione e una Madonna con Santi e Angeli.
December 15, 2018
I mongoli alla conquista dell’Europa
[image error]
Uno dei temi affrontati spesso dalle ucronie, le storie alternative, è quello della conquista mongola dell’Europa: in un modo o nell’altro, si ipotizza come il buon Ögodei fosse meno amante della bottiglia rispetto al resto del parentado,e che quindi, non morendo di cirrosi epatica nel 1241, invece di far ritirare le sue armate dall’Ungheria per l’elezione del suo successore, avrebbe dato tempo loro di sottomettere il resto del continente.
In realtà, la storia è ben più complicata e interessante di quanto è normalmente raccontata nei libri di scuola. Che lo stesso Genghis Khan avesse l’intenzione di estendere i suoi domini sino al Grande Mare Occidentale, il nostro Oceano Atlantico, è testimoniato, oltre dai racconti di quella che è impropriamente chiamata Storia Segreta dei Mongoli, è in realtà una biografia in versi del grande conquistatore, anche dalle vicende che si svolgono tra il 1219 e il 1223.
Nel 1219, in reazione all’assassinio dei suoi ambasciatori, Genghis Khan, invase l’Impero corasmio, uno stato islamico che si estendeva in Persia, Battriana e Transoxiana e una campagna durata tre anni, lo conquistarono. Il sultano corasmio Muhammad II del Khwarezm morì in un’isola nel Mar Caspio, lasciando suo figlio Jalal al-Din Mankubirni senza un regno. Quando Jebe,uno dei generali mongoli che inseguivano il sultano corasmio, venne a conoscenza della sua morte, chiese a Genghis Khan di poter continuare le proprie conquiste per un anno o due, prima di tornare in Mongolia attraversando il Caucaso.
Attendendo la risposta del Khan, Jebe ed un altro generale, Subedei, condussero un’armata di 20.000 uomini, di cui ciascun generale comandava un tumen e effettuarono un raid durante il quale attaccarono la Georgia e ne uccisero il sovrano. Genghis Khan garantì a Jebe e a Subedei di poter proseguire la propria spedizione, e dopo essersi fatti strada nel Caucaso, sconfissero una coalizione di tribù del luoghi, per poi attaccare i Cumani, il cui Khan si recò quindi dal genero, il principe Mstislav Mstislavich, convincendolo a prestargli il proprio aiuto nel combattere i Tataro-mongoli. Mstislav
strinse dunque un’alleanza con alcuni principi russi, incluso Mstislav III di Kiev.
Questa alleanza però, subì una disastrosa sconfitta nei pressi del fiume Kalka; ciò convinse i mongoli della possibilità di conquistare senza troppe difficoltà l’Occidente. Nel 1227 Genghis Khan era probabilmente impegnato nell’organizzare tale campagna, ma la sua morte e tutte le complesse procedure connesse alla nomina del suo successore. Il titolo di Gran Khan non era infatti ereditario, ma veniva assegnato da un kuriltai, l’assemblea a cui partecipavano khan, i capiclan, i generali, i comandanti e tutti coloro che potevano vantare nobili o influenti origini, per mezzo di una votazione
democratica a maggioranza semplice.
Il che significava che la morte di un Gran Khan era seguita da un paio d’anni di ehm campagna elettorale… Così, dopo una serie di colpi di scena che non sfigurerebbero alle primarie per l’elezioni dei presidenti americani, nel 1129 Ögodei divenne Gran Khan. Ora, Ögodei era sicuramente un ottimo politico e un buon amministratore, ma come generale, a differenza del padre, faceva alquanto schifo. Per cui affidò il comando della spedizione a Occidente, rispettando a quanto pare le ultime volontà di Genghis Khan a un suo cugino, Bätü alle cui dipendenza vi erano proprio Jebe e Subedei, che per la
precedente campagna, erano considerati i massimi esperti locali dell’argomento “conquista della Russia”.
Questa all’epoca era una labile federazione di stati feudali, meno militarizzati e urbanizzati di quelli dell’Europa Occidentale, con le città difese al massimo da una palizzata di legno. Fu abbastanza semplice averne ragione, da parte dei mongoli, applicando la strategia dello Shock and Awe, distruggendo le élite militari variaghe in rapide battaglie e mettendo a ferro e fuoco i centri urbani che osavano resistere.
Nel 1236 venne conquistata la regione della Volga. L’anno seguente venne conquistata la città di Rjazan’ (sede del principato omonimo) e il villaggio (selo) di Mosca. Nel 1238, infine, venne conquistato il principato di Vladimir-Suzdal’, il più importante all’epoca. Nel 1239, anche grazie a un accordo con veneziani e genovesi, fu conquistata la Crimea. Nel 1240, in pieno inverno (fine novembre – inizio dicembre) i Tataro-mongoli assediarono, conquistarono, saccheggiarono e distrussero la città di Kiev, poi provarono a saggiare la resistenza polacca, con un rapido raid, in cui i mongoli, sottovalutando il
nemico e non conoscendo ben l’ambiente operativo, non mantennero fede alla loro fama di invincibili guerrieri.
Batu, Jebe e Subedei, visto il risultato, prima di riprendere l’offensiva, decisero di riorganizzare le truppe e di raccogliere più dati possibili sui loro nemici, riempendo di spie l’Europa Orientale; il problema è che sbagliarono nell’interpretare i dati raccolti. Ipotizzarono di trovarsi davanti una federazione analoga a quella di Rus, piuttosto che una serie di stati indipendenti e tra loro rivali, pronti a scannarsi tra loro e se ne necessario, allearsi con i mongoli per danneggiare il vicino.
Per cui, a causa di questo errore di valutazione, misero in piedi un complesso e dispersivo piano d’invasione, finalizzato a impedire che colui che ritenevano essere l’equivalente del Gran Principe di Rus, ossia Bela IV d’Ungheria, ricevesse aiuti dai suo ipotetici sottoposti. L’esercito mongolo fu così diviso in tre tronconi. Il principale avrebbe invaso l’Ungheria, i secondari avrebbero eseguiti manovre diversive in Valacchia e Polonia.
Se la prima manovra diversiva, fu più che altro un saccheggio in grande stile, che ebbe una sua utilità, evitando che i mongoli nei mesi successivi morissero di fame, la seconda fu da, punto di vista strategico, un colossale disastro: Kadan Khan, per prima cosa, ignaro del fatto che all’epoca Mindaugas fosse pagano e in lite con il resto del mondo, divise in due metà il suo contingente, spedendo 10000 soldati a invadere la Lituania, dove finirono massacrati tra torbiere e paludi.
Poi, baldanzoso, cominciò a saccheggiare borghi e città polacche, difese come la città russe da palizzate di legno, tra cui la stessa Cracovia, quando si trovò davanti la prima città dotata di mura, Breslavia. Qui cominciarono i problemi: i mongoli erano grandi esperti di poliercetica, ma nessuno, tra Batu, Jebe e Subedei aveva considerato la possibilità che nella campagna d’Occidente fossero previsti lunghi e difficoltosi assedi. Per cui, i genieri più vicini erano in Cina. In pratica, oltre che beccarsi gestacci e improperi da parte dei difensori polacchi, poco poteva fare.
A salvarlo dall’imbarazzante situazione, fu la notizia dell’arrivo di un’armata di soccorso, guidata dal duca Enrico II il Pio, forte di 8000 soldati raccolti alla male e peggio. Dato che una bella battaglia non si nega a nessuno e convinto, giustamente, di farne un sol boccone, abbandonò Breslavia, per affrontare i nemici nei pressi della fortezza di Legnica. La battaglia fu un successo per i mongoli, lo stesso duca fu tra i caduti, pagata però a caro prezzo. Dalla Historia Tartarorum del francescano Carmina de Bridia sappiamo che caduti tedesco polacchi furono 4000, mentre le truppe di Kadan Khan persero 2000 uomini.
Per cui, sapendo che si stava approssimando un contingente boemo, il generale mongolo decise prudentemente di ritirarsi, ma dovette cambiare in fretta e furia i piani, quando seppe che Venceslao di Boemia, altrettanto timoroso, stava ripiegando nel tentativo di raggiungere la Turingia e la Sassonia, per raccogliere ulteriori rinforzi. Kadan Khan quindi decise di incalzare un nemico che riteneva in fuga; con le sue avanguardie ottenne un primo successo nei pressi di Kłodzko, ma una settimana dopo, fu raggiunto a Olmütz dal grosso delle truppe boeme e costretto ad accettare battaglia in
condizioni di inferiorità e con un nemico assai più fresco.
Dopo un paio di giorni di scontri sanguinosi, in cui i mongoli rischiarono più volte la disfatta, Kadan, non si sa bene come, chiarì l’equivoco con Venceslao: polacchi e boemi non avevano nulla a che fare con gli ungheresi e se avvertiti con congruo anticipo, avrebbero anche dato una mano a Batu, Jebe e Subedei. Così Kadan Khan, dopo aver probabilmente pronunciato l’equivalente mongolo di “Ci scusiamo per il disturbo”, tornò a riunirsi con il grosso dell’esercito, pieno di gloria, con meno di un quarto degli effettivi con cui era partito, per compiere un’azione strategicamente inutile. Insomma, al
confronto Pirro era un dilettante…
Così le truppe mongole su concentrarono sul bersaglio grosso, l’Ungheria: dopo aver vinto per un pelo la sanguinosa battaglia di Mohi, in cui lo stesso Batu rischiò la vita e in cui i suoi arcieri furono massacrati dalla cavalleria pesante magiara e preso la poco fortificata Buda, con il re Beda IV in fuga, i mongoli si aspettavano che come in Russia, si verificasse una resa generale. Per cui, nominarono un darughachi in Ungheria e coniarono monete a nome di Khagan.
Il problema è che l’Ungheria e la Croazia non erano la Russia; le fortezze dell’Ungheria Occidentale, come Fehérvár, Esztergom, Veszprém, Tihany, Győr, Pannonhalma, Moson, Sopron, Vasvár, Újhely, Zala, Léka, Pozsony, Nyitra, Komárom, Fülek e Abaújvár resistettero a oltranza; i mongoli si trovarono così impelagati in una guerra d’attrito, che non si aspettavano e a cui non erano preparati, che li vedeva sfavoriti dal punto di vista logistico e che impediva loro qualsiasi altra iniziativa strategica.
Guerra d’attrito, in cui cominciarono anche a fioccare le sconfitte: il tentativo di Jebe di invadere la Moravia fu respinto dai boemi, Subedei, nei pressi di Székesfehérvá, se la vide assai brutta, cadendo in una trappola ordita da truppe mercenarie italiane e rischiò di fare la stessa fine dei cavalieri teutonici nella battaglia del lago ghiacciato e il solito Kadan fece le sue solite figure di palta a Fiume, dove scoprì come le frecce delle balestre erano meno frequenti, ma più letali di quelle degli archi mongoli e a Clissa, nei pressi di Spalato, dove ebbe la brillante idea di caricare su una salita accidentata gli avversari, che fecero a pezzi la sua cavalleria.
A peggiorare la situazione ci si mise anche il clima: se i mongoli sopravvissero a un inverno gelido grazie alle provviste saccheggiate in Moldavia e Valacchia, in primavera, nelle pianure ungheresi, si scatenò un continuo diluvio universale, trasformandole in un infinito pantano, in cui i cavalli delle steppe pativano la fame e finivano azzoppati. Insomma, la morte di Ögodei fu per Baku una benedizione, fornendogli una scusa per uscire, senza perdere troppo la faccia, dal vicolo cieco in cui si era infilato.
Dall’esperienza, polacchi e ungheresi impararono moltissimo, riempendo le loro terre di fortezze: così, quando negli anni tra il 1280 e il 1285 ci fu la seconda invasione mongola dell’Europa, che benché sia stata condotta con più larghezza di mezzi rispetto a quella di Batu, nessun libro di storia tende a citare, questa collezionò una serie impressionante di sconfitte…
Insomma, tra il 1240 e il 1250, i mongoli, con un considerevole sforzo, avrebbero potuto conquistare l’Europa, ma essendo questa fuori dei lori principali interessi geopolitici, diretti all’Estremo Oriente, ritennero che il gioco non valesse la candela… Dopo, non ci sarebbe stata più una supremazia tattico strategico tale, da permettere un esito positivo a tale impresa.
Fantascienza e luoghi sconosciuti da scoprire: intervista a Dario Giardi
Ciao Dario, è un piacere averti ospite sulle pagine virtuali di Kipple. Per chi non ti conoscesse ancora, ti andrebbe di presentarti?
Sono un curioso sognatore. Anche se il mio lavoro ufficiale è quello di ricercatore nel campo ambientale, ho sempre coltivato la passione per la scrittura. Ho iniziato come autore di guide turistiche per case editrici nazionali e internazionali. Una ricerca che mi ha permesso di scoprire luoghi inesplorati e storie dimenticate del nostro territorio che poi hanno ispirato le mie prime avventure nella narrativa.
Cosa ti ha spinto a scrivere fantascienza?
In tutte le storie che racconto, mescolo continuamente due piani: quello della verità, della scienza e quello della fantascienza perché ritengo profondamente che il secondo abbia sempre anticipato il primo anzi direi che senza il secondo il primo non sarebbe mai arrivato a certe scoperte. E poi cos’è davvero scienza e verità? Un mio amico…
View original post 704 altre parole
Alessio Brugnoli's Blog


