Alessio Brugnoli's Blog, page 128

December 4, 2018

Pangiallo

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Giornata intensa oggi: il pomeriggio l’ho trascorso a parlare con tante start-up. Molti possono pensare che, con tutti i casini che ho al lavoro, sia tempo sprecato. In realtà, bisogna avere sempre il tempo e il coraggio di accettare la sfida delle nuove idee; quando non saremo più in grado di farlo, potremmo finalmente meritare la nomea di vecchi.


La sera, invece, è passata con il direttivo de Le danze di Piazza Vittorio, a bere e a chiacchierare sulle prossime attività. Ora mi ritrovo qui, a decidere di cosa scrivere in questo post. Dato che il Natale è prossimo, quasi quasi butto già due righe sul dolce natalizio romano per eccellenza, il pangiallo, che tra l’altro ha origine antichissime. Presso i presso i Romani, esisteva il “panis Martis”, una mescolanza di miele e mandorle che costituiva una ghiottoneria da triclivio imperiale. Questo impasto veniva, tra l’altro, distribuito anche ai legionari prima delle battaglie, perché aveva fama di essere un notevole energetico che rendeva l’uomo più combattivi.


E il buon Apicio, l’Artusi dell’antica Roma, nel De re coquinaria, ci concede una simile ricetta


“mescola nel miele pepato del vino puro, uva passita e della ruta. Unisci a questi ingredienti pinoli, noci e farina d’orzo. Aggiungi le noci raccolte nella città di Avella, tostate e sminuzzate, poi servi in tavola”.


La più antica ricetta di questa specialità, tipica della zona a cavallo tra Umbria e Lazio, si trova in un manoscritto conservato presso l’archivio di stato di Viterbo, risalente alla prima metà del ‘700. Nel testo un anonimo cuoco descrive il procedimento per fare pangiallo, chiarendo che il nome del dolce deriva dal colore conferito dallo zafferano, e non dalla farina di mais come erroneamente pensato dai più.


Parecchio tempo è passato da quei giorni e ogni famiglia a Roma adotta la sua variante: chi usa come legante il miele, chi lo zucchero, chi il mosto. Chi ci aggiunge i canditi, chi i pinoli, chi i pistacchi. Sinceramente, non ricordo la ricetta di mia mamma, ogni anno si lamenta del fatto che i pangialli gli vengano male, quando in realtà, detto fra noi, sono sempre buonissimi. Per questo, condivido la ricetta di un mio collega, che si vanta sempre di essere un gran cuoco… Comunque, lascio a voi il giudizio


500 gr di uva passa


500 gr di frutta secca (mandorle, nocciole, noci e pinoli)


la scorza di 1 limone


2 bacche di vaniglia


Per la pastella:


acqua tiepida senza esagerare


20 gr di lievito di birra


125 gr di miele


150 gr di farina bianca


Spellate tuta la frutta secca poi mettetela in forno ad asciugare il tempo necessario. Fate rinvenire l’uvetta in acqua tiepida poi asciugatela e tenetela da parte. In una ciotola preparate la pastella che deve avere una giusta consistenza né troppo densa né troppo liquida, poi aggiungete la frutta secca, l’uvetta e tutti gli altri ingredienti e amalgamate bene tutto. Aiutandovi con le mani leggermente umide formate quattro o cinque panetti rotondi di medie dimensioni e disponeteli su carta forno e lasciateli riposare per un giorno. Il giorno seguente infornateli a 100 gradi per circa 1 ora e mezz’ora. Il dolce deve asciugarsi più che cuocere


Nonostante quello che dicono in Ciociaria e nel Viterbese, il panpepato è una variante “moderna” e ricca del pangiallo, che usa come legante il cioccolato e che insaporisce il tutto con le spezie: il pepe, i chiodi di garofano, la noce moscata e la cannella…

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Published on December 04, 2018 14:33

Captain Marvel: il nuovo trailer del film sui supereroi con Brie Larson

KippleBlog




Captain Marvel, il nuovo film del Marvel Cinematic Universe, ha un nuovo trailer. Diretto da Anna Boden e Ryan Fleck, il film vedrà l’attrice Brie Larson nei panni del personaggio dei fumetti Carol Danvers e sarà ambientato nel 1995. Captain Marvel, che sarà il ventunesimo film ambientato nell’universo narrativo dei supereroi Marvel, sbarcherà nelle sale italiane 6 marzo 2019. Nel frattempo ecco il nuovo trailer:






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Published on December 04, 2018 13:47

December 3, 2018

Forma Urbis (Parte II)


Può sembrare paradossale, ma se abbiamo un’idea abbastanza chiara di quale fosse la prassi degli antichi romani nel misurare i terreni, questo grazie ai Gromatici veteres, una corposa raccolta di manuali di agrimensura messa insieme durante il V secolo d.C. la nostra conoscenza, per quanto attiene alla legislazione amministrativa e catastale, specialmente urbana, è invece alquanto sommaria.


Grazie ai Gromatici veteres, sappiamo come funzionasse la groma. lo strumento utilizzato nel tracciare sul territorio allineamenti tra loro ortogonali, costituita da un’asta verticale che si conficcava nel terreno e recante in sommità un braccio di sostegno per due aste tra loro ortogonali. Le estremità delle aste avevano dei fori a distanza uguale sui quali venivano appesi dei fili a piombo, che risultavano due a due tra loro ortogonali. O come utilizzassero, per misurare le inclinazioni del terreno, una sorta di antenata della nostra livella.


E tramite questi strumenti, I Romani delimitarono vaste estensioni di terra mediante limitationes (delimitazioni, limitazioni), che per lo più erano centuriationes (centuriazioni), composte da quadrati o rettangoli di terreno definiti da vie di campagne dette limites (limiti) fra loro parallele o ortogonali, o strigationes, vale a dire suddividendo i campi in strisce separate da limiti paralleli. Gli spazi fra limiti

successivi, sempre uniformi nell’ambito di una singola limitatio, erano costantemente pari a un multiplo di un actus (=35,48 m) o, in vari casi di più antica delimitazione, di un vorsus (= 30 m). I limiti principali nelle centuriazioni erano il decumano massimo e il cardine massimo e tutti gli altri limiti erano paralleli a uno dei due. L’orientamento più ortodosso per tali limiti, precisamente definito nel Corpus, era da oriente a occidente per i decumani e dal meridione al settentrione per i cardini.


Se però passiamo al catasto vero e proprio, la situazione cambia totalmente: la prima citazione certa l’abbiamo da Granio Liciniano, una sorta di autore di romanzi storici dell’epoca di Adriano, ci informa che, almeno dal 165 a.C., una documentazione catastale esisteva già per il «territorio del popolo romano» (ager populi Romani), tanto che Cornelio Lentulo, il nemico giurato di Tiberio racco fu in grado di recuperare, con atti ufficiali alla mano, almeno 50.000 iugeri di terra dal territorio campano, illegittimamente usurpati da privati e collettività, lasciando traccia dell’operazione in «una mappa bronzea di detti campi che fece affiggere nell’atrium Libertatis, mappa più tardi distrutta da Silla»


L’Atrium Libertatis, per chi non lo sapesse, era un monumento dell’antica Roma, sede dell’archivio dei censori, situato sulla sella che univa il Campidoglio al Quirinale, a breve distanza dal Foro Romano, in cui erano conservate le liste dei cittadini e in cui si svolgeva la cerimonia di liberazione degli schiavi da parte dei padroni. L’edificio scomparve agli inizi del II secolo, in seguito all’eliminazione della sella montuosa sulla quale sorgeva per la costruzione del Foro di Traiano. Le sue funzioni furono ereditate dall’insieme costituito dalla Basilica Ulpia e dalle due biblioteche collocate ai lati della colonna di Traiano.


Silla, per dirla tutta, distrusse tale documentazione per impedire che qualcuno in futuro rivendicasse la proprietà delle terre di cui, più o meno illegamente si erano impadroniti i suoi seguaci. Avendo poi la mappa di Lentulo un ruolo più propagandistico che pratico, è probabile che nella realtà quotidiana le mappe catastali, conservate negli armadi del complesso, fossero realizzate in membrana (pergamena), linteae (su tela), chartaceae (su papiro). Inoltre è assai probabile che documentazione simile fosse conservata nella Curia del Senato e nell’aerarium Saturni o tesoro di Stato e più tardi nel fisco imperiale alla annona. Sempre a tale epoca, risalgono il caso del tempio di Mater Matuta del Foro Olitorio, in cui compariva una mappa della Sardegna datata al 174 a.C.20. Simile era il caso del tempio di Tellus presso le Carinae


E’ probabile che la riorganizzazione augustea di Roma, che passa dalla suddivisione arcaica, basata motivazioni sacrali, articolata sulle le quattro tribù «primigenie», Suburana, Esquilina, Collina e Palatina, con asse Nord-Sud e con il centro geometrico sulla Velia, forse per la presenza sul colle del tempio dei Lares populi Romani, a quella razionale e matematica, ispirata alle esperienze ellenistiche, con le quattordici regioni, elencate in senso antiorario, con un centro geometrico collocato sul Capitolium e con il Sud-Est in alto. Convezioni, queste, che indipendentemente dalla probabile esistenza di una Forma Urbis risalente alla prima età imperiale, sono adottate anche da quella Severiana.


La documentazione catastale relativa alle province, invece, comincia con l’amministrazione imperiale, ma questo non vuol dire che prima non esistessero archivi locali: un’iscrizione dell’anno 68 d.C., risalente, quindi al breve regno di Galba, ci informa che documenti del genere si conservavano in un «santuario del Cesare» o «del Principe», da localizzare nell’ambito del palazzo imperiale del Palatino, secondo Nicolet


Essi erano costituiti dai due elementi distinti: una mappa, o forma, e la relativa leggenda didascalica, o lex. Qualche volta, delle mappe abbiamo delle monumentali versioni marmoree, come gli esemplari del catasto di Orange (Arausium), in Francia, o versioni in bronzo, purtroppo molto frammentarie. Per quanto riguarda la leggenda, è interessante la scoperta, avvenuta recentemente nella provincia di Zamora, in Spagna, di un frammento bronzeo relativo ad una divisio agri et finium nella quale il modo stesso della descrizione mostra chiaramente che una mappa doveva accompagnarsi al testo…

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Published on December 03, 2018 09:01

December 2, 2018

Il Tempio italico di Castel di Ieri


 


Uno dei tanti luoghi affascinanti dell’Abruzzo è Castel di Ieri; fu probabilmente un pagus dei Peligni Superequani come dimostrano i diversi reperti e resti di edifici venuti alla luce nella contrada S. Pio, i muri diruti nella Contrada Casarino, le tracce di acquedotti nella Contrade Frascate e Alvanito, i resti di un edificio pubblico e due frammenti di mattone con bolla nella zona Cese Piane, muri e pavimenti in calcestruzzo nella località S. Nicola, un blocco di calcare irregolare con un’iscrizione proto-sabellica e un pavimento mosaicato in contrada S. Rocco, una costruzione a due cinte in grandi blocchi

poligonali (un centro fortificato) con frammenti di tegoloni e doli e frammenti ceramici menzionati dal De Nino come bucchero italico sulle vette chiamate Rave Fracide, Ara della Serra, Rava del Barile e del Piede Mozzo. A ciò si devono aggiungere alcune incisioni rupestri rilevate dal De Nino in contrada Costa.


Ma i resti archeologici più importanti saltarono fuori nel 1987, durante lo stesso per la costruzione di un capannone agricolo, in cui gli operai si trovarono davanti una serie di lastre di marmo modanate. Lo scavo, compiuto dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Abruzzo, ha permesso di portare in luce i resti di due edifici templari, uno più recente (A), risalente al II sec. a.C. e monumentalizzato nel secolo successivo, dopo la Guerra Sociale e un altro più antico (B) risalente al IV sec. a.C. (come prova una serie di depositi rituali contenenti materiale votivo), preceduto a sua volta da una necropoli di tombe a circolo, utilizzate tra l’ottavo e sesto secolo prima di Cristo.


Per cui, allo stato attuale possiamo ricostruire la complessa storia del sito, che si estendeva probabilmente su un’area di m. 120 x 90 ca. Nella tarda Età del Bronzo, vi era probabilmente un santuario, associato a una sorgente carsica, poi prosciugata, in cui forse si onorava un’antecedente di Mefite, la dea italica legata alle acque, invocata per la fertilità dei campi e per la fecondità femminile, tra l’altro venerata da prima della nascita di Roma anche al’Esquilino, in cui si trovata un boschetto sacro (lucus Mefitis) a lei dedicato.


Un aspetto non ancora indagato del culto di tale è l’eventuale rapporto tra questo culto e un rito di transizione quale la transumanza, che costituiva il passaggio delle greggi ai nuovi pascoli stagionali. Questa ipotesi è rafforzata dal fatto che a ridosso dei percorsi tratturali erano presenti antiche aree sacre dedicate alla Mefite. Tornando al sito di Castel di Ieri, all’epoca risalgono anche una serie di offerte rituali in selce e ossidiana; alcuni ipotizzano, inoltre, dato che dal luogo risultano ben visibili il tramonto del sole ed il sorgere della luna, come questo santuario arcaico potesse avere una valenza

archeoastronomica


Con il prosciugarsi della sorgente, il santuario fu abbandonato e il luogo fu utilizzato come necropoli per l’élites della zona: dagli scavi del 2010, sono risultate circa otto tombe a circolo, in origine simili a quelle di Fossa, in cui sono stati trovati corredi fibule, medaglioni, bracciali in bronzo e in ferro. Tra il sesto e il quarto secolo, la necropoli fu seppellita da una grossa frane e se ne perse la memoria. Così, fu costruito i tempio B, scoperto fortuitamente nel 1997 in seguito ai lavori per la copertura del complesso, situato davanti alla gradinata d’accesso del tempio A, a due metri di profondità dal piano di calpestio dello stesso e presenta lo zoccolo in blocchetti di pietra e l’alzato in terra cruda. Nell’area sono stati rinvenuti materiali di varia natura: una scultura frammentaria in pietra locale raffigurante un leone, vari frammenti di marmo bianco venato combacianti ed un sedile in calcare locale decorato con finte rocce sono i ritrovamenti collegabili a statue di culto.


Prima del secondo secolo, il tempio B viene distrutto da un terremoto: i Peligni, decidono quindi di costruirne uno nuovo, il tempio A più grande e “moderno”, influenzato dalla cultura artistica medio- repubblicana di ispirazione ellenistica. Nel fare questo, per risparmiare e fare prima, riutilizzano diversi materiali e decorazioni provenienti da tempio B.


Il tempio A, quello scoperto nel 1987 e quindi meglio indagato, è costruito su alto podio (largh. m. 15,12; lungh. m. 19,8), con basamento in opera poligonale (terza maniera, blocchi lisciati e ben connessi), foderato da lastre in pietra modanate che si addossano ad una gettata in opus caementicium molto spessa; il rivestimento, costituito da un sistema a tre lastre (base, centrale, coronamento), si conserva per intero sui lati posteriore e sinistro, mentre sul destro restano solo le lastre di base. Si accedeva al tempio tramite un’ampia gradinata, perfettamente conservata, che consentiva l’ingresso alla cella tripartita attraverso un profondo pronao, con quattro colonne sulla facciata e due poste al centro in seconda fila, in asse con i muri interni che distinguevano l’ambiente centrale dai due laterali. La cella, divisa in tre parti uguali, presenta ancora l’alzato di blocchi di travertino in opera quadrata, rivestiti con intonaco policromo all’interno e acromo all’esterno, dei quali rimane il primo filare mentre la struttura muraria di elevato era realizzata in blocchetti irregolari, rinvenuti nei crolli e negli strati pertinenti dall’abbandono della struttura.


I tre ambienti della cella conservano la pavimentazione musiva a piccole tessere bianche con fascia perimetrale nera, e quello mediano presenta al centro un emblema col motivo del meandro sviluppatosi intorno a cinque quadrati decorati con disegni geometrici e all’ingresso la già citata iscrizione musiva (databile alla metà del I sec. a.C.) che ricorda i tre personaggi che si occuparono dei lavori di costruzione e del “collaudo” del tempio ex pag(i) de[cr(eto)]. Sul fondo dell’ambiente centrale è il basamento della statua di culto (successivo alla costruzione del tempio), che occupa l’accesso ad un sub- ambiente, presente in tutte e tre le celle, caratterizzato da una soglia in pietra su cui sono visibili tracce di una cancellata e di una porta a battenti centrale, interpretabile come un armadio a vista utilizzato per la conservazione di oggetti connessi con il culto o con il carattere pubblico del tempio (archivio, “cassa comune”, o deposito di denaro della comunità da utilizzare in casi di estrema necessità)


Dalla sua decorazione provengono antefisse, del tipo Vittoria alata e giovane stante nudo con mantello, frammenti della syma frontonale, degli antepagmenta e di altre lastre decorative fittili. Tra i materiali votivi in bronzo si segnalano una statuetta raffigurante Ercole in combattimento, un braccetto di offerente con patera e un piccolo zoccolo di animale. I materiali votivi fittili consistono in un ex- voto a mascherina e varie statuine, teste, mani, piedi e bovidi; inoltre un occhio in pietra e vasellame a vernice nera e in bronzo. Ad una fase più recente, infine, sono da attribuire resti di lucerne, anche

bronzee, monete e alcuni riccioli in bronzo.


A chi siano i due templi è difficile dirlo: è probabile, per la presenza di più celle, che il tempio A sia stato un luogo di culto per più divinità, a tutela del territorio e della sua gente. A prima vista, considerando il ritrovamento di molti frammenti, rinvenuti nella cella principale, di una statua di pregiato marmo bianco, relativi a un pesante mantello orlato di serpenti, si potrebbe pensare come il complesso fosse dedicato a Ercole, venerato come protettore dei pastori, a cui forse era dedicato anche il tempio B, e a Minerva…

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Published on December 02, 2018 06:47

La manifestazione del 1 dicembre 2018 per la bonifica dell’ex Cinema Apollo

Esquilino's Weblog




Sabato 1 dicembre 2018 si è svolta la manifestazione a via Pepe per richiamare l’attenzione sulla preoccupante situazione dell’ex cinema Apollo a via Giolitti che versa in condizioni di assoluto degrado e che ormai rappresenta un pericolo non solo per la sicurezza ma anche e soprattutto per la salute dei residenti in quanto da tempo è stata appurata la presenza di amianto sia sul tetto dello stabile che presenta diversi fori, sia nei collanti a suo tempo utilizzati per il pavimento all’interno del ex cinema.



Ormai la situazione è divenuta paradossale in quanto a differenza di qualsiasi altra richiesta della cittadinanza che in genere viene rigettata dalle istituzioni  per mancanza di fondi, in questo caso la copertura finanziaria per l’intervento di bonifica è assicurata e il problema è solo di procedure burocratiche che rischiano con la loro lentezza di vanificare il finanziamento e allungare sine die l’inizio dei lavori.



In…


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Published on December 02, 2018 03:17

December 1, 2018

San Fantino il giovane

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Sempre parlando dei Santi Calabro Bizantini, oggi è il turno di San Fantino il giovane, sulla cui vita ortodossi e cattolici non vanno proprio d’accordo. Ad esempio, per i primi, Fantino nacque nel 902 a Villa Mesa di Calanna, dove a fine Ottocento furono individuati sia un insediamento, esplorato a fondo pochi anni fa, sia una necropoli bizantina, in cui fu nel 1894, fu trovato un amuleto del IX – X secolo in steatite da portare al collo raffigurante S.Giorgio, e, nel 1920 un enkolpion bronzeo per reliquie con immagini incise e scritte cristiane datato al VI – VII secolo il che dimostra una sua utilizzazione per tre – quattrocento anni. L’identificazione di questo luogo come patria del santo, secondo gli ortodossi, dipenderebbe dal nome della madre, Vriena, che è il nome della madre di Santa Febronìa, eremita di Palagonia, in provincia di Catania,  a cui venne dedicato un monastero femminile, proprio nel territorio di Calanna.


Per i cattolici, invece, il nostro eroe nacque a Taureana, nel 927 , cosa che potrebbe spiegare il perché gli sia stato dato il nome di Fantino: però, sia cattolici, sia ortodossi concordano sul nome dei genitori Giorgio e Vriena e sul fatto che questi, per devozione o per liberarsi di un figlio alquanto discolo, a otto anni lo appiopparono a Sant’Elia lo Speleota, il quale era quotidianamente diviso tra il dovere gestire il monastero di Melicuccà e dal suo amore per la solitudine, qualcuno parlerebbe di misantropia.


Elia, forse ricordando quanto fatto da sant’Arsenio per lui, invece di cacciare Giorgio e Vriena a pedate, prese a cuore Fantino e gli insegnò a leggere, a scrivere e a fare di conti; così Fantino a tredici anni,invece di tornarsene a casa, decise di farsi monaco, benché Elia glielo sconsigliasse, vedendo in lui uno spirito affine. Il nostro eroe, preso la tonsura, ebbe gli incarichi di cuoco e di portinaio, attività che, come dire lo tenevano troppo in contatto con il resto del mondo per i suoi gusti. Per questo, prese come esempio Eia, dedicandosi a una dura ascesi spirituale, con la pratica di lunghi digiuni, che

nel tempo divennero totale astensione da qualsiasi cibo e bevanda e maturando un profondo amore per la solitudine.


Tanto che, a trent’anni, essendo Melicuccà strapiena di monaci, Fantino se ne andò alla chetichella, per ritirarsi a fare penitenza in una solitudine assoluta in cui ebbe come unici compagni il freddo e la fame. Il monaco autore del suo bios narra un episodio in cui il nostro eroe dovette contendersi due pere selvatiche con dei cinghiali; essendo Fantino un calabrese doc, le bestie selvagge ebbero la peggio. Un’altra volta, avendo l’abito monastico totalmente consunto, Fantino fu costretto correre sulla spiaggia per riscaldarsi, sino a che trovò un po’ di lino per coprirsi lasciato da un tessitore, ma, essendo insufficiente. cadde in deliquio per il freddo e si svegliò solo perché sentì i topi che lo rosicchiavano.


Insomma, Fantino condusse una vitaccia per diciotto anni, sino a quando un cacciatore lo trovò in misere condizioni e preoccupato della sua salute fisica e mentale, corse ad avvertire i suoi parenti, i quali, messa una mano sulla coscienza, tentarono di convincerlo a vivere la sua condizione di monaco, in maniera, come dire, un poco più normale; successe però l’inaspettato, con Fantino che convinse il parentado della bellezza della vita ascetica, trasformandoli così in entusiasti seguaci.


Risultato, Fantino non sapeva cosa fare di questa inaspettata torma di di discepoli, anche perché nelle sovrappopolate grotte di Melicuccà non c’era posto, neppure a pagarlo oro: per cui decise di trasferirsi con tutta la compagnia bella nel Mercurion, dove fondò un monastero femminile nel quale furono accolte la madre e la sorella Caterina e due monasteri maschili, in uno dei quali trovarono accoglienza il padre e i fratelli Luca e Cosma.


Tuttavia, il desiderio della vita eremitica divorava Fantino, tanto che vestito di una tunica di pelli di capra scappò dal monastero nottetempo e giunse in un paese (Mercure?) ove fu scambiato per una spia e rinchiuso in cella, qui assalito dagli insetti, si difendeva raschiandosi con dei cocci. Chiarito l’equivoco da un funzionario bizantino di passaggio Fantino, eremita sì, fesso no, si convinse a tornare ai monasteri del Mercurion, dove in compagnia dei suoi discepoli prediletti, tra cui San Nilo, per i romani, il fondatore dell’abbazia di Grottaferrata, trascriveva codici miniati, mangiava verdure crude e pane secco, dormiva sulla nuda terra e per le domeniche e le festività pregava incessantemente in piedi dall’ora nona (tre del pomeriggio) sino alla Divina liturgia (mattino seguente).


Fantino, da buon santo calabrese, compì miracoli in quantità industriale. Una volta, un’orsa che devastava gli alveari del monastero fu allontanata definitivamente col solo cenno della mano. Un’altra, all’invocazione del suo nome zampillò d’improvviso un getto d’acqua abbondantissimo per dissetare dei monaci, i quali affaticati andavano in cerca di alcune mule che si erano allontanate dal pascolo.


Effetto collaterale di tali prodigi, era, citando il suo bios ” che la gente in massa affluiva a lui di continuo, al pari di uno sciame, e non gli permetteva di godere senza disturbo il bene della solitudine”, ossia Fantino si trovò perseguitato dai rompiscatole, così, per avere un poco di tranquillità, si recò in visita santuario di San Michele al Gargano. Il pellegrinaggio durò diciotto giorni di cammino costante, mangiando, praticamente quasi nulla. Ed anche lì attese l’inizio della Divina liturgia incessantemente in piedi.


Una notte, dopo la recita dell’ufficio, ebbe una terribile visione che non volle comunicare ai suoi monaci perché erano “cose assolutamente indescrivibili”. Poi “gettato via il saio se ne andò nudo per i monti”, dove “prese a star senza bere, senza mangiare e senza alcun vestito perfino per venti giorni di seguito”. Continuando a vivere in solitudine e in penitenza ” si nutrì per quattro anni di erbe selvatiche e di niente altro”. Quando i monaci lo rintracciarono e lo trassero a forza al monastero. riprese a ritornare “là dove si aggirava prima, preferendo le fiere agli uomini”.


Dinanzi a tale ostinazione, per convincerlo a tornare alla vita normale, i suoi discepoli gli spedirono San Nilo, il quale, con la pazienza che lo contraddistingueva, dovette subirsi il racconto,di una visione di angeli risplendenti e di demoni, “fitti più di sciami di api”, che lo riempirono “di timore e di orrore”. Infine Fantino, trasportato “in una regione risplendente di luce”, sentì “echeggiare un inno ineffabile, incessante, di cui non ci si può saziare” e vide sfavillare “un fuoco straordinario”, che lo riempì “di divino furore”. Seguì la vista dell’inferno, “luogo pieno di fumo maleodorante, privo di luce”, popolato di dannati che “sospiravano dal profondo con infiniti lamenti”. Trasportato poi “in un luogo splendente ed eterno” ebbe la visione dei beati e l’incontro con i genitori. Tornato in sé il nostro eroe concepì “un totale disprezzo per le cose del mondo”.


Tra l’altro, dalla vita di San Nilo si ricavano numerose notizie intorno a Fantino. Una volta questo, avendo sentito che San Nilo era affetto da un grave male alla gola, si recò nella sua grotta per visitarlo e lo persuase a seguirlo nel monastero per prestargli le cure necessarie. Un altro giorno San Nilo, essendo molto sofferente per le percosse che gli erano state inflitte dal demonio e che gli avevano procurato le paralisi del lato destro del corpo, fu invitato da San Fantino a leggere durante la veglia notturna che precedeva la festa degli apostoli Pietro e Paolo l’elogio in versi scritto in loro onore da San Giovanni

Damasceno. Durante la lettura il malore andò scemando a poco a poco fino a scomparire.


Infine, Fantino comunicò a San Nilo una sua visione. Aveva visto i monasteri in rovina trasformati in “luride abitazioni di giumenti” e bruciati dal fuoco e i libri gettati nell’acqua e resi inservibili. Il Santo intravide in quella visione la futura sorte dei monasteri che avrebbero subito la distruzione non solo per le incursioni dei Saraceni, ma anche per “il generale decadimento della virtù ed il rilassamento della disciplina”. Cosa che, detto fra noi, viste le condizioni geopolitiche della Calabria bizantina, era più una constatazione che una profezia.


Per cui, Fantino consigliò all’amico di andarsene via il prima possibile, cosa che Nilo fece, trasferendosi prima a Capua, poi a Gaeta e infine a Tusculum; dato che il nostro eroe era persona che faceva seguire i fatti alle parole, diede il buon esempio nel darsela a gambe. Alla tenera età di sessant’anni con i discepoli Vitale e Niceforo s’imbarcò alla volta della Grecia. Durante il viaggio, venuta a mancare l’acqua per i passeggeri, il fece riempire tutti i recipienti d’acqua marina, che a un segno di Croce fu trasformata in acqua potabile.


Raggiunta Corinto, si recò ad Atene per visitare il tempio della Madre di Dio, ossia il Partenone, che all’epoca era stato trasformato nella chiesa dedicata alla Panaghía Atheniotissa (Tuttasanta di Atene). Si mosse quindi verso Larissa, dove dimorò a lungo presso il sepolcro Sant’Achille, uno dei partecipanti a concilio di Nicea, che benché fosse morto tranquillamente nel suo letto, all’epoca godeva dell’immeritata fama di martire.


Trasferitosi a Tessalonica abitò per quattro mesi nel monastero del santo martire Mena, un soldato egiziano, che, come dire, ebbe secondo la tradizione una dipartita alquanto travagliata: rinchiuso in prigione, venne ricondotto davanti al prefetto, il quale ordinò la sua immediata fustigazione. Denudato completamente e steso a terra, venne barbaramente flagellato; condotto poi nel deserto e legato ad un palo sotto il sole cocente, venne nuovamente torturato. Le torture non erano tuttavia finite: Mena venne trascinato su punte acuminate di ferro, colpito al volto con mazze e infine percosso con verghe. Infine, rivestito del saio monastico, Mena venne decapitato, chiudendo definitivamente la vicenda.


Fantino, dato non perdeva l’abitudine a compiere miracoli, divenne subito una sorta di celebrità; per cui, per evitare scocciature, lasciato quel cenobio andò ad abitare fuori le mura della città. A Tessalonica il nostro eroe, dopo aver recitato “la straordinaria preghiera di Filippo di Agira”, guarì prodigiosamente un malato di nome Antipa. Un giorno, mentre si recava al tempio della santa martire Anisia, presunta figlia dell’imperatore Traino, s’imbattè nei santi monaci dell’Athos Atanasio e Paolo, che illuminavano “le solitudini come un faro” e rese gloria a Dio per quell’incontro. A Tessalonica indusse pure al pentimento un giudice che angariava la popolazione per avidità del denaro e un personaggio che occupava la carica più alta della città e compiva dei soprusi nei confronti di una vedova indifesa e di un orfano.


Un’altra volta, una donna fu guarita con della terra cosparsa sugli occhi malati. Un uomo afflitto da cefalea e da mal di denti ottenne d’improvviso la guarigione. Un moribondo ritornò in perfetta salute dopo un bacio datogli da Fantino. Una filatrice che doveva a un tale “molte monete d’oro” per suo mezzo ebbe condonata parte del debito, dato che Fantino si fece trascinare da lei,tirato da una corda attaccata al collo. davanti ai potenti della città, i quali per non perdere la faccia davanti a tutti i cittadini, finsero di soffrire di un’improvvisa amnesia sula cifra da restituire


Fantino sanò un sacerdote iconografo mandato da Costantinopoli a dipingere la sua icona, egli era idropico ed il santo gli apparve e stette due notti in posa, affinché l’iconografo, dopo esser stato guarito, poté dipingerlo.A una povera vecchia che gli chiedeva qualche spicciolo diede la sua tunica. Predisse l’insuccesso di una tribù di Bulgari che si preparavano a fare razzia nella regione. Due fratelli, “gonfi di veleno e d’inimicizia”, furono rappacificati. Fu indotto al pentimento un pentolaio che da sette anni “nutriva un’inimicizia implacabile nei riguardi di suo figlio”.


Dopo tutte queste imprese, ultra settantenne, fu visitato dai monaci Simone e Fozio, ai quali rivelò che Pietro Sclero stava scrivendo un libro per appropriarsi dell’autorità con la ribellione, ignorando la fine alla quale andava incontro. Ovviamente, come per la data della nascita, ortodossi e cattolici non concordano neppure per quella della morte: per i primi, morì il 14 novembre del 974. mentre per i secondi il 30 agosto di un anno prossimo al Mille.

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Published on December 01, 2018 11:31

November 30, 2018

Tirate fuori i fondi per l’ex Cinema Apollo

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Come sapete, anche per vicinanza geografica, sono sempre stato interessato alle vicende dell’ex cinema Apollo, lanciando anche una serie di proposte per riqualificare la struttura di proprietà del Comune, che però le varie amministrazioni del Campidoglio non hanno mai valorizzato, preferendo mandare tutto in malora, piuttosto che investirvi.


Negli ultimi anni la situazione è degenerata, a causa dell’amianto e quella che era una delle tante storiacce italiane di spreco, si è trasformata in un grosso problema per la salute pubblica: all’inizio i Cinque Stelle, come loro solito, hanno nascosto la testa sotto la sabbia, ma davanti la mobilitazione dei residenti e la visibilità che la notizia stava avendo sui media, hanno applicato, ispirati forse dalle abitudini

partenopee di Di Maio, l’antico principio del


Facite ammuina


A giugno, anche a seguito del sopralluogo della presidente della Commissione Cultura del Campidoglio, Eleonora Guadagno, i Cinque Stelle si riempirono la bocca con il proclama


Fondi per la bonifica dell’amianto entro giugno


per poi evidenziare, come le clausole in piccolo delle polizze assicurative


non significa che i lavori saranno immediati, perché le strutture competenti devono dare disponibilità in termini di progettualità


Il che tradotto per Li er Barista significa.


Regà, attaccateve, che nun ce ne po’ fregà de meno, che tanto er tumore ve viene a voi


Dato che di questi soldi non se ne è visto traccia, i residenti di via Giolitti hanno ricominciato a protestare, tanto che a settembre la stessa Raggi ci ha messo la faccia, avendo dichiarato sul suo profilo

Facebook


Venti milioni per le strade, otto milioni per le scale mobili e la sicurezza delle metropolitane, 300 mila euro per il completamento della scuola media di Corcolle, un milione per la manutenzione straordinaria dell’ex cinema Apollo, quattro milioni per le corsie preferenziali e la segnaletica stradale, ventotto milioni per co-finanziare il ponte dei Congressi, tre milioni per i parcheggi della stazione  Acilia-Dragona, tre milioni per la biblioteca pubblica di via della Lega Lombarda, sette milioni per riqualificare il verde pubblico, tre milioni per la riqualificazione del centro che accoglie i minori in via del

Casaletto, due milioni per gli incroci pericolosi sulle strade, 350mila euro per la ludoteca di Villa Torlonia.


In totale 125 milioni di euro che mettiamo a disposizione della città con l’assestamento di bilancio, grazie ai conti finalmente in regola ed ai risparmi che abbiamo realizzato. Il Ministero dell’Economia ci ha permesso di poter utilizzare i fondi risparmiati e la Giunta ha subito colto l’occasione per presentare un piano #sbloccacantieri, che ora è in discussione in Assemblea Capitolina. Tutte queste opere verranno avviate entro i prossimi cinque mesi e, quindi, i lavori vedranno presto il via.


Lo #sbloccacantieri che proponiamo all’Aula consente investimenti importanti per Roma: più lavoro, maggiori opportunità per le aziende e soprattutto il completamento di opere ferme da anni. Passo dopo passo lavoriamo per far rinascere Roma


Solo che dopo queste roboanti dichiarazioni, si è verificata una situazione analoga a quella del Marchese del Grilo con Aronne Piperno, della serie


Io i sordi nun li caccio e tu nun li becchi.


O meglio, in teoria un milione stanziato ci sarebbe pure, ma si tratta di soldi del monopoli, essendo questa cifra, come da regole di bilancio, vincolato alla messa a gara entro il 31 dicembre, cosa che, dato il totale menefreghismo del Campidoglio sula questione,non si è verificata.


Per cui, la parte più consistente della cifra, quella quella che doveva coprire il restyling generale, tornerà in cassa perché non c’è il tempo per elaborare un progetto e far partire l’appalto. Gli uffici tecnici lo hanno già ammesso in occasione di commissioni consigliari convocati ad hoc. Ma per l’amianto, che è la cosa più importante, dato il pericolo per la salute pubblica, l’impegno preso era quello di agire entro il 2018 con 150mila euro circa di quel milione.


Solo che siamo a fine novembre e tutto tace, per cui, alla faccia dei cittadini, che possono mettersi l’anima in pace e schiattare senza fare troppo rumore, se ne parlerà a babbo morto… La questione è che gli esquilini sono buoni e cari, ma non amano farsi prendere in giro dal Potere. Per cui, invece di abbozzare, buoni e quieti e non disturbare il conducente, scenderanno in piazza per difendere il loro diritto alla salute.


Domani alle 16.00, a via Gugliemo Pepe, ci sarà una manifestazione e un evento culturale per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla vicenda. alle 17 verranno proiettati brani del film che racconta la lotta per salvare il cinema Apollo partita ormai da 17 anni ed è al tempo stesso testimonianza di potenzialità e contraddizioni del Rione. Immagini suoni volti..tutti esquilini! Una ragione in più per non mancare…

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Published on November 30, 2018 02:25

November 29, 2018

La singolarità è già arrivata…


Cos’è, allora, è la singolarità? È un periodo futuro durante il quale il ritmo del cambiamento tecnologico sarà così rapido, e il suo impatto così profondo, che la vita umana sarà trasformata in modo irreversibile. Né utopico, né distopica, questa epoca trasformerà i concetti su sui ci basiamo per dare un senso alle nostre vite, dai nostri modelli di business al ciclo della vita umana, compresa la morte stessa. Capire la singolarità altererà la nostra prospettiva sul significato del nostro passato e le conseguenze per il nostro futuro. Comprenderla veramente nella sua interezza cambierà la visione della vita in generale e della propria vita. Considero chi ha veramente compreso la singolarità e che ha riflettuto sulle sue implicazioni per la sua vita come un “singolaritano”


E’ una frase Raymond Kurzweil, saggista e inventore americano, tratta dal suo libro La singolarità è vicina  del 2005, in cui viene esposta la tesi secondo cui la singolarità tecnologica si verificherà nell’arco della prima metà di questo secolo, e che mi risuonava nella testa ieri, giorno in cui mi hanno spedito, quasi a forza, a un corso su questo tema, cosa che il sottoscritto, che negli anni in consulenza era visto come bizzarro quando ne parlava, non so se considerare una beffa o una vittoria postuma.


Per dirla tutta, il buon Raymond ha anche toppato: la singolarità non è qualcosa che avverrà in un domani più o meno prossimo, ma la stiamo vivendo da almeno quindici anni. Non si tratta più di riflettere sul se e sul quando avverrà, ma sul come, e questo, purtroppo è oltre i nostri limiti cognitivi. Proprio per sfuggire a questa consapevolezza, ci siamo inventati una serie di meccanismi psicologici, concentrandoci sul Presente e sul breve periodo.


Quanto riflettono seriamente su come sia cambiata la nostra vita, come abitudini e comportamenti, rispetto agli anni Novanta del secolo scorso ? Di fatto i miei coetanei hanno vissuto a cavallo di due ere, ma preferiamo non pensarci.


E questo navigare a vista ha purtroppo anche il suo prezzo:si perdono uno sproposito di opportunità. Rispetto a dieci anni fa, in cui avevo sicuramente più energie, freschezza mentale e motivazioni, sono sicuramente assai più produttivo. Questo dipende sia da una maggiore esperienza nel gestire i carichi di lavoro, sia dalla maggiore competenza acquisita. Ad occhio, ho guadagnato un 20% di tempo, che una parte dedico a me stesso, una parte alla mia autoformazione, una parte a portare avanti nuove attività aziendali.


Ora se fossi affiancato da un’IA, nulla di futuristico, basterebbe una di quelle attualmente in commercio, che potrebbe sostituirmi nelle incombenze più ripetitive e a minore valore aggiunto, questa percentuale salirebbe a un buon 60% e sospetto che per i colleghi che si occupano di networking, oberati da studi di fattibilità e analisi di coperture, andrebbe ancora meglio. Allora perché non farlo ? Perché l’attuale organizzazione aziendale non saprebbe sfruttare questa presunta sotto occupazione e invece di inventarsi un modo per utilizzare le capacità e il tempo recuperato per creare nuovo business, la utilizzerebbe, con la scusa di ridurre i costi, come occasione per comprimere il numero delle risorse.


In generale, quindi, il nostro sistema economico ha paura di accettare la sfida di gestire e facilitare il cambiamento, perché non ha idea di come mitigare gli inevitabili costi sociali, però il nascondere la testa sotto la sabbia non fermerà l’orologio…


Ora non so se ha ragione Rifkin, quando, scopiazzando Marx, parla dell’imminente fine del capitalismo. So solo che tra cinque anni, la nostra società sarà ben diversa dall’attuale e noi stiamo rinunciando al diritto dovere di fare in modo che sia anche migliore.

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Published on November 29, 2018 07:35

November 28, 2018

Forma Urbis (Parte I)

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Per chi non la conoscesse, spero pochi, la Forma Urbis Severiana (anche Forma Urbis Romae, “Pianta marmorea severiana”, o Forma Urbis Marmorea) è una pianta della città di Roma antica incisa su lastre di marmo, risalente all’epoca di Settimio Severo. Realizzata tra il 203 e il 211, era collocata in una delle aule del Tempio della Pace (o “Foro della Pace”).


Tuttavia, molti indizi fanno pensare che questa sia .l’ultima di una lunga serie di piante monumentali, realizzate a partire dalla tarda età repubblicana: alcuni sono di natura “letteraria”, per cui anche legati all’impressione soggettiva, per esempio, quando leggo il brano in cui Varrone indica la posizione dei sacraria argei, la prima cosa che mi viene in mente è che stia scriva con sotto agli occhi una mappa, però magari altri potrebbero fornire delle spiegazioni forse più valide alla sua precisione topografica.


Altri più concreti sono legati a una serie di ritrovamenti avvenuti nel tempo, che mi accingo a elencare


Mappa di Sant’Anselmo


Raffaele Fabretti, nel suo De aquis et aquaeductibus, stampato a Roma nel 1680 (ristampa del 1788), offre a p. 151 la riproduzione di un frammento marmoreo che, dice, si trovava a suo tempo «nel giardino di S. Maria nell’Aventino», vale a dire, nell’attuale Priorato di Malta, all’angolo del colle che domina la Via Marmorata e la Piazza dell’Emporio, dove adesso c’è la chiesa di Sant’Anselmo, dove si sono sposati i miei


Noto da allora a tutti gli studiosi, venne inserito nel Corpus Inscriptionum Latinarum (CIL VI.1261), e ripubblicato in vari modi e in differenti contesti1; esso rappresentava i due rami di un canale o acquedotto con relativi emissari, accanto ai quali comparivano alcune didascalie di attribuzione di turni orari a diversi praedia, accompagnati dai nomi dei possessori. Purtroppo il frammento in questione sembra essere andato perduto.


Però, dalle riproduzioni, sembra essere stata parte di una sorta di vademecum del curator aquarum, il funzionario deputato all’approvvigionamento idrico dell’Urbe e alla cura degli acquedotti, dedicato all’irrigazione dei giardini di proprietà imperiale


Mappa Tiburtina


Simile alla procedente, ma di uso privato, era la mappa conservata, fino al xvi/xvii secolo, nella chiesa di S. Pietro, fuori le mura di Tivoli; tutti i trascrittori che l’hanno schedata concordano nel dire che si trovava a costituire parte del pavimento e, proprio per questo, appariva molto consunta. Nel repertorio CIL VI, n. 3676, la trascrizione sembrerebbe smentire tale circostanza, essendo il testo piuttosto ampio e sostanzialmente comprensibile, al punto che sembra potersi dedurre che la larghezza originale della lastra non superasse di molto il margine destro del frammento. Il Suarez, uno dei trascrittori, ne dà le dimensioni: 2 palmi e una oncia di lunghezza per un palmo e quattro once di larghezza; vale a dire 46.6 × 30 cm, essendo il palmo romano equivalente a 22,3 cm


La maggior parte del campo della lastra è occupato da un’epigrafe divisa in due tronconi, ognuno dei quali relativo all’attribuzione d’acqua ad uno specifico fundus, di cui si riportano i nomi dei propietari: un (fundus) Domitianus, di tale M. Salluius (o Salvius) e un fundus Sosianus di tale L. Primus. Tuttavia, oltre al testo, si vedono i, due fasce ondulate e sottili, non sappiamo se a linea pura o a superficie abbassata, indicanti due ruscelli, la seconda delle quali presenta un’interruzione, probabilmente la rappresentazione di un ponticello.


Mappa di Perugia


Di questa mappa, che si trova conservata al museo di Perugia, purtroppo non sappiamo nulla della sua provenienza, anche se alcuni indizi fanno pensare a un’origine romana. Sappiamo di certo, però, come fosse realizzato ai tempi di Nerone. Ce lo dice, l’iscrizione associata,


Claudia, Octaviae divi Claudi f(iliae) lib(erta) Peloris/ et Ti(berius) Claudius Aug(usti) lib(ertus) Eutychus, proc(urator) Augustor(um),/ sororibus et lib(ertis) libertabusq(ue) posterisq(ue) eorum/ /form]as aedifici custodiae et monumenti reliquerunt.


in cui si specifica come la mappa sia riferita a un monumentum funerario e all’edificio di custodia annesso, lasciati (per testamento, forse) da una liberta di Ottavia, la figlia minore di Claudio, e da suo marito, un procurator Augustorum, cioè, prima di Claudio e dopo di Nerone, di cui non si specifica la mansione precisa.


Per cui le tre piante presenti fanno riferimento, le prime due al pianoterra del monumento funerario e dell’aedificium custodiae, il terzo, l’alzato di quest’ultimo


Mappa di via della Polveriera


Dal muro di cinta di una vigna situata alle falde Sud del colle Oppio, tra le terme di Tito e il Colosseo, dove adesso c’è la mensa di Ingegneria, Lanciani recuperò nel 1890 un piccolo frammento marmoreo (lungo cm 13, alto 13, spesso 14). La faccia incisa presenta il disegno di tre corpi di edifici accostati fra loro, Nel frammento il blocco di destra appare in verticale ed è costituito, dal basso verso l’alto, da un cortile (?) con l’inizio di due righe di iscrizione (AEL…/ S…) e da un corpo di ambienti periferici (tabernae) con aperture su una strada superiore (lettera iniziale P… nell’ambiente di centro), al cui

margine si legge probabilmente la cifra incompleta LX riferibile ad una misura espressa in piedi romani, probabilmente relativa alla facciata dell’edificio


Il secondo e terzo corpo di edifici occupano il lato sinistro della rappresentazione, ripartendolo quasi a metà. In basso, quale accesso ad un probabile cortile interno, si vede un ambiente centrale, ai cui lati appaiono altri due vani, verosimilmente delle tabernae aperte su un fronte stradale. Nell’ambiente di sinistra, compare la traccia di una lettera (probabilmente una O), mentre nel cortile interno appare su due righe, un nome femminile, NONIAE /IADIS, ad indicare probabilmente la proprietaria. Il blocco superiore appare quasi come la replica speculare del precedente, a cui si appoggia «da tergo» uno spazio trasversale interno, forse un cortile, e un fronte di tabernae che si aprivano sicuramente sulla strada che correva in alto; nello spazio trasversale si leggono le ultime tre lettere di una riga inscritta, probabilmente la desinenza…VAE. di un nome femminile.


Appare evidente che la rappresentazione cartografica riproduce un blocco di edifici in una zona pianeggiante, tra due strade parallele, sui cui fronti si aprivano ingressi di tabernae. Il carattere degli edifici, che mancano di elementi tipici di strutture abitative, quali peristili o altro, e l’abbondanza degli spazi d’uso sul fronte stradale, sembrerebbero far supporre una destinazione commerciale.


Mappa di via Anicia


Durante i lavori di ristrutturazione della caserma di polizia A. Lamarmora in Via Anicia, nel quartiere trasteverino di Ripagrande, venne scoperta occasionalmente, nel Maggio 1983, parte di una lastra marmorea sminuzzata dalle macchine impiegate negli sterri. Recuperata dalla Soprintendenza Archeologica, i suoi 15 frammenti (più altri due non integrabili) vennero riuniti, consolidati e restaurati. Il risultato fu sorprendente: si trattava di un frammento, esiguo (dimensioni: alt. 32 cm, larg. 29.5, spess, 2), ma prezioso di una mappa indubitabilmente urbana, ricca di didascalie, tra le quali spicca quella

di un tempio di Castore e Polluce, probabilmente adiacente al Circo Flaminio, a Campo Marzio.


Questo circo, lungo 500 metri e privo di posti a sedere, che di solito veniva usata come sede per il mercato e che venne tramutato in un’immensa vasca utilizzata per contenere 36 coccodrilli, uccisi durante i festeggiamenti per l’inaugurazione del foro di Augusto, aveva un ruolo ben diverso da quello del Circo Massimo.


Era infatti la sede dei Ludii Tauri, tenuti in onore degli dei dell’oltretomba, in cui, invece delle bighe, delle trighe e delle quadrighe, correvano, come neli ippodromi moderni, cavalli con unico fantino


Mappa di Amelia


Per incarico del Cardinale F. Borromeo, nel 1603, venne copiata una silloge epigrafica manoscritta intitolata Antiquae Amerinorum lapidum inscriptiones, opera, della metà del XVI sec., dell’arciprete Cosimo Brancatelli. Tra le iscrizioni, conservate oggi nel codice H. 180 inf., f. v-49 r., della Biblioteca Ambrosiana di Milano, figura un frammento di pianta topografica, senza indicazione di misure; vi si annota che si conserva-va ad Amelia (Umbria, antica Ameria) apud S. Secundum extra urbem Ameriam ad altare. Oggi non v’è più traccia di questo marmo. Disposti secondo la lunghezza, appaiono degli

edifici piuttosto articolati che descriveremo in seguito; al loro interno, ora per lungo, ora per largo, ora in obliquo, sono state incise diverse piccole iscrizioni alle quali il disegnatore rinascimentale sembra aver prestato un’attenzione secondaria rispetto al disegno topografico, a giudicare da alcune trascrizioni poco chiare come SALVSTION o NVMONIA


Mappa del Foro Transitorio


Ne 1995, durante gli scavi che erano allora in corso nell’area meridionale del domizianeo Foro Transitorio, saltò fuori un frammento marmoreo, di circa 30,5 cm × 10.5 e spesso circa 7.5 cm, che rappresenta un grande edificio, con ingresso sul porticato stradale in basso, e con due fronti di tabernae, una delle quali, nell’ordine superiore, presenta una scala interna, disegnata a rettangolo con 3 gradini. L’ordine di tabernae che si trova nella parte alta del frammento, apre direttamente gli ingressi sulla strada, mentre quello della parte bassa li apre sull’ampio porticato a pilastri quasi quadrati, appoggiati ad una linea continua, ove comincia la sede stradale. Al bordo di questa sembrano apparire tre (?) segni tondi, non facilmente interpretabili, ma troppo piccoli per essere delle lettere. Oltre l’asse stradale, in alto, si trova un corpo di tabernae divise in due gruppi da un ingresso. Ancora oltre, si vede una linea, probabilmente di marciapiede, preceduta, a quanto pare, da colonne, come farebbe pensare il segno rotondo, ed una strada solo parzialmente visibile.


L’edificio della parte centrale presenta, in basso, un ingresso che si apre sul porticato e sul fronte stradale; all’interno è rappresentato un cortile, a doppio ordine di pilastri sui lati destro e superiore; il primo pilastro dell’ordine più interno, vicino all’ingresso, è stato utilizzato, probabilmente in un secondo momento, per delimitare un piccolo ambiente, mediante la creazione di un muro continuo in senso verticale, su cui si innesta un setto murario ad L, con stipite presso lo spazio aperto del portico, segnato con un’incisione molto più sottile, tanto da risultare di difficile individuazione. Sembra

chiaro che si tratta di una cella per lo ianitor, ostiarius o portiere del complesso. A destra, oltre il doppio ordine di pilastri, il complesso continua con un lungo ambiente che percorre tutto il lato minore, senza apparenti aperture verso il porticato.


Alcuni studiosi, partendo dalle iscrizioni, hanno ipotizzato che rappresenti una domus patrizia, probabilmente appartenuta agli Appii Claudii.


Ora se le mappa di Sant’Anselmo, Tiburtina e di Perugia, nelle loro peculiarità, ci danno solo indicazioni sull’abitudine dell’epoca di rappresentare mappe sul marmo, le rimanenti, invece sono accomunate da tree cose: la stessa scala, 1 a 240, le stesse

convenzioni grafiche nel rappresentare gli edifici e gli stessi caratteri nel trascrivere le iscrizioni relative alla proprietà.


Per cui non sarebbe peregrino pensare che siano frammenti di un’equivalente della Forma Urbis risalente alla prima età imperiale, magari ispirata a quella che fece realizzare Agrippa. molto probabilmente esposta nella Porticus Vipsania, dove è attualmente la Galleria Sciarra, assieme a una monumentale carta del mondo (Orbis Pictus)


L’edificio,che ospitava statue e opere d’arte, era un duplice portico colonnato, addossato in parte alle arcate dell’Aqua Virgo, come ricorda il poeta latino Marziale e restò in uso almeno fino alla tarda età imperiale. Nel IV secolo il nome del monumento, ricordato dalle fonti documentarie, fu corrotto in Porticus Gypsiani.

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Published on November 28, 2018 14:08

November 27, 2018

Kusayla, l’Artù berbero

TRIBUNUS


Negli anni ’80 del VII secolo, la provincia imperiale d’Africa, riconquistata da circa un secolo e mezzo, sembrava avere i giorni contati.



Già soggetti a continui moti scissionisti da parte di comandanti dell’esercito imperiale, i territori romani del Nord Africa avevano subito le prime invasioni arabe a partire dal 647-648. L’esarca secessionista Gregorio era stato pesantemente sconfitto e ucciso in battaglia dagli Arabi a Sufetula, a poco più di 200 km da Cartagine, e il territorio della Tripolitania (l’odierna costa libica) era stato ormai irrimediabilmente perduto.



Dopo una battuta di arresto all’invasione di poco più un decennio, per disordini interni al califfato, gli Arabi tornarono finalmente all’offensiva nel 665, sotto le direttive del califfo Muawiyah (colui che, non ancora califfo, aveva riportato una vittoria navale contro i Romani alla battaglia di Phoenicus, ponendo fine al controllo assoluto romano del Mediterraneo).



Approfittando del caos venutosi a creare con la morte…


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Published on November 27, 2018 13:46

Alessio Brugnoli's Blog

Alessio Brugnoli
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