Alessio Brugnoli's Blog, page 125
December 29, 2018
San Giovanni dei Lebbrosi
Oggi, diciamola tutta, Palermo mi ha stupito per l’inaspettato e ben gradito caldo, che mi ha fatto rifiorire, tanto che, dopo mesi, sia la tendinite, sia i dolori alla schiena sembrano essere scomparsi. Per festeggiare tale lieta e inaspettato evento, butto giù qualche riga su una delle chiese normanne meno note di Palermo, forse perché posta fuori dal Centro Storico e dai normali circuiti turistici; come molti monumenti della città, lo scoprii grazie a mio nonno, che da esploratore incallito, durante il militare vi capitò per caso.
La chiesa, infatti, si trova nel quartiere Settecannoli, che prende il nome dai lavatoi pubblici fatti realizzare dal comune di Palermo a inizio Novecento, in una delle principali aree dedicate alla coltivazione degli agrumi, assai vicina al Ponte dell’Ammiraglio sul fiume Oreto. Questo ponte di epoca normanna, fu completato intorno al 1131 per volere di Giorgio d’Antiochia, ammiraglio del re Ruggero II di Sicilia; su questo e nella vicina Porta Termini, Garibaldi sconfisse le truppe borboniche il 27 maggio dell’anno 1860, evento permise l’insurrezione e la conquista della città
In origine, sul luogo della chiesa sorgeva una fortezza musulmana. chiamata Yahya, Giovanni in lingua araba, di cui, rimangono resti nel giardino retrostante la chiesa consistenti in tratti di muro e frammenti di pavimentazione. Tale castello, circondato da piantagioni di palme da dattero per uso alimentare, divenne il quartiere generale normanno durante l’assedio di Balarm; probabilmente, come ex voto per la vittoria ottenuta, i Roberto il Guiscardo e Ruggero I di Sicilia vi edificarono, tra il 1071 e il 1085, una chiesa, che, con poca fantasia, dedicarono al Battista.
Per cui, San Giovanni dei Lebbrosi, è forse la più antica chiesa latina della città, ipotesi suffragata dalle affinità con le prime chiese costruite dai normanni in territorio messinese e reggino durante il periodo della Contea (1060- 1130). Ruggero II vi aggiunse un lebbrosario in memoria del fratello Goffredo, che secondo il cronista Goffredo Malaterra era morto di tale malattia e.dotò la chiesa di casali, beni e privilegi, prerogative confermate dal figlio Guglielmo in una pergamena del maggio 1155 conservata nel tabulario della Magione. Sempre Gugliemo vi fece trasferire i lebbrosi ospitati presso le strutture della chiesa di San Leonardo, luogo di culto documentato sull’area dell’attuale convento dell’Ordine dei frati minori cappuccini, il luogo dove si trovano le famose catacombe, strapiene di mummie imbalsamate.
Nel 1219 Federico II di Svevia pone l’amministrazione e la gestione dell’ospedale all’attenzione del precettore della Magione e nel 1221 lo unì in perpetuo all’Ordine teutonico. Nel 1324 è appellato ospedale de infectis,ovvero struttura preposta alla cura e al trattamento delle malattie infettive. Risalgono a questo periodo gli affreschi documentati nel cortile, in particolare una scena raffigurante la Madonna Annunziata ritratta con un cavaliere teutonico genuflesso e orante.
In una lettera datata 23 novembre 1434, re Alfonso V d’Aragona fa riferimento alla chiesa con ospedale adibito a lebbrosario, appellandola chiesa di San Giovanni de’ Lebbrosi. Il sovrano per l’istituzione ospedaliera decretò l’esenzione di tasse e gabelle, rivolse ai Teutonici l’invito ad abbandonarne la gestione pur consentendo tuttavia alla chiesa di restare canonicamente unita alla chiesa della Santissima Trinità del Cancelliere.
Nel 1495 infatti, “l’ospedale di San Giovanni” fu incorporato, con tutti i suoi ricoverati ( lebbrosi, tisici e matti), “all’Ospedale Grande e Nuovo” fondato dal frate benedettino Giuliano Majali, che aveva sede all’interno di palazzo Sclafani. Nel 1495 il lebbrosario fu amministrato dal Senato Palermitano e in seguito trasformato in lazzaretto per le varie epidemie di peste scoppiate a Palermo a partire dal giugno 1575, cominciando al contempo una forte opera di ristrutturazione della chiesa, prima in stile manierista, poi in quello barocco.
Con il tempo però, proprio per la posizione periferica, il complesso cominciò a decadere, tanto che La regina Maria Carolina d’Austria durante una visita compiuta nel 1802, constatando i vetusti e fatiscenti impianti, le condizioni pietose in cui versavano i ricoverati, fece trasferire degenti e l’istituzione presso le strutture dell’Ospedale dei pazzi o tisici ubicato nell’ex noviziato dei Padri teresiani scalzi.
L’esterno non presenta particolari finezze architettoniche, è semplice e privo di decorazioni, ai fianchi si trovano una serie finestre di forma leggermente ogivale delimitate da ghiere a lieve rincasso, decorate con disegni geometrici, realizzati da maestranze islamiche. L’ impianto interno è quello tradizionale basilicale a tre navate, divise da tre coppie di robusti pilastri a sezione poligonale, sui quali impostano quattro arcate dal sesto moderatamente acuto. Le navate, di cui quella centrale più grande rispetto alle due laterali, presentano coperture lignee a capriate, realizzate dal Valenti secondo un’ipotetica “forma originaria”.
Il presbiterio triabsidato e tripartito da due archi longitudinali, ha l’abside centrale preceduto da un breve spazio rettangolare sopraelevato rispetto al piano basilicale, che accoglie l’altare. E’ coperto ai lati da voltine a crociera ed è sormontato al centro dalla tipica cupoletta emisferica, avvolta di rosso intonaco impermeabilizzante, che si raccorda al quadrato d’imposta mediante i caratteristici pennacchi a nicchie rientranti.
Gli imbocchi absidali sono ornati con belle colonnine angolari incassate i cui capitelli erano decorati con iscrizioni arabe di cui qualcuna ancora originale ( opere di maestranze islamiche): sulla destra è visibile un capitello angolare, con iscrizione araba in caratteri cufici ( purtroppo indecifrabili perché abrasi), raro esemplare in Sicilia, di capitello di tipo “omayyade-andaluso”. Al centro della navata principale vi possiamo ammirare un crocifisso ligneo dipinto del XV secolo di particolare pregio.
Insomma, anche sfruttando la nuova linea del tram 1, che capolinea da quelle parti, è un luogo che merita di essere visitato e ammirato
December 28, 2018
Bilanci e buoni propositi 2019
[image error]
Come è tradizione in questo periodo, è tempo di bilanci. Quest’anno, dato che voglio riprendere, in occasione delle vacanze panormite, l’abitudine a buttare giù il diario palermitano, ho deciso di anticipare di qualche giorno tale incombenza
Lavoro
Premesso che vi sono una serie di eventi, dalle decisioni bislacche del governo alle scelte aziendali di crescita e gestione delle risorse umane, che sono fuori delle mie possibilità di azione e che devo accettare per ciò che sono, debbo dire che quest’anno è stato intenso e pieno di sfide tanto impegnative, quanto interessanti.
Tra le tante cose, sono stato in prima linea nel lancio dell’offerta e delle soluzioni Multi Cloud, ritrovandomi pure nel pieno dei report Gartner. Ora, TIM ha uno sproposito di difetti, senza dubbio, ma a differenza della concorrenza, preferisce fare le cose, piuttosto che millantarle negli spot pubblicitari; questo, con limiti, problemi ed errori, che sono umani, la continuano a rendere uno dei principali motori di innovazione del sistema Italia.
In meno di sei mesi, gettando il cuore oltre l’ostacolo, con arrabbiature epiche, olio di gomiti e tanto pensiero laterale, da 0 siamo diventati leader EMEA in tale ambito. Il contributo più importante si è avuto grazie alla collaborazione con Microsoft a supporto di CRUI, la Conferenza Rettori Università Italiane, che ci ha permesso di supportare al meglio il processo di trasformazione digitale delle nostre Università.
Quest’anno abbiamo fornito GPU e potenza di calcolo come se piovesse a laboratori, centri di calcolo e istituti di ricerca: per l’anno prossimo l’obiettivo è mettere loro a disposizione bot, laboratori virtuali e sistemi di intelligenza artificiale. Queste soluzioni, poi, vorremmo estendere anche agli studenti, per rendere loro, con l’aiuto della tecnologia, più semplici le incombenze amministrative e burocratiche.
Scrittura
Come sempre accade, la coperta è corta: se uno dedica tempo, creatività ed energie al lavoro, ha ovviamente meno risorse da dedicare alla stesura dei romanzi. E quest’anno, tranne un racconto spernacchiato da diversi editori, non è che abbia prodotto molto, anche per la difficoltà di raccontare una singolarità, che sta accelerando sempre più; viviamo nel mondo di Gibson e di Dick, solo che si sta mostrando noioso, banale e pacchiano.
Faccio un esempio concreto; abbiamo sistemi evoluti di intelligenza artificiale di riconoscimento immagini e li vogliamo utilizzare per il riconoscimento targhe di chi vuole entrare nel parcheggio aziendale senza scendere dall’auto e beggiare.
Il buon proposito dell’anno prossimo è reagire, terminando il romanzo Come un Tuono d’Estate; appena lo concluderò, sperando di trovare qualche editore disposto a crederci, potrò finalmente dedicarmi agli altri progetti, dal seguito di Navi Grigie alle nuove avventure di Andrea e Beppe.
Arte
Durante le vacanze natalizie, con la scusa degli auguri, tanti amici artisti mi hanno tirato le orecchie, dicendo
“E non fai più il curatore, non ti occupi più cataloghi, ti sei impigrito”.
Non hanno torto, ma come detto altre volte, con tutto l’affetto e la stima per gli amici che si dedicano a tali attività, di cui apprezzo sia i sacrifici, sia i risultati, è una pagina chiusa della mia vita. Che poi, in futuro, si possa riaprire, non lo escludo, mai dire mai…
Però, ad oggi, ho fatto una scelta, basata sulla mia diversa sensibilità, di scendere in strada, per tentare di porre di nuovo l’Arte al Centro della Vita, per incarnare i valori e le utopie di una Comunità e cercare, lottando contro chi ci vuole più vuoti, incattiviti ed egoisti, di costruire un futuro migliore. Consideratela una scelta di campo, perché, anche se farei volentieri a meno, in questi giorni l’Arte è tornata a essere politica e impegno civile.
I buoni propositi per l’anno prossimo saranno i soliti: continuare nella trasformazione dell’isolato di via Giolitti in una galleria d’arte a cielo aperto, cominceremo a metà gennaio, con il nuovo murale dedicato a Gaetano, convincere il Municipio a concedere i permessi per terminare i murales sulla facciata del Nuovo Mercato Esquilino e sempre al Mercato, quando e se l’Arco di Gallieno si deciderà a liberare le ex bacheche pubblicitarie, promuovere una serie di iniziative di Poster Art
Esquilino
E’ inutile dirlo: quest’anno, con Le danze di Piazza abbiamo fatto veramente tanto in termini di Musica, Danza, Solidarietà, Arte e Cultura. E’ inutile dirlo, ma l’obiettivo sarà continuare su questa strada.. Oltre ai tradizionali appuntamenti del Carnevale e della festa di San Giovanni, ci sarebbe anche l’ambizione di realizzare nel Rione, in Autunno, un evento steampunk.
December 27, 2018
Il Mausoleo degli Equinozi
[image error]
A Roma, fra il III e IV miglio dell’Appia antica esiste il cosiddetto Mausoleo o Sepolcro degli Equinozi, la cui prima descrizione risale al buon Piranesi che nel 1748 lo chiamò “Sepolcro ignoto”, ne disegnò la pianta e l’alzato esterno, descrivendolo in questo modo
Tav. XXXVI: «A: Pianta del Sepolcro situato sull’antica via Appia vicino alla vigna Buonamici. B: Ingresso oggi in parte rovinato. C: stanza quadrata con nicchioni nei lati. D: finestre in parte interrate dalle rovine. E: Elevazione. F: Masso fabbricato a corsi di Scagli di Selce con Calce e Pozzolana. G: piano presente della Campagna. H: Travertini, i quali rivestivano tutto l’esterno del Sepolcro. Erano coperti dal terreno (…)».
Descrizione che coincide con quanto determinato dagli scavi eseguiti nel 1930 da Munoz in cui si accertò come l’ingresso principale fosse formato da un dromos di 13 metri di lunghezza e come, costruito in opera quadrata con nucleo cementizio in scaglie di selce, calce e pozzolana, il Mausoleo si datasse al II sec. a.C., probabilmente, per una serie di deduzioni, a cui poi accennerò, all’età di Adriano. Inoltre si confermò con l’esterno, di forma circolare, con un tamburo in muratura del diametro di m. 13,50 circa, fosse coperto da un tumulo, somigliando in piccolo al mausoleo di Cecilia Metella.
Sempre Piranesi disegnò anche una sezione dell’interno, così descrivendola
Tav. XXXVII: «Sezione del Sepolcro antecedente. A: Travertini, i quali vestono le pareti della Stanza, i quali esistono ancora in oggi forse perché non fu facile levarli da lì per causa dei perni B che legando l’un pezzo con l’altro li rendono più stabili (…) uniti a tutta l’opera. (…) da una parte all’altra della volta tre corsi de’ travertini C, i quali oltre a essere fermati a cuneo e legati da perni sono ancora incastrati l’uno con l’altro (…). Tutta la stanza era ornata di finissimi stucchi vedendosi ancora qualche minuto residuo per le pareti».
Il grande architetto, che ben rappresentò l’ambiente quadrato di m. 5,30 circa, con nicchie rettangolari su tre lati, non fece caso a due particolari: il primo, la presenza delle finestre a bocca di lupo, di cui vedremo poi l’importanza e del fatto che la pianta, fosse, in scala, assai simile alla sala delle urne di Castel Sant’Angelo, il luogo più sacro del mausoleo, dove furono custodite le spoglie della famiglia imperiale fino al tempo di Caracalla
La peculiarità di tale sepolcro, che altrimenti rimarrebbe anonimo e da cui prende il nome, è nel suo orientamento astronomico verso l’Equinozio: in quel giorno il Sole entra dalla finestra ‘a bocca di lupo’ situata di fronte all’ingresso, e illumina il centro esatto del pavimento a partire dalle 14:30 circa.
Come raccontato qualche giorno fa, i romani adottarono il calendario solare soltanto ai tempi di Giulio Cesare; per cui, Augusto utilizzò la relativa simbologia, legata ai solstizi ed equinozi, sino ad allora marginale nella religiosità romana, come strumento di propaganda, per evidenziare la ascensio ad astra del genius imperialis. Cosa che tra l’altro si ricollegava anche con l’altro strumento propagandistico della gens Giulio Claudia, il rinnovo della Saturnia Tellus e dell’Antichità Romane; il primo governante a ricevere l’apoteosi è proprio Romolo, nella palus Caprae e Ottaviano si riproponeva proprio come novello Romolo, rinnovatore della grandezza e della maestà dell’Urbe. Per cui lui e Agrippa, con il complesso del Campo Marzio, comprendenti il Mausoleo di Augusto, Pantheon, ara Pacis e il solarium Augusti, costruiti rispettando una serie di allineamenti astronomici, diedero evidenza concreta a tali intuizioni propagandistiche.
Ora, come Augusto si proponeva come il restauratore della pace dopo le avventure belliche di Cesare, lo stesso volle fare Adriano con Traiano, anche per fare digerire al romano medio la rinuncia della Mesopotamia. Per cui, per riproporsi come nuovo Augusto, rilanciò alla grande l’utilizzo di tale simbologia solare. Si appropriò del Pantheon, che, in certo qual modo, funziona anche da grande meridiana solare; orientò astronomicamente il suo Mausoleo, in modo che, in occasione del Solstizio d’Estate, la camera funeraria fosse illuminata, in modo da riprodurre il cammino del Genio Imperiale dal sarcofago al cielo e costruì, in analogia alla Torre di Mecenate all’Esquilino, anche il suo belvedere/osservatorio astronomico, la Torre di Rocca Bruna, in cui i fenomeni connessi alla luce solare avvengono sempre nel Solstizio di Estate.
E il Mausoleo degli Equinozi è frutto del rilancio adrianeo di tale simbologia: mentre l’Imperatore però di identificava con il Sole trionfante, il proprietario seguiva un’altra linea di pensiero. Se la ricolleghiamo, come gli attuali proprietari del Mausoleo, dimenticavo di dire che è una proprietà privata, alla religiosità etrusca, celebrava l’equilibrio tra la vita e la morte. Se invece, in maniera forse più probabile, fosse legato alla religiosità latina, per vicende analoghe ai Saturnalia, l’Equinozio di Primavera si trovò legato per caso a una serie di festività legate a Marte:
Equirria, il 14 marzo, che simboleggiava la ripresa in età arcaica delle attività guerresche, che venivano celebrete con corse di cavalli;
Mamuralia, il 15 marzo, forse il capodanno romano originale, in cui si onorava Mamurio Vetulio, il Dedalo latino, costruttore degli Ancilia, gli scudi sacri appesi nel tempio di Marte, in cui si percuotevaritualmente con dei bastoni un vecchio vestito con pelli di animali.
Agonalia, il 17 marzo, in cui il rex sacrorum sacrificava un ariete nero a Marte.
Tubilustrium, il 23 marzo, in cui avveniva il lavaggio sacro delle trombe il cui suono accompagnava le legioni alla battaglia.
Per cui, è probabile che nel suo piccolo, il proprietario del mausoleo volesse, in polemica con il pacifismo di Adriano, celebrare invece le tradizioni guerriere dell’Urbe
December 26, 2018
Banchetti, polpette e salsicce nell’antica Roma
[image error]
Per riprendersi dagli stravizi culinari di questi giorni, e prima di riprendere la trascrizione di De Re Coquinaria, un piccolo ripasso di come mangiassero gli antichi romani, i cui pasti principali erano tre: ientaculum, prandium, cena. Lo Ientaculum era una frugale colazione, in cui si consumavano gli avanzi della sera procedente, oppure quando questi non erano disponibili, poteva prevedere pane e formaggio, olive e miele, preceduta da un bicchiere d’acqua. Oppure pane intinto nel vino dolcificato, o pane, olio aceto e sale o pane e fichi. Per i bambini, invece, era previsto, come nei nostri giorni latte
e l’equivalente dei nostri biscotti.
Il prandium, come suggerisce il nome, si trattava del leggero pranzo di mezzogiorno, a base di pane, carne fredda, pesce, legumi, uova, frutta e vino, spesso in piedi, accompagnati dal mulsum, bevanda di vino miscelato a miele, antesignano del nostro street food, dato che le pietanze spesso si compravano da venditori ambulanti.
Il pasto principale dei romano era però la cena, che iniziava verso l’ora ottava in estate (le ore 2 del pomeriggio) e verso l’ora nona in inverno, circa le tre, tre mezza di pomeriggio, di solito dopo essersi recati alle thermae, e, per i ricchi, si protraeva anche fino all’alba del giorno successivo. In epoca arcaica i pasti si consumavano nell’atrium, con il solo focolare e lo stipo votivo dei Lari. Con l’estendersi della struttura della domus, il pranzo fu consumato nel tablinum o nel cenaculum.
In età imperiale si diffuse l’abitudine di pranzare nel triclinium. Questo nome era dovuto alla presenza nella stanza di triclinia, cioè letti a tre posti in legno o in muratura, leggermente inclinati dalla parte della mensa, su cui venivano distesi materassi, coperte e cuscini. Nei giorni di festa gli schiavi erano autorizzati a partecipare e si sedevano ai piedi del divano; i figli giovani del dominus stavano sugli scranni posti davanti al triclinio del padre o della madre. Stavano seduti a tavola gli abitanti delle campagne o i provinciali della Gallia.
Se gli invitati a cena superavano il fatidico numero nove, venivano aggiunti altri stibadia (letti a forma di sigma capaci di ospitare dai sei ai dodici convitati) o triclinia fino ad avere un massimo di trentasei posti (con quattro mensae), o di ventisette (con tre mensae). Come già raccontato altre volte, in epoca tardo imperiali, gli stibadia sostituirono totalmente i triclinia.
I convitati dovevano rispettare una gerarchia delle precedenze nell’assegnazione dei posti d’onore. Per chi guardava la sala tricliniare dal lato privo di divani, il meno importante (summus) era posto alla sua sinistra; il medius era posto al centro e l’imus era quello di destra, dove si distendeva il padrone di casa. Ogni divano poi aveva tre posti: summus, medius, imus. Il letto medio era per l’ospite di riguardo e si chiamava locus consularis; l’imus era per l’evergeta – cioè colui che aveva donato il proprio denaro alla collettività – e il summus per i convitati di rango inferiore e per i clientes.
Il cibo e le bevande erano collocati su un tavolo posto al centro della sala dal quale i convitati attingevano direttamente con le mani. Quando il letto ospitava più di tre invitati, questi erano umbrae, cioè compagni che l’ospite o i convitati più ragguardevoli aggiungevano alla mensa per motivi di prestigio. Questi spesso erano accompagnati dagli schiavi di fiducia che sedevano sul divano ai loro piedi (pueri ad pedes): essi dovevano assistere il padrone nel ritorno a casa e prestargli aiuto se fosse stato preso dalla nausea, per il troppo mangiare e bere.
Gli schiavi di casa erano adibiti ai vari servizi di mensa secondo le loro abilità e il loro aspetto: quelli più avvenenti (servi capillati), vestiti con tuniche succinte, portavano i capelli lunghi e avevano il compito di mescere le bevande o trinciare la carne. Questi ultimi generalmente avevano frequentato apposite scuole (come quella di Trifero, ricordato da Marziale, che insegnava ai suoi discepoli come trinciare correttamente attraverso modelli di legno!), per cui non si accontentavano di affettare perfettamente, ma condivano il lavoro con esibizioni sceniche o comiche.
Infine vi erano gli schiavi incaricati della pulizia del locale, vestiti rozzamente e con il capo rasato. I rifiuti poi, in mancanza di piatti individuali, venivano buttati per terra. Abitudine che, a noi contemporanei può apparire strana, ma che all’epoca diede origine anche a una specifica tipologia di mosaico, l’asàrotos òikos, “pavimento non spazzato”, ideato nel II secolo a.C., secondo quanto racconta Plinio il vecchio, dall’artista Sosos di Pergamo, per nascondere i cumuli di immondizia… Probabilmente la Raggi, potrebbe imitare tale usanza, per coprire parzialmente, con la street art, il disastro combinato dall’AMA.
I romani, come mostrato nei peplum, maniavano semi-sdraiati, appoggiandosi sul braccio sinistro, con il destro libero per attingere con la mano nei piatti di portata. Il cibo si portava alla bocca con le dita poiché era precedentemente preparato a pezzi (pulmenta), da cui il detto italiano mangiare a quattro palmenti; raramente erano serviti cibi liquidi che necessitavano del cucchiaio (cochlear). Altre stoviglie usate abitualmente erano i pocula (le coppe), spesso istoriati, e calici di varie forme.
In cucina si usavano specie di scolapasta, soprattutto per le verdure, e pentole di misura diversa e degradante in modo da essere riposte le une dentro le altre nel grande pentolone per l’acqua calda ed infine ricoperte con la teglia più grande usata come coperchio. Per evitare gli inconvenienti di un pasto fatto senza posate, durante i banchetti di gala i convitati indossavano la synthesis, una veste leggerissima che veniva cambiata tra una portata e l’altra; inoltre l’ospite forniva ad ognuno un tovagliolo, ma alcuni preferivano avere il loro personale e pertanto se lo portavano da casa.
Il banchetto si svolgeva in tre momenti distinti: la gustatio, cioè la fase degli antipasti; la cena vera e propria costituita di sette portate o fercula; ed infine le secundae mensae, in cui s consumavano i dolci e. terminato di mangiare ci si recava in un altro triclinio pulito dove si brindava agli ordini del magister bibendi o tricliniarca: per i brindisi agli amici potevano addirittura bere tante tazze quante erano le lettere che componevano i loro tria nomina.
Sempre il tricliniarca decideva in che proporzioni si dovesse diluire il vino, che non doveva mai superare un terzo del totale. Erano inoltre organizzati intrattenimenti per i partecipanti, che dipendevano dalle scelte o propensioni dell’anfitrione: si andava da noiosissime declamazioni filosofiche o poetiche, a le danze lascive di Gades, che non avrebbero sfigurato nei peggiori strips club di Tijuana . Come in alcune zone dell’Estremo Oriente, ruttare a tavola era gradito.
A fine banchetto era uso comune che i convitati raccogliessero gli avanzi nei loro tovaglioli per portarseli a casa e offrire loro apophoreta, cioè doni. In età imperiale era consuetudine che il patrono invitasse il cliente a cena, ma era vizio molto diffuso che gli venissero serviti cibi e vino comuni ed in scarsa quantità. Un editto promulgato da Nerone aveva esonerato il patronus dall’obbligo di provvedere con l’invito a cena al mantenimento del cliente, sostituendolo con un’elargizione di denaro, detta sportula, sufficiente per pagarsi un pasto.
Detto questo il libro secondo di De Re Coquinaria, dedicato a polpette, polpettoni e salsicce
I. POLPETTE. Quelle marine si fanno di aragoste. di gamberi, di calamari, di seppie e di gamberi d’acqua dolce. Condirai la polpetta con pepe, ligustico, cumino e radice di laser. Polpette di calamari: tolte le branchie, le triterai sul tagliere come fai con la carne. Mescola, poi, con diligenza, la polpa nel mortaio con la Salsa e poi dai loro la forma di polpette. Polpette di squille (Cancer Squilla) o di gamberi grossi (Palinurus Vulgaris, è l’angusta): togli la polpa dal guscio e pestala in un mortaio con pepe e ottima Salsa. Fanne polpette.
Come si rinvoltano nell’omento: arrostisci del fegato del porco e togline le fibre. Prima tuttavia pesta del pepe, la ruta, la Salsa. Così fatto gettaci sopra il fegato e trita tutto. Mescola. Mescolerai il trito nell’omento come si usa fare con la polpa. Avvolgi ogni singola polpetta in una foglia d’alloro e sospendila al fumo per quanto tempo vorrai. Quando la vorrai mangiare toglila dal fumo e falla cuocere di nuovo. Altro modo: metti in un mortaio il pepe, il ligustico, l’origano e la maggiorana secchi: versaci sopra la salsa, aggiungi le cervella scottate e trita per bene in modo da non lasciar niente di tiglioso. Aggiungici cinque uova e mescola bene con la Salsa; rovescia il tutto in una padella di rame e cuoci. Quando sarà cotto, versa il composto sopra un tagliere ben pulito e taglia a dadi. Metti in un mortaio il pepe, il ligustico, l’origano ben tritati e mescolati. Falli bollire in un tegame. Quando avranno bollito pesta dei pezzetti di pasta (chi li chiama pane e chi schiacciata) e mescola al trito. Versa nella zuppiera spargendo di pepe e servi in tavola.
Polpette di sfondili o Spugnole (una sorta di conchiglia: Syphonddylus Gaedaropus o Phallus Esculentus): trita gli sfondili lessati e privati delle fibre. Poi tritaci insieme della spelta lessata e mescolaci le uova e del pepe. Avvolgile nell’omento e arrostisci; cospargile di salsa di vino acida e servile come polpette.
Polpette avvolte nell’omento: trita la polpa e mescolala a midolla di pane bianco (è il Triticus hibernum) imbevuta di vino. Pesta insieme pepe e Salsa – se vuoi – e bacche di mirto prive di semi. Forma delle polpettine mettendoci dentro pinoli e pepe. Copri con l’omento e cuoci nel mosto cotto.
II. ALTRE POLPETTE, SOMIGLIANTI A SALSICCE. Polpette ripiene: prendi grasso fresco di fagiano arrostito, indoralo e fanne dadi che metterai nelle polpette insieme a pepe, salsa, vino dolce cotto. Cuoci il tutto in salsa allungata d’acqua e servi. Polpette con salsa allungata: trita il pepe, il ligustico, poco pirero (Anthemis Byrethrum), mescola con Salsa cui avrai aggiunto acqua di cisterna. Vuota un tegame (pignatta) e mettilo al fuoco con le polpette. Riscalda e le darai da sorbire.
Per fare polpette di pollo: prendi 110 gr di fior d’olio (è quello che stilla per primo dal frantoio); 90 gr di Salsa e 15 gr di pepe. Altro modo, sempre di pollo: trita 31 gr di pepe. metti in un calice di ottima Salsa, altrettanto di mosto cotto, 2 bicchieri di salsa e poni il tutto al vapore del fuoco.
Polpette semplici: per una misura di salsa, prendine 7 di acqua, poco sedano verde, un cucchiaio di pepe tritato. Cuoci insieme le polpette e così ti scioglieranno il ventre. Alla salsa allungata aggiungerai i sali già preparati. Polpette di pavone: per prima cosa sappi che fritta la carne perderà la sua durezza. Al secondo posto stanno le polpette di fagiano; al terzo quelle di amiglio; al quarto quelle di pollo e al quinto quelle di lattonzolo.
Polpette di amido: trita pepe, ligustico, origano, poco silfio, poco zenzero, poco miele. Tempera la salsa, mescola e versala sulle polpette. Fai bollire. Quando tutto sarà ben bollito lega con amido denso e dai da sorbire. Altro modo: trita del pepe messo ad ammollare il giorno prima; ad esso aggiungerai la salsa in modo che venga un intriso ben pestato e spesso. A questo unirai dello sciroppo di cotogne che abbia raggiunto, al sole cocente, densità come il miele. Se non l’hai, adopera sciroppo di fichi (quelli della Caria esaltati da Plinio) che i Romani chiamano “colore”. Prendi poi infuso d’amido e succo di riso e cuoci il composto a fuoco lento.Altro modo: spremi il succo da ossicini di pollo e metti in un tegame dei porri, dell’aneto e del sale. Quando saranno cotti, aggiungi pepe. seme di sedano e riso ammollato e ben tritato insieme alla salsa e al passito o mosto cotto. Mescola il tutto e aggiungi alle polpette.
Per fare l’ammorsellato: lessa della spelta con pinoli e mandorle pulite e ammollate in acqua c lavate con argilla da argentieri perché possano diventare candide. Mescola al tutto uva passa, vino dolce cotto o passito, spruzzaci sopra del pepe tritato e porta in tavola nel vaso.
III. VULVETTE (o Ammorsellati) E SALSICCIOTTI. Per fare delle vulvette come se fossero polpette sminuzza la polpa di due porri senza buccia ammollati, unisci del pepe tritato e del cumino, ruta e Salsa. Pestato ancora il composto perché si possa ben amalgamare, mettici grani di pepe e pinoli e batti in un mortaio pulito. Cuoci con acqua, olio, Salsa. un mazzetto di porri e d’aneto. Salsicciotti: con sei tuorli d’uovo cotti e pinoli tagliuzzati amalgama cipolla e porro tagliati e brodo crudo; unisci pepe tritato e mescolando il tutto riempi un pezzo di budella. Aggiungi Salsa e vino e cuoci.
IV. LUCANICHE. Si trita il pepe, il cumino. la santoreggia, la ruta, il prezzemolo, le spezie dolci, alcune coccole d’alloro e la Salsa. Mescola il tutto con polpa sminuzzata: pesta di nuovo il composto con la Salsa, pepe intero, molto grasso e pinoli. Insacca in budella allungandolo per quanto e possibile. Poi sospendilo al fumo.
V. RIPIENI. Trita le uova e le cervella con pinoli, pepe e Salsa, poco laser e con ciò riempi un budello. Lessa. Arrostisci. Servi.Altro modo: cuoci della spelta e tritala. Aggiungi della polpa sminuzzata e pestala con pepe, Salsa e pinoli. Riempi il budello e lessalo. Puoi arrostire col sale e servire intero con la senape; oppure tagliati a fette. Altro modo: purga della spelta e cuocila nel brodo degli intestini e uniscila al bianco dei porri tagliati fini. Prendi la poltiglia, taglia del grasso e dei bricioletti di carne. Mescola tutto insieme. Pesta del pepe, del ligustico e tre uova. Mescola tutto nel mortaio con pinoli e pepe intero. Bagna con la Salsa. Riempi un budello, lessalo e arrostiscilo oppure puoi solo lessarlo. Servi in tavola. Cerchietti d’ammorsellato: riempi il budello con un composto di ammorsellato e arrotondalo. Ponilo al fumo. Quando si colora in rosso, scottalo e ricoprilo di salsa acida di fagiano cui avrai aggiunto del cumino.
December 24, 2018
San Giovanni Theristis
[image error]
In attesa di vestirmi da Babbo Natale, ritorno a parlare dei santi calabro-bizantini: oggi è il turno di San Giovanni Theristis. Sulle sue origini, come spesso accade in questi casi, abbiamo due differenti versioni, ma, cosa strana a dirsi, stavolta non c’entrano nulla le diatribe tra cattolici e ortodossi.
La questione è che abbiamo due bios distinti del Santo. Il primo, in un greco molto popolare e scorretto, e dalla grafia arbitraria, in cui l’autore, per darsi un tono, si è spacciato per Nilo da Rossano, che però ha, dal punto vista filologico, un’importanza straordinaria, dato che contiene in nuce alcuni elementi, che sono attualmente presenti nel grecanico o greco di Calabria. Il secondo, invece, è in elegante greco ecclesiastico più vicino ai modelli classici che al greco bizantino e al neogreco.
Ora i due testi concordano quasi per tutto, tranne che per le origini del Santo. Secondo la versione in lingua popolare, era figlio dell’ Arconte di Cursano. il capo di uno chorion bizantino sito in località Botterio Signore oggi nel territorio di Stilo.
La chorion, era un villaggio, unione di agridion, casali, in cui risiedevano gli stratioti, soldato-colono al quale erano attribuite una proprietà terriera e una carica militare, entrambe inalienabili ed ereditarie. Si trattava in pratica di un soldato a cavallo che aveva l’incarico di equipaggiarsi completamente a proprie spese, sia per il cavallo che per il proprio armamento. Aveva la responsabilità del proprio addestramento, doveva rispondere a tutte le convocazioni e doveva subire le riviste (adnoumion). La chorion svolgeva il ruolo entità giuridica e il livello base con in sui si raggruppano le entrate fiscali. La sua comunità stabiliva inoltre i beni comuni messi a disposizione dei contadini soldati.
A un certo punto, intorno al 995, i saraceni attaccarono Cursano, saccheggiandolo e uccidendo tutti i soldati; donne e bambini furono invece trascinati come schiavi a Balarm, tra cui la madre di Giovanni che, incinta di vi partorì il bambino, che crebbe in ambiente musulmano, ma nella fede cristiana. Citando la traduzione di questo bios
Ma quando giunse a quattordici anni gli disse la madre: “Sappi, figlio, che questa non è la nostra patria, né questo è tuo padre; ma sei figlio di un nobile; ed io fui condotta qui prigioniera di guerra; e tuo padre venne ucciso da questa gente barbara in Calabria nostra patria, nel nostro villaggio di Cursano, presso lo Stilaro, lungo il fiume sopra il monastero del luogo chiamato Rodo Robiano sotto il monte di Stilo; e in quel villaggio è il nostro palazzo e lì abbiamo nascosto i nostri tesori”: e gli indicava il luogo dove li avevano nascosti…
Così munito di una piccola croce, attraversò lo stretto di Messina in una barca senza remi o vela, per poi giungere sino a Stilo. Nel racconto agiografico Giovanni nel viaggio fu avvistato da una galera saracena, ma la barca improvvisamente sarebbe affondata per riemergere miracolosamente fuori dalla vista dei saraceni e approdare a Monasterace.
Invece, più sinteticamente, la versione dotta parla di un santo di origine mora: dato che il vescovo locale gli fece una sorta di duro interrogatorio, per appurare le sue intenzioni e la sua conoscenza della fede, per appurare se non fosse una spia, è quasi certo che fosse un dhimmi o un musulmano convertito, in fuga per evitare la condanna per apostasia.
Così racconta il bios
Il vescovo, per metterlo alla prova, gli disse: << Non puoi essere battezzato, essendo così grande di età, se prima non ti gettiamo una pentola di olio bollente >>. Quello subito con ardore rispose: << Sono pronto a sopportare tutto; sia fatto come vuole la tua signoria, affinché riceva questo santo battesimo: infatti sono venuto per questo >>. Allora il vescovo comandò di porre sul fuoco una pentola di olio a bollire, e stava ad osservare l’ardore del giovinetto: quello eccitava il fuoco, affinché bollisse subito, e quando vide che la pentola già bolliva, incominciò a togliersi le vesti, per gettarsi nudo nella detta pentola. Avendo visto ciò il vescovo che era stato a vedere e ad ammirare la sua audacia corse o glielo impedì, ed avendoIo preso lo portò in chiesa con molto o grande onore, lo battezzò e lo chiamò dal proprio nome Giovanni, e si trattenne li con, lui un numero sufficiente di giorni, in cui lo ammaestrò o gli insegnò le cose della fede.
Tale ipotesi non esclude però un’origine bizantina: buona parte degli impiegati statali del thema di Sikelia passarono, senza troppi problemi e molti senza neppure cambiare religione, al servizio del nuovo padrone islamico, tanto che, nella burocrazia fatimide, l’appellativo al-Siqilli, il siciliano, era tra i più diffusi. Il più famoso di loro fu Jawhar, conquistatore dell’Egitto e fondatore del Cairo.
Dopo il battesimo, Giovanni desiderò diventare monaco basiliano: nei pressi di Bivonci, intorno al 1050 un ricco latifondista di Stilo, Gherasimos Atulinos, per guadagnarsi il Paradiso, fondò su un suo terreno un piccolo monastero, un Katholicon, di cui non sappiamo il nome e di cui divenne il primo Egùmeno, che si trovò alla porta il buon Giovanni
Dati i tempi, in cui vigeva il principio del fidarsi è bene, non fidarsi è meglio, Gherasimos rifiutò tale richiesta: tuttavia, quando Giovanni si presentò accompagnato da ricchi doni, l’Egùmeno cambiò idea. Nel bios popolare, a tale proposito, si racconta
Dopo non molto tempo si ricordò il santo delle parole che gli aveva dette la madre, e rivelò tutto a quei santi padri, e che egli era di quella regione, del villaggio devastato di Cursano, figlio del nobile che era stato ucciso dai barbari, e i tesori nascosti dove era il suo palazzo, e il resto. Un giorno dunque il santo, preso con sé uno di quei santi padri, andarono nel detto luogo e cercarono i suoi tesori; e avendoli trovati, distribuirono tutto ai mendicanti, secondo la regola del loro padre il grande Basilio
Diventato monaco, da buon santo calabrese, Giovanni si dedicò alla penitenza, era sua abitudine farsi il bagno e pregare in pieno inverno in una sorgente d’acqua fredda e a compiere miracoli. Il più famoso fu quello che gli diede l’appellativo di Theristis, mietitore. Come in precedenza, lascio la parola al bios
C’era un nobile in Robiano, che ora si chiama Monasterace, che era benefattore del monastero, e ogni anno usava donare ai santi padri ciò che fosse loro necessario. Voleva una volta il santo Giovanni recarsi da lui, nel mese di giugno e nel tempo della mietitura; prese con sé un piccolo vaso di vino e poco pane e andava. Giunto nei luoghi chiamati Muturabulo e Marone, vide una turba di mietitori che mieteva i campi del detto nobile, i quali, visto il santo, cominciarono a dileggiarlo e deriderlo; ma quello avvicinatosi li abbracciava, e invitandoli diede da mangiare e bere a tutti del pane e del vino che
aveva, e tutti si saziarono, e il pane e il vaso non diminuirono. Visto questo, il santo si gettò a terra ringraziando Dio, e mentre pregava si levò il vento e iniziò a piovere. Tutti i mietitori fuggirono sotto gli alberi. Solo il santo rimaneva a pregare. Terminata la preghiera, vide quei campi mietuti e tutti i covoni legati, e tornò al suo monastero. Cessata la pioggia vennero di nuovo i mietitori a completare il loro lavoro; e trovarono tutto ormai mietuto e legato; ma non videro il santo; ma si recarono a casa del padrone per ricevere il salario, cantando e danzando per strada. Fattosi loro incontro per strada il
padrone cominciò a rimproverarli e svillaneggiarli dicendo loro: “Stolti e pazzi, perché fate ciò? chi vi ha insegnato a lasciare il lavoro a mezzodì in un giorno di mietitura?”, e risposero a lui: “Signore, è tutto mietuto e legato”. Egli disse: “Come è possibile ciò, se neppure per domani mi basterebbero trecento altri mietitori?”, e quelli confermavano quanto detto, che il tutto era andato così. Li interrogò dicendo: “Avete preso forse qualche altro aiuto?”; risposero: “Non abbiamo avuto altro aiuto se non un monaco del monastero, che venne da noi e ci diede da mangiare e bere, poi non l’abbiamo visto
più”. Allora disse quel signore: “Questo monaco per grazia divina ha mietuto i miei campi ed io voglio che questi campi siano suoi”: e consacrò al monastero i detti luoghi di Muturabulo e Marone. Il monastero li ha e possiede fino ad oggi; e per questo miracolo il santo fu chiamato Therestì.
Dalle fonti si ipotizza che Giovanni sia morto intorno al 1060; poco dopo la sua dipartita, il monastero, che aveva acquisito fama e lustro dalla sua presenza, si trovò a gestire la questione dei Normanni, impegnati, con le buone e con le cattive, a ricondurre all’obbedienza romana le sedi vescovili che si trovavano sotto la giurisdizione del Patriarca di Costantinopoli. Ciò comportò sia la graduale sostituzione dei religiosi ortodossi, con altri prelati cattolici posti alla guida dei vecchi luoghi di culto greci, sia la nascita di nuovi luoghi di culto latini.
A peggiorare la situazione nel 1091, Papa Urbano II per dare un ulteriore impulso alla liquidazione dell’ortodossia calabrese, chiamò in Calabria Brunone da Colonia, il quale, nei boschi delle Serre Calabre, fondò la Certosa di Santo Stefano del Bosco, che fu subito, nel 1094, dotata da parte del Conte Ruggero il Normanno, di un vasto territorio, sottratto ai vecchi monasteri basiliani, che dai monti si estendeva sino al mare Ionio, nel quale erano compresi numerosi casali (Bingi, Bivongi, ecc.), mulini, miniere, ferriere, ecc.
Per il controllo di un così vasto territorio, ma ancor più per diffondere il rito cattolico, in opposizione a quello ortodosso, i Certosini fondarono, qualche volta su preesistenti luoghi di culto, numerosi conventi e/o Grange, come quella dei Santi Apostoli proprio vicino al Katholikon di San Giovanni. Nel 1096 viene latinizzata per volere di Ruggero, la diocesi greca di Squillace; di conseguenza il vescovato di Stilo, come pure quello di Taverna, venne assorbito dalla nuova istituzione ecclesiastica perdendo di fatto la propria autonomia. Dopo la morte di Mesimerio, ultimo vescovo greco di Squillace, la situazione era divenuta insostenibile e nei vari luoghi di culto della diocesi regnava una certa confusione; Ruggero preoccupato di tale stato chiamò come vescovo il latino Giovanni, canonico e decano della chiesa di Mileto.
In una situazione di crisi che pareva irreversibile, però accadde qualcosa che fece cambiare idea al capo normanno: la tradizione lo attribuisce a un miracolo compiuto dal Santo nei confronti del figlio, il futuro re Ruggiero. In realtà, il tutto fu causato dal timore che la romanizzazione forzata facesse scoppiare delle rivolte filobizantine.
Il Normanno, quindi, per la grazia ricevuta, si prodigò affinché il monaco. Giovanni avesse una degna sepoltura e che fosse ricordato e venerato in una grandiosa chiesa, “…cum igitur multa necessaria desint templo patris nostri S. Ioannis, Dei auxilio id abundanter providimus”, così recitava l’antico documento, normanno, di finanziamento” della costruzione di un Katholikon.
[image error]
Esso si sviluppò in periodo normanno come uno dei più importanti monasteri basiliani nel Meridione d’Italia e mantenne splendore e ricchezza sino al XV secolo. I suoi monaci erano molto dotti e possedeva una vasta biblioteca e ricchi tesori.
Il monastero cominciò a conoscere in seguito fasi di declino, come tutti i monasteri greci della zona: nel 1457 il visitatore apostolico del Papa ne constatava la decadenza.Nel Seicento una banda di briganti creò molte difficoltà al monastero e nel 1662 i monaci lo abbandonarono definitivamente per trasferirsi nel convento più grande di San Giovanni Theristis fuori le mura a Stilo, dove furono portate le reliquie di San Giovanni Theristis e dei Santi asceti Nicola e Ambrogio.
Al contempo le sue laute rendite, che a seconda degli anni variavano tra i 900 e i 1300 ducati, furono affidate a commendari laici. All’inizio del XIX secolo, in seguito alle leggi napoleoniche, che requisivano i beni ecclesiastici, il Monastero di San Giovanni Theristis divenne proprietà del demanio nel Comune di Bivongi. I primi ad “accorgersi” della esistenza del Katholikon furono, sul finire del sec.XIX, E. Jordan con il suo “Monuments byzantin de Calabre”, pubblicato nel 1889 e C. Diehl nello stesso anno con una pubblicazione su “L’art byzantin dans l’Italie meridionale”.
Un piccolissimo cenno si ha nel 1894 da parte del Croce, che lo cita in un articolo ”Sommario critico della storia dell’arte nel Napoletano” apparso su “Napoli nobilissima”. Nel 1903, è ricordato dal Bertaux, nella sua opera “L’Art dans l’Italie meridional de la fin de l’Empire Romain à la conquete de Charles d’Anjou”, che la definì come “ una costruzione siciliana in Calabria” . In seguito si hanno solo pochi cenni da parte di altri studiosi minori.
Negli anni venti del ‘900 il monastero fu scoperto, in mezzo alla folta vegetazione dell’epoca, dall’archeologo Paolo Orsi, che così ne parla
A settentrione di Stilo una catena di modica elevazione separa le due contigue e parallele vallate dello Stilaro e dell’Assi. A cavallo del valico che collegai due bacini e che dovette essere attraversato da una mulattiera assai malagevole ma altrettanto frequentata nei tempi di mezzo, sorgono le ruine di S. Giovanni vecchio, quasi all’altezza di Stilo, emergenti in mezzo a macchie di neri elci e di verdi querce, e cosÌ segregate dal mondo per la profonda vallata che ben pochi degli Stiletani le conoscono, e nessuno studioso dell’arte le aveva visitate. In questa chiusa e quasi mistica solitudine assai prima del sec. X sorse un umile monastero basiliano….» «….a tanto assurse la sua fama, da esser proclamato «caput monasterium ordinis S. Basilii in Calabria
La proprietà del Monastero passò poi a diversi privati cittadini, che lo adattarono ad uso agricolo. L’abbandono ed alcuni terremoti ne distrussero la navata, ma si salvò l’antica basilica quadrangolare e la parte principale dell’abside che, in quegli anni, venne utilizzata come stalla. Nel 1965 fu “riscoperto” dall’allora sindaco di Bivongi Franco Ernesto, che si adoperò affinché il monastero ed il Katholicon fossero conosciuti e salvaguardati. Gli eredi dell’ultimo proprietario lo donarono nel 1980 nuovamente al comune di Bivongi
Nel 1994 è stato affidato ai monaci greci del Sacro Monte Athos, che con la loro dedizione e pazienza hanno riaffermato il monachesimo greco-ortodosso in Calabria ricreando l’antico luogo sacro con nuove immagini e, grazie agli ultimi restauri effettuati, riscoprendo un antico affresco del Santo, sotto l’intonaco del coro sinistro.
Per vicende interne all’organizzazione della Metropolia greco-ortodossa, negli anni successivi, il Metropolita Gennadios Zervos ha allontanato i monaci ortodossi dal monastero e le chiavi, a causa della temporanea assenza dei monaci, nel mese di maggio del 2007, furono affidate di nuovo all’Amministrazione Comunale di Bivongi, che unilateralmente, con la delibera n. 18 del 2008, ha disposto la revoca della Concessione a causa della mancata custodia del bene, «l’incuria del verde avrebbe potuto favorire l’insorgere di incendi». La Metropolia Greco-Ortodossa è andata in appello contro questa
sentenza, ma la vicenda si è conclusa con la perdita definitiva, da parte dell’Arcidiocesi Ortodossa d’Italia, della custodia del Monastero, il quale, con successiva delibera del Consiglio comunale di Bivongi, n. 19 del 5 luglio 2008, è stato oggetto dell’approvazione di una nuova convenzione con la Diocesi Ortodossa di Romania in Italia. Nel 2008 il Consiglio Comunale ha dato in concessione per 99 anni tutto il complesso Monastico alla Chiesa Ortodossa Romena.
[image error]
Dopo tutte queste complesse vicende, il Katholikon ha un importanza fondamentale nella storia dell’Arte, perché è uno dei prime esempi della sintesi tra arte normanna e bizantina, che sommata all’influenza fatimide, porterà alla grandi costruzioni religiose di Palermo, dalla Cattedrale alla Martorana, da San Cataldo ai San Giovanni dei Lebbrosi.
I resti consistenti che ancora oggi si possono ammirare su un pianoro di piccolissime dimensioni di fronte a Stilo, sono quelli della chiesa abbaziale voluta dal re normanno Ruggero II e consacrata il 24 giugno 1122 dal Papa Callisto II. Nel Katholicon, lungo m. 29,10 e largo m. 11,20, le influenze bizantine si manifestano nella triplice divisione interna degli spazi del presbiterio (prothesis, vima e diakonikon) e nella policromia del tessuto murario esterno che reca tracce di reminiscenze tardo romane e reimpieghi di epoca incerta, mentre le influenza normanne sono presenti nell’impianto basilicale (analogo a quello delle chiese di Santa Maria di Tridetti, Santa Maria della Roccelletta e la Cattedrale di Gerace) e nel verticalismo delle strutture, soprattutto della cupola, simile nella sua veduta iposcopica, a quelle non molto più tarde della chiesa di San Cataldo a Palermo; presenta, infine, ascendenze arabe negli archi acuti intrecciati in mattoni nei motivi murari esterni dell’abside (che costituiscono il primo esempio di tale stile nell’Italia meridionale , nei motivi a dente di sega, nell’arco trionfale ogivale interno e nella trasformazione, del tamburo quadrato in cerchio, del, grazie alle trombe angolari, in ottagono sul quale si erge la cupola.
[image error]
Tuttavia, se il Katholikon è stato recentemente valorizzato, non lo è ancora la grotta in cui il santo si ritirava a pregare e fare penitenza, i cui affreschi sono purtroppo in condizione pietose.
Dicembre 2018 – Gennaio 2019 Le mostre dei Presepi nel Rione Esquilino
Come ogni anno per i cultori dell’arte presepiale segnaliamo le due mostre, ormai tradizionali, nel Rione Esquilino:
a Santa Croce in Gerusalemme
presso la chiesa di Sant’Antonio in Laterano
December 23, 2018
Il quadrato magico del Sator (parte 2)
In Italia, il quadrato magico del Sator è visibile in numerosi luoghi, come ad esempio nei sotterranei di Santa Maria Maggiore, nella certosa di Trisulti,in Ciociaria o a Siena, nell’abbazia di Santa Maria della Scala. In particolare, però, risulta essere particolarmente presente nell’Aquilano, comparendo nella chiesa di Santa Lucia di Magliano de’ Marsi, nella chiesa di San Pietro ad Oratorium a Capestrano e nella cripta della chiesa di Santa Maria Apparente a Campotosto.
[image error]
La chiesa di Santa Lucia, in particolare, risale XIII-XIV secolo, quasi sicuramente per opera delle stesse maestranze che avevano costruito la vicina chiesa cistercense di Santa Maria della Vittoria di Scurcola. Quando, nel XVI secolo, il paese di Magliano diventa indipendente dal vicino centro di Carce, la parrocchia di S. Lucia diventa quella effettiva, andando a sostituire la vecchia parrocchia di S. Martino in Carce. Nel 1570 si trasforma in collegiata, giungendo ad ospitare un abate e sei canonici. Nel 1904 e nel 1915 una serie di terremoto le arrecano enormi danni distruggendola quasi completamente: la
chiesa sarà ricostruita soltanto ventidue anni dopo, nel 1937, cercando di restare il più possibile fedeli all’edificio originario. La facciata, in particolare, è stata smontata pezzo dopo pezzo e poi ricostruita fedelmente attraverso la numerazione dei pezzi.
La chiesa si presenta con una bella facciata recante tre portali di stile cistercense. Sia la facciata sia l’interno, tuttavia, mostrano la coesistenza di diversi stili. L’interno è suddiviso in tre navate, di cui la centrale risulta essere più alta, delimitate da colonne a sezione rotonda su cui si innalzano archi a sesto acuto poggianti su capitelli diversamente ornati. Il grande rosone centrale, collocato probabilmente
agli inizi del Quattrocento, illumina l’aula principale della chiesa. La sua forma è simile a quella del rosone che appare a sinistra sulla facciata della Chiesa di Santa Maria di Collemaggio, a L’Aquila. Il campanile posto al fianco della chiesa, invece, risale a fine Ottocento.
[image error]
La parte superiore della facciata, elevata nel Seicento, si apre un finestrone di forme tardo-rinascimentali, formato da due semicolonne che sostengono una trabeazione orizzontale. Ai lati di tale finestrone sono murate due coppie di formelle duecentesche incassate entro cornici riccamente decorate con girali e foglie d’acanto, raffiguranti figure mostruose, animali e figure umane in rilievo. Nella prima formella sulla sinistra, tra le zampe della figura mostruosa rappresentata, è inciso il quadrato magico del SATOR.
Questi bassorilievi risultano in particolare essere del materiale di recupero, proveniente da un cancello presbiteriale, risalente al XIII probabilmente smontato al seguito del Concilio di Trento, quando l’arredo liturgico delle chiese fu soggetto a pesanti modifiche.
[image error]
Il secondo quadrato magico, è ancora più antico: San Pietro ad Oratorium, che si trova immerso in un boschetto lungo il fiume Tirino, è un gioiello dell’architettura romanica. Sull’architrave della sua facciata, è presente l’iscrizione
a rege desiderio fundata anno milleno centeno renovata.
Ovvero:
fondata dal re Desiderio, rinnovata nell’anno 1100
che ne permette di datare l’origine all’età longobarda. Sempre sulla facciata è presente un blocco di pietra, con il quadrato magico, scritto però all’inverso:
rotas opera tenet arepo sator
Sempre sulla facciata si notano iscrizioni di epoca romana, a testimonianza dell’abitudine comune di riutilizzare blocchi di pietra più antichi trovati nelle vicinanze; ci sono inoltre, anche dei bassorilievi dell’antica chiesa longobarda, che si riconoscono per gli intrecci di vimini, cerchi e rombi. Ai lati del portale due bassorilievi raffigurano San Vincenzo e il profeta Davide; un’altra figura maschile con una corona potrebbe essere proprio re Desiderio.
L’interno, composto da tre navate che finiscono nelle tre absidi con al centro il prezioso ciborio del Duecento, è affascinante per la pulizia e la semplicità della sua pietra liscia e per le antiche pitture dell’abside centrale, dominate dal Cristo che, seduto sul trono e con gesto benedicente, mostra la scritta ego sum primus et ultimus, circondato dai simboli dei quattro Evangelisti (il leone di San Marco, il bue di San Luca, l’aquila di San Giovanni e l’angelo di San Matteo) e da due figure tetramorfe (ossia che assommano i simboli evangelici). Tutt’intorno ci sono le figure bibliche dei ventiquattro vegliardi dell’Apocalisse. Dentro l’abside, in basso sono raffigurati alcuni Santi benedettini mentre la parte superiore è purtroppo andata perduta. L’affresco risale al XII secolo ed è molto particolare perché, come ben si nota, è dipinto con un solo colore rosso ocra.
[image error]
L’ultimo Sator, quello della cripta della chiesa di Santa Maria Apparente a Campotosto, è assai più recente: secondo la tradizione, sarebbe stata costruita per volere della Madonna apparsa il 2 luglio 1604. La leggenda narra di una giovinetta di nome Rosa Angelica Palombi, muta dalla nascita, che trovandosi quel giorno lungo il torrente Rio Fucino a lavare i panni ebbe una divina apparizione, la Madonna, la quale le chiese di tornare in paese e di chiedere a suo zio, che ne era il parroco, di far edificare una chiesa dove ella desiderava, designandone i contorni con la neve. La ragazza si recò in paese e tra lo stupore di tutti parlò dicendo allo zio ciò che la Vergine le aveva chiesto.
Sopra il portale della chiesa, su di una pietra è inciso lo stemma della famiglia degli Orsini; un ramoscello di palma o d’ulivo. In quel periodo infatti Campotosto era feudo di Amatrice dove appunto governava uno dei tanti rami di questa famiglia. L’interno è ad una navata; sulla parete di sinistra due quadri di cui uno rappresenta l’apparizione della Vergine alla giovinetta, sulla destra una tela rappresenta la decapitazione di San Giovanni Battista.
Da qui si scende nella cripta, dove appare il sator, inciso rozzamente nell’intonaco.
Nascondino: l’ermetismo e la filosofia spiccioli di Mercurio Loi
Novolarti Project | Sito web di fumetto, cinema e ludicità alla periferia della rete
Si è soliti acclamare un autore per l’abilita sceneggiatoria, per il carattere dei propri scritti, per il livello e la tempra dei personaggi messi in gioco. Per tutta una serie di variabili, insomma, che tendono a esulare dal livello strutturale della trama, o per meglio dire, dall’oggetto-cardine su cui si basa una storia.
Nel mondo del fumetto italiano lo sanno molto bene i graphic-novelist: da Gipi a Lorenzo Mattotti, passando per Igort, Zerocalcare, Ratigher… tutti autori che fanno della narrazione per immagini un mezzo espressivo, ancorché il prodotto del proprio estro. Un grande “ponte di contatto” verso il lettore, veicolato sia dalla tecnica (suddivisione della tavola, uso del colore, etc.) sia dal genere (autobiografia, giornalistico…). La domanda che molti si pongono è: può un simile discorso valere anche per il fumetto seriale? A parità di trame, personaggi, contesti editoriali e addirittura di autori chiamati in causa, la risposta parrebbe…
View original post 798 altre parole
December 22, 2018
Saturnalia, Solstizio d’Inverno e Natale
[image error]
Come tradizione, in questi giorni leggo in giro parecchi post e commenti che legano tra loro Saturnalia, Solstizio d’Inverno, Sol Invictus e Natale, come se fosse la cosa più lineare del mondo; in realtà a causa del bislacco e conflittuale rapporto che i Romani avevano con il calendario, le cose sono assai meno semplici di quanto appaiano a prima vista.
Ai tempi del Septimontium, la federazione protourbana di pagi, villaggi, che dalla seconda metà del IX secolo a.C. precede il sinecismo che porta alla nascita di Roma, era in vigore un peculiare calendario, che gli annalisti, per sottolinearne l’antichità, attribuiva a Romolo.
Tale calendario, secondo quanto raccontano Ovidio e Macrobio, aveva come primo mese Marzo, nel cui primo giorno si attizzava il fuoco sacro dedicato a Vesta, che forse simboleggiava il rinnovo del foedus che univa i vari villaggi, e terminava a Dicembre.
Di fatto era così articolato
Martius (31 giorni)
Aprilis (30 giorni)
Maius (31 giorni)
Iunius (30 giorni)
Quintilis (31 giorni)
Sextilis (30 giorni)
September (30 giorni)
October (31 giorni)
November (30 giorni)
December (30 giorni)
Con una durata complessiva di 304 giorni. Un calendario, a prima vista fatto apposta per fare venire l’esaurimento a tutti gli studiosi e gli eruditi: da una parte, non rispetta, come evidenziava Macrobio, le caratteristiche specifiche di un calendario lunare, dato che questo dura 354 giorni e ha mesi, detti siderali, di 29.5 giorni. Ancora più labile è il legame con l’anno solare, con i suoi 365 giorni. Gli eruditi latini, consapevoli di tale stranezza, arrivano a ipotizzare che esistessero ben 61 giorni extracalendariali, in cui il tempo non veniva misurato.
Il che, nonostante i prisci latini fossero strani assai, è un’idea parecchio campata in aria: negli ultimi anni, però, alcuni studiosi si sono resi conti due particolari interessanti. Il primo è che tra l’anno romuleo e quello lunare vi fosse un rapporto di 7 a 6, ossia sette anni romulei coincidevano, come numero di giorni, con una piccola approssimazione, a sei anni lunari. Per cui, ogni sette anni romulei, vi era un riallineamento tra i due calendari.
Di conseguenza, è possibile che l’anno romuleo fosse parte di un ciclo più ampio, di 7 anni, che doveva rispecchiare delle motivazioni politico religiose di cui si è persa memoria. Questo spiegherebbe il perché, nel calendario latino, vi fosse una duplicazione delle feste, a febbraio e dicembre legate alla purificazione del Tempo e al passaggio tra il nuovo e vecchio anno: probabilmente alcune erano connesse all’anno romuleo, mentre altre erano legate al ciclo di 7 anni.
Il secondo è legato al cosiddetto ciclo nundinale; i romani del periodo regio e repubblicano adottavano una settimana di otto giorni, i quali erano contrassegnati con le lettere dalla A alla H. Dato che l’anno iniziava sempre con la lettera “A”, ogni data era sempre contraddistinta dalla stessa lettera.
Tale settimana veniva chiamata ciclo nundinale ed era cadenzata dai giorni di mercato, che si svolgevano ogni otto giorni. Essi erano le cosiddette nùndine (dal lat. nundinae, composto da novem nove e dies giorno,) da cui l’aggettivo nundinale per scandire la periodicità settimanale di “nove giorni” (dovuta al conteggio tutto incluso dei Romani, laddove oggi diremmo periodicità di otto giorni). Nell’anno romuleo, vi sono esattamente 38 nùndine.
Per cui i giorni di mercato, in cui i membri dei pagi, i mercanti provenienti da fuori e le genti del suburbio si scambiavano i beni, i giorni fasti e nefasti erano rigidamente regolati e ancorati a un ciclo predeterminato, che si ripeteva uguale in ogni anno romuleo. Ora questo calendario aveva due specifiche peculiarità: la prima, la totale indipendenza delle feste dagli eventi astronomici dell’anno solare. Ad esempio, a seconda dell’anno romuleo, i Saturnalia potevano anche capitare nei pressi del solstizio d’estate o degli equinozi; per cui, il loro significato sacrale era di fatto indipendente da questi fenomeni.
Il secondo, la sua totale inutilità pratica in relazione alle attività concrete della pastorizia e dell’agricoltura: insomma, essendo slegato dal ciclo delle stagioni astronomiche, non dava indicazioni utili su quando seminare o fare la transumanza delle pecore; di conseguenza, alcuni studiosi hanno ipotizzato l’esistenza di un secondo calendario, basato su eventi celesti, di cui si è persa memoria: alcune indicazioni potrebbero essere rimaste nelle numerose attestazioni che rimangono nei poeti e negli trattatisti latini sull’utilizzare le stelle per individuare i periodi di pioggia o di semina.
Per esempio, quando Virgilio afferma nell’Eneide che, con il suo tramonto acronico in novembre, il Orione annunciava un periodo di pioggia, nell’utilizzo delle Pleiadi per individuare l’inizio o la fine dei lavori agricoli, della levata eliaca del Cane Maggiore per indicare il periodo in cui la vegetazione seccava o del tramonto acronico della Lira per individuare il termine delle attività agricole estive.
Con l’evolversi della vita urbana, i problemi legati a tali peculiarità calendariale si manifestarono in pieno: anche per la non perfetta coincidenza del ciclo dei sette anni romulei, che durava 2128 giorni, con i sei anni lunari, che invece comprendevano 2124 giorni, fu decisa la trasformazione, da una figura che la tradizione identifica con Numa Pompilio, del calendario romuleo in un calendario lunare puro, basato su 12 mesi, per un totale complessivo di 355 giorni, aggiungendo i mesi di gennaio e febbraio ai dieci preesistenti. Complessivamente, egli aggiunse 51 giorni ai 304 del calendario di Romolo,
ma, togliendo un giorno da ciascuno dei sei mesi che ne avevano 30 (facendoli così diventare dispari), portò a 57 giorni il totale di quelli che i mesi di gennaio e febbraio dovevano spartirsi. A gennaio vennero assegnati 29 giorni e a febbraio 28. Degli undici mesi con un numero dispari di giorni, quattro ne avevano 31 e sette ne avevano 29. Poiché i numeri pari erano ritenuti sfortunati,febbraio fu considerato adatto come mese di purificazione. Esso fu diviso in due parti, ciascuna con un numero dispari di giorni: la prima parte finiva il giorno 23 con la Terminalia, considerata la fine dell’anno
religioso, mentre i restanti cinque giorni formavano la seconda parte. Tale modifica fu probabilmente realizzata in anno in cui il ciclo romuleo e quello lunare coincidevano
Secondo Macrobio e Plutarco, il calendario numano era così articolato
Ianuarius (29)
Februarius (28)
Martius (31)
Aprilis (29)
Maius (31)
Iunius (29)
Quintilis (31)
Sextilis (29)
September (29)
October (31)
November (29)
December (29)
Tuttavia, vi è una singolare divergenza delle fonti: Ovidio, nei fasti cita un ordine differente: Ianuarius, Martius, Aprilis, Maius, Iunius, Quintilis, Sextilis, September, October, November, December, in fine Febrarius (posto in fondo poiché doveva valere come purificazione prima dell’inizio dell’anno). Il che ha fatto scatenare una ridda di discussioni tra gli studiosi: nulla vieta che nei primi secoli della vita di Roma, questo calendario lunare possa avere avuto delle modifiche e le fonti possano fare riferimento a diversi momenti della sua evoluzione. Sappiamo però che nel 449 a.C Febrarius venne posto dopo Ianuarius e che soltanto nel 153 a. C. si pose il capodanno al primo di Ianuarius.
E’ probabile che con la riforma numana, fossero fissati come punti di riferimento del mese le Calende, coincidenti con la luna nuova, le Nonae, con il primo quarto e le Idi, con il plenilunio. Ora in questo calendario lunare, che senza dubbio più utile per pastori e agricoltori del precedente, manteneva, come l’attuale calendario islamico, l’indipendenza delle festività dagli eventi dell’anno solare; per cui, anche in questo caso, i Saturnalia erano slegati dal Solstizio d’Inverno.
Le cose cambiarono ulteriormente quando avvenne la conquista etrusca di Roma: questi avevano una religione in cui il rapporto con il divino era fondata sul timore (in latino metus). L’individuo, nella concezione etrusca, era in un rapporto di totale sottomissione di fronte alla volontà degli dei, che poteva solamente comprendere e subire. Erano gli dei, infatti, a stabilire il destino degli uomini (e anche quello degli Stati). Unica opportunità concessa agli uomini era quella di scrutare e prevedere anticipatamente il destino attraverso l’individuazione e l’analisi dei segni che gli dei mandavano
periodicamente sulla terra; era inoltre possibile tentare di alterare in minima misura il destino compiendo atti idonei a compiacere le divinità
Ora, l’avere delle feste totalmente slegate dall’ordine cosmico stabilità dall’anno solare, rendeva assai probabile sbagliare il momento più idoneo per eseguire i riti adatti a soddisfare la volontà degli dei. Per cui, ai tempi dei Tarquini si passò a un calendario lunisolare, in cui un calendario lunare, in cui la durata media dell’anno lunare è uguale a un anno solare. Ciò è ottenuto introducendo con una certa periodicità un mese aggiuntivo, che compensa le loro differenti durate.
Nel caso specifico dei romani, tale mese era il Mercedonio, inserito al termine della prima parte di febbraio (la cui durata quindi restava di 23 giorni). I 22 giorni inseriti a cui venivano aggiunti i 5 giorni della seconda parte di febbraio componevano un mercedonio di 27 giorni: le sue none cadevano il quinto giorno e le idi il tredicesimo giorno. In questo modo, non si verificavano cambiamenti nelle date e nelle festività. L’anno intercalare, con l’aggiunta del mercedonio, risultava di 377 o 378 giorni, a seconda che esso iniziasse il giorno dopo o due giorni dopo la Terminalia.
La decisione di inserire il mese intercalare spettava al pontefice massimo e in genere veniva inserito ad anni alterni. Inizialmente il mese intercalare era inserito con lo schema: anno normale, anno con mercedonio di 22 giorni, anno normale, anno con mercedonio di 23 e così via. Successivamente per correggere lo sfasamento della corrispondenza tra mesi e stagioni dovuta all’eccesso di un giorno dell’anno medio romano sull’anno solare, l’inserimento del mese intercalare fu modificato secondo lo schema: anno normale, anno con mercedonio di 22 giorni, anno normale, anno con mercedonio di 23 e così via per i primi 16 anni di un ciclo di 24.Negli ultimi 8 anni l’intercalazione avveniva solo con mese mercedonio da 22 giorni, tranne l’ultima intercalazione che non avveniva: anno da 355, anno da 377, anno da 355, anno da 377, anno da 355, anno da 377, anno da 355, anno da 355. Il risultato di questo schema ventiquattrennale, alquanto complicato, era però di una grande precisione per l’epoca:
365,25 giorni.
Anche in questo caso, come nel nostro calendario ebraico e cinese, le festività erano slegate dagli eventi astronomici dell’anno solare; però, come la nostra Pasqua, l’intervallo di variabilità era assai più ridotto. I Saturnalia ad esempio, variavano tra la fine del nostro novembre e l’inizio del nostro gennaio
Questo in teoria. In pratica, i Pontefici Massimi non erano assai scrupolosi nell’applicare tale ciclo, aggiungendo il Mercedonio a capocchiam; da ciò ne conseguì, nel corso dei secoli, un sempre più crescente sfasamento della corrispondenza tra mesi e stagioni, tanto che all’epoca di Giulio Cesare (I secolo a.C.) i mesi che avrebbero dovuto corrispondere all’inverno cadevano in realtà in autunno. Lo stesso Cesare, una volta rivestita la carica di pontefice massimo, volle porre rimedio allo sfasamento che si era nel frattempo creato, e nel 47 a.C. incaricò un astronomo alessandrino, Sosigene, di
riformare il calendario romano. Sosigene, per correggere lo sfasamento di ben 67 giorni creatosi nel corso dei secoli a causa dell’arbitrio dei pontefici massimi, propose di aggiungere, oltre alla già prevista intercalazione di 23 giorni, due ulteriori mesi all’anno 46 a.C., che dunque fu eccezionalmente di ben 15 mesi (corrispondenti a 456 giorni). Secondo Svetonio, infatti
Rivòltosi poi a riordinare lo Stato, riformò il calendario, che già da tempo, per colpa dei pontefici – mediante l’abuso di inserire giorni intercalari – era talmente scompigliato, che il tempo della mietitura non cadeva più in estate e quello della vendemmia non più in autunno. Regolò l’anno sul corso del sole: esso fu di trecentosessantacinque giorni, e, eliminato il mese intercalare, si inserì un giorno ogni quattro anni. E perché in avvenire, a partire dalle successive Calende di gennaio, il conteggio del tempo fosse più preciso, tra novembre e dicembre inserì altri due mesi; con ciò, l’anno in cui si fissavano queste innovazioni fu di quindici mesi, compreso quello intercalare che, secondo la vecchia norma, era caduto in quell’anno.
In più, per evitare che si riproponesse anche in futuro tale caos, sempre al buon Sosigene l’incarico di definire un calendario solare, il calendario giuliano: con la sua adozione, i Saturnalia furono ancorati al Solstizio d’Inverno, mantenendo però la connotazione sacrale arcaica, legata alla dialettica tra Natura e Cultura e alla liberazione dalla schiavitù del Divenire. Nello specifico, a fissarne definitivamente il periodo di festeggiamenti e la sua durata, compresa tra il 17 e il 23 dicembre, fu Domiziano.
Ora, con la diffusione nel II secolo dell’Apocalisse di Giovanni, qualche intellettuale cristiano romano, affascinato dal ruolo soterologico del Cristo e dal suo essere Signore dell’Alfa e dell’Omega, origine e fine del Tempo, lo contrappose a Saturno; per cui fissò arbitrariamente la celebrazione della nascita di Gesù, che nel resto dell’impero era celebrato in momenti differenti dell’Anno, nei pressi del solstizio d’Inverno.
E’ probabile dalla testimonianza del 204 di Ippolito Romano, grande intellettuale dal pessimo carattere, tanto da essere stato il primo antipapa della storia, in perenne lite, e come dargli torto, con papa Callisto, visti i suoi precedenti come truffatore, la data fosse celebrata il 25 dicembre, per evitare sovrapposizioni con la festa rivale. Problema simile lo ebbe Aureliano, il quale, per accentuare la dimensione sacrale e carismatica del potere imperiale, considerandolo come emanazione dell’Ordine cosmico e detentore di un mandato celeste, riprendendo l’intuizione di Eliogabalo, si inventò il culto
del Sol Invictus, la cui celebrazione, per rispetto delle feste tradizionali, fu sempre piazzata il 25 dicembre, che era nel calendario pagano, il primo giorno libero utile.
Per cui la coincidenza tra le date è frutto di una causalità: ragionando in termini ucronici, se Domiziano avesse fissato i Saturnalia i primi di dicembre, come poteva accadere prima della riforma di Giulio Cesare, avremmo avuto un Natale il 10 dicembre e un Sol Invictus il 21.
Tuttavia. Aureliano ha dato comunque un contributo importante alla questione Natale: oltre ad essere convinto sostenitori della pax deorum, sia per motivi pratici, l’Impero aveva già troppi problemi di suo, che non era il caso di complicarli con controversie religiose, sia per motivi filosofici, probabilmente, come i Severi, riteneva i vari culti misterici come adorazioni dei diversi aspetti del Sol Invictus, e quindi tollerante con i cristiani, riconosceva un ruolo politico e sociale della Chiesa, anche perché il suo patrimonio, all’epoca, cominciava ad essere tutt’altro che trascurabile
Si colloca infatti nel suo regno l’episodio che riguarda il vescovo di Antiochia Paolo di Samosata, che considerava il suo ministero come una professione lucrosa e lo esercitava con metodi più consoni ad un magistrato imperiale che ad un vescovo, senza trascurare una condotta libertina. Lo scandalo destato dalla gestione del suo ufficio non scosse tanto la Chiesa ufficiale quanto le sue eretiche convinzioni in merito alla Trinità.
Venne destituito da due concili ma riuscì a rimanere al suo posto finché, temendo che la questione sfociasse in disordini, dovette intervenire lo stesso imperatore. Lungi dall’addentrarsi in questioni teologiche e in giudizi sull’ortodossia, delegò il giudizio ai vescovi italici, giudicati i più imparziali e rispettabili, e diede immediatamente esecuzione al loro giudizio di condanna di Paolo, costringendolo ad abbandonare la sua sede e ponendo un successore al suo posto.
In più decretò che qualsiasi sede vescovile avrebbe dovuto essere assegnata a chi fosse stato designato dal vescovo di Roma, imponendo di fatto il Primato di Pietro, all’epoca ancora in corso di definizione e di fatto dando il via all’adozione del calendario ecclesiastico dell’Urbe alle altre chiese dell’Impero, con il Natale fissato il 25 dicembre.
December 21, 2018
Today, Tomorrow, To Nino
Come sapete, assieme a la Casa dei Diritti sociali, a Le danze di Piazza Vittorio e a Mauro Sgarbi, ci siamo impegnati a fondo in un progetto per recuperare, tramite la street art, le aree degradate dell’Esquilino. Progetto che al ritorno di Mauro dal viaggio di nozze a metà gennaio prevederà il rifacimento del murale di Gaetano, distrutto dai vandali.
Ma la Casa dei diritti sociali non si occupa solo di questo: è un’associazione di volontariato laico che dal 1985 si impegna a difesa dei più deboli e delle categorie vulnerabili della società, per promuovere una cultura della solidarietà e della partecipazione e per costruire una società in cui nessuna persona viene lasciata sola; cose che, in questi giorni disperati e folli, il Potere vede con il fumo negli occhi.
Ad esempio, da più di 25 anni, attività come il segretariato sociale e la scuola di italiano permettono a rifugiati e richiedenti asilo, a persone senza fissa dimora, a famiglie in difficoltà, a minori non accompagnati e in generale a chiunque ne abbia bisogno, di imparare la lingua, di ricevere orientamento legale, sanitario e ai servizi del territorio, aiutando così il processo di integrazione, basato sul dialogo e sulla valorizzazione delle diverse identità.
Un altro importante ambito di intervento di FOCUS-Casa dei Diritti Sociali riguarda la promozione del diritto allo studio: da oltre dieci anni l’associazione svolge interventi di contrasto alla dispersione scolastica e sostegno all’inclusione sociale di minori e giovani a rischio di esclusione, lavorando in stretto coordinamento con numerose scuole di Roma.
Tale progetto è chiamato “Today, Tomorrow, To Nino” , dove Nino rappresenta simbolicamente un ragazzo che, pur partendo da una condizione di difficoltà, può intraprendere un percorso educativo e di formazione che gli consentirà di investire nel proprio futuro. Nino è l’esempio di come, avendo qualcuno accanto, sia possibile sviluppare i propri talenti e coltivare i propri sogni, anche provenendo da contesti disagiati e si articola in interventi di supporto didattico, potenziamento linguistico per neo-arrivati, laboratori interculturali, tutoraggio scolastico, coinvolgendo un centinaio di alunni in diverse scuole romane.
Per le ragazze e i ragazzi che per situazione economica, familiare, sociale, si trovano in una condizione di particolare fragilità, la Casa dei diritti sociali organizza dei percorsi individuali, in cui i ragazzi sono seguiti con un supporto didattico pomeridiano e sono aiutati con una borsa di studio, che finanzia l’acquisto di libri, tasse scolastiche, abbonamenti dei trasporti pubblici, corsi pomeridiani, attività estive e ogni altra eventuale iniziativa utile al rafforzamento del personale percorso formativo.
Allo scopo di ampliare il numero di ragazzi che possono usufruire di tale borsa di studio, è partito un progetto di crowdfunding su Produzioni dal Basso… Se volete contribuire a tale iniziativa, il link è questo.
Può sembrare una piccola, ma ogni gesto aiuta a costruire in meglio il futuro. Perché, come diceva bene Margaret Mead
Non dubitare mai che un piccolo gruppo di cittadini coscienziosi e impegnati possa cambiare il mondo. In realtà, è quello che è sempre accaduto.
Alessio Brugnoli's Blog

