Alessio Brugnoli's Blog, page 130

November 17, 2018

L’arco di Malborghetto







Quando si parla di Arco di Costantino, la mente corre immediatamente al monumento accanto al Colosseo. In realtà, a Roma, ve ne sono almeno altri due. Il primo è l’Arcus Divi Constantini citato dai Cataloghi regionari presso il Velabro, meglio conosciuto da noi romani come Arco di Giano; recenti restauri ne hanno confermato tale attribuzione. Il monumento fu probabilmente fatto erigere dai tre figli di Costantino e data la presenza nella vicina chiesa di San Giorgio al Velabro di alcuni frammenti di un’iscrizione monumentale, non più ricostruibile, in parte riutilizzati come blocchi di muratura e in

parte per rilievi medioevali, che potrebbe essere stata quella presente sull’attico dell’arco, in cui si allude alla vittoria dell’Imperatore su un Tiranno, dovrebbe celebrare l’anniversario della vittoria di Costantino su Massenzio o su Licinio.


Il secondo, è assai meno noto e conosciuto al romano medio, anche perché, a sua parziale discolpa, ha perso il nome e la forma di arco, è il cosiddetto Casale di Malborghetto, una semplice e tozza fortezza medievale, ora sede di un museo e di un distaccamento della Sovraintendenza, che si incontra quando si percorre il diciannovesimo chilometro della via Flaminia, nel punto in cui da questa, la via Trionfale, si staccava la via Veientana, che la collegava al sito dell’antica città etrusca di Veio.


In origine l’arco era un tetrapylon, a pianta rettangolare ricoperto di marmo e travertino, con i lati più lunghi dalla parte della Via Flaminia, ed era coronato da un attico a copertura piana, su cui erano presenti numerose statue, probabilmente una serie di trofei e una quadriga trionfale.Parlando dei dati tecnici, i pilastri poggiano su fondazioni singole in opus caementicium, sulle quali si imposta una platea di blocchi di travertino; ugualmente costituiti in opera cementizia, composta da scapoli di tufo di Grotta Oscura e malta pozzolanica, i quattro pilastri appaiono rivestiti da un paramento laterizio di

mattoni triangolari o trapezoidali, ottenuti da bipedali. I fornici si presentano semicircolari sui lati lunghi, in cui si nota una doppia ghiera di bipedali, ed ellittici sui lati brevi.


Al di sopra dei pilastri sono impostate quattro volte a botte realizzate con un sistema di nervature laterizie, terminanti in una volta a crociera centrale. La trabeazione in marmo presenta alcuni settori aggettanti corrispondenti, su ognuna delle fronti principali, a quattro colonne a fusto scanalato con capitello corinzio e base composita, ciascuna delle quali era posta su basamento singolo, non collegato alla struttura dell’arco che, alla loro altezza, presentava delle lesene. Dell’architrave e del fregio rimangono purtroppo in situ solo pochi elementi.L’attico, del quale non è nota l’altezza totale, è leggermente rientrante; esso era suddiviso, all’interno, in tre settori tramite due muri nei quali si aprivano due aperture ad arco. È probabile che, esternamente, i muri corrispondessero a delle lesene impostate al di sopra degli elementi verticali inferiori.


Dopo la caduta dell’impero d’Occidente, il luogo rimase abbandonato per secoli; nell’ XI secolo, l’arco fu trasformato in chiesa a croce greca, dedicata alla Vergine Maria, con la chiusura dei quattro fornici e la costruzione di un’abside sul lato orientale. La Flaminia, che originariamente passava sotto l’arco, fece un’ampia deviazione intorno all’edificio. Questo cambio d’uso probabilmente fu legato alla fondazione, nell’area adiacente di un piccolo stanziamento agricolo, tanto che le prime notizie ufficiali che citano l’area di Malborghetto, un atto di compravendita in una divisione di beni di proprietà della famiglia Orsini risalente al 1256, parlano di un piccolo borgo protetto da una doppia cinta muraria, il che fa anche pensare come i dintorni non fossero poi così tranquilli.


Questa insicurezza portò nel 1263 all’inserimento nella cinta muraria di un castrum, denominato dalle fonti Burgus S. Nicolai de arcu Virginis, che fu ampliato e rimodernato a fine Trecento. Il toponimo di Malborghetto risale invece a tempi più recenti, quando, il luogo subì una quasi completa devastazione attribuita agli stessi Orsini nel 1485 a causa del fatto che il fortilizio era stato occupato dai Colonna, sostenitori del papa e acerrimi nemici degli Orsini. Questi ultimi, alleatisi con gli uomini del Castrum Sacrofani (l’attuale Sacrofano), riuscirono a prendere possesso e a incendiare l’intero borgo.


Pochi anni dopo, divenne proprietà del Capitolo di San Pietro, che, nell’ottica di migliorare le difese avanzate di Roma, decise di rifortificare l’area; come consulente di tale progetto, fu coinvolto Giuliano da Sangallo, che tra l’altro fu il primo a capire come ci si trovasse davanti a un arco romano e a tentare, con parecchia fantasia una sua ricostruzione. In suo disegno, probabilmente anteriore al 1494, è presente un’attico, del tipo “a frontone”, raffigurato con un coronamento di forma conica, costituito da laterizi rivestiti da blocchi di travertino, sulla cui esistenza ci sono numerosi dubbi


Nel 1567, l’intero complesso, ridotto ai minimi termini fu ceduto a Costantino Pietrasanta, un aromatarius, cioè un erborista milanese che viveva a Roma, in via della Scrofa, che provvide alla sua radicale ristrutturazione, dandogli l’aspetto attuale. Tali lavori sono ricordati da una scritta in lettere dipinte su maioliche visibili oggi sul frontone meridionale sotto il tetto. La scritta recita: “COSTANTINUS PETRASANTA (A) Smi PII V(.) MAX s RESTAURAV it.” Al di sopra della scritta una mattonella rettangolare recava la data del restauro definitivo: 1567, insieme a un piccolo stemma della Basilica Vaticana.

Negli anni successivi diventò una taberna con ospitium per i pellegrini e come tale è indicato nelle mappe per arrivare a Roma, mentre nel XVIII sec. fu affittato alle Poste Pontificie che ne fecero una stazione di posta tra Prima Porta e Castelnuovo di Porto. Mantenne questa funzione sino a quando Pio VI, collegando Civita Castellana alla via Cassia, soppresse il servizio postale lungo il tratto suburbano della via Flaminia.


Nel 1892, venne finalmente acquistato dallo Stato Italiano e restaurato; la svolta sulle ricerche intorno a Malborghetto, avvenne però a inizio Novecento, quando giovane archeologo tedesco Fritz Toebelmann si trasferì in zona, studiando, con fare certosino, il monumento per oltre cinque anni. Lo studioso si accorse come la tecnica edilizia utilizzata fosse simile a quella Basilica diMassenzio; per di più scoprì su un mattone della volta porta un bollo con l’iscrizione OFCR AUG ET CAES NOS, ossia prodotto dall’officina di CR Augustorum et Caesarorum nostrorum quindi delperiodo tetrarchico, cose che permisero una datazione di massima dell’arco.


Toebelmann descrisse la sua scoperta in un volume nel 1912, ma non ebbe il tempo di approfondire oltre, perché nel 1914 dopo andò incontro a prematura morte nelle trincee della Prima Guerra Mondiale. Nel suo saggio, però, lo studioso tedesco fu il primo a sostenere che tale monumento fosse stato eretto nel luogo dove le truppe di Costantino I si accamparono in attesa dello scontro con Massenzio in quanto, se avesse dovuto commemorare la vittoria, sarebbe stato collocato nel punto di inizio della battaglia e cioè in località Saxa Rubra o nel punto della sua conclusione cioè al ponte Milvio, deduzioni che furono anni dopo confermate dal grande archeologo italiano Gaetano Messineo.


Diversi studiosi hanno provato ad associare il monumento, situato presso castra aestiva costantiniani, si è supposto, alla leggendaria “visione” di Costantino; si narra infatti che il figlio di Costanzo Cloro vide al tramonto nel cielo il segno della croce e che “durante il sonno viene avvertito di far segnare sugli scudi il celeste segno di Dio e di dar battaglia”. Ipotesi che però si scontra con un dato di fatto: se l’arco avesse avuto una valenza, come dire, “religiosa”, sarebbe stato sicuramente sacralizzato e preservato dalla Chiesa Cattolica, trasformandolo in una sorta di reliquia, cosa che non è avvenuta.


In più la committenza, il Senato romano e l’occasione della costruzione, i decennalia, erano di estrazione pagana: probabilmente l’arco sarà stata una celebrazione di Costantino come protector militiae, cosa che sarà tenuta presente anche dai suoi figli, che quando costruirono il nuovo arco nel Campo Boario, replicarono esattamente le stesse dimensioni dell’arco del suburbio.

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Published on November 17, 2018 12:36

November 16, 2018

Dall’India alla Grecia Parte VII

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Nel 185 a.C la lunga agonia dell’impero Maurya ebbe termine: l’ultimo sovrano della dinastia, Bṛhadratha fu deposto e ucciso nel corso di una rivolta scoppiata durante una sua ispezione alle truppe reali, rivolta capeggiata da Puṣyamitra Sunga, un brahmano a servizio dei Maurya come generale dell’esercito (senapati). Il nuovo governo è presentato dalle fonti indiane come profondamente ostile al buddhismo, e parla di persecuzioni violente che si concretizzano in distruzioni di monasteri buddhisti con relativa uccisione di monaci, abbattimento di santuari e razzie di reliquie.


Oltre a questa politica di restaurazione religiosa, i Sunga associarono una politica di accentramento amministrativo, che però andava in conflitto con gli interessi delle minoranze greche presenti nell’India nord-occidentali, di religione buddista, gelose della loro autonomia, garantita dai trattati con i Seleucidi e dalla protezione dei Maurya: dato che i Sunga non volevano sentire ragioni ed erano poco propensi al compresso, i greci dell’India, per avere protezione, decisero di rivolgersi agli altri stati ellenistici.


Dato che i Seleucidi avevano ben altro in testa rispetto all’India, si rivolsero ai più vicini greco-battriani. Il loro re Demetrio I, li accolse a braccia aperte, sia per la sua ambizione di emulare Alessandro Magno e per la brama di ricchi bottini, sia perché, data l’espansione dei Parti, l’utilizzo delle vie carovaniere terrestri risultava sempre più oneroso per i mercanti battriani. Era necessario trovare un’alternativa, che poteva consistere nella conquista dei porti indiani, in modo da commerciare via mare con l’Egitto tolemaico.


Per cui, intorno al 180 a.C. Demetrio intraprese la sua grande spedizione: due potenti eserciti invasero l’India, l’uno da Nord guidato da Apollodoto, forse cugino di Demetrio, l’altro da Ovest guidato da Menandro, uno dei generali di Demetrio. Non è agevole seguire l’esatto svolgersi degli avvenimenti, perché le fonti di parte greco-romana sono confuse e contraddittorie, e quelle di parte indiana pressoché inesistenti: se si escludono allusioni isolate in opere letterarie, l’unico testo di un certo valore è lo Yuga-Purāṇa (“Storia delle età”), che, risalendo attorno al 250 d.C. , è comunque lontano

centinaia di anni dagli avvenimenti, che peraltro non vengono riferiti come una narrazione storica, bensì prospettati in forma di profezia.


Demetrio potrebbe aver iniziato riconquistando la provincia di Arachosia, un’area a meridione dell’Hindu Kush già abitata da molti Greci ma governata dai Mauryani sin da quando Chandragupta Maurya aveva liberato quel territorio da Seleuco I Nicatore. Nelle sue Stazioni parte, Isidoro di Charax menziona una colonia chiamata Demetrias, probabilmente fondata da Demetrio:


Più in là si trova l’Arachosia. E i Parti la chiamano India Bianca; ci sono la città di Biyt e la città di Pharsana e la città di Chorochoad e la città di Demetrias; poi Alexandropolis, la metropoli di Arachosia; è greca, e vi scorre attraverso il fiume Arachotus. Fino a questo luogo il territorio è sotto il dominio dei Parti.


Una dedica in greco incisa su pietra e scoperta in Kuliab, un centinaio di kilometri a nord-est di Ai-Khanum, menziona vittorie del principe Demetrio durante il regno di suo padre:


Eliodoto dedicò questo altare fragrante […] affinché il più grande di tutti i re Eutidemo, come pure suo figlio, il glorioso, vittorioso e notevole Demetrio, siano preservati da tutte le preoccupazioni, con l’aiuto della Fortuna con pensieri divini.


Poi, dato che l’appetito viene mangiando, le truppe greche arrivarono a conquistare la capitale Maurya, Paṭaliputra, sul Gange, come accennato da Strabone


Quelli che vennero dopo Alessandro andarono al Gange e a Pataliputra


e in


I Greci che portarono la Battria alla rivolta divennero così potenti grazie alla fertilità del paese che divennero signori, non solo dell’Ariana, ma anche dell’India, come dice Apollodoro di Artemita: e più tribù furono sottomesse da loro che da Alessandro – da Menandro in particolare (almeno se attraversò realmente l’Hypanis verso est e se avanzò fino all’Imaüs), in quanto alcuni furono sottomessi da lui personalmente e altri da Demetrio, il figlio di Eutidemo re dei Battria


La conquista non fu solo una spedizione di saccheggio, ma Demetrio, in qualche modo, cominciò a organizzare le nuovo province e si mise d’accordo con il re Kharavela di Kalinga, la nostra Orissa, per spartirsi i resti dell’impero Sunga.


In grazia di questi avvenimenti, Demetrio si attribuì il titolo di “invincibile” (ἀνίκητος) e fece coniare monete in cui appare con una proboscide di elefante, simbolo del suo dominio sull’India: alcune monete sono bilingui, con scritte in greco e in pracrito. In sostanza con Demetrio II cominciò a prendere corpo l’esistenza di un regno indo-greco che non si estese solamente sulle estreme propaggini dell’India nord-occidentale, ma penetra in profondità nell’India centro-settentrionale fino all’Himalaya. Nei territori controllati dai re indo-greci si insediarono corpose comunità greche, che divennero in

alcuni casi vere e proprie colonie, con un governo stabile e leggi autonome, e in sostanza con una costituzione ispirata a quella delle poleis greche.


Nel 162 a.C. però, Demetrio morì improvvisamente e di fatto si replicò quanto accaduto con Alessandro Magno: i suoi domini si frantumarono e si scatenò una feroce guerra civile tra i suoi parenti e collaboratori, casa testimoniata dal Yuga Purana, che così narra


Gli Yavana, infatuati della guerra, non resteranno a Madhadesa (la “Terra di Mezzo”, Madhya Pradesh). Ci sarà un accordo tra loro per andarsene, a causa dello scoppio di una terribile e terrificante guerra nel loro reame


Di questo caos ne approfittò tra l’altro Kharavela di Kalinga, che occupò e annesse Pataliputra. Al seguito della guerra civile, i domini battriani furono così spartiti:



A Pantaleone toccò Arachosia e il Gandhara. Lui fu il primo a coniare monete indiane, coniata, imitando quanto fatto in Cina, in una lega rame-nickel
Antimaco ed Eudemo si spartirono la Battriana
Ad Apollodoto toccarono i domini in India

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Il relativo equilibrio ottenuto a valle di tale spartizione, però fu messo in crisi dall’ambizione di Antioco IV di restaurare il dominio seleucide in oriente: mentre guerreggiava contro i Parti, il re seleucide incaricò il cugino Eucratide di sottomettere la Battriana, incarico che portò a termine senza troppe difficoltà. Alla morte di Antioco, che lasciava come erede un bambino di nove anni, Eucratide proclamò l’indipendenza e invase i territori toccati in sorte ai discendenti di Pantaleone, scatenando una guerra fratricida con gli Indogreci, di cui ne approfittarono i Parti, la città di Herat cadde nel 167 a.C. e i Parti riuscirono a conquistare due province tra Battria e Partia, che Strabone chiama i paesi degli Aspioni e dei Turiua e che terminò con la sua morte. Secondo Giustino


Mentre Eucratide tornava dall’India, fu ucciso sulla via del ritorno da suo figlio, che aveva associato al governo e il quale, senza nascondere il proprio parricidio, come se non avesse ucciso un padre ma un nemico, passò col proprio carro sul sangue del proprio padre e ordinò che fosse lasciato senza sepoltura


In realtà, è probabile che Giustino abbia equivocato le fonti e che Eucratide fosse stato sconfitto e ucciso dal re indo greco Menandro: in Battriana la transizione sembra essere avvenuta senza troppi scossoni, con i suoi figlio Eliocle e ed Eucratide II che si divisero l’eredità in maniera assai amichevole. Al primo toccò la Battriana vera e propria, al secondo la zona dell’Hindu Kush. Negli anni successivi, avvennero due avvenimenti importanti: il primo, fu l’invasione della Battriana da parte degli Sciti, seguiti poi dagli Yuezhi, dopo una lunga migrazione lungo il confine della Cina. Intorno al 125 a.C., il re greco-battriano Eliocle, probabilmente durante questa invasione, e il Regno greco-battriano vero e proprio terminò di esistere, come raccontato da Strabone


I nomadi più famosi sono quelli che hanno tolto la Battriana ai Greci: gli Asioi, i Pasianoi, i Tocharoi e i Sakaraukai, che partirono dal territorio al di là dello Iaxartes, presso i Sakai e i Sogdianoi, controllato dai Sakai


 







Il secondo è l’ascesa di Menandro, che dopo avere sconfitto Eucratide, si dedicò alla riconquista dei territori di Demetrio in India. Da quanto sappiamo, i suoi territori si estendevano dalle regioni orientali del regno greco di Battria (dal Panjshir e Kapisa) alle moderne province pakistane del Nord Ovest e del Punjab, agli stati indiani del Punjab, dell’Himachal Pradesh e dello Jammu, con diversi vassalli a sud e ad est, probabilmente fino a Mathura. Ebbe come capitale Sagala. A testimonianza della fama delle sue conquiste,nell’antichità, per lo meno a partire dal I secolo, col nome di Menander Mons, “Monte di Menandro”, ci si riferiva alla catena montuosa all’estremità orientale del subcontinente indiano, le moderne Naga e Arakan, come testimoniato dalle mappe basate sulla Geografia di Claudio Tolomeo, geografo ellenistico del II secolo.


Menandro, benché coniasse monete con rappresentate le divinità greche, come ad esempio Atena Alkidemos (“Protettrice del popolo”), fu un devoto buddista, tanto da diventare protagonista del Milindapañha, un dialogo tra lui, che viene descritto come costantemente accompagnato da 500 soldati Yona (ionici, cioè greci), e da due consiglieri di nome Demetrio e Antioco e il monaco Nāgasena, in cui si approfondiscono numerosi aspetti del buddismo.


Alla sua morte gli succedette la moglie Agatocleia, come tutrice per il figlio Stratone I e avvenne una nuova fase centrifuga della compagine indo-greca, interrotta dai brevi e fallimentari tentativi di due ambiziosi re, Filosseno e Ippostrato, di riunificare tutti i territori nelle loro mani.


In Occidente, gli eredi di Eliocle, per sopravvivere, si allearono con gli Yuezhi, sulle monete di Zoilo I viene raffigurata la clava di Ercole con un arco ricurvo del tipo usato sulle steppe all’interno di una corona della vittoria, per poi essere conquistati dagli sciti, il regno dell’ultimo re indo-greco, Stratone II, cadde il 10 a.C.; in realtà, gli sciti, in pochi anni, divennero più greci degli indo-greci, tanto da adottare la loro lingua, ad esempio il loro re adottava come titolo Basileos Basileon Megalou, i loro usi e la religione buddista.


In Oriente,gli Indo-Greci regnarono fino a Mathura ancora nel I secolo a.C.: l’iscrizione di Maghera, proveniente da un villaggio sito nei pressi di Mathura, registra l’inaugurazione di un pozzo «nel centosedicesimo anno di regno degli Yavana», che potrebbe essere identificato non oltre il 70 a.C.Poco dopo i re indiani riconquistarono l’area di Mathura e il Punjab sud-orientale, a oveste del fiume Yamuna, iniziando a coniare monete proprie. Gli Arjunayana, nell’area di Mathura, e gli Yaudheya celebrarono le proprie vittorie militari sulle rispettive monete (“Vittoria degli Arjunayana”, “Vittoria degli Yaudheya”). Durante il primo secolo i Trigarta, gli Audumbaras e infine anche i Kuninda (i più vicini al Punjab) iniziarono a coniare le proprie monete, solitamente con uno stile molto simile alla monetazione indo-greca.


Il periodo indo-greco, in cui si confrontarono due diverse culture, fu fecondo di innovazioni culturali. Vi furono Influssi buddhisti nella filosofia e nelle monete dei re indo-greci: Agatocle, fece ad esempio coniare monete di forma quadrata in cui appaiono su uno dei lati il leone (simbolo buddhista) e sull’altro la dea indiana Lakṣmī. Il cakravarta o ruota della legge comparve in monete dell’età di Menandro. E sempre a partire da Menandro apparve anche sulle monete la denominazione del sovrano come dharmika ‘seguace del dharma’.


Al contempo, gli indo-greci diedero un contributo fondamentale alla definizione dell’iconografia buddista: partendo dall’esperienza delle tombe a tumulo dei re macedoni, perfezionarono e canonizzarono le architetture degli stupa, definorono l’iconografia con cui è rappresentato Buddha e altre figure divine di quella religione.


Se l’influenza ellenica nella letteratura indiana è oggetto di infinite controversie, questo è più assodato in ambito matematico e scientifico. Benché non mancassero, fin dai testi vedici più antichi, prove dell’interesse degli Indiani per l’osservazione e la descrizione dei fenomeni celesti, il primo trattato sistematico sull’argomento è un’opera la cui ascendenza greca è rivelata già dal titolo di Yavanajātaka (“I detti dei Greci”); si tratta della ripresa di un’opera greca scritta in Egitto attorno alla fine del II sec. a.C. e tradotta attorno al 150 d.C. da un personaggio dal nome trasparente di Yavaneśvara (‘signore dei Greci’). Successivamente il materiale fu rielaborato e ridotto in versi. Altre opere di astronomia e astrologia riconducibili a modelli greci sono la Paulisa Siddhānta (‘Dottrina di Paolo), traduzione in sanscrito dell’opera astronomica di Paolo di Alessandria (IV sec. d.C.) e la Romāka Siddhānta (‘Dottrina dei Romani’) un’opera di astronomia basata su trattati occidentali (‘Romani’).


Queste opere ebbero un influsso importante sullo sviluppo di un pensiero scientifico locale che a sua volta diede poi luogo, attraverso la mediazione araba, a influenze anche importanti sulla scienza occidentale. Non si dimentichi che siamo debitori alla scienza indiana delle cifre che usiamo oggi abitualmente, perché quelle che chiamiamo “cifre arabe” in realtà furono inventate dagli Indiani, e da qui passate nel mondo occidentale attraverso la mediazione araba.


Tra l’altro, secondo un mito induista l’astronomia «fu rivelata dal Sole stesso agli Yavana (…), quando questo dio, esule del cielo, s’era rifugiato in Romakaputra “la città dei Romani”» il che, detto fra noi, ricorda parecchio la versione latina del mito di Saturno…

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Published on November 16, 2018 07:22

November 15, 2018

Sant’Elia lo speleota

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Sempre parlando dei santi calabro-bizantini, oggi è di un riggitano doc, Elia lo Speleota, di cui abbiamo un bios, una vita, scritta in greco da Ciriaco, un suo discepolo, nella seconda metà del X secolo e conservata, per ironia della sorte, da un monaco buddaci, che la copiò nel nel 1308 nel monastero di S. Salvatore in lingua Phari a Messina. Intorno al 1062, fu realizzata una sua traduzione in latino per Roberto di Grandmesnil abate di Santa Maria di Sant’Eufemia, che ebbe in dono da Roberto il Guiscardo l'”imperiale monasterium Sancti Elie”.


La vita racconta come Elia nacque a Reggio Calabria da genitori agiati, Pietro e Leontò, tra l’860 e l’865. La data convenzionale dell’864 è una pura ipotesi che non poggia su prove documentarie. Da bambino cadde da cavallo e per un episodio di malasanità dell’epoca, la mano sinistra ferita andò in cancrena e fu amputata. Da quel momento in poi, il santo fu soprannominato monochiro (una sola mano).


Benché si dedicasse alla bella vita, Elia si sentiva un vuoto dentro: per colmarlo, dando retta a un eremita di Reggio, decise di farsi monaco: i suoi, preoccupati per la sua salute, brontolarono assai. A convincerli fu un loro nipote, Giorgio, che intenzionato anche lui a diventare monaco, promise di prendersi cura di Elia. Il nostro eroe, però, non era molto convinto della vocazione del cugino, per cui, per evitare che abbandonasse il suo proposito prima di iniziare a causa delle tentazioni di Rhegion, lo trascinò a forza al monastero di Sant’Aussenzio presso il colle di San Nicone vicino Taormina, luogo

dimenticato da Dio e dall’Uomo.


Elia pieno di entusiasmo si impose un duro regime di penitenza, digiuno e preghiera, esteso anche a Giorgio, che poco lo gradiva. Così, alla prima occasione utile se la filò alla chetichella; peccato che il senso dell’orientamento di Giorgio non fosse un granché. Nel tentativo di tornare a Rhegion riuscì a finire nel mezzo delle truppe arabe che assediavano Taormina, facendo una gran brutta fine… Elia, sentendosi in colpa per questo, decise di espiare, recandosi in pellegrinaggio a Roma, per venerare le tombe di San Pietro e San Paolo.


Qui condusse, all’inizio da solo, vita ascetica in condizioni di estrema povertà, ma poi fu accolto come discepolo da un monaco più vecchio ed esperto, Ignazio, citato in altre cronache dell’epoca. A quanto pare, questo Ignazio si era accampato dentro i Trofei di Mario, per cui, possiamo ipotizzare come Elia passò qualche anno della sua vita all’Esquilino.


Nel frattempo, il padre preoccupato per la vita del figlio, cagionevole di salute, si disperava ogni giorno, non avendo sue notizie; per rassicurarlo, gli apparve in visione San Fantino il Vecchio, che gli raccontò per filo e per segno le avventure romane di Elia, che già cominciava a compiere miracoli. Un giorno, spedito a raccogliere la legna nella selva oltre Porta Maggiore, fu aggredito da un gruppo di briganti; quando questi tentarono di prendere Elia a randellate in capo, le loro mani si inaridirono.


Quando l’eremita Ignazio capì che il periodo di formazione di Elia fu ultimato, rinviò il discepolo a Rhegion ove conobbe un altro futuro santo, Arsenio, che lo tonsurò con l’abito monastico, evidentemente, lasciandogli il nome di battesimo. I due vissero nel metochio, una succursale, per capirci, del monastero di Santa Lucia, nelle vicinanze di Rhegion.


In questo periodo si ebbe un contrasto tra Elia e lo stratego bizantino della Calabria, Niceta Botherites: un ricco chierico della cattedrale di Reggio si era appropriato di terreni di proprietà del monastero di Santa Lucia e aveva corrotto lo stratego affinché non desse ascolto alle proteste dei monaci. Quando Arsenio ed Elia denunciarono il chierico disonesto furono picchiati e scacciati: ma poco dopo lo

stratego morì, nonostante si fosse nel frattempo pentito. In seguito i due monaci si trasferirono nella chiesa di San Eustrazio presso il villaggio di Armo, non lontano da Reggio. Per sfuggire ad un attacco dei Saraceni contro la città (probabilmente quello dell’888-89), i due monaci si rifugiarono a Patrasso.


Tale scelta, che a prima vista può sembrare strana, si chiarisce invece alla luce degli stretti rapporti tra la città del Peloponneso e Rhegion: infatti tra la fine del sec. VI e l’inizio del IX, durante l’occupazione slava della Grecia, una colonia piuttosto cospicua di abitanti di Patrasso si era stabilita a Rhegion. Secondo la leggenda i due monaci si stabilirono in un torre infestata dai demoni, i quali, non sopportando i nuovi arrivati, scapparono dalla torre emettendo grida possenti. Il governatore di Patrasso fu notevolmente colpito dalla santità del monaco Arsenio e per tale devozione, lo voleva sempre vicino a lui. Un giorno, lo invitò a fare un bagno presso una piscina pubblica, ma, quando il santo si immerse nell’acqua, lo stesso emise un forte profumo che fece, ulteriormente, ampliare la devozione della gente nei suoi confronti.


In quell’occasione, la moglie del governatore si innamorò del giovane Elia e tentò di sedurlo: Elia la rifiutò e per la delusione, la donna cadde in depressione e si ammalò gravemente. Elia fece subito il miracolo di guarirla, ma dovette sudare le proverbiali sette camicie per farle tornare la serenità. Dato che la situazione in Calabria sembrava essere tornata nella normalità, Elia e Antemio decisero di tornarsene a casa, ma il governatore, per trattenerli, li accusò di avere rubato delle suppellettili sacre: i due santi reagirono da reggini, convincendo, a forza di ceffoni, il governatore a rimangiarsi l’accusa.


Al ritorno in Calabria, i due Santi vennero accolti con molta devozione e ritornarono ad abitare presso l’oratorio di Sant’Eustrazio dove Elia incontrò il suo omonimo Elia il Giovane di Enna, che lo invitò a trasferirsi nel monastero delle Saline, nel territorio attraversato dal fiume Petrace, pressappoco la zona compresa tra i centri di Oppido Mamertina, Palmi e Gioia Tauro.


Dopo qualche tempo Arsenio comunicò a Elia che Rhegion sarebbe stata attaccata dai saraceni e, così avvenne; Elia, da buon riggitano, si rifugiò in motta Sant’Agata, uscì al termine dell’attacco dei saraceni e constatò che i saraceni avevano profanato la tomba di Arsenio a Sant’ Eustrazio tentandone di bruciare, che però risultò essere miracolosamente ignifugo


Nel frattempo Sant’Elia il Giovane di Enna designò come suo successore il nostro Elia, ma da una parte ci fu un ammutinamento dei monaci delle Saline, che non lo avevano in particolare simpatia, dall’altra il nostro eroe non aveva proprio voglia di impelagarsi in tali attività amministrative. Comunque, Daniele, l’abate eletto dai monaci, comunicò a Elia la morte del suo padre spirituale, che dispiaciuto, si mise subito in marcia per andargli a rendere omaggio, impiegando per arrivarci una lunga e calda giornata estiva.


Daniele, per evitare rogne, sperando che se ne andasse non aprì subito a Elia, ma lo lasciò fuori sino a sera, quindi lo accolse, per capire le sue intenzioni; resosi conto che Elia a tutto pensava, tranne che a reclamare il suo posto e pensando che fosse stanco morto Daniele lo invitò ad andare a dormire, mentre quest’ultimo,per sfregio, lo invitò ardentemente a vegliare con lui in preghiera tutta la notte. Dato che alle Saline c’era

troppa gente per i gusti di Elia, scoprì che a Melicuccà vi era una grotta dove viveva un eremita di nome Cosma ed il suo discepolo Vitale, per cui pensò di trasferirsi da loro.


Cosma e Vitale lo accolsero senza problemi, ma crescendo la fama di Elia, si ritrovarono la grotta piena di aspiranti monaci; per cui per quieto vivere, Elia cambiò spelonca, scegliendone, per non avere ulteriori rotture di scatole da estranei, una nascosta dalla boscaglia e difficile da raggiungere a causa di molteplici burroni, cosa che gli portò il soprannome di speleota, abitatore di grotte. Il trasloco fu del tutto inutile; anche in quel caso si ritrovò circondato da poco desiderati discepoli, così fu costretto a fondare un convento, costituito da una moltitudine di grotte, aulinae, popolate da eremiti, dove

morì novantaseienne, lui che era di salute cagionevole, dopo settantun anni di vita ascetica, l’11 settembre di un anno imprecisato, in presenza di Vitalio vescovo forse di Tauriana.


Il 960, tramandato convenzionalmente come anno della morte, è altrettanto incerto quanto la data di nascita: l’ultimo avvenimento databile con certezza nella vita di Elia è la rivolta del patrizio e stratego della Calabria Giovanni Byzalon contro l’imperatore bizantino. Elia avrebbe esortato invano il ribelle a ravvedersi e ne previde infine la morte violenta


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Convento che ebbe i favori degli imperatori bizantini, che gli donarono randi possedimenti, fra cui la vasta contrada Bosco, e molte dipendenze e villani e che a breve si trovò circondato da una cittadina: vi era sulla costa un centro commerciale (emporion), la cittadina di Sicri, i cui abitanti, per sfuggire alle scorrerie saracene si spostarono probabilmente nella valle di Melicuccà, dove vegetava il bagolare (in

greco melikokkos) e dove scaturivano abbondanti sorgenti, incrementando il preesistente insediamento agro-pastorale.


Dopo la conquista normanna, come accadde a tutti i conventi bizantini, cominciò la sua decadenza.Nel 1162 il convento ospitava 13 tra ieromonaci e monaci (Pacomio, Nettario, Antonio, Charitone, Elia, Bartolomeo, Blasio, Jacopo, Nicodemo, Metonio, Gerasimo, Cosma, Nifone), come appare dal contratto di vendita redatto in quell’anno e pubblicato da Guillon. Nel 1325 Il monastero era incluso nelle liste delle decime come

risulta dalle Collettorie dell’Archivio Segreto Vaticano, e pagava “tar. septem et gr. decem”. Nel 1457 la visita di Atanasio Calceopulo registra nel “Monasterium Sancti Eliae de Spelunca” solo due monaci e due inservienti: “invenimus abbatem Arsenium cum quoddam fratre Andriano et duobus aliis parvulinis”. Il convento, soggetto alla diocesi di Mileto, è ormai “totum ruinatum”. Il 29 aprile 1551, la visitazione dell’Archimandrita d. Marcello Terracina, ordinata da Papa Giulio III, trova “tantum unum monachum graecum ordinis Sancti Basilii”. Nel 1601 il monastero fu affidato ai Cavalieri di Malta

dell’Ordine gerosalemitano che tenevano la Commenda di Melicuccà. P. Fiore annovera il convento tra i “Monasterij basiliani con ancora in fiore l’osservanza monastica” nel 1743.


Il 2 agosto 1747, un giovane di Melicuccà, Antonio Germanò, ne scoprì le ossa ed alla sola vista delle reliquie sarebbe miracolosamente guarito da una grave malattia, cosa che sembrava potere rilanciare il culto del santo e i relativi pellegrinaggi, tanto che nel 1748, l’Abate basiliano d. Basilio Grillo intraprese la costruzione di un nuovo monastero entro le mura di Melicuccà, in contrada Castello, ma la fabbrica si arrestò con il terremoto del 1783 che provocò la morte di tre dei nove monaci che allora vivevano nel monastero, la rovina del complesso monastico e il crollo di alcune grotte site tra l’edificio e la grotta grande, le quali furono seppellite totalmente o parzialmente da cospicui smottamenti di tufo.Dopo il terremoto, Ferdinando IV di Borbone decretò la soppressione dei conventi, i cui beni furono incamerati dalla Cassa Sacra e devoluti a favore dei sinistrati.


Oggi sono rimasti i resti del cenobio e delle fabbriche annesse (cantina, mulino, palmenti, necropoli) e la miracolosa sorgente detta “acqua del giardino di S. Elia” una specie di acquasantiera in pietra che raccoglie l’acqua che gocciola all’interno della grotta.

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Published on November 15, 2018 13:55

November 14, 2018

La Berretta del Prete

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Come già accennato, la zona dell’Appia antica adiacente al mausoleo di Gallieno è assai ricca di resti archeologici. Il primo che salta all’occhio è un’area porticata chiamata “Tempio di Ercole”. Il nome è dovuto alla testimonianza del poeta romano Marziale, secondo cui Domiziano dedicò al dio un santuario nei pressi dell’VIII miliario della Via Appia. Scavi recenti, però, hanno smentito tale attribuzione, permettendo agli archeologi di stabilire che le strutture esistenti sono in realtà relative a un emporio di epoca tardo-repubblicana. Da una corte quadrangolare con colonne di ordine tuscanico (probabilmente impiegata come luogo di sosta per viandanti), si accede a quindici ambienti con muri in opera reticolata disposti su tre lati, a destinazione commerciale e produttiva.


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Segue poi un sepolcro a edicola, una cappella funeraria a forma di tempietto; su un alto podio, si conserva la colonnina in laterizio del lato sinistro ed il capitello corinzio di quello destro. La tomba, datata alla metà del II secolo d.C., è stata tradizionalmente attribuita, senza alcun fondamento, a Quinto Veranio Nipote, il cui vero sepolcro è stato trovato sulla Tiburtina. Per chi non ha bestemmiato sulle versioni di Tacito, Quinto è stato un militare romano a cui il filosofo greco Anassandro dedicò lo Strategikos, un libro di tattica militare.


Fu quattuorviro monetale, ossia uno dei magistrati responsabili del conio, tribuno militare della IV legione Scythica e questore sotto l’imperatore Tiberio. Divenne tribuno della plebe nel 41 e pretore nel 42. Nel 43, l’imperatore Claudio lo nominò governatore della nuova provincia di Licia e Panfilia, su cui comandò fino al 48. Durante questo periodo sedò la rivolta della Cilicia Trachea. Fu console nel 49. Fu elevato allo status di patrizio da Claudio. Divenne governatore della Britannia nel 57, al posto di Aulo Didio Gallo,di cui rovesciò la politica di mantenimento dello status quo dei confini, attaccando i Siluri nel Galles, morì in quello stesso anno. A lui successe Gaio Svetonio Paolino, che ne completò le conquiste.








Subito dopo, si raggiunge la cosiddetta Berretta del Prete, un grande mausoleo, che prende nome dalla sua caratteristica forma circolare con copertura a cupola, con un diametro di 12,50 m e ornato sia esternamente che all’interno da nicchie semicircolari alle pareti.Un ambulacro concentrico (probabilmente a due livelli, con quello superiore periptero come sembra potersi dedurre dai numerosi frammenti di colonne rinvenuti nelle vicinanze) un tempo coperto da una volta a botte circondava l’edificio, mentre un corridoio rettangolare ne costituiva l’accesso monumentale dalla strada


All’esterno si notano tre grandi archi di scarico ed un arco d’ingresso giustificati dalla presenza all’interno delle nicchie semicircolari. L’unico ingresso è costituito da una porta larga 90 cm. con soglia e stipiti in grossi blocchi di peperino. Il paramento murario, conservatosi soprattutto nella parte superiore, è in opera listata a corsi di cubetti di selce (generalmente due, ma a volte anche uno o tre) alternati ad un filare non sempre continuo di laterizi di reimpiego. Questa particolare tecnica muraria consente di datare il manufatto tra la fine del III e gli inizi del IV secolo, in piena età tetrarchica. Scavi eseguiti negli anni Ottanta hanno evidenziato come il mausoleo fosse dotato di un ricco apparato decorativo in marmo, a riprova dell’importanza del defunto e come fosse al contempo realizzato in fretta e furia, tanto che a metà del VI secolo fosse già vittima di un crollo strutturale.


Dati che hanno fatto ipotizzare come fosse questa la tomba del tetrarca Severo, piuttosto che il vicino mausoleo di Gallieno. Il monumento compare come annesso al Casale Palombaro (così detto perché forse destinato all’allevamento dei piccioni) in un documento del 950, relativo alla cessione del fondo al monastero di San Gregorio al Celio che ne manterrà ininterrottamente la proprietà fino al 1828. In questo documento viene indicata all’interno del fondo la presenza di una chiesa dedicata a S.Maria Dei Genitriciis segnalata però come già deserta.


Chiesa, che come già raccontato è oggetto di un piccolo giallo archeologico, dato che ancora nessuno ha ben capito dove diavolo sia. Sappiamo come abbia avuto una pianta circolare, ma né il mausoleo di Gallieno, né la Berretta del Prete sembrano essere mai stati riutilizzati in questo modo. In più nella zona non sono emerse altri resti riconducibili a una possibile chiesa. In compenso hanno evidenziato come la Berretta del Prete fosse in torretta da avvistamento verso il XII secolo.

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Published on November 14, 2018 14:07

November 13, 2018

Grazie per esservi fatti in quattro per fare rinascere il murale di Gaetano


Confesso che, qualche giorno fa, non ho preso per nulla bene la notizia dello sfregio al murale Gaetano vende sogni. Perché sono affezionato a Gaetano; non c’è giorno che non sia passato per via Giolitti, quando ero alto un soldo cacio, quando ero un universitario pieno di belle speranze o adesso, che più passa il tempo, più divento un insopportabile brontolone, che non me lo sono trovato davanti, con la bancarella piena strapiena di piccole cose e il suo sorriso.


Non solo per nostalgia e per il ricordo del passato, che gli voglio bene: perché ammiro il suo buon cuore, il suo animo libero, lontano da tutte quelle piccolezze a cui diamo troppa importanza e che servono solo a renderci schiavi del nulla, la sua serenità e la sua tolleranza per tutte le stranezze e i difetti del prossimo.Lo ammiro perché so, nonostante i miei sforzi, di non avere nulla di tutto ciò. E questo lo rende senza dubbio un uomo migliore del sottoscritto, che, detto fra noi, sarebbe assai tentato di prendere a randellate in capo il tizio che, una decina di giorni, lo offese dicendogli


“Un barbone come te non merita, un murale”.


Gaetano, invece, lo merita più di tutti noi, perché rappresenta il lato migliore dell’Esquilino, un rione pronto ad accettare il prossimo, qualunque sia la sua origine, scoprendone il buono dietro ogni  apparenza, che non smette mai di rimboccarsi le maniche, nella speranza di costruire un piccolo mondo migliore e dal cuore indomito, che magari continuerà sempre a prendere schiaffoni, ma che non si arrende mai, sempre pronto a rialzarsi e lottare.


E poi, diciamola tutta: via Giolitti 225 è stato anche un campo di battaglia, tra due diverse concezioni dell’Arte e forse della Vita: da una parte vi sono coloro che incentrano sull’egoismo e le vedono come un basamento su cui costruire un monumento al loro ipertrofico io.


Dall’altra, Mauro, io, tutti i ragazzi de Le danze di Piazza Vittorio, che pensiamo come l’Arte e la Bellezza siano un bene comune, un servizio e una sfida nei confronti del prossimo, affinché questo possa guardare nel suo animo e riflettere su ciò che lo rende umano.


L’essere al servizio degli altri invece che di noi stessi non ci spaventa, perché, per parafrasare il buon D’Annunzio, tutti noi


Abbiamo ciò che abbiamo donato.


Chi non capisce ciò, ha cercato, in ogni modo, di mettere i bastoni tra le ruote all’esperienza di via Giolitti e del Mercato… E sotto molti aspetti, si possono considerare i mandanti morali di quanto successo… Ora, potrei sbeffeggiarli come mio solito, ma non ne vale la pena: la migliore risposta a loro è venuta dagli abitanti dell’Esquilino, che si sono fatti in quattro per fare rinascere il murale dedicato a Gaetano, mostrando tutto il loro affetto nei suoi confronti e il fatto che ci sono accanto, in questa battaglia per ridare vita, con l’Arte, ai non luoghi e agli spazi abbandonati del Rione.


Quando inaugureremo il nuovo murale, assieme a tutte le persone e le associazioni che vorranno, sarà una grande festa, con musica, danze e tanto impegno sul territorio e nel sociale…

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Published on November 13, 2018 13:02

November 12, 2018

Facciamo il punto sulla vicenda Battiston

Io Non Faccio Niente


Facciamo il punto sulla vicenda Battiston con un po’ più di informazioni rispetto all’annuncio della revoca dell’incarico da parte del diretto interessato:





e il conseguente appassionato e dignitoso saluto ai dipendenti ASI:



“Esco da quella porta a testa alta. Torno a fare il mio mestiere di ricercatore perché fortunatamente appartengo alla categoria di persone che hanno un mestiere e quindi possono mettersi al servizio del Paese e poi tornare a fare il loro mestiere”





Innanzi tutto la sostanza del provvedimento: il MIUR ha informalmente addotto motivazioni di carattere procedurale, ovvero una presunta irregolarità nella nomina (secondo mandato) da parte del Governo Gentiloni, da Il Fatto Quotidiano:



Fonti interne al ministero hanno fatto filtrare che il cambio al vertice è stato deciso dopo un’attenta verifica sull’attività svolta dall’Asi negli ultimi mesi e in attuazione delle vigenti norme di legge. Nella fattispecie, gli uomini di Bussetti hanno fatto notare che la


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Published on November 12, 2018 16:00

Origines

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Se c’è un tema che, anche per motivi ideologici, tende a fare impelagare gli archeologi in discussioni senza fine, è quello delle fasi arcaiche di Roma: si passa dai negazionista a prescindere, che considerano spazzatura tutto quanto riportato nella tradizione annalistica agli entusiasti, che considerano la mitologia una fonte storica equivalente alle altri. Come spesso accade in questi casi, è possibile, come dicevano i filosofi scolastici che


In medio stat virtus


Detto questo, provo a elencare i dati archeologici che paiono più consolidati e meno controversi, relativi a quel periodo



Probabile presenza di un villaggio sull’altura meridionale del Campidoglio,attestato da ritrovamenti di frammenti di ceramica appenninica e subappenninica e di altri materiali più tardi, in giacitura secondaria, nel riempimento del podio repubblicano dell’area sacra di S. Omobono, nonché da ritrovamenti di materiali pertinenti ad un insediamento della cultura laziale e di più antichi frammenti ceramici della media e tarda età del bronzo in uno strato di riempimento nell’area del Tabularium: XIV-VIII sec. a. C. circa
Prime attestazioni di un sepolcreto nella valle del Foro: X sec. a. C. circa, che dovrebbe essere stato anticipato come attesterebbero sondaggi effettuati nel 1950-54 sotto il tempio di Cesare. Questi ritrovamenti insieme a quelli che fanno supporre l’esistenza di un villaggio alle pendici del Campidoglio testimonierebbero che gli stanziamenti umani del secondo millennio erano raggruppati sul fondo delle valli, ai limiti delle piste che convergevano verso il guado sul Tevere . ’osservazione è importante perché proverebbe come le esondazioni del Tevere già in questa fase non erano tali da precludere un utilizzo delle vallate alle pendici delle colline di Roma, per cui il successivo abbandono del Foro per le alture circostanti e la sua destinazione a sepolcreto non sia dovuta a ragioni di insalubrità, ma di insicurezza.
Nuovo sepolcreto presso il tempio di Antonino e Faustina che attesta l’espansione dell’abitato da ovest verso est: 900-830 a. C. circa
Presenza di capanne alle pendici nord/orientali del Palatino che fanno pensare all’esistenza di un abitato: 825-730 a. C. circa
Tracce della mutazione d’uso della valle del Foro impiegata ora come area di abitazione: 770-730/720 a. C. circa
Distruzione dell’abitato alle pendici nord/orientali del Palatino ed erezione in sua vece di un muro databile al 775-750 a. C. circa
Prima occupazione del lucus Vestae, ossia il bosco sacro presente a Roma dietro alla Casa delle vergini Vestali sotto la pendice del Palatino 750 a. C.
Al Comizio è attestata una prima sottile colmata di sabbia e ciottoli che testimonierebbe la prima frequentazione stabile dell’area: 750-700 a. C. circa
Deposito votivo sul Campidoglio i cui materiali più antichi si datano al 750-700 a.C. circa
Reperti ceramici che rappresentano le prime attestazioni archeologiche nell’area delle Curiae Veteres, un santuario dell’antica Roma, che sorgeva lungo il lato nordorientale del Palatino.fondate secondo la tradizione da Romolo per ospitare i riti che i rappresentanti dei diversi quartieri della città dovevano svolgere insieme in determinati giorni dell’anno , per riaffermare la comune appartenenza ad un corpo civico unitario circa 710 – 690 a.C.
Oinochoe rinvenuta nella necropoli di Vulci che riporta l’iscrizione mi hustileia da collegare al latino Hustileia/Hostilia: 700-675 a. C. il che potrebbe costuituire una base archeologica per le tradizioni legate alle figure di Osto Ostilio e Tullio Ostilio
Il muro alle pendici nord/orientali del Palatino viene demolito e su di esso o nelle sue immediate adiacenze sono collocate alcune sepolture interpretate come sacrifici umani per espiare l’obliterazione delle mura. Poco dopo è creato un nuovo muro con un tracciato leggermente divergente dal precedente: 700-675 a. C. circa
Primo pavimento in ciottoli del Foro: 700-650 a. C. circa
Corredo ceramico rinvenuto in una teca dell’edicola augustea dei Doliola interpretato come deposito del primo o secondo pavimento del Foro: 675-650 a. C.
Prima pavimentazione del Comizio: 650 a. C.
Secondo pavimento del Foro: 650-625 a. C.
Prima fase della domus arcaica rinvenuta ad est del Santuario di Vesta: data la presenza di una sala per pasti comunitaria, è possibile che l’edificio abbia svolto un ruolo pubblico e sacrale 650-600/625-600 a. C. circa
Attestazione di un santuario alle pendici nord/orientali del Palatino di cui si è proposta l’identificazione con le Curiae Veteres: fine VII sec. a. C.
Prima fase della Regia di Brown che sorge là dove in precedenza vi erano capanne: 625 a. C circa. Vengono poste le fondazioni in tufo e l’alzato in mattoni crudi di un edificio, formanti una sorta di piattaforma aperta sulla futura via Sacra. Davanti alla piattaforma si trovava un recinto con un cippo-altare a forma di tronco di cono. Secondo la tradizione qui Numa Pompilio aveva un’abitazione propria o almeno un quartier generale
Ampliamento della Regia di Brown: 625-600 a. C. circa, che nelle forme generali tende ad assomigliare a grandi linee alle dimore gentilizie tirreniche. Non è chiaro se mantiene ancora un uso abitativo, oppure si trasforma in un santuario che riprende le forme di un’abitazione, come quello di Acquarossa, centro etrusco vicino a Viterbo
Nuova pavimentazione del Comizio dopo il 630-580 a. C. circa
Alle pendici nord/orientali del Palatino è attestata la costruzione di un nuovo muro:600-550 a. C. circa
Nuova fase della Regia di Brown: 600-575 a. C. Circa un secolo dopo (575-550 a.C.) l’edificio, assume definitivamente una funzione sacra, viene accostato a un tempio con terrecotte decorative di “prima fase”, il cui terrazzamento è sovrapposto al recinto del VII secolo, senza però toccare l’altare. Il tempio, del quale restano scarsissimi resti, doveva avere una pianta rettangolare con un unico ambiente aperto a est e proceduto da un porticato di legno; contemporaneamente l’area del recinto viene pavimentata accuratamente, lasciando il cippo al centro, e forse in parte coperta
Rifacimento degli edifici di Vesta documentato dai pozzi: 580-575 a. C.
Seconda fase della domus arcaica rinvenuta ad est del Santuario di Vesta, cui avviene una sorta di “privatizzazione” dell’edificio… La tradizione lo identifica con la Domus Tarquinii, che in epoca repubblicana diverrà la domus publica, dimora del Pontefice Massimo : 575-550 a. C. circa.
Offerte votive di Avile Acvilnas, di cui si hanno tracce anche a Vulci, e di Avile Vipiienas nel tempio di Menerva a Veio: 575-550 a. C. circa che testimonia l’esistenza storica dei fratelli Vibenna e del loro sodales Macstarna, il nostro Servio Tullio e ne fornisce una possibile datazione
Prima fase del tempio di S. Omobono: 575-550 a. C. circa che la tradizione attribuisce alla Fortuna e che associa a Servio Tullio, che sorgeva su un pavimento battuto ed erano preceduti da un altare. Il podio presentava sagome a “cuscino”, e la cella era grande e unica con quattro colonne in antis ciascuno. Della fase originaria sono state trovate numerose terrecotte architettoniche di “prima fase” (570 a.C. circa), tutte di qualità altissima, tra le quali delle punte ricurve, posizionate sul tetto, e dei frammenti di due animali ferini accucciati sulle zampe posteriori, alzati sulle zampe anteriori e voltati di faccia, che dovevano rappresentare delle pantere (sono state trovate tracce di macchie); il tutto era colorato con le tinte disponibili: bruno, azzurro, rosso, bianco e nero. Inoltre sono stati ritrovati i frammenti di due statue in terracotta, una raffigurante Ercole (con la pelle leonina legata sul busto) e una figura femminile con elmo dotato di paraguance e cimiero alto, forse Minerva o la Fortuna armata.
Creazione del complesso sottostante il Lapis Niger: 575-550 a. C. circa. Il sito è costituito da una piattaforma sulla quale era posto un altare a forma di U (a tre ante), dotato di basamento e di un piccolo cippo fra le ante, e due basamenti minori i quali reggono, rispettivamente, un cippo a tronco di cono (forse il basamento per una statua) e un cippo piramidale, quest’ultimo con la famosa iscrizione bustrofedica (forse la lex sacra del piccolo luogo di culto). Tutti i reperti sono mutili nella parte superiore, compreso il cippo iscritto.L’altare ha una tipologia canonica, con la sagoma del basamento a doppio cuscino sovrapposto (della quale si conserva però solo lo scalino inferiore). Il tutto era situato all’aperto, come dimostrano le ossa dei sacrifici e gli ex voto ceramici o bronzei rinvenuti sotto e attorno ai basamenti.
Parallelamente ed esternamente al muro posto alle pendici nord/orientali del Palatino è aggiunto un secondo muro: 550 a. C. circa

Per cui, si può, a grandi linee, ipotizzare uno scenario di questo tipo: analogamente a tanti centri del’Etruria villanoviana e del Latius Vetus, vi è tra il X e il IX secolo avanti Cristo con il progressivo passaggio da un modello di popolamento basata sui pagi a un modello proto urbano, quello che Carandini associa al Septimontium ricordato dalle fonti (Varrone, Sulla lingua latina, V, 41). Questo nucleo, forse basato su una sorta di lega sacra, in cui le vari clan locali condividendo degli antenati mitologici, si ritenevano parte di un’unica comunità, era costituito da una serie di insediamenti, che condividevano spazi comuni come la necropoli o il mercato e che erano separati tra loro da porzioni territoriali destinate alla coltivazione o al pascolo.


Basandosi su casi analoghi, la gestione dei beni comuni e della politica “estera” poteva essere demandato a una sorta di consiglio dei patres, gli anziani dei vari clan. Tale processo, graduale, nell’VIII secolo riceve una progressiva accelerazione, dovuta a una serie di fattori, sia interni, la crescita demografica, sia esterni, la ripresa del commercio con il mondo elladico, la pressione etrusca, con la creazione dei loro empori, i septem pagi, nell’area compresa tra l’Isola Tiberina e il Gianicolo e quella delle popolazioni sabelliche, stabilite sul Quirinale.


Il passaggio alla condizione urbana vera e propria corrisponde a una trasformazione dell’area del Palatino, con l’erezione, infatti, di un muro alle pendici del colle, con conseguente distruzione dell’abitato preesistente, per sottolineare la centralità che questa collina viene ora ad assumere nel contesto locale. Il contemporaneo o di poco successivo primo apprestamento dell’area comiziale porta a ipotizzare che anche il Campidoglio, alle cui pendici si trova quest’area, sia coinvolto in questo cambiamento, forse cadendo ora per la prima volta sotto l’influenza della comunitàpalatina.


E’ possibile che la politica nella fase iniziale della vita dell’Urbe, sia stato condizionata dal rapporti, a volte collaborativi, a volte conflittuali, tra due gruppi gentilizi: il primo, che la tradizione considera di

origine sabina, a cui sono associate le figure semi mitologiche di Numa Pompilio e Anco Marzio, la cosiddetta gens Hostilia, con le figure di Osto e Tullio Ostilio; in particolare la storicità di quest’ultimo potrebbe essere confermata dalla oinochoe con l’iscrizione mi hustileia rinvenuta a Vulci, databile a questa età, e da riferire forse a scambi di doni tra i ricchi signori di Vulci e di Roma. Proprio al regno di Tullio, datato dalla tradizione al 672-640 a. C. è attribuita la ricostruzione il muro alle pendici del Palatino e la fondazione del primo pavimento del Foro, che comincia così il suo processo di monumentalizzazione.


E’ probabile che nel decennio successivo, con delle modalità non ben chiare, ad esempio, la tradizione annalistica ha fatto convergere più lucumoni etruschi nella figura di Tarquinio Prisco e non ha dettagliato il ruolo e i rapporti tra i fratelli Vibenna e Servio Tullio, un loro sodales, dato che secondo, l’imperatore Claudio


Tusce Mastarna ei nomen erat


dove Mastarna il titolo con il quale Servio Tullio veniva chiamato in battaglia presso gli etruschi: non sarebbe impossibile infatti intravedere nella parola mastarna la radice di magister (“maestro”), cioè, in questo caso, magister maximus della legione romana. Tra l’altro, secondo Massimo Pallottino (Origini e storia primitiva di Roma) Mastarna sarebbe il “servitore” di Celio Vibenna (Caile Vipinas), perché il suffisso -na indica appartenenza; quindi Macstrna sarebbe “appartenente al magister” (macstr = magister)]. Dopo la conquista di Roma e la morte di Celio Vibenna, Mastarna entrò in contrasto con Aulo

Vibenna, fratello di Celio, e infine lo uccise, restando unico padrone della città.


Epoca quella etrusca, in cui avviene la riscrittura delle origini mitologiche della città, reinterpretando e riscrivendo secondo l’ottica tirrenica l’originale corpus mitologico latino e la cui fine è altrettanto complessa da interpretare della sua nascita. Provo con le dovute cautele a esporre l’interpretazione che ultimamente sta andando per la maggiore


Le vicende di Lucio Tarquinio Collatino e della presa di potere in occasione della campagna dello zio Tarquinio il Superbo contro Ardea e convulsi scontri successivi, fanno pensare, più che alla caduta della monarchia, a un colpo di stato compiuto da un ramo cadetto della dinastia reale nei confronti degli aventi diritto.


Lo stesso Collatino, dopo qualche anno di regno, fu defenestrato da un personaggio che la tradizione ha chiamato Lucio Giunio Bruto, in qualche modo imparentato sia con i Tarquini, sia con Servio Tullio. La sua presa di potere è forse mostrata nella leggenda del suo viaggio ll’oracolo di Delfi, dove accompagnò i figli di Tarquinio il Superbo, Tito ed Arrunte, i quali chiesero alla Pizia chi sarebbe stato il successivo sovrano a Roma e l’oracolo rispose che la prossima persona che avesse baciato sua madre sarebbe diventato re. Bruto interpretò la parola “madre” nel significato di “Terra” così, al ritorno a Roma, finse di inciampare e baciò il suolo.


Il suo terminò con la battaglia di Silva Arsia, in cui le sue truppe furono probabilmente sconfitte e dove lo stesso Bruto trovò la morte. Il vuoto di potere e gli scontri fratricidi tra Tarquini aprirono la strada a Lars Porsenna, che all’epoca dominava l’Etruria meridionale. Porsenna conquistò Roma.


Secondo la versione di Dionigi di Alicarnasso, dopo la partenza di Porsenna il senato romano inviò al re etrusco un trono d’avorio, uno scettro, una corona d’oro e una veste trionfale, che rappresentava l’insegna dei re. Da Plutarco veniamo, inoltre, a sapere che a Porsenna fu eretta una statua di rame in prossimità del senato e che la città dovette pagare decime per molti anni. Anche Plinio il Vecchio lascia intendere che Porsenna proibì ai Romani l’uso del ferro se non in agricoltura:


«[…] in foedere quod expulsis regibus populo romano dedit Porsena, nominatium comprehensum invenimus, ne ferro nisi in agro culturam uterentur.»


La politica espansionistica di Aristodemo di Cuma, culminata nella battaglia di Ariccia, in cui il greco, alleato Rutuli di Ardea, agli Anziati, ai Lanuvini sconfisse le truppe etrusche, che tra l’altro dopo la batosta si rifugiarono a Roma, mise in crisi il dominio etrusco nel Latium. Di questo vuoto di potere, ne approfitta una sorta di capitano di ventura, Valerio Publicola, la cui esistenza storica è testimoniata dal Lapis lapis Satricanus, che, con la citazione dei suodales, rivela l’esistenza di gruppi armati gentilizi guidati da personalità ‘egemoniche’. Publicola preso il potere, da una parte dovetteprendere le armi contro i mai domi Tarquini, dall’altra contrastare i tentativi espansionistici della Lega Latina e pur mantenendo le prerogative regali, come testimonia il suo abitare nella Regia della Velia dovette scendere a compromessi con i capi dei gruppi gentilizi romani, concedendo loro una sorta di partecipazione alla gestione del potere…


Una situazione caotica, che gli annalisti romani in qualche modo tentarono di razionalizzare, al fine di costruire un’identità condivisa dello stato

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Published on November 12, 2018 12:57

November 11, 2018

La Stonehenge abruzzese





Dato che in Abruzzo non si fanno mancare nulla, hanno persino una loro Stonehenge… Si tratta della necropoli di Fossa, paesino vicino l’Aquila, nella valle dell’Aterno, dove tra l’altro si trova anche un interessante castello, distrutto nel 1423 da Braccio da Montone, e la chiesa di chiesa gotica di Santa Maria ad Cryptas, costruita sopra un probabili tempio di Vesta, in cui è presente un ciclo di affreschi artisti bizantino-cassinesi, ispirati alla decorazione paleocristiana della Basilica di San Paolo fuori le Mura.


La necropoli di Fossa è probabilmente associata alla civiltà pre romana dei Vestini, nata dalla fusione tra la precedente cultura appennica e una serie di immigrazioni, le ver sacrum, delle popolazioni di lingua sabina provenienti dal Lazio, i quali avevano fondato tra il IX e l’VIII secolo a.C. un villaggio fortificato sulle pendici del Monte Cerro, che nel tempo si trasformò prima nel municipio romani di Aveia Vestina, poi nell’attuale paesino.


L’area si trova in una zona alluvionale sulla sponda orientale del fiume Aterno. La sua scoperta è avvenuta in maniera casuale nel 1992 durante gli scavi per la costruzione di un capannone industriale; attualmente la zona scavata, che non copre l’intera probabile estensione del sito è di 3.500 m², con circa 500 tombe di tipi differenti (tumuli, fosse, tombe a camera e sepolture infantili in coppi di laterizi) risalenti a tre differenti periodi principali, dal IX al I sec. a. C., e sono state rivenute anche tracce di precedenti frequentazioni della zona (media età del Bronzo) nelle vicinanze dell’area cimiteriale.






La prima fase è quella dell’età del Ferro, tra il IX e l’VIII secolo a.C. in corrispondenza della fondazione dell’oppidum ed è caratterizzata, oltre che da semplici sepolture a “fossa terragna”, cioè fosse lunghe e strette scavate nel terreno, da tumuli realizzati con cospicui ammassi di terra e sassi, a volte ricoperti da uno strato di pietrame. Questi hanno un diametro medio compreso tra otto e quindici metri, e sono racchiusi da una “corona” di lastre infisse orizzontalmente nel terreno (definita tecnicamente “crepidine”). Rispetto alla media, spicca la tomba 300 con i suoi diciotto metri di diametro. Nel caso delle sepolture monumentali pertinenti agli uomini, alla crepidine che circondava i tumuli si associava un allineamento di pietre lunghe e strette, veri e propri menhir, infisse anch’esse nel terreno, in numero variabile e di dimensioni differenti, disposte in maniera decrescente dall’interno verso l’esterno. La stele più vicina al tumulo era inclinata verso di esso, appoggiata alle pietre di marginatura.


All’interno del tumulo si trova la fossa lunga e stretta (sempre riservata ad un solo individuo), dove venivano posizionati il defunto ed il suo apparato di effetti personali; di solito il piano di deposizione era ricoperto da un cumulo di pietrame, che si poneva dunque come primo rivestimento per la sepoltura.  E’ interessante notare come in molti casi il fondo della fossa venisse coperto da un “letto” di pietre, che lastricava tutta la parte riservata alla deposizione.


I corredi sono in questi primi secoli realizzati con schemi ricorrenti. I vasi sono posizionati ai piedi dell’inumato, in alcuni casi in un “angolino” delimitato da pietre infisse di taglio nel piano di sepoltura, che formava un ripostiglio. Di solito all’interno di questo spazio si trova un vaso di grandi dimensioni, dentro il quale si trova un vasetto più piccolo, una vera e propria tazza-attingitoio L’associazione di questi due elementi fa pensare a vasellame usato per contenere liquidi, e non è da escludere che potessero essere associati a dei riti religiosi. Assieme ai vasi in ceramica, nelle sepolture più ricche, si trovavano anche vasi in bronzo, differenziati a seconda del sesso dei defunti: nelle tombe maschili erano frequenti i lebeti, bacili utilizzati per la cottura e il consumo della carne, mentre in quelle femminili si trovavano tazzine in lamina sottile, con il manico rialzato


Questi vasi, essendo beni di importazione, la loro provenienza o è villanoviana o picena, rappresentavano una sorta di status symbol, riservato ai membri più ricchi e importanti della comunità… Altri elementi che distinguevano gli uomini dalle donne erano gli oggetti che si trovavano nelle diverse parti del letto di deposizione: rasoi e armi per gli uomini, gioielli in diversi materiali per le donne. I rasoi sono, nelle sepolture più antiche, di forma rettangolare, e poi assumono la forma semilunata ispirata al mondo ellenico, , mentre le armi più frequenti sono spade corte in ferro inguainate in un fodero in

lamina di bronzo o in materiale organico (legno oppure cuoio) decorato con parti in bronzo


La ricchezza e la raffinatezza della cultura materiale della comunità che utilizzava questa necropoli è manifesta soprattutto negli oggetti che abbellivano le tombe femminili. Spiccano in modo particolare i gioielli, come ad esempio le collane, realizzate con vaghi in bronzo alternati ad altri in pasta vitrea, oppure le fibule (spilloni utilizzati per fermare le vesti), per lo più in bronzo, ma a volte decorate da inserzioni in osso. Altri importanti oggetti di corredo femminile erano i cinturoni caratterizzati da placche quadrangolari in bronzo e posizionati a mo’ di stola sul corpo delle defunte.


Ora, che diavolo indicano i menhir, probabilmente associati alle tombe dei leader della comunità ? Alcuni sostengono, in analogia a quanto avvenuto in nord Europa, una loro funzione astronomica calendariale, ma per quanto ci sia lambiccato il cervello, non si è ancora trovata un’accettabile correlazione con i moti celesti. Altre ipotizzano, che, come per alcune tribù degli indiani d’america, il numero di pietre indicassero i nemici uccisi in battaglia o una sintesi allegorica della vita umana, rappresentata nei suoi primi anni dalle lastre più piccole e nella sua maturità da quelle più grandi, fino ad arrivare

alla stele reclinata, rivolta verso la deposizione funebre, che potrebbe rappresentare la morte.


Nella seconda fase, corrispondente all’età orientalizzante e arcaica, tra l’VIII e il VI secolo, dove riprendono in pianta stabile i contatti con il mondo elladico, si continuano a costruire tombe a tumulo, anche se le dimensioni si riducono ad un diametro costante di m 4 e non si usano più le file di menhir allineati su un fianco della crepidine. Assieme ai tumuli si trovano anche le semplici tombe a fossa; in alcuni casi è attestato l’uso di un tronco d’albero usato come sarcofago.


Nelle tombe maschili continua l’abitudine di deporre le armi: la panoplia è solitamente composta da un pugnale corto con manico a quattro antenne in ferro, una coppia di lance (di cui rimangono sempre le cuspidi e i puntali posteriori, detti sauroteres), una mazza ferrata da usare come arma da percussione negli scontri ravvicinati ed un coltello a lama semilunata. La tomba 118, in particolare, ha restituito una coppia di dischi-corazza da applicare sul torace come una primitiva forma di protezione del busto (sono anche chiamati kardiophylakes, “protettori del cuore”), elementi che, in questa

fattura, si rinvengono anche nella vicina necropoli vestina di Bazzano e che possono essere assimilati a quelli che indossa sul petto il celeberrimo Guerriero di Capestrano.


Continuano a trovarsi grandi contenitori (olle soprattutto) associati a tazzine-attingitoio, che nelle forme e nell’impasto presentano una leggera evoluzione rispetto alla tradizione della tarda età del Ferro. Assieme alla ceramica locale però si iniziano a trovare vasi di importazione (etrusca soprattutto), vero segno del benessere raggiunto dagli elementi di spicco di questa comunità. In questo senso vanno almeno menzionati gli splendidi vasi in bucchero: anfore, brocche, tazze a vasca profonda (skyphoi), calici ad alto e basso piede. Dopo il bucchero, dal versante tirrenico, arriva anche un altro tipo di ceramica, ovvero quella etrusco-corinzia, dal colore piuttosto chiaro, dipinta a fasce e motivi vegetali o zoomorfi, che gli etruschi iniziano a produrre dalla fine del VII – inizi VI secolo su imitazione della grande tradizione che proviene da Corinto.


Caratteristiche forme di questa categoria di vasellame sono le kylikes (coppe), i piatti e gli aryballoi (brocchette dal corpo globulare usate soprattutto come contenitori di essenze e profumi. Commerci che oltre che sull’arredo, influiscono anche sulla moda femminile: nei loro corredi funerari, accanto ai tradizionali cinturoni con placche in bronzo, appaiono pendagli di varie forme e dimensioni, bracciali (armillae), anelli digitali, di imitazione tirrenica.


Con il VI secolo sparisce l’uso di tombe a tumulo e si ha la definitiva affermazione della tomba a fossa semplice. Il fatto che non si trovino più tumuli in età arcaica rientra pienamente nella tendenza di ridurre progressivamente la monumentalità dei sepolcri, dato che il ruolo sociale del defunto è evidenziato dalla ricchezza del corredo. L’arma che viene introdotta in questo periodo è la spada a lama lunga, con elsa a croce, usata per vibrare fendenti contro l’ avversario –


Una ulteriore novità legata a questa fase della necropoli riguarda le sepolture neonatali: l’area fino ad oggi esplorata della necropoli di Fossa ha restituito un’altissima percentuale di sepolture infantili (circa duecento). Tra queste a maggior parte sono a coppi laterizi, abitudine che rimarrà sino all’abbandono della necropoli: i neonati venivano adagiati in un coppo e coperti con un altro, quindi erano posizionati in piccole fosse. Il corredo in questi casi è quasi sempre assente, oppure consiste in un singolo elemento (come nel caso della tomba 476, che ha una fibula ai piedi del bimbo inumato).


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L’ultima fase che va dal V al II secolo a.C. è quella ellenistica, in cui da una parte si accentua la stratificazione sociale, dall’altra l’assimilazione al mondo romano. In questa fase sono presenti le tombe a camera, le tombe a cassone litico (costruite con lastre di pietra come pareti), le tombe a cassone ligneo (che individuiamo grazie alla presenza di elementi in ferro agli angoli della fossa, fasce angolari di metallo che servivano a rinforzare la cassa in legno, oggi completamente scomparsa), le tombe a segnacolo monumentale, le tombe a fossa semplice e le sepolture neonatali nei coppi. Spiccano in modo particolare le tombe a camera, ipogee, a pianta quadrangolare, alle quali si accedeva mediante un dromos (corridoio). Esse erano dei sepolcri di famiglia, poiché vi troviamo più di un defunto; erano dunque aperte ogni volta che dovevano ospitare un nuovo individuo.


Assieme alle tipologie sepolcrali anche i corredi ci dicono qualcosa di importante: si diffonde in questo periodo un tipo di ceramica che si può definire a produzione “industriale”, ovvero la ceramica a vernice nera, ampiamente attestata nel resto d’ Italia oltre che in altri siti del Mediterraneo, segno del fatto che anche qui si inizia a preferire questa produzione a quella locale. Anche se i corredi in questo periodo tendono a semplificarsi (spariscono ad esempio le armi nelle tombe maschili), in alcune tombe a camera sono state rinvenuti oggetti di splendida fattura, testimonianza della raffinatezza

raggiunta in questo periodo dalla cultura vestina. Stiamo parlando prima di tutto dei letti funebri con decorazioni in placche d’osso, importantissime testimonianze archeologiche, utili per comprendere il senso artistico e il linguaggio figurativo delle popolazioni abruzzesi durante l’età ellenistica.Assieme ai letti, infine, vanno menzionati pendagli in pasta vitrea di provenienza punica le pedine e i dadi da gioco.


Con l’ultimo secolo (il I a. C.) si diffonde l’uso dell’incinerazione accanto a quello dell’inumazione; le ceneri del defunto vengono deposte all’interno di un’olla coperta da una pietra piatta o – più raramente – da un coperchio in ceramica. Con questa fase sparisce anche la consuetudine di deporre oggetti di corredo. E’ questo il momento in cui si percepisce ormai la definitiva assimilazione al contemporaneo costume funerario romano.


Insomma, un luogo che merita di essere valorizzato, ma che, sia perché siamo in Italia, sia per le problematiche della ricostruzione post terremoto, non è opportunamente valorizzato.

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Published on November 11, 2018 09:58

November 10, 2018

Il lungo giorno








Nonostante la tendinite, la stanchezza accumulata nella settimana e le tante attività in contemporanea, qualcosa siamo riusciti a portarla a casa, a cominciare dal pomeriggio alla Casa dell’Architettura.


Diciamola tutta, pochi conoscono l’Acquario Romano. Gli nuoce forse l’essere posizionato in un angolo dell’Esquilino assai nascosto , rione già di per sé dimenticato dall’amministrazione capitolina, che lo considera poco più di una discarica di problemi. Eppure, pochi luoghi a Roma possiedono lo stesso fascino: a cominciare dal giardino, in cui spiccano i resti delle mura serviane, per passare alla sua grande sala aperta e luminosa, caratterizzata da un doppio ordine di colonne in ghisa e decorata da capolavori della pittura liberty, degno scenario di qualsiasi racconto steampunk.


Per sintetizzare la sua storia, l’edificio nacque su iniziativa di un ittiologo, Pietro Garganico, originario di Como, che attorno al 1880 presentò al Comune un progetto per realizzare una struttura destinata insieme a stabilimento di piscicultura e acquario, la cui costruzione era inizialmente prevista in via Nazionale. Nel 1881, il Consiglio Comunale deliberò l’anno seguente la concessione gratuita al Garganico di un’area dell’Esquilino, nel tentativo di rendere più appetibile l’area agli impiegati borghesi dei ministeri. L’incarico di progettare il tutto fu affidato all’architetto Ettore Bernich che, a dire il vero, capì ben poco sia dello scopo dell’edificio, sia delle necessità del committente, trasformando il tutto in una sorta di teatro auditorium.


Dal 1893 al 1900 l’edificio rispose agli usi più svariati. Sino al 1894 funzionarono le vasche con i pesci nella sala centrale, mentre questa e le gallerie, date in concessione temporanea, vennero adibite di volta in volta a fiere vinicole ed alimentari, assemblee e riunioni delle associazioni più diverse, esposizioni artistiche, concorsi pubblici, palestra per le scuole del quartiere. Insomma, come succede bene a Roma, non si sapeva bene cosa fare della struttura, in uno strano parallelismo con quanto sta succedendo nel presente con il Cinema Apollo.


Per trovarne un utilizzo sensato, nel 1895 gli uffici comunali elaborarono persino un progetto per trasformare il tutto in uno stabilimento di bagni pubblici. Intanto, tra una discussione e l’altra, sempre con il problema della copertura finanziaria, nel 1900 era ormai consolidata la sua funzione teatrale, tanto che l’Acquario ospitò attori come Petrolini e Viviani, spettacoli di operetta e varietà di grande successo


Dal 1930 al 1984, rischiando più volte di essere demolito, Fu sede dei magazzini del Teatro dell’Opera: dopo i restauri, ha svolto la funzione di Casa dell’Architettura… E diciamola tutta, in questi anni, questa è sembrata essere un corpo estraneo al Rione.



La bella iniziativa di oggi è un primo passo per colmare tale solco: perchè senza dubbio alcuno, la Casa dell’Architettura è una risorsa importantissima per l’Esquilino. Non perché, come sussurra qualche associazione,


“C’hanno lo spazio figo pe’ fa convegni e mostre”


Nonostante la fame di spazi per confrontarci e costruire cultura condivisa, bene o male, con parecchia fantasia, all’Esquilino riusciamo sempre ad arrangiarci. Perché l’Ordine degli Architetti, con la sua esperienza e creatività, può fungere da fucina di idee e da motore per tante iniziativa per riqualificare la nostra realtà urbana e i non luoghi in cui ci imbattiamo nel nostro quotidiano



Si tratta di un primo passo, perché, se devo evidenziare un piccola area di miglioramento, è che forse l’evento è stato troppo autoreferenziale. Provo a spiegarmi: io sono bene, in dei casi mi verrebbe di aggiungere un purtroppo, cosa fanno le associazioni presenti questo pomeriggio, con le idee, le loro paturnie e i loro progetti. Lo stesso per loro nei confronti de Le danze di Piazza Vittorio. Ora, sederci in circolo, ripetercelo per la millesima volta, dirci quanto siamo belli, bravi e fighi e quanto sono cattive le Istituzioni che ci ignorano, può essere un ottimo esercizio di autocoscienza, ma nel concreto cambia poco.


Non bisogna dircele tra noi, ma condividerle con tutto il Rione, proponendo idee, che abbiano una ricaduta collettiva e una continuità nel Tempo e capendo assieme come sia possibile realizzarle.













Dopo l’intervento alla Casa dell’Architettura, una scappata alla manifestazione contro il decreto sicurezza, piena di persone e di entusiasmo… No, caro Salvini, la pacchia non è finita, almeno finché ci saranno persone capaci di pensare con la propria testa e di ascoltare il cuore. Perché qui non si tratta di essere di destra o di sinistra, ma di rimanere umani e di avere il buonsenso di capire che la demagogia e il populismo aiutano solo a nascondere la testa sotto la sabbia, non a risolvere i problemi, che si presenteranno, ben peggiori, a breve termine.






Infine, per chiudere una giornata così impegnativa, un brindisi con il vino novello da Radici, in compagnia di vecchi amici, per rispettare una nostra piccola tradizione, l’onorare San Martino, una piccola tessera del complesso mosaico che costituisce la nostra identità condivisa


P.S. Come forse sapete, abbiamo lanciato un piccolo progetto di crowdfunding per rifare il murale dedicato a Gaetano… Dato che la raccolta fondi sta andando assai bene, colgo l’occasione per ringraziarvi tutti…

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Published on November 10, 2018 12:41

November 9, 2018

Un sabato impegnativo

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Diciamola tutta… Domani sarà una giornata alquanto complicata per Le danze di Piazza Vittorio, che si dovranno dividere in più tronconi e saltare da un luogo e l’altro della città. La mattina, una nostra delegazione parteciperà alla manifestazione contro il DDL Pillon, che spaccia per tutela della famiglia uno dei tanti attacchi alle libertà civili portate avanti d questo governo. Il pomeriggio, invece, ci sarà una rappresentanza alla manifestazione contro il decreto Salvini, ottimo esempio del clima orwelliano, intriso di neolingua, che stiamo vivendo.


Nella ricerca di un capro espiatorio per l’incapacità della politica di gestire al meglio la crisi di questi anni, senza farne pagare il prezzo ai più poveri, spaccia per lotta alla microcriminalità uno sconsiderato taglio alle politiche di accoglienza e di integrazione.


Poi, per non farci mancare nulla, parteciperemo anche all’evento dell’Acquario Romano, dove, finalmente, la Casa dell’Architettura cercherà di ricostruire un legame con il territorio dell’Esquilino cosa a dire il vero, assai trascurata negli anni precedenti.


Il programma di questo evento è il seguente


ore 10.00 / SALUTI ISTITUZIONALI E PRESENTAZIONE. con le varie autorità


Flavio Mangione / Presidente Ordine Architetti P.P.C. di Roma e provincia

Alessandro Narduzzi / Presidente di Acquario Romano srl

Luca Ribichini / Presidente Commissione Cultura Casa dell’Architettura

Francesco Stapane / Presidente ALOA – Associazione Ludica Ordine degli Architetti, che non ho la più pallida idea di cosa sia….


INTRODUZIONE DEL PROGETTO


“L’Acquario Romano incontra l’Esquilino”a cura di A. Panci, in cui immagino si sintetizzino i risultati degli incontri tenuti nei mesi scorsi


ore 10.40 Incontro con Alessandra Centroni / Funzionario di zona Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio del Comune di Roma… Sinceramente, mi piacerebbe partecipare, per porre domande su tante questioni, da Piazza Dante al Tempietto di Minerva Medica, dalla questione della Street Art al recupero dell’ex Cinema Apollo e dell’ex centro di formazione regionale


ore 11.30 Margherita Aledda / Presidente casa editrice e libreria AR Edizioni PRESENTAZIONE DELLA NUOVA BROCHURE DELL’ACQUARIO ROMANO a cura di AR edizioni


ore 12.00 / CONCERTO DELLA BANDA DEL CORPO DELLA POLIZIA LOCALE DI ROMA CAPITALE che non manca mai 


ore 13.30 / PAUSA PRANZO IN GIARDINO presso gli stand street food, Frish, Tiramisù e Pizza…. Durante il pranzo e nel pomeriggio sarà possibile visitare gli spazi del giardino e gli interni dell’edificio


ore 14.30 / CACCIA AL TESORO PER BAMBINI “Trova l’albero e dagli un nome”


introduzione attività del pomeriggio a cura di A. Buzzone


ore 15.30 / PECHA KUCHA SESSION… Le Associazioni e realtà dell’Esquilino si presentano


Per gli ignoranti come me, il Pecha Kucha non è una strana pietanza cinese, ma un metodo di lightning talk: particolarità del Pecha Kucha è il suo formato light di presentazione (20×20), che prevede l’esposizione di sole 20 slide in 20 secondi di tempo ciascuna. Ossia, 6 minuti e 40 secondi di tempo totale. Il che ad essere un dramma per un logorroico come me, sarebbe una panacea per tante riunioni nel mio ufficio


A seguire presentazione del lavoro del forum Esquilino a cura di P. Petraroia


LE DANZE DI PIAZZA VITTORIO


musiche e danze, ma non mi chiedete l’orario…


INTERVENTO


“Esperienze del Presidio di protezione civile dell’Ordine degli Architetti P.P.C. di Roma e provincia” a cura di P. L. M. Zaffina / coordinatore Presidio di Protezione Civile presso l’Ordine degli Architetti P.P.C. di Roma e provincia


ore 16.45 / LEZIONE DI ARCHITETTURA APERTA ALLA CITTÀ


“La città emozionale”a cura di F. Lipari, che suona bene, anche se non mi è molto chiaro cosa voglia dire…


ore 17.30 SALUTI CONCLUSIVI


E la sera, dalle 10.30 in poi, mazurka klandestina a Piazza della Repubblica…

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Published on November 09, 2018 03:00

Alessio Brugnoli's Blog

Alessio Brugnoli
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