Alessio Brugnoli's Blog, page 124

January 8, 2019

Santissima Trinità alla Zisa








 


Una delle architetture arabo normanne meno conosciute di Palermo, probabilmente perché spesso chiusa e non accessibile al pubblico, è la cappella palatina della Zisa, la chiesetta della Santissima Trinità. E’ possibile che questa sia anche antecedente allo stesso palazzo: diversi studiosi, basandosi su saggi archeologici compiuti negli anni scorsi, hanno ipotizzato come originariamente nello stesso luogo sorgesse il refettorio di un cenobio bizantino, poi trasformato in moschea a seguito della conquista araba.


In ogni modo, quando Guglielmo il Malo, cominciò il lavoro del nuovo palazzo, decise anche di modificare tale struttura, in modo che fungesse da cappella; è assai probabile che questa fosse collegata alla Zisa con un corridoio monumentale, per permettere al re e ai suoi cortigiani di potersi recare a messa in tutta tranquillità, analogo alla via porticata che in epoca normanna, secondo la testimonianza di Falcando e di Ibn Jubayr, partendo dalla Torre Pisana, collegava il Palazzo Reale di Palermo con la cattedrale.


Un resto di tale corridoio potrebbe corrispondere al civico 42 di Piazza Zisa, è dal 1843 al 1985 sede della Venerabile Confraternita di Maria Santissima Addolorata, riconosciuta legalmente nel 1845 con decreto regio a firma di Ferdinando II re delle due Sicilie, che cambiò sede, passando al 43, a seguito del crollo del tetto di tale struttura.


E’ assai probabile che la cappella, sino dalle origine, fosse consacrata alla Santissima Trinità; in un diploma del 1274 è indicata come Sancta Trinitas de Azisa. 1399, Giovanni Guglielmo Ventimiglia, barone di Ciminna, insediato nell’importante carica di Gran Siniscalco, ovvero l’amministratore delle residenze reali e dei luoghi di delizia e svago del sovrano, intitola la chiesetta a Sant’Anna, in onore della santa alla quale la sua famiglia è particolarmente devota.


Da quel momento in poi, la cappella segue le vicissitudini della Zisa. Diego Sandoval Mira, nel 1759, poco dopo aver ereditato la proprietà della Zisa, chiese ed ottenne che la cappella della SS. Trinità fosse istituita filiale della cattedrale di Palermo: in tale occasione dovrebbe avere ristrutturato il passaggio medievale tra il palazzo e la chiesetta.


Giovanni Antonio Sandoval-Ioppolo,figlio di Diego Sandoval e legittimo proprietario dal 1788 al 1806, decise di costruire, addossata alla cappella, una nuova chiesa, terminata nel 1803, dedicata a Gesù, Maria e Santo Stefano. In tale occasione, l’edificio più antico viene trasformato in Sacrestia. Tutto il complesso passa nel 1844 alle dipendenze della parrocchia di Santo Stefano Protomartire, istituita quello stesso anno con sede nella seicentesca chiesa dell’Annunziata alla Zisa, nella quale è custodita la statua lignea di Maria Santissima Addolorata, della metà del secolo XIX.


Negli anni Cinquanta la Chiesa fu adattata a cinema mentre la Cappella ne costituì il magazzino e in seguito fu adibita a deposito di materiali e attrezzi per l’edilìzia. Dal 1989 ad oggi, nell’ambito di un progetto che prevede il recupero di tutta la vasta area che fa capo al Palazzo della Zisa, la Cappella è stata oggetto di ripetute operazioni di restauro che le hanno restituito dignità e decoro come testimonianza storico-artistica.


Tornando alla Santissima Trinità, questa rispecchia pienamente il sincretismo culturale dell’età normanna: se l’orientamento, con l’abside a oriente, rispecchia la tradizione bizantina, l’aspetto esterno richiama gli elementi dell’architettura fatimide. Da notare come la cupoletta sia forse l’unica che mantenga il colore rosa delle origini, essendo sfuggita ai restauri creativi di fine Ottocento che coinvolsero i vari edifici normanni di Palemo


Il sincretismo è ancora più spinto all’interno: se la navata presenta delle splendide volte a crociera, di ascendenza romanica, la transizione dal vano rettangolare del presbiterio al quadrato su quale si imposta il tamburo della cupola è affidata a mensole portanti a muqarnas, capolavoro di stereometria di matrice islamica. Ciò di fatto la rende un monumento al dialogo, in cui esperienze e culture differenti si arricchiscono a vicenda

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Published on January 08, 2019 08:44

January 7, 2019

La Zisa

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La conquista araba della Sicilia, che negli ultimi tempi, per motivi politici contingenti, è spesso denigrata, ebbe una serie di impatti positivi nel territorio palermitano, con l’eliminazione del latifondo e con lo sviluppo di nuovi sistemi di canalizzazione e di raccolta delle acque, che oltre ad ampliare la produttività agricola della Conca d’Oro, permise la realizzazione ex-novo di palazzi e giardini extra-moenia, tanto che il geografo arabo ‘Ibn Giubair giunse a paragonare Balarm a Cordova, che era la più grande e ricca città dell’Occidente islamico


I normanni, dopo la conquista, pur svuotando i sobborghi, trasferendo la popolazione nel centro cittadino, nell’ottica di aumentare il controllo sulla popolazione musulmana, mantennero la continuità, nella gestione delle aree verdi, realizzando sia giardini di piacere palaziali di uso quotidiano all’interno del tessuto urbano, detti riyâd, sia i parchi extra-urbani destinati alla caccia ed alla coltivazione di alberi da frutto, detti âgdal.


Se il primo è uno spazio naturale astratto racchiuso all’interno di un organismo architettonico, in cui la distribuzione delle aree verdi, delle fontane e degli spazi calpestabili è fondata su specifiche regole geometriche, l’âgdal inverte tale rapporto, dando il primato alla libertà della natura vegetale, presenza di eleganti padiglioni e residenze immerse nella natura.


La Zisa, che spesso è considerata parte dell âgdal del Gennat-Al-Ard, grande parco in cui sono presenti i padiglioni delle Cube: la realtà, forse è più complessa dato che Al-Aziz-dar, lo “lo splendido palazzo” era probabilmente inserito all’interno di un riyâd quadripartito, di cui restano alcune tracce nelle strutture esterne.


Le prime notizie relative a tale palazzo ci sono state tramandate da Ugo Falcando nel Liber de Regno Siciliae, in cui si indica il 1165 come data d’inizio della costruzione della Zisa, sotto il regno di Guglielmo I (detto “Il Malo”). Sappiamo poi da questa fonte che nel 1166, anno della morte di Guglielmo I, la maggior parte del palazzo era stata costruita “mira celeritate, non sine magnis sumptibus” (lett. “con straordinaria velocità, non senza ingenti spese) e che l’opera fu portata a termine dal suo successore Guglielmo II (detto “Il Buono”) (1172-1184), subito dopo la sua maggiore età.


L’appellativo Mustaʿizz è riferito, secondo Michele Amari, a Guglielmo II, anche in un’iscrizione in caratteri naskhī nell’intradosso dell’arcata d’accesso alla Sala della Fontana. Un’altra iscrizione, invece, ben più famosa – in caratteri cufici – è tutt’oggi conservata nel muretto d’attico del palazzo, tagliata ad intervalli regolari nel tardo medioevo, quando la struttura fu trasformata in fortezza. Alla luce di queste fonti, la maggior parte degli studiosi sono concordi nel fissare al 1175 la data di completamento dei lavori del solatium reale.


Il palazzo, concepito come dimora estiva dei re, di fatto è la massima rappresentazione della cultura arabo normanna: da una parte, nella sua stereometria, è ispirato alla lunga tradizione dei dojon normanni, le cosiddette case a torre; dall’altra la sua superficie è alleggerita da una decorazione, basata su arcate cieco, di chiara ispirazione fatimide. Stessa ispirazione che si percepisce nella ricchezza e la estrema complessità’ distributiva degli spazi interni, organizzati con impianto simmetrico intorno alla grande sala centrale della fontana, servita da un lungo vestibolo che corre lungo la facciata orientale dell’edificio su cui si aprono i tre grandi fornici ogivali di ingresso.


Complessità legata sia alla sua funzione di residenza estiva degli Altavilla, che associa spazi di rappresentanza come l’iwan, che funge da sala delle udienze, a spazi privati, come l’harem, i servizi comuni e gli appartamenti reali del primo e del secondo piano, con cui si accede con percorsi differenti sia alle esigenze di refrigerazione e ricambio d’aria degli avanti.


Si tratta, infatti, di un edificio rivolto a nord-est, cioè verso il mare per meglio godere delle brezze più temperate, specialmente notturne, che venivano captate dentro il palazzo attraverso i tre grandi fornici della facciata e la grande finestra belvedere del piano alto. Questi venti, inoltre, venivano inumiditi dal passaggio sopra la grande peschiera antistante il palazzo e la presenza di acqua corrente all’interno della Sala della Fontana dava una grande sensazione di frescura. L’ubicazione del bacino davanti al fornice d’accesso, infatti, è tutt’altro che casuale: esso costituiva una fonte d’umidità al

servizio del palazzo e le sue dimensioni erano perfettamente calibrate rispetto a quelle della Zisa. Anche la dislocazione interna degli ambienti era stata condizionata da un sistema abbastanza complesso di circolazione dell’aria che attraverso canne di ventilazione, analoghe alle torri del vento persiane stabilivano un flusso continuo di aria.


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Il piano terra del palazzo è costituito da un lungo vestibolo interno che corre per tutta la lunghezza della facciata principale sul quale si aprono al centro la grande Sala della Fontana, nella quale il sovrano riceveva la corte, e ai lati una serie di ambienti di servizio con le due scale d’accesso ai piani superiori. La Sala della Fontana, di gran lunga l’elemento architettonico più caratterizzante dell’intero edificio, ha una pianta quadrata sormontata da una volta a crociera ogivale, con tre grandi nicchie su ciascuno dei lati della stanza, occupate in alto da semicupole decorate da muqarnas (decorazioni ad alveare). Nella nicchia sull’asse dell’ingresso principale si trova la fontana sormontata da un pannello a mosaico su fondo oro, sotto il quale scaturisce l’acqua che, scivolando su una lastra marmorea decorata a chevrons posta in posizione obliqua, viene canalizzata in una canaletta che taglia al centro il pavimento della stanza e che arriva alla peschiera antistante.


Il mosaico è costituito da tre medaglioni, quello centrale con arcieri e i due laterali con pavoni disposti ai lati di palme stilizzate. I due arcieri sotto la palma, nell’atto di scoccare la freccia possono essere interpretati, infatti, così come appare nelle antiche religioni orientali, come l’emblema della potenza guerriera e della superiorità militare, l’arco è inoltre, in tutte le culture l’arma regale per eccellenza. Nel mondo islamico l’arco si identifica con la potenza divina che attraverso la freccia elimina il male, l’ignoranza e ogni sorta di negatività. L’arco teso con la freccia indica infine la tensione verso l’altro

e dunque verso il trascendente.


La palma è universalmente considerata come simbolo di vittoria, di rigenerazione e immortalità. Il suo antico e originario significato come emblema della vittoria militare, portata nei cortei trionfali romani è stato successivamente interpretato dalla chiesa primitiva come simbolo della vittoria cristiana sulla morte. Lo stesso vale per il pavone: da una parte, i greci credevano che le sue carni fossero corruttibili, dunque non soggette a degenerazione e decomposizione, resistenti al trascorrere del tempo: per queste ragioni è divenuto sinonimo di immortalità associato inoltre alla regalità e alla gloria e

questo ne spiega anche la sua ampia diffusione nella simbologia antica e nei repertori figurativi dell’iconografia medievale.


Dall’altra, secondo la tradizione islamica, il pavone appare come simbolo cosmico in quanto la ruota raffigura l’universo intero nel suo divenire e pertanto il trascorrere del tempo circolare, immagine della rigenerazione della Natura e della Vita.


Il primo piano si presenta di dimensioni più piccole, poiché buona parte della sua superficie è occupata dalla Sala della Fontana e dal vestibolo d’ingresso, che con la loro altezza raggiungono il livello del piano superiore. Esso è costituito a destra e a sinistra della Sala della Fontana dalle due scale d’accesso che si aprono su due vestiboli. Questi si affacciano con delle piccole finestre sulla parte alta della Sala, affinché, anche dal piano superiore, si potesse osservare quanto accadeva nel salone di ricevimento. Questo piano costituiva una delle zone residenziali del palazzo ed era destinato molto

probabilmente alle donne.


Il secondo piano constava originariamente di un grande atrio centrale delle stesse dimensioni della sottostante Sala della Fontana, di una contigua sala belvedere che si affaccia sul prospetto principale e di due unità residenziali poste simmetricamente ai lati dell’atrio. Questo piano dovette certamente assolvere alla funzione di luogo di soggiorno estivo privato, dal momento che l’atrio centrale scoperto apriva questo luogo all’aria ed alla luce.


Facevano parte del complesso monumentale normanno anche un edificio termale, i cui resti furono scoperti ad ovest della residenza principale durante i lavori di restauro del palazzo, ed una cappella palatina posta poco più ad ovest, dedicata alla Santissima Trinità.


Intorno al 1300, la Zisa fu probabilmente fortificata: a testimonianza di tale trasformazione, fu la costruzione dei merli, che mutilò l’iscrizione cufica dell’attico. Fino al XVII secolo non vi furono ulteriori modifiche, come ci testimonia la descrizione del 1526 fatta dal monaco bolognese Leandro Alberti, che visitò la Zisa in quell’anno. Nel 1624 in occasione della grande epidemia di peste che colpì la città, l’edificio venne utilizzato come deposito di materiale sospetto sottoposto a quarantena. Soltanto un decennio dopo, nel 1635, il palazzo era ridotto così male che fu ceduto gratuitamente a don Giovanni de Sandoval, compratore all’asta dei terreni circostanti, che per ciò ottiene il titolo di principe di Castel Reale.


Sandoval provvide così ad adattare la Zisa alle sue esigenze abitative, per dare all’edificio le caratteristiche tipologiche del palazzo signorile seicentesco: per cui fu aggiunto un altro piano, chiudendo il terrazzo, e si costruì, nell’ala destra del palazzo, secondo la moda dei tempi, un grande scalone, resecando i muri portanti e distruggendo le originarie scale d’accesso.Nel 1808, con la morte dell’ultimo Sandoval, la Zisa passò ai Notarbartolo, principi di Sciara, che ne fecero propria residenza effettuando diverse opere di consolidamento, quali il risarcimento di lesioni sui muri e l’incatenamento degli stessi per contenere le spinte delle volte. Venne trasformata la distribuzione degli ambienti mediante la costruzione di tramezzi, soppalchi, scalette interne e nel 1860 fu ricoperta la volta del secondo piano per costruire il pavimento del padiglione ricavato sulla terrazza.


Nel 1940, poi, le volte e le mura della sala della fontana furono scorciate; inoltre, nello stesso anno le muqarnas, decorazioni tipiche musulmane, furono private del loro rivestimento originale. Nel 1951, la Zisa fu espropriata dalla Regione Sicilia, che incominciò a realizzare piccoli interventi di restauro. Nel 1953/54 fu restaurata per la prima volta la Sala della Fontana dove smantellarono i pavimenti; nello stesso periodo vennero demoliti due balconcini che si sovrapponevano sul fronte. Dopo il terremoto del ’68 la struttura venne abbandonata dalla regione e venne vandalizzata.


A peggiorare la situazione ci fu il cedimento nel 1971 della parte dell’ala settentrionale insieme allo scalone seicentesco e alla facciata settentrionale: l’evento però diede il la allo straordinario restauro architettonico eseguito da Giuseppe Caronia, che riportò l’edificio al suo stato originale nel giugno del 1991. Da quello stesso anno, la Zisa ospita un museo d’arte islamica, in cui sono esposti, ad esempio, eleganti musciarabia (dall’arabo masrabiyya), paraventi lignei a grata (composti da centinaia di rocchetti incastrati fra di loro a formare, come merletti, disegni e motivi ornamentali raffinati e leggeri) e gli utensili di uso comune o talvolta di arredo (candelieri, ciotole, bacini, mortai) realizzati prevalentemente in ottone con decorazioni incise e spesso impreziosite da agemine (fili e lamine sottili) in oro e argento.


Di particolare interesse è una lapide marmorea di forma esagonale con una croce centrale in opus sectile intorno alla quale è ripetuta un’iscrizione in tre diverse lingue (latina, greca, araba) e con quattro differenti caratteri (l’arabo anche in carattere ebraico), eseguita per il sepolcro di Anna (morta nel 1149), madre di Grisanto, prelato di corte, che costituisce una significativa testimonianza del sincretismo culturale che caratterizzò la civiltà della Sicilia normanna, di cui la Zisa è una delle massime espressioni

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Published on January 07, 2019 09:09

January 6, 2019

Il villino Florio

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Nei pressi di Villa Malfitano Whitaker, vi è, poco conosciuto, uno dei gioielli del liberty europeo: il Villino Florio, che a dire il vero, è una parte minimale del complesso delle case di tale famiglia all’Olivuzza, l’attuale piazza Principe di Camporeale, che nell’Ottocento, era l’estrema periferia palermitana.


L’area apparteneva alla tenuta agricola dei La Grua principi di Carini, che nel secondo decennio del XIX secolo la vendettero a Georg Wilding, ufficiale tedesco giunto in Sicilia a seguito di Ferdinando I di Borbone e della prima moglie di Wilding, Caterina Branciforti di Butera. Nel 1841, alla morte di Wilding, la tenuta passò alla seconda moglie, la nobile russa Barbara Schaonselloy, che ne fece unasontuosa dimora, prima di venderla, nel 1864, al marchese Cesare Ajroldi.


Nel 1868 la tenuta fu acquistata da Ignazio Florio, che vi realizzò una sorta di isolato, dedicato alla sua famiglia: vi facevano parte il cosiddetto “Casino Garlero”, venduto al prof. Andrea Guarneri e sostituito negli anni ‘70 del XX secolo da un condominio; il “quarto Grasso”, oggi villino Maniscalco Basile; la “Casina Grande”, col prospetto in uno stile neogotico vagamente ispirato al camuffamento medievale del palazzo Reale e la palazzina Florio. Della proprietà faceva parte anche il palazzo ad angolo con la via Oberdan, che fu la residenza di Ignazio jr. e della moglie, Franca Jacona di San Giuliano,

la celebre Donna Franca.

.

Nella tenuta era compresa una vasta area a giardino, confinante ad Ovest col giardino De Boucard, con le terre dei Lo Verde e dei Dabbene e col parco del duca di Serradifalco; in più dato che Ignazio era fondamentalmente un imprenditore, data anche la vicinanza dei Cantieri Ducrot, ora Cantieri culturali alla Zisa, e le industrie tessili Gulì, nel parco di villa Belmonte alla Noce, trasferite alla fine degli anni ‘90, decise di costruire nei pressi anche, lo stabilimento della Ceramica Florio, demolito alla fine degli anni ‘70.


In più, per darsi un tono, Ignazio nel parco fece realizzare un serraglio, un laghetto, una serra per le orchidee, un chioschetto siculo-normanno e per non farsi mancare nulla,affittò, dalla vicine suore del Sacro Cuore, l’Osservatorio astronomico a forma di tempietto ottagonale con cupola ed il tempietto ionico, che un paio d’anni fa rischiò di essere demolito. Insomma, tutto il complesso aveva la funzione di rappresentare gli splendori di una delle più potenti famiglie italiane dell’epoca, titolare di un impero economico che comprendeva una flotta di un centinaio di navi e spaziava dalla chimica al vino, al turismo e all’industria del tonno.


Tra il 1893 ed il 1898 i Florio decisero di ampliare la loro proprietà, comprando una vasta area verde adiacente alla loro e confinante e ad ovest col grande giardino del generale De Boucard, con terre dei Lo Verde e col parco dei Lo Faso duchi di Serradifalco. Il motivo era assai banale, costruire una nuova casa, in cui piazzare Vincenzo jr, il loro giovane rampollo grande sportivo, donnaiolo organizzatore di eventi (a lui si deve la famosa corsa automobilistica Targa Florio), il cui ritmo di vita, era, come dire, difficile da sopportare per il resto della famiglia.


Alla fine del 1899 i Florio incaricano Ernesto Basile, ormai loro architetto di fiducia, di progettare tale dimora. Basile, per una volta, ebbe carta bianca; da una parte si ispirò alla vicina Zisa, nell’idea antica di un “padiglione di delizia” in mezzo ad un parco romantico, dall’altra all’amore per i viaggi del committente, inserendo nella struttura quasi le tappe di un itinerario: dalle ricurve superfici d’ispirazione barocca, alle capriate di impronta nordica, dalle torrette cilindriche che evocano i castelli francesi alle colonnine romaniche, ai bugnati rinascimentali.


Nelle mani di qualche altro architetto, sarebbe venuto fuori un guazzabuglio inguardabile: invece il genio di Basile partorì un capolavoro, sintesi di eleganza e dinamicità: un vero e proprio tripudio di colonne, logge, capitelli, torrette, merlature, abbaini, vetrate policrome e mura bugnate che conferiscono grande movimento a linee e volumi. All’originalità delle forme architettoniche, decorative e degli elementi strutturali si aggiunge la leggiadra eleganza degli inserti in ferro battuto che vanno dalle ringhiere ai parafulmini, fino ai pinnacoli del gazebo sulla terrazza.


Inseguendo il sogno dell’opera d’arte totale e assecondando le manie della committenza, Basile coordinò anche l’arredo e la decorazione degli interni, lavorando con il meglio che potesse offrire il design di inizio Novecento: il prestigioso laboratorio di ebanisteria Ducrot, le vetrate policrome di Giuseppe Gregorietti, le boiserie e gli arredi lignei delle ditte Muccoli e Golia, le pitture decorative di Giuseppe Enea e Ettore De Maria Bergler, i dispositivi di illuminazione delle ditte Ceramica Florio e Caraffa e gli impianti elettrici della Società Trinacria.


Le meraviglie prodotte da questo team davvero unico di creativi arricchirono di inconsueta bellezza gli interni del Villino articolati su più livelli, ciascuno con una specifica funzione: si va dal “piano degli svaghi”, con la sala biliardo e la sala gioco a livello del parco, al “piano di rappresentanza”, con la sala da pranzo e il grande salone, accessibile direttamente dalla scalinata esterna, al “piano di residenza”, sul terzo livello, accessibile dallo scalone di rappresentanza, con soggiorno e camera da letto.


Dal momento della costruzione in poi, il Villino Florio vivrà una stagione leggendaria con sfarzosi ricevimenti e sontuose feste ospitando il bel mondo dell’aristocrazia non solo palermitana ma anche internazionale, era frequentato abitualmente dal Kaiser Guglielmo II, sino al 1911, anno della morte di Annina Alliata di Montereale, giovanissima moglie di Vincenzo Florio, per cadere quasi nell’oblio fino a quando l’intero parco fu lottizzato ed edificato negli anni tra il 1930 e il 1940.


Nel 1943 Palermo fu duramente colpita dai bombardamenti inglesi ed americani . Il centro storico fu quasi cancellato e ben 40 mila cittadini rimasero senza casa. A questi si aggiunsero, tra il 1946 e il 1955, ben 35.000 persone che si trasferirono in città da tutta l’isola. Palermo era diventata la “capitale” della nuova “Regione a statuto speciale” e attirava tanta gente da tutta la regione. A Palermo c’era lavoro e tanto, ma mancavano le case: una situazione ideale per chi volesse specularci sopra.


Una situazione di cui approfittarono due politici democristiani: Salvo Lima e Vito Ciancimino, che nel 1956 furono eletti consiglieri comunali a Palermo: Lima divenne assessore ai lavori pubblici e mantenne la carica fino al luglio 1959, quando venne nominato sindaco di Palermo, e al suo posto di assessore gli subentrò Vito Ciancimino. Durante il periodo degli assessorati di Lima e Ciancimino, vennero approvate dal consiglio comunale due versioni provvisorie del nuovo Piano regolatore della città ,uno nel 1956 l’altro nel 1959, a cui però furono apportati centinaia di emendamenti e varianti, in accoglimento di istanze di privati cittadini (molti dei quali in realtà erano prestanome di politici e mafiosi).


L’idea base di questo piano regolatore era molto semplice: si evitava come la peste qualsiasi tentativo di riqualificazione del Centro Storico e al contempo, si aumentava in maniera abnorme la cubatura disponibile per le Viale della Libertà- Notarbartolo, e in Contrada Olivuzza. Inoltre alcune borgate vennero stravolte e inglobate da un’espansione edilizia dissennata. In più le opere di urbanizzazione primaria venivano affidate, con gare di appalti pubblici alquanto bislacche, in regime monopolistico allaa Va.Li.Gio, acronimo dei nomi di Francesco Vassallo ( un carrettiere che improvvisamente era diventò il primo costruttore di Palermo) di Salvo Lima e Giovanni Gioia, il leader della corrente democristiana di Lima e Ciancimino.


Di conseguenza, da parte della mafia scattò la corsa per accaparrarsi, a prezzo bassissimo, ottenuto tramite violenza e intimidazione, i lotti di terreno della Conca d’Oro e delle zone liberty e per demolire gli edifici storici, prima che scattassero i vincoli di legge. Qui abbiamo un elenco, parziale, di ciò che fu distrutto.


Il Villino Florio si salvò solo perché dal 1954 esisteva un decreto ministeriale che lo dichiarava di interesse particolarmente importante vincolandolo ai sensi di legge, il che ne impediva la distruzione. I mafiosi, per vendetta, però, appiccarono un devastante incendio, che danneggiò gravemente l’edificio. Solo nel 1981, cominciarono i restauri, che di riffe e di raffe, sono terminati nel 2016, rendendo finalmente fruibile a tutti tale gioiello.


E’ stato bello sentirmi dire, mentre visitavo la Cappella Palatina della Zisa, dal vecchietto che fungeva da custode,


“Signore, andate a vedere il villino, accanto alla farmacia… E’ un gioiello che ci invidiano in tutto il mondo…”.

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Published on January 06, 2019 07:58

January 5, 2019

Villa Malfitano Whitaker

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Per i casi della vita o la legge di Murphy, fate voi, il volo per Roma è patito appena un’ora prima della grande nevicata: se avessi deciso di prendere il volo successivo, come ero intenzionato a fare, probabilmente sarei rimasto bloccato in Sicilia. Il che sotto tanti aspetti, non sarebbe stato neppure tanto male, Palermo innevata è uno spettacolo unico, ma probabilmente, la prossima settimana mi sarebbe toccato lavorare nella sede panormita di via Pacinotti, cosa che forse avrebbe provocato un coccolone al mio ufficio del personale.


Di conseguenza, invece che a fare pupazzi di neve per via Libertà, mi ritrovo nel calduccio della mia casetta esquilina e per ammazzare il tempo, continuo a raccontare dei luoghi visti nei giorni scorsi. Oggi è il turno di villa Whitaker Malfitano. Due parole, dato che sono assai meno noti dei Florio, sui Whitaker. In occasione delle guerre napoleoniche, data la difficoltà ad approvvigionarsi del Porto e dello Sherry, vi fu in Gran Bretagna il boom del Marsala.


Questo provocò l’emigrazione in Sicilia di numerosi inglesi, desiderose di arricchirsi con la produzione e il commercio del vino liquoroso; uno di questi fu Joseph Whitaker senior che si trasferì a Palermo con nel 1819 per collaborare con lo zio Benjamin Ingham. L’attività ebbe così successo, che, per distribuire il Marsala in tutto il mondo, i due crearono una flotta di velieri, che, in qualche modo diede un contibuto al Risorgimento italiano. Nel 1848 la loro nave Palermo venne messa a disposizione del governo rivoluzionario siciliano e nel 1860, mentre Garibaldi con i suoi volontari sbarcava a Marsala, il baglio Ingham – Whitaker e quello di Woodhouse, funsero da base logistica per i Mille.


La villa Whitaker Malfitano fu fatta costruire, in quella che all’epoca era l’estrema periferia di Palermo, nel 1885 dal figlio di Joseph, Giuseppe Whitaker, personaggio di incredibile fascino. Era appassionato di botanica, ma anche di caccia ed ornitologia, due passioni che lo portarono ad intraprendere numerose battute di caccia in Tunisia che erano vere e proprie spedizioni ornitologiche. Raccolse una corposa collezione di oltre 12.000 uccelli, riuniti in una dependance della villa, che divenne il museo privato “Malfitano Museum of Natural History”. Attraverso questa collezione e tutti gli appunti presi, realizzò i due volumi del “The Birds of Tunisia”, pietra miliare dell’ornitologia.


Museo che sua figlia Delia tentò per anni di donare alla regione Sicilia, ma per il disinteresse e l’ignoranza dei politici locali, dovette infine, nel 1968 cedere a Belfast. Altra grande passione di Giuseppe era l’archeologia, che lo portò nell’Isola di Mozia, in provincia di Trapani. Prima colonia fenicia in Sicilia, nel 397 a.C la cittadina fu coinvolta nelle lotte tra greci e cartaginesi e venne rasa al suolo dai siracusani. Dopo la distruzione, venne rifondata sulla terra ferma e delle sue traccia si perse notizia. Giuseppe si innamorò della sua storia e per poterla scavare liberamente, decise di comprarla tutta.

Gli scavi durarono dal 1906 al 1920, ed i tesori trovati fecero parte del museo costruito nella sua casa sull’isola, tutt’oggi visitabile.


Tonando a parlare della villa, questa fu progettata all’architetto palermitano cavalier Ignazio Greco d’Onofrio che realizzò un vero capolavoro di architettura, una delle più belle e affascinanti costruzioni in stile neo-rinascimentale della città, mentre il giardino fu progettato da Emilio Kunzmann, che creò un piccolo orto botanico, esteso per circa 7 ettari, suddiviso in due distinte sezioni: quella lato via Dante è stata coltivata all’inglese, con vialetti che permettono un percorso tra le asimmetrie degli spazi mentre la parte opposta è stata realizzata all’italiana, quindi caratterizzata da spazi disposti geometricamente e in maniera simmetrica intorno alla villa.


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Varcato il porticato si accede al vestibolo da cui si arriva al lungo corridoio centrale con i soffitti affrescati in stile pompeiano e magnifiche decorazioni parietali dove, coerentemente con la ricchezza esteriore, lo sfarzo e il lusso, ma anche il buongusto, si posano su ogni cosa: due elefanti in cloisonnè, provenienti dal palazzo reale di Pechino, che il Whitaker acquistò nel 1887 ad un’asta di Chistie’s, assieme a preziosi dipinti, raffinati oggetti d’arte, cineserie, specchiere e sculture presenti in questo corridoio, danno, ai visitatori, l’ impressione di essere entrati in un piccolo museo. Un vero gioiello, dove tutto è rimasto come ai tempi dei Whitaker, i dipinti, gli arazzi, i salotti, i mobili intarsiati, le specchiere, i lampadari in vetro di Murano, i tappeti orientali, le vetrine con preziose collezioni di porcellane e oggetti d’arte di straordinaria fattura. Ambienti bellissimi e magnificamente arredati che ti avvolgono nella sua eleganza e raffinatezza.


Ogni stanza ha la sua particolarità e tutto è studiato nei minimi particolari: ai lati del corridoio troviamo bellissimi saloni ricchi di affreschi che si snodano uno dopo l’altro, in sintonia con l’uso a cui erano adibiti, in uno di questi saloni, arredato in stile Luigi XV, fa bella mostra un clavicembalo del tardo 700 franco-fiammingo, che in alcune occasioni viene, ancora oggi, suonato. Poi la magnifica stanza da pranzo con i mobili realizzati dalle officine Ducrot, uno dei principali studi di design del Liberty italiano, che aveva come direttore artistico Basile. E ancora il fumoir, locale dedicato ai fumatori, la bella stanza da biliardo e il salone della musica dove si trovano un ciclo di arazzi di provenienza Fiamminga del 500. In particolare, le decorazioni in stucco sono di Salvatore Valenti e gli affreschi che si vedono in giro sono di Rocco Lentini, ora quasi dimenticato, che che all’epoca era uno dei pittori alla moda: suoi sono ade esempio gli affreschi dei teatri Massimo, Politeama, Bellini, della Stazione centrale e del palazzo delle Aquile


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Sulle pareti poi vi sono spesso quadri di Francesco Lojacono, che si può considerare il papà dei macchiaioli siciliani. Il pezzo forte del piano è la splendida “Sala d’Estate”:si tratta di un delizioso salone completamente affrescato, utilizzando la tecnica del trompe-l’oeil, da Ettore De Maria Von Bergler, il più importante esponente della pittura Liberty del primo Novecento., dove entrandovi si ha la piacevolissima sensazione di essere usciti in giardino; su finte balaustre e finti pergolati si attorcigliano piante e rampicanti che ricoprono l’intera superficie della stanza


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Il primo piano era l’abitazione privata dei proprietari, vi si accede attraverso un imponente scalone, coperto da un lucernario con vetri istoriati e con una magnifica ringhiera in ferro battuto alla cui base si erge un leoncino con lo stemma dei Whitaker scolpito da Mario Rutelli. I muri della parte superiore della scala sono letteralmente ricoperti da tre arazzi fiamminghi dove sono raffigurate scene dell’Eneide. In questo piano spiccano il salone d’inverno con al centro una slitta russa del tardo settecento, donata ai Whitaker dallo Zar, e due grandi terrazze una delle quali dotata di una splendida serra. Il secondo piano era riservato al personale femminile di servizio e alla stireria, mentre il personale maschile dormiva nel seminterrato dove erano allocate anche le cucine e il magazzino.

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Published on January 05, 2019 05:34

January 4, 2019

Il Giardino Inglese






Oggi, ahimé, si torna a Roma; già tremo per il freddo che incontreremo al ritorno all’Esquilino. Dopo una mattinata dedicata alle valigie, butto giù un rapido post su uno dei parchi di Palermo, in cui è piacevole passeggiare.


Si tratta del Giardino Inglese, progettato nel 1851 da Giovan Battista Filippo Basile, architetto del Teatro Massimo e padre del più famoso Enrico, uno dei più grandi artisti del Liberty italiano, in cui, invece di realizzare uno spazio geometricamente articolato, il giardino all’italiana, come quello di Villa Giulia, ma assecondando il gusto romantico dell’epoca, decise di seguire le forme e le irregolarità naturali del terreno dandogli un’aria più naturale creando appunto un giardino all’inglese, da cui il nome del parco.


Per rendere l’atmosfera ancora più suggestiva e più esotica, secondo i dettami della moda in quel periodo, furono inserite piante provenienti da tutto il mondo, scelte in collaborazione con il grande botanico palermitano Vincenzo Tineo. Il giardino comprende due parti, separate dal viale della Libertà, nel 1851 viale della Favorita, il Bosco e il Parterre, che i palermitani, per la statua dell’Eroe dei due Mondi, considerano di solito un parco distinto, che chiamano villa Garibaldi.


Nel Bosco, progettato da Basile rispettando le asperità del terreno, è un alternarsi di collinette e piccole valli, attraversato un tempo da sentieri curvilinei in terra battuta e oggi ricoperti dall’asfalto, sono presenti una serie di busti, scolpiti dai principali artisti dell’Ottocento siciliano, dedicati ad Nino Bixio, Pirandello e De Amicis, il quale ha anche un monumento dedicato al suo libro Cuore che richiama la triste storia della piccola vedetta lombarda, che per dirla tutta, con Palermo c’entra come i cavoli a merenda.


Il pezzo forte del bosco sono il tempio arabo-normanno progettato da Ernesto Basile (figlio di Giovan Battista Filippo), dove ammirare la scultura di marmo di Benedetto Civiletti in onore ai “fratelli” Canaris a Sciò, due eroi della rivolta greca contro gli Ottomani, che fecero saltare con un brulotto l’ammiraglia turca nei pressi dell’isola greca e la grande fontana centrale, con la scultura di Mario Rutelli, nonno dell’ultimo sindaco decente di Roma, che ritrae bambini che giocano.


Nel Parterre ora dedicato alla memoria dei giudici Falcone e Morvillo, come dicevo è presente il monumento equestre a Giuseppe Garibaldi, inaugurato nel 1891 in occasione dell’Esposizione nazionale che si tenne in quell’anno a Palermo, scolpito da Vincenzo Ragusa, il monumento è arricchito da due rilievi (Lo sbarco a Marsala e La battaglia al ponte dell’Ammiraglio) e dal Leone di Caprera realizzati da Mario Rutelli.


Accanto al monumento ai caduti a Cefalonia è stato eretto un cippo in memoria di Pompeo Colajanni (1906 – 1987), il liberatore di Torinoo in cui è inciso:


«Pompeo Colajanni, comandante “Nicola Barbato” 1906-1987, partigiano, contribuì alla liberazione dell’Italia dai nazifascisti e al riscatto della Sicilia.»


Tra le piante, spiccano i giganteschi ficus magnoliodi, che di fatto sono uno dei simboli della città, palme di ogni tipo, alberi del drago, alberi della fiamma e il baniano sacro, che, senza strane vestizioni e cerimonie psedoindù, cresce meglio a Palermo che al Nuovo Mercato Esquilino.

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Published on January 04, 2019 02:36

January 3, 2019

Santa Maria dello Spasimo

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Uno dei luoghi più affascinanti di Palermo è la chiesa di Santa Maria dello Spasimo, nella Kalsa, la cui costruzione fu voluta intorno al 1506 da Jacopo de Basilicò, un ricco giureconsulto di origini messinesi, in che tale modo desiderava rispettare le ultime volontà della moglie Ilaria Resolmini, nobildonna di origini pisane, che nel testamento aveva chiesto di erigere una chiesa dedicata al dolore immenso di Maria, che soffre dinanzi al figlio che crolla sotto il peso della Croce sulla via del Calvario. Il de Basilicò, esimio uomo di legge, reduce da un viaggio in Terra Santa, donò quindi ai padri

Olivetani di Santa Maria del Bosco, “un tenimento di case, vigne e giardino di sua proprietà ai margini del quartiere della Kalsa, per l’edificazione di una Chiesa con annesso convento”


Quel terreno di sua proprietà si trovava a 60 passi da Porta dei Greci, come la chiesa armena del VII sec. dedicata a Nostra Signora dello Spasimo di Gerusalemme era a 60 passi dalla Porta Giudicarla, secondo quanto è descritto nella settima stazione della “Via Crucis” che vede la seconda caduta di Cristo sulla via del Calvario. Inoltre il buon Basilicò, teorico del fidarsi è bene, non fidarsi è meglio, per impedire che i frati utilizzassero per alti scopi i suoi denari e per rendere più veloci i tempi di costruzione , stabilì delle precise scadenze entro cui dovesse terminarsi l’opera di edificazione

dell’Abbazia, frazionando inoltre la sua donazione in danaro in rate annuali.


Probabilmente, però fu troppo malfidato; gli Olivetani cercavano da decenni di tentare di realizzare una grande chiesa a Palermo: per cui si misero di buona lena per realizzare i desideri di Basilicò; il 21 maggio del 1509 una Bolla di Papa Giulio II autorizzava la donazione del de Basilico per l’edificazione di una chiesa con “campanile, campana, cimitero, chiostri, refettorio, dormitorio, orti, orticelli e varie officine per la necessità dell’ordine”. Sempre nel maggio del 1509 a Siena l’abate generale dell’ordine di Monte Oliveto, frate Tommaso Pallavicino, dato che si volevano fare le cose in grande autorizzava il monastero di Santa Maria del Bosco a concedere in enfiteusi l’antica “gancia” di Santa Barbara, di proprietà dell’ordine, per un canone minimo di cento ducati annui, nell’intento di garantire ulteriore copertura finanziaria al progetto edificatorio del complesso.


Facendosi trascinare dall’entusiasmo, però i frati si lasciarono prendere la mano ed esagerarono nelle specifiche di progetto, tanto che i numerosi terreni donati dal Basilicò, che all’inizio sembravano sufficienti, risultarono invece inadeguati. Nel marzo del 1517 “donna” Eleonora del Tocco concesse agli Olivetani i suoi terreni vicino al monastero ” … situm et positum extra Portam Grecorum in frontispicio supra dicti monasteri, contiguum cum lu spuntuni dicte Porta Grecorum tendenti versus ecclesiam Santi Herami, … ” che si sommarono ai terreni già ricevuti.


La conferma dell’insufficienza dei terreni donati dal Basilicò si evince da una supplica dell’Abate Nicola da Cremona in cui inoltre si legge “… et ancora accaptari altri jardini et terreni circum circa ditto monasterio per ordinari et fari quillo secundo si digia fare et l’ordini richidia ipso masterio ... “. Dalla medesima lettera di supplica del 1536, si deduce anche il criterio seguito per l’esecuzione del programma edilizio e lo stato di avanzamento dei lavori in tale data, in cui il dormitorio ed i chiostri erano in via di definizione, come si evince dalle parole dell’ Abate Cremona: “.. et incomenzato lo detto

Monast. et fatto lo modello et ordinato il corpo di la ecclesia cum soi cappelle, choro et altri circum stancii, dormitori inclaustri et infirmaria et soi chiano multo ben ordinato, zoe lo corpo di la ecclesia, undi est jam quasi in expedicioni lo dormitorio e li inclaustri…”


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Secondo le volontà della Resolmini la chiesa avrebbe dovuto essere terminata entro sei anni e proprio dopo sei anni, nel 1515, lo stesso Basilico commissionò per il convento dello Spasimo a Raffaello il quadro “Andata al Calvario”, meglio conosciuto come lo “Spasimo di Sicilia” per la figura della Madonna che soffre, “spasima” dinanzi al Cristo sofferente, che come racconta il buon Vasari, ebbe come dire, un trasloco assai complicato. Ovviamente, dato che l’aretino spesso ci da di fantasia, il brano de Le Vite deve essere preso con le molle…


Fece poi Raffaello per il Monastero di Palermo detto Santa Maria dello Spasmo, de’ frati di Monte Oliveto, una tavola d’un Cristo che porta la Croce, la quale è tenuta cosa maravigliosa. Conoscendosi in quella la impietà de’ crocifissori che lo conducono alla morte al monte Calvario con grandissima rabbia, dove il Cristo, appassionatissimo nel tormento dello avvicinarsi alla morte, cascato in terra per il peso del legno della croce e bagnato di sudore e di sangue, si volta verso le Marie, che piangono dirottissimamente. Oltre ciò si vede fra loro Veronica che stende le braccia porgendogli un panno,con affetto di carità grandissima.


Senza che l’opera è piena di armati a cavallo ed a piede, i quali sboccano fuora della porta di Gerusalemme con gli stendardi dalla giustizia in mano, in attitudini varie e bellissime. Questa tavola, finita del tutto, ma non condotta ancora al suo luogo, fu vicinissima a capitar male, percioché, secondo che dicono, essendo ella messa in mare per essere portata in Palermo una orribile tempesta percosse a uno scoglio la nave che la portava, di maniera che tutta si aperse e si perderono gli uomini e le mercanzie, eccetto questa tavola solamente che, così incassata come era, fu portata dal mare in quel di Genova; dove ripescata e tirata in terra, fu veduta essere cosa divina e per questo messa in custodia, essendosi mantenuta illesa e senza macchia o difetto alcuno, percioché sino alla furia de’ venti e l’onde del mare ebbono rispetto alla bellezza di tale opera, della quale, divulgandosi poi la fama, procacciarono i monaci di riaverla, et appena che con favori del Papa ella fu renduta loro, che, satisfecero, e bene, coloro che l’avevano salvata. Rimbarcatala dunque di nuovo e condottala pure in Sicilia, la posero in Palermo, nel qual luogo ha più fama e riputazione che ‘l monte Vulcano».


Essendo un’opera destinata a una committenza secondaria, Palermo era assai distinte dalla Roma Pontificia, a dire il vero Raffaello non si sprecò molto: impostò lo schema generale del dipinto, completò le figure del Cristo e della Madonna e lasciò il resto del lavoro ai suoi collaboratori, tra cui Giulio Romano, Penni e Polidoro da Caravaggio. Inoltre, cercando di assecondare il gusto locale, riempì l’opera di patetismo, con imandi al gusto nordico, come la Piccola e la Grande Passione di Dürer, e di concitazione michelangiolesca, tali da anticipare il manierismo. Cosa che piacque assai in Sicilia, tanto che l’Isola in breve tempo fu riempita di repliche e variazioni del quadro. Il più famoso è L’Andata al Calvario dei Catalani di Messina, realizzata da Polidoro da Caravaggio, che è la primapala d’altare in cui il mondo degli umili frana sulla scena alta del teatro sacro, in una voluta e provocatoria contaminazione dei generi.


Il quadro, come la maggior parte dei capolavori palermitani, dalla Natività di Caravaggio al ritratto di donna Franca di Boldini, non ebbe pace… Acquistato segretamente nel 1661 io fu donato al re spagnolo Filippo IV dal vicerè di Napoli don Ferdinando Fonseca e Toledo Conte di Ayala perché intercedesse in una discordia tra i Padri Olivetani e l’abate del monastero di S. Spirito. Ma una lettera conservata all’Archivio di Stato di Palermo racconta una storia leggermente differente. In essa la corte spagnola si impegna a pagare al monastero una pensione annua di 4000 scudi e al Priore Padre Clemente Staropoli la somma di 500 scudi in cambio del prezioso dono (ma la cifra pattuita fu pagata forse solo in parte).


Il priore si era quindi fatto corrompere e, fatta realizzare una copia, aveva consegnato il dipinto al vicerè Ferdinando de Ajala che lo aveva inviato al Re Filippo IV per arredare la cappella del Palazzo Reale. L’abate Staropoli fu nel 1666 destituito dalla carica con l’accusa di cattiva amministrazione. Il dipinto salvato dall’incendio del reale Alcazar di Madrid del 1734 fu posto dal 1772 nella cappella del Palazzo  reale di Madrid, dove il Mengs lo vide nel 1784. Venne trasferito a Parigi nel 1813 a seguito delle razzie napoleoniche e là fu trasportato da tavola su tela, ad opera di François-Toussaint Hacquin e di Feréol de Bonnemaison. Tornò in Spagna solo nel 1818 e documenti ne attestano la presenza nel 1837 all’Escorial. Dal 1857 ha trovato la sua collocazione in una delle sale più importanti del Museo del Prado


Tornando alla chiesa, l’incarico di progettare il tutto fu affidato a fu Antonio Belguardo da Scicli, architetto, per la visione fiorentino centrica della Storia dell’Arte, poco noto fuori da Palermo, ma che fu uno dei principali esponenti del primo Cinquecento palermitano, succedendo a Matteo Carnilivari. Belguardo, tra le tante cose, terminò la costruzione della Catena e di Palazzo Abatellis e che nel caso dello Spasimo, si impegnò nella realizzazione dei principali elementi strutturali (archi, volte e modanature in pietra) della chiesa, i cui caratteri architettonici rappresentano quasi un unicum nel

panorama costruttivo siciliano, unendo spunti tratti dal gotico iberico e tedesco, con una planimetria che ricordava le chiese arabo normanne.


I primi, ad esempio, sono visibili nell’abside, di forma poligonale, con una volta a stella. Gli spigoli rimarcati da snelli bastoni, si compongono nella costolatura della volta per concludersi nella chiave a goccia. Gli elementi iberici, invece, sono evidenti nelle navate lateriale, suddivise in campate separate da archi a pieno centro e coperte da volte a crociera ogivali costolonate o nell’ostentato rifiuto di utilizzare le colonne. Infine, gli elementi normanni sono nella pianta, che richiama il duomo di Cefalù e di Monreale, nel previsto esonarcete e nella cappella De Basilico, coperte da una cupola sorretta da

nicchie, in cui Belguardo lanciò una sorta di moda che si diffuse rapidamente in tutte le cappelle gentilizie palermitane.


Purtroppo, la sfiga si accanì sul cantiere della chiesa: Nel 1535 Solimano II minacciava di assalire la città di Palermo, così il viceré di Sicilia don Ferrante Gonzaga decise di potenziare le difese militari dell’isola facendo costruite cinte murarie bastionate e baluardi, affidando l’incarico all’ingegnere militare bergamasco Antonio Ferramolino che per proteggere al meglio la città proporrà cinque baluardi secondo il seguente modo che traiamo dagli ordini impartiti nel 1536:


“ …et primo lo belguardo di lo Spasimo,…..et appresso successive lo belguardo ordinato a torri tunda, et poy lo belguardo ordinato a la porta Mazara, et appresso si seguirà laltro belguardo a la porta di  Santagati, et lultimo sia quillo ordinato a lo ribellino di tri tundi in menzo la porta di San Giorgi et la porta Carini…”


Insomma, il convento e la chiesa dello Spasimo si trovavano proprio in mezzo al nuovo bastione… Per cui, a partire dal 1537 iniziarono i lavori di adeguamento per le nuove esigenze militari sul fianco meridionale della chiesa per rafforzare le mura. A occuparsi dei lavori di rinnovamento delle mura fu chiamato dal 1536 al 1540 lo stesso Antonio Belguardo,nel frattempo assurto ad architetto reale.Furono abbattuti parte del campanile della chiesa dei chiostri e delle stanze dei monaci stravolgendo la configurazione dell’intera struttura e rendendo praticamente invivibile il complesso.


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Di conseguenza dovettero andarsene nel 1573, dopo che questo era stato definitivamente acquistato dal Senato per la somma di 4000 once nel 1569; in compenso abbiamo dei più integri e begli esempi di ripari misti, di muratura e terra, progettati dagli strateghi e Ingegneri militari del XVI sec., anche se, purtroppo, ben poco valorizzato. Tra l’altro, per chi può essere interessato, una porzione di tale bastione è tutt’ora in vendita a privati.


Il complesso fu trasformato in magazzini municipali, mentre, tra il 1582 ed il 1692, la chiesa divenne il primo “teatro pubblico” della città, per volontà del vicerè Marcantonio Colonna, il vincitore di Lepanto, che vi fece rappresentare l’Aminta di Torquato Tasso proprio nel 1582. In seguito vi si tennero rappresentazioni di carattere storico, religioso e mitologico. Nel 1593 sotto la direzione dell’architetto del Senato Giovanni Battista Collipietra molti degli ambienti dell’ex convento furono trasformati in magazzini di cereali e successivamente in albergo dei poveri e “deposito di mendicità”.


Durante la grave epidemia di peste del 1624, quella di Santa Rosalia, una parte degli edifici fu trasformata in lazzaretto. Agli inizi del XVIII secolo il complesso versava già in condizione di grave degrado; infatti nel 1718 Don Antonino Mongitore erudito e storico del ‘700, visita la chiesa descrivendone le condizioni e l’uso in una relazione scritta corredata da due sommari schizzi a penna e la colloca tra quelle dirute.

.

A partire dal 1835 ad opera del Principe di Palagonia vennero apportate modifiche agli edifici per assolvere alla nuova funzione di ospizio di mendicità e di nosocomio. Nella navata scoperchiata fu realizzato un giardino; sopra le cappelle laterali al primo piano vennero costruite le stanze ospedaliere; negli spazi delle cappelle fu realizzata una piccola chiesa. Dopo l’Unità d’Italia parte dei magazzini che in precedenza erano stati utilizzati come granai vennero trasformati in deposito di merci varie, compresa la neve proveniente dalle montagne che veniva utilizzata per rinfrescare le bevande e per

realizzare gelati. La funzione ospedaliera fu mantenuta fino al 1986, prima come sifìlicomio, l’ospedale per le prostitute malate di sifilide, quindi dal 1888 come pertinenza dell’Ospedale Civico, dal 1898 con la denominazione di Ospedale Principe Umberto, in condizioni poco consone ad una struttura sanitaria. Nel 1931 l’alluvione provocò i primi danni alla chiesa che i terremoti del 1940 e del 1968 contribuirono ad accentuare. Alla fine del secondo conflitto mondiale, la chiesa venne utilizzata come deposito di materiale artistico proveniente da palazzi e chiese della città danneggiate dai

bombardamenti e punto di raccolta di materiale lapideo da catalogare.


Per anni cadde nell’oblio rimanendo praticamente in condizioni di semiabbandono insieme a quel che restava delle fabbriche adiacenti fino al 1988, anno in cui cominciarono i primi interventi di sgombero e sistemazione, seguito poi da un vasto lavoro di restauro e di ripristino dell’intero complesso, in cui ha sede una delle più importanti realtà del jazz italiano, la Fondazione Brass Group

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Published on January 03, 2019 10:17

January 2, 2019

La Magione





Questa chiesa insieme all’annessa abbazia fu fondata sul finire del XII secolo da Matteo D’Aiello, cancelliere di Tancredi, l’ultimo Re normanno, che proprio da Matteo, nel 1190, aveva ricevuto la corona regia, secondo la testimonianza di Riccardo di San Germano “est per ipsum Cancellarium coronatus Rege. Matteo, originario di Salerno, la cui carriera burocratica coprì tutta la fase della dinastia degli Altavilla, ebbe forse l’ispirazione dal fatto che il fratello Costantino fosse abate dell’omonima abbazia di Venosa, che era il sacrario dinastico della prima normanna.


Per risparmiare tempo e denaro, Matteo riadattò un complesso risalente al periodo islamico, consistente in una moschea di età fatimide e di una porzione delle mura interne alla Kalsa, imitando quanto fatto ad esempio nei primi tempi della conquista normanna con Santa Maria Pinta o con la Cattedrale.


Come risultato di tali lavori, la chiesa e il monastero della Trinitù occuparono un ampio settore urbano “infra moenia in civitate panormi”, (dentro le mura della città di Palermo) con edilizia rada, dove risultava l’unica emergenza architettonica del posto, ed era circondato da un grande giardino (“viridarium magnum”) cosi vasto, che nei periodi di carestia, veniva piantato a grano per sfamare la popolazione. Inoltre, asssegnò la struttura ai ai monaci Cistercensi che S. Bernardo di Chiaravalle, per istanza dell’amico Re Ruggero, aveva mandato in Sicilia anni prima, che, nella lotta che contrapponeva Tancredi di Lecce a Enrico VI di Germania, si era schierati con l’ultimo degli Altavilla.


Sappiamo come nel 1194, i lavori di costruzione dovessero essere quasi terminati: da una parte, in quell’anno, Tancredi fu sepolto in tale chiesa, dall’altra era operativo l’archivio. Quando nel 1197 l’Imperatore svevo Enrico VI, padre di Federico II, prese definitivamente il potere, i cistercensi furono cacciati a pedate e il loro posto fu preso dai cavalieri teutonici, più fedeli agli svevi. Da questo momento la chiesa assunse il titolo “Mansio Sanctae Trinitatis“, divenendo la casa dei Cavalieri Teutonici, cioè la “mansio theutonicorum”, da cui il nome Magione. E cosa che a noi moderni sembra strana, dato che siamo abituati ad associare tale ordine cavalleresco al Nord Europa, per diverso tempo Palermo fu anche sede della loro casa generalizia.


Nella seconda metà del ‘400 il vicerettore dell’Ordine Teutonico Leonardo Mederstorsen e l’arcivescovo Simone da Bologna si fecero promotori dell’espansione del complesso, ingrandendo il convento e creando nuove cappelle dentro la chiesa e costruirono un ospedale destinato ai pellegrini di etnia germanica provenienti o diretti in Terra Santa.


Essi possedettero il complesso religioso fino al 1492 quando la Magione fu eretta in commenda (cioè data in affidamento) e governata per quasi due secoli da Abbati commendatari, primo fra i quali il Cardinale Rodrigo Borgia, il futuro Papa Alessandro VI, e anche loro vi apportarono nuove modifiche occultando preesistenti strutture medievali. Infine nel 1787, Ferdinando III di Borbone aggregò la chiesa con tutti i suoi beni all’ordine Costantiniano di San Giorgio, che ne ammodernò la struttura, trasformandola da edificio barocco in neoclassico.


Nel 1884, Giuseppe Patricolo, nel suo tentativo di recuperare il patrimonio di architettura normanna siciliana, a volte anche con eccessiva fantasia, cominciò a restaurare la chiesa, eliminando le stratificazioni successive: compito portato avanti, con notevole entisiasmo, da Francesco Valenti. Nel 1957, infine, furono riparati i danni dovuti ai bombardamenti anglo americani


La facciata è formata da tre portali ogivali con ghiere a rincasso, uno più grande al centro, che è anche l’ingresso alla chiesa, e due laterali più piccoli. Più sopra si trovano cinque finestre, di cui tre cieche al centro e due lucifere ai lati, inoltre, nell’ordine più alto, vi è una finestra posta in asse con il portale principale.


La parte posteriore dell’edificio termina in tre absidi, di cui quella centrale è disegnata da archi intrecciati ben sporgenti mentre nelle minori questi sono appena accennati e nei fianchi viene riproposto il motivo delle finestre cieche con ghiere a rincasso.


L’interno della chiesa, ampio e arioso, unisce il tipo di pianta longitudinale a croce latina, con un corpo centrico a tre absidi. L’impianto che ne risulta è quello tradizionale di tipo basilicale a tre navate separate da grandi archi ogivali sostenuti da colonne monolitiche di spoglio di diversa altezza, con capitelli a motivi vegetali stilizzati diversi nella forma e nella decorazione. Il motivo delle colonnine si ripresenta nella zona del presbiterio che appare soprelevato, come la navata centrale con soffitto ligneo, un tempo magnificamente dipinto.






Nei tempi passati la chiesa, che doveva essere ricca di preziosi manufatti e opere d’arte (dipinti su tavole, icone dipinte e rivestimenti marmorei parietali), oggi la troviamo quasi spoglia, vi sono poche opere ma certamente di grande valore artistico, come ad esempio: : due acquasantiere del XVI secolo poste ai lati dell’ingresso, il monumento funebre di F. Perdicaro (m. 1576), verosimilmente di Vincenzo Gagini, posizionato sotto una Croce in pietra del XV secolo con l’emblema dei Cavalieri Teutonici, una Vergine col Bambino, a sinistra, insieme a un Cristo benedicente, a destra, entrambi della bottega del Gagini.


E fora da attribuirsi a Francesco Laurana l’elegante portale rinascimentale che introduce all’attuale sacrestia; nell’abside a sinistra, una Madonna lignea policroma è posta sopra una base di marmo del ‘500 con S. Domenico e S. Caterina; il poderoso altare in pietra decorato a rilievo era prima posto nell’abside a destra, dove ora si trovano un tabernacolo del 1528 e una Madonna dipinta su lavagna, databile del ‘500; un trittico marmoreo di età tardo gotica, con al centro una Madonna col Bambino e S. Caterina si può ammirare lungo la parete della navata destra. La Pietà di Campini del 1953 è stata collocata all’ingresso, al posto della scultura di Vincenzo Gagini, distrutta dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Nel pavimento infine vi sono tombe di Cavalieri Teutonici del ‘400, le cui lastre tombali sono esposte in locali attigui al chiostro.


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Il chiostro, mutilo nei lati corti e collocato – contro l’uso più frequente – ad occidente della chiesa, è quanto resta dell’originario monastero cistercense. In piccolo, esso fa pensare al Chiostro di Monreale: colonnine binate con capitelli a doppia corona di foglie sorreggono le arcate ogivali a doppia ghiera, e nelle prime due colonnine a sinistra dell’ingresso sono scolpiti uccelli beccanti. Il lato sud-orientale è stato pesantemente rifatto negli anni ’50, mentre quello occidentale è stato liberato solo coi restauri del ’90 dalla tompagnatura che lo occludeva. Nel pozzo centrale del chiostro si trova una tomba del 1300, con iscrizione ebraica. Un elegante portale in pietra del primo ventennio del 1500, attribuito ad Andrea Belverte, con raffinate imposte lignee del 1535, da attribuirsi a Juan de Juni, proveniente dall’Abbazia di S. Maria del Bosco, campeggia a destra dell’ingresso del chiostro.


A destra dell’uscita della chiesa, vi è la Cappella di S. Cecilia, che fungeva da battistero. Al suo interno si può apprezzare una bifora con colonnina centrale con iscrizione islamica, con scritto Dio è Misericordioso ed un affresco con la Crocifissione e la sinopia in ocra rossa, del 1458, originariamente destinato al refettorio del convento

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Published on January 02, 2019 06:59

January 1, 2019

L’oratorio di San Lorenzo


Corsi a quell’oratorio in via Immacolatella, proprio dietro la chiesa del convento mio. Entrai: mi parve d’entrare in paradiso. Torno torno alle pareti, in cielo, sull’altare, eran stucchi finemente modellati, fasce, riquadri, statue, cornici, d’un color bianchissimo di latte, e qua e là incastri d’oro zecchino stralucente, festoni, cartigli, fiori e fogliame, cornucopie, fiamme, conchiglie, croci, raggiere, pennacchi, nappe, cordoncini… Eran nicchie con scene della vita dei santi Lorenzo e Francesco, e angeli gioiosi, infanti ignudi e tondi, che caracollavan su per nuvole, cortine e cascate, a volute, a torciglioni. Ma più grandi e più evidenti eran statue di donne che venivano innanti sopra mensolette, dame vaghissime, nobili signore, in positure di grazia o imperiose. Ero abbagliato, anche per un raggio di sole che, da una finestra, colpendo la gran ninfa di cristallo, venia ad investirmi sulla faccia.


Così Vincenzo Consolo descrive l’emozione che si prova dinanzi a uno dei luoghi più affascinanti di Palermo, l’Oratorio di San Lorenzo; fascino che ha sedotto decine di artisti e intellettuali, dal teorico del Neoclassicismo Léon Dufourny, la cui sensibilità era la più lontana possibile da quella rococò, all’Argan. Oratorio che ha una lunga storia: nel 1200, mentre sulla città si alternavano dominazioni diverse (dagli Svevi agli Angioini,agli Aragonesi), l’Ordine dei Francescani, dopo una serie di pesanti vicende che videro i frati scacciati dalla Sicilia per ben due volte, prese possesso di quello che rimarrà

il suo più importante insediamento urbano nella contrata que dicitur ruga de Meneu; nome misterioso, che però sembra riferirsi alla misteriosa torre del Maniace, forse un residue delle vecchie fortificazione islamiche della Kalsa.


Così, tra il 1255 e il 1277, i francescani edificarono la chiesa dedicata al santo d’Assisi e il loro convento, nei cui pressi, venne edificata nel XIV una cappella dedicata a San Lorenzo, appartenuta alla famiglia dei Bologna, gli stessi di Palazzo Alliata, ceduta al Padre Guardiano del Convento di San Francesco da un componente della amiglia,Nicolò,nel 1554.


Nel 1564 i mercanti genovesi che risiedevano a Palermo fondarono la loro confraternita, sia per fungere da associazione di categoria, sia motivi benefici: in particolare, il suo compito era di provvedere alla sepoltura dei poveri che abitavano nella Kalsa. Tale confraternita, detta dei Bardigli per il colore turchino degli abiti, aveva inizialmente come sede la chiesa di San Nicolò la Carruba; il problema che questa antica chiesa, di rito bizantino cattolico e frequentata dai greci che risiedevano a Palermo, era soggetta a grandi lavori di ristrutturazione, per cui non era comodo, per i mercanti genovesi, svolgere le loro assemblee tra i muratori e gli operai.


Inoltre, con la scusa del fatto che la chiesa era di fatto la sede sociale della confraternita, i rettori della chiesa volevano affibbiare una parte dei lavori di ristrutturazione ai mercanti genovesi. Dinanzi a tale prospettiva, nel 1569 chiesero ospitalità ai francescani, i qual accettarono, in cambio del porre la confraternita sotto la protezione del santo di Assisi, da quel momento in poi si chiamerà Compagnia di san Francesco e della ristrutturazione della cappella di San Lorenzo, che divenne così un oratorio.


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Il primo problema che i nostri eroi si posero, fu quello di rimediare un’opportuna pala d’altare, che per i casi della vita, fu la Natività con i santi Lorenzo e Francesco del Caravaggio. Per secoli, il dipinto è stato considerato come frutto del soggiorno siciliano dell’artista, avvenuto tra 1608 e il 1609; di un presunto soggiorno palermitano ne parlano sia Giovanni Baglione, prima sia Giovan Pietro Bellori. Dagli anni Venti, in poi, però questa convinzione è stata rimessa in discussione, per una serie di motivi: non quadrano le tempistiche, mancano prove concrete di tale presenza, cosa difficile a spiegarsi perché,

diciamola tutta, Caravaggio non passava certo inosservato e perché, dal punto di vista stilistico, l’opera era assai più vicina alle opere del primo periodo romano, rispetto a quelle dipinte in Sicilia.


Nel 1982, Alfred Moir si accorse della somiglianza tra le dimensioni della Natività e quelle menzionate nel contratto che Caravaggio stipulò il 5 aprile 1600 a Roma con il mercante senese Fabio Nuti, in cuo il pittore si impegnava un’opera cum figuris, di 12 palmi d’altezza per 7 o 8 di larghezza. Se fosse stato così, la Natività sarebbe stata la prima pala d’altare commissionata a Caravaggio, però rimaneva il problema di capire come fosse potuta finire a Palermo.


Mistero risolto nel 2012 da Giovanni Mendola: si tratta di una lettera di cambio, risalente al marzo del 1601, che attesta una transazione finanziaria tra Fabio Nuti (del quale erano già noti i rapporti commerciali con l’Italia meridionale) e Cesare de Avosta, uno dei confrati della Compagnia di San Francesco, probabilmente legata all’acquisto del quadro.


Quadro, quella della Natività, rubato nella notte tra il 17 e il 18 ottobre 1969 e che prima o poi salterà fuori, è un presepe di tradizione controriformistica, in cui il soggetto non fa riferimento a un evento storico, da rappresentare filologicamente, ma a una sacra rappresentazione, un dramma sacro teatrale, in cui l’obiettivo non è la verosimiglianza, ma commuovere e rafforzare la fede del fedele, in cui il gruppo dei tre personaggi principali, ovvero Gesù Bambino, la Madonna e san Giuseppe, appare leggermente spostato sulla destra.


Fulcro della narrazione, com’è lecito aspettarsi, è il piccolo Gesù che, posto al centro della composizione, poggiato nudo su un misero pagliericcio, non brilla più di luce propria, come accadeva a molti suoi omologhi che popolavano le Natività contemporanee, ma secondo una precisa scelta stilistica di Caravaggio, è colpito dalla fonte luminosa a sinistra che taglia in due la sua figura illuminandone il volto e le spalle e lasciando nella penombra il resto del corpo. Fonte luminosa che è legata sia a un motivo tecnico, l’utilizzo della camera ottica, sia per indicare l’irruzione del divino nel Mondo.


La stessa luce irradia il volto di Maria: è una bellissima popolana dai capelli castani, dalle sottili sopracciglia scure e dal volto affilato, presa a contemplare suo figlio. La modella, che è a stessa di Giuditta e Oloferne, Marta e Maddalena, Santa Caterina d’Alessandria, è Fillide Melandroni, senese, prostituta e amante di Caravaggio; il pittore, tra l’altro, sviluppò un odio patologico per il suo protettore, Ranuccio Tomassoni, tanto da assassinarlo al campo della pallacorda nel 1606, eventò che provocò il suo esilio da Roma.


San Giuseppe è raffigurato, con una scelta iconografica molto originale, di spalle, come se, ponendo il santo nella posizione di chi osserva il dipinto, il pittore avesse voluto coinvolgere direttamente noi che guardiamo: sensazione che nel Seicento era accentuata dal fatto che è vestito con abiti di quell’epoca. Vediamo la nuca coperta dai capelli bianchi e il corpo che compie una torsione per rivolgersi a San Giacomo, rappresentato nelle vesti di un pellegrino, citazione del Giubileo celebrato nel 1600 a Roma.


San Giuseppe, con la mano destra, sta compiendo un cenno, come a voler invitare l’uomo ad adorare suo figlio. In tale attività risultano già impegnati san Lorenzo, vestito con una ricca dalmatica e che tiene in mano la graticola sulla quale, secondo la tradizione, sarebbe stato martirizzato, a sinistra, e san Francesco, a destra, il primo santo titolare dell’oratorio a cui era destinato il dipinto, il secondo santo eponimo della compagnia che, come anticipato, presso l’oratorio palermitano aveva sede, rappresentato come un frate conventuale della fine del XVI secolo.


La scena si svolge all’interno di una capanna coperta da un tetto di paglia ed è bilanciata, sulla sinistra, dall’angelo che sopraggiunge tenendo il cartiglio arrotolato al braccio sinistro, lo stesso che apparirà nella seconda versione di San Matteo e l’Angelo nella Cappella Contarelli, Tra l’altro, i legami tra la cappella di San Luigi dei Francesi e l’opera palermitana sono assai stretti: impressionante poi la somiglianza, notata da Michele Cuppone, tra la figura di san Giuseppe e quella del soldato che appare nel Miracolo di san Matteo che resuscita il figlio del re di Etiopia, uno degli affreschi che il Cavalier

d’Arpino (Giuseppe Cesari, Arpino, 1568 – Roma, 1640) eseguì nella Cappella Contarelli prima che il lavoro passasse al più giovane artista milanese: la posa dei due personaggi è praticamente identica. Similitudini accomunano poi il profilo di san Lorenzo all’uomo che, nella Vocazione di san Matteo, vediamo a sinistra, chino sul tavolo, colto nell’atto di contare le monete.





Nel 1699, poi i confratelli decisero di rimodernare ulteriormente la loro sede sociale; per cui, per la ristrutturazione architettonica si rivolsero a Giacomo Amato, architetto che da giovane aveva lavorato a Roma con Rainaldi, che essendo un religioso dell’ordine dei Camilliani, quelli degli ospedali, per capirci, aveva tariffe inferiori alla media del mercato e a Giacomo Serpotta per la decorazione. La scelta del Serpotta era legata, oltre al fatto che all’epoca fungeva da status symbol, sia alla necessità di risparmiare su materiali, utilizzando lo stucco invece che il marmo, sia, essendo l’artista a capo di una

numerosa bottega, per comprimere quanto possibile i tempi di realizzazione.


Ora il buon Serpotta, nell’oratorio di San Lorenzo, si trovò a confrontarsi con una serie di vincoli sfidanti: se per nei precedenti oratori, come Santa Cita e San Mercuzio, il vincolo architettonico da rispettare era legato solo alla presenza delle finestre, che sfruttò come fulcro della decorazione, rendendoli simili chiodo a cui sia appeso un quadro, qui si trovò invece davanti a una rigorosa ripartizione dello spazio architettonico, scandito da paraste corinzie che si chiudevano in un architrave continuo.


In più doveva tenere conto della presenza del quadro, che doveva essere valorizzato e di cui si doveva realizzare, nella controfacciata, un elemento con cui potesse realizzare. Infine, nella decorazione si doveva opportunamente onorare sia San Francesco, sia San Lorenzo.


Per cui, il modulo serpottiano, consistente nelle statue delle Virtù che inquadrano una finestra, decorata con puttini e che sovrasta un teatrino con una scena sacra, fu racchiuso in una sorta di gabbia geometrica, per farlo dialogare con il telaio architettonico: se la decorazione risultò meno spumeggiante, si guadagnò in rigore e unità visiva. Per celebrare entrambi i santi, Serpotta realizzò i seguenti «Teatrini»:



San Lorenzo dona i beni della Chiesa ai poveri, San Lorenzo e Papa Sisto II, Spoliazione di San Lorenzo prima del martirio, Ultima preghiera.
La tentazione di Francesco, San Francesco veste un povero, La preghiera del Santo al Sultano o L’incontro a Damietta, San Francesco riceve le stimmate.

Inquadrati  tutto  dalle statue allegoriche dell’Umiltà, Gloria, Accoglienza, Penitenza, Costanza, Misericordia, Carità, Elemosina, Verità, Fede.


Lato abside, invece Serpotta assecondò le soluzioni architettoniche pensate da Amato, basata su un sistema di porte ed affacci su tre livelli (porta trabeata – serliana – semiarco) che amplifica sia lo spazio virtuale creato da Caravaggio nel quadro, sia la sua illuminazione, realizzando un magnifico arco trionfale,sormontato dalla statua di San Francesco regge il cordiglio dell’Ordine. Infine, come controcanto al quadro, sulla controfacciata realizzò un grande altorilievo con San Lorenzo subisce il martirio sulla graticola, accentuato da un disegno tutto settecentesco realizzato da sovrapposizioni continue degli elementi, paraste seminascoste, capitelli fantasiosi e decorazioni inusuali.


Terminata la ristrutturazione nel 1707, bisognava affrescare la volta; l’incarico fu affidato nel 1728 al fiammingo Guglielmo Borremans, che andava per la maggiore nella Palermo dell’epoca e che aveva giù avuto a che fare con gli oratori serpottiani., che dipinse la scena raffigurante Giacobbe impartisce la benedizione ai figli. Nel 1738, infine, furono realizzati dal marmoraro Antonio Rizzo sia lo splendido pavimento, che presenta al centro una lastra di marmo decorata con una palma sormontata da una corona a cinque punte e la graticola simbolo del Martirio di San Lorenzo, sia gli arredi d’ebano intarsiati d’avorio e madreperla.


Le ultime modifiche avvennero nel 1806, quando lo sterro della strada, per motivi di traffico, di fatto portarono le due porte ,che un tempo consentivano l’accesso all’edificioa circa un metro e mezzo dal piano di calpestio, portando all’attuale situazione, in cui si entra da una porticina laterale, che forse, creando una sorta di effetto sorpresa, accentua l’emozione del trovarsi davanti l’opera del Serpotta…

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Published on January 01, 2019 13:50

December 31, 2018

Palazzo Alliata di Villafranca

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Bologni, giunta a Palermo nel Quattrocento, a cui appartennero tra i tanti Antonio Beccadelli, detto Il Panormita, poeta, latinista e precettore del re Alfonso I di Napoli e Simone, uno dei tanti arcivescovi della città.


Nel 1576 don Alojsio di Bologna barone di Montefranco, aveva deciso di ristrutturare le cade dei vari rami della sua famiglia, creando un unico palazzo, punteggiato da cupole e torri svettanti che dal vicolo del Panormita si estendeva fin quasi all’antico Cassaro. L’anno successivo don Alojsio aveva promosso la costruzione della chiesa di S. Nicolò dei Carmelitani, proprio di fronte al suo palazzo, dove aveva commissionato anche la sepoltura per sé e i suoi eredi, sperando in una numerosa discendenza per perpetuare nel tempo il nome e il prestigio del suo casato. Ma il destino aveva disposto diversamente, infatti già col figlio Francesco si estingueva il ramo maschile della famiglia e meno di un secolo dopo la “domus magna” dei Bologna passava in proprietà degli Alliata di Villafranca.


Gli Alliata era una famiglia di origine toscana, che affermava di discendere da Datius, arcivescovo e santo milanese, da cui prende il nome Dacia Maraini, che è imparentata con tale famiglia. In epoca medioevale i fratelli Gaspare, Melchiorre e Baldasserre Alliata avrebbero partecipato alle crociate e nella stessa epoca sarebbe vissuto il beato Signoretto Alliata, morto durante la presa di Gerusalemme. Nel XII secolo la famiglia Alliata era attestata a Pisa, proprietaria dell’omonimo palazzo sul lungarno Gambacorta, dove si dedicava al commercio e alle attività bancarie. Con il declino della repubblica di Pisa, nel corso del XIV secolo un membro della famiglia, Fillippo Alliata, si trasferì in Sicilia, dove prestò soldi a buona parte dei principi locali e grazie al commercio, comprò feudi a destra e manca. Per queste due attività, in breve furono cooptati nella nobiltà locale


Alla metà del XV secolo a Palermo gli Alliata edificarono una cappella nella chiesa di San Francesco d’Assisi di Palermo. Alla fine del secolo si legarono alla monarchia spagnola acquisendo il feudo baronale di Villafranca: il titolo di principe di Villafranca fu concesso nel 1609 dal re Filippo III a Francesco Alliata, figlio di Giuseppe e di Fiammetta Paruta, baronessa di Salaparuta. Il titolo di principe del Sacro Romano Impero dava diritto al trattamento di Altezza Serenissima per il capo della famiglia. Gli Alliata furono inoltre grandi di Spagna e pari del regno. A titolo di curiosità, nel XVII secolo ottennero dal re Carlo III la carica di “Corrieri Maggiori” ereditari del Regno di Sicilia, relativa al servizio postale dell’isola, carica che mantennero sino al 1838.


Insomma, a un certo punto, cercavano una dimora degna del loro rango: per cui, nella prima metà del seicento infatti, il principe di Villafranca Francesco Alliata e Paruta, pretore della città e governatore della nobile compagnia dei Bianchi,acquistava per la somma di 10.000 scudi l’antico palazzo cinquecentesco appartenuto ai Bologna. Subito dopo, oltre a intraprendere una serie di lavori di ammodernamento della struttura, per ingrandirla, faceva incetta delle case dei vicini.


Nell’impresa fu anche coinvolta la famiglia Serpotta: Giacomo realizzò gli stemmi che decorano la facciata, mentre a Procopio fu affidata la decorazione degli interni. Ma nel 1751 un forte terremoto danneggiò gravemente le strutture del palazzo, fu allora che il principe Domenico Alliata affidò l’incarico per la ristrutturazione il consolidamento e una rivisitazione stilistica della sua “casa grande” all’architetto Giovan Battista Vaccarini, uno dei maggiori architetti del barocco siciliano.Il noto architetto coadiuvato dagli architetti Francesco Ferrigno e Giovan Battista Cascione, oltre che da una schiera di stuccatori, indoratori, incisori e marmorari, lavorò al cantiere di palazzo Villafranca fino al 1758 restituendo l’antica dimora ai fasti e alla magnificenza di un tempo. La decorazione degli interni fu affidata al pittore Gaspare Serenario che curò la decorazione a fresco dei magnifici saloni del piano nobile (purtroppo quasi tutti gli affreschi sono andati perduti a causa degli eventi bellici dell’ultima guerra)


Ai primi decenni del 1800 si devono gli interventi in stile neoclassico, apportati per volontà di Giuseppe Alliata e della moglie Agata Valguarnera. In particolare, questi lavori interessarono le alcove, il Salone Rosa, il Salone Giallo e la facciata. Ulteriori sistemazioni in chiave neogotica vennero infine effettuati tra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo (il portale d’ingresso al Piano Nobile, lo scalone con la bella porta-vetrata e la Sala dei Musici). Nel corso dell’ultima guerra mondiale il palazzo subì gravi danni e questo comportò interventi di restauro tra il 1950 e il 1960, con conseguenti trasformazioni che mutarono per sempre l’aspetto originale del piano nobile e degli ammezzati.


La storia più recente dell’antica “casa” è stata segnata da un controverso lascito ereditario, oggetto di una vertenza giudiziaria che oppose gli Alliata di Villafranca al Seminario arcivescovile che lo ha ereditato nel 1988 dalla principessa Saretta Correale di Santa Croce, nobildonna di origine calabrese moglie del principe Giuseppe Alliata, morto senza discendenza. Causa che è stata vinta dai preti, che progressivamente stanno restaurando e aprendo al pubblico il palazzo. L’intero piano nobile dovrebbe essere visitabile da marzo 2019.


Caratteristiche del palazzo sono uno dei primi esempi dell’uso di moquette in Italia, nella Sala Rosa e il fomoir, interamente rivestita in cuoio pirografato e dorato, fatto realizzare dal nonno di Dacia Maraini. Nella quadreria sono presenti le grandi tele con la Lapidazione di Santo Stefano e Il tributo della moneta opere di Mathias Stom del 1639 (oggi esposte nel Salone del Principe Fabrizio), Orfeo che incanta gli animali (oggi esposta nella Sala dello Stemma) e una Scena di naufragio o Pesca miracolosa (1613-1618) attribuiti a Pietro d’Asaro detto “Il Monocolo di Racalmuto”, San Giuseppe con Gesù giovinetto e L’Addolorata attribuiti alla scuola di Pietro Novelli detto “Il Monrealese”, Nascita del Principe Giuseppe Alliata Moncada e I Principi Fabrizio Alliata Colonna e Giuseppina Moncada Branciforte tra Abbondanza e Fama omaggiati dal Genio di Palermo opere di Desiderio De Angelis datati al 1791.


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E soprattutto, “La Crocifissione” di Antoon Van Dyck; il pittore fiammingo era giunto a Palermo per ritrarre il viceré Emanuele Filiberto di Savoia; sarebbe stato un soggiorno di poche settimane, finché non successe il patatrac. Il 7 maggio del 1624 giunse al porto un vascello proveniente da Tunisi, comandato da Maometto Cavalà e nelle sue stive aveva stipato oggetti preziosi, doni, e ricche mercanzie che il bey inviava come omaggio al Vicerè.


Il Senato palermitano, che aveva saputo come a Tunisi fosse scoppiata la peste, temendo il rischio del contagio, negò l’attacco al porto, ma il vicerè, avido dei doni e sospettando che i nobili palermitani se ne volessero impadronire, tramite il suo segretario Antonio Navarro, ordinò di procedere con lo sbarco, provocando così l’epidemia.


Una mattina il viceré entrò nella sala dove era appeso il ritratto e lo trovò caduto per terra. Si agitò moltissimo, considerandolo un pessimo presagio. Aveva ragione. Poche settimane dopo Emanuele Filiberto morì di peste, così come decine di migliaia di palermitani. La violenta epidemia fu devastante per la città, che fu messa in quarantena. Van Dyck, impossibilitato a partire, continuò a dipingere, ritratti di mercanti genovesi residenti in città, quadri religiosi, un commovente ritratto dell’ultranovantenne Sofonisba Anguissola, che il giovane fiammingo andò a trovare colmo di rispetto e ammirazione per la sua arte.


E tra i tanti quadri religiosi, dipinse la Crocefissione, che è un’ex voto: nello sfondo del quadro si nota Monte Pellegrino e il porto di Palermo, mentre in primo piano, spicca il teschio senza mandibola, simbolo di Santa Rosalia, che in occasione di tale epidemia divenne la protettrice di Palermo

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Published on December 31, 2018 09:25

December 30, 2018

Andando per il Capo

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Stamane approfittando della splendida giornata, a quanto pare, sembra che faccia freddo solo a Roma, con Manu ci siamo fatti una bella passeggiata nel centro di Palermo, incentrata sul Mercato del Capo. Dei quattro grandi mercati palermitani, gli altri sono Ballarò, Vucciria, Borgo Vecchio, questo è forse il meno conosciuto e noto ai turisti, anche se, a dire il vero, rispetto agli anni scorsi ho notato qualche banco in meno e qualche locale per aperitivo in più. Il mercato si sviluppa nell’omonimo quartiere, Capo, l’antico Seralcadio, , il quartiere degli schiavi, dall’arabo “Harat-as-Saqalibah”, che si allungava da Danisinni sino al mare, lungo l’asse viario Sant’Agostino-via Bandiera. Il nome deriva dalla denominazione della zona come “caput Sarecaldii”, diventata in seguito più semplicemente “Capo”. Quartiere che ai tempi di Balarm, si era sviluppato attorno al fiume Papireto e in cui, come suggerisce il nome, era dedicato al mercato degli schiavi e del bottino ottenuto dal saccheggio dei territori bizantini e franchi.


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Il punto di partenza della passeggiata da Porta Carini, una delle più antiche di Palermo: fu costruita sicuramente prima del 1310, data scritta in un lascito di un giardino con vigna, “extra Portam Careni Panormi”. Nel 1325 fu gravemente danneggiata dagli attacchi del duca Carlo di Calabria, nel tentativo di penetrare in città, e successivamente fu ricostruita dal nobile palermitano Ubertino La Grua che svolgeva diverse mansioni pubbliche quali capitano e giustiziere di Palermo. Grazie ai suoi meriti fu insignito del feudo di Carini, divenendone principe


La porta ricostruita nel 1325 era di semplice architettura, formata da un solo arco in pietra di taglio privo di decorazioni, ma in qualche modo colpì la fantasia dei palermitani: secondo una leggenda, nel 1248 vi apparve Sant’Agata, nata nelle vicinanze, per liberare la città dalla peste nera.


Nel 1782, riferisce il Villabianca, il baluardo detto di Gonzaga che si trovava lungo le mura tra porta Carini e l’attuale teatro Massimo, venne ceduto alle suore del vicino monastero di S. Vito (attuale caserma dei carabinieri), le quali, come contropartita dovevano ricostruire a proprie spese la porta. L’opera venne eseguita in un paio d’anni con un nuovo disegno e spostata un po’ più avanti, nel posto dove attualmente si trova.


Riferisce il Villabianca che “l’apertura di essa fu fatta conforme alle porte Felice e Maqueda, formata essendo di due alte piramidi, che sonoporta_carini_ comprese fra sei colonne di pietra rustica con vasoni di pietra sulle cimasi per varietà del disegno“. Questa scelta urbanistica non era casuale, tant’è che convolse altre antiche porte di Palermo e consisteva nello spostare più avanti le aperture ed abolire i vecchi fossati che circondavano le antiche mura e che divennero le strade che costeggiano il centro storico della città. Poi col tempo al di qua delle mura vennero addossate le abitazioni cosicché

oggi non resta pressoché nulla dell’antica cinta muraria.


Da questa Porta, parte l’omonima via, che si incrocia via Cappuccinelle da un lato, che prende il nome dalle suore novizie dell’Ordine femminile dei Cappuccini, con la chiesa annessa al convento sul pianoro detto del Noviziato al Capo, in cui sono presenti le statue di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, e la via Sant’ Agostino, che porta a un altro splendido mercato, dedicato ai vestiti e ai tessuti. Da questo quadrilatero, parte un tessuto urbano, piene di viuzze dai nomi assurdi, come via Gioia mia, via Scippateste e via delle Sedie volanti, quest’ultima così chiamata per via delle antiche botteghe degli

artigiani di portantine.


Il Capo è un mercato di generi alimentari, frutta, verdura, pesce, dove si contratta tanto e dove ogni tanto si incontrano venditori di sigarette di contrabbando, tutt’altro che discreti, però bisogna dare atto che sanno pubblicizzare in maniere assai divertente la loro merce, i venditori di cibo da strada, sfincione e panino co’ a meusa e riffaturi”, una sorta di gestori di una lotteria privata, in cui comprando un biglietto si può sperare di vincere una cesta di pesce o di carne.


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La prima chiesa che si incontra, nel visitarlo, è quella di San Gregorio, che secondo la tradizione, fu costruita sulla casa di Santa Silvia, mamma di papa Gregorio Magno, eletto al soglio di Pietro nel 590, il quale finanziò la costruzione del luogo di culto, distrutto dagli arabi nell’842. Fu poi ricostruita nel 1320 dall’arcivescovo Giovanni Orsini e restaurata in forme barocche da Giannettino Doria, l’arcivescovo che inventò il culto di Santa Rosalia.


La facciata, tipicamente barocca, ha la peculiarità di avere il portale costruito con colonne con capitelli finemente decorati, elementi provenienti dalla Chiesa di Santa Teresa a Porta Carini, demolita per esigenze urbanistiche nel 1740. Ora, San Gregorio non è un granché, ma è simpatico ricordare come dai palermitani sia chiamata “a chiesa rù baccalà”, perché uno degli accessi, quello di sinistra, era chiuso a magazzino nel periodo bellico e vi si stivava il baccalà per poi essere rivenduto nel mercato.


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Poco più avanti, all’altezza di quello che una volta era il macello civico detto “bocceria nuova”, vi è uno dei gioielli dell’architettura barocca: la chiesa dell’Immacolata.In passato faceva parte dell’omonimo monastero benedettino costruito nel 1576 per volere della nobildonna Laura Imbarbara, vedova senza figli di don Sigismondo Ventimiglia (il suo sarcofago è tuttora custodito all’interno della chiesa). A stimolare l’edificazione del monastero vi furono gli eventi che si svolsero a Palermo nel 1575. In quell’anno la città fu colpita da un’epidemia di peste ed il popolo invocò la Vergine, insieme ai santi “contra

pestem” Rocco e Sebastiano. L’invocazione a Maria e le predicazioni congiunte dei francescani e dei gesuiti costituirono i presupposti per la fondazione del monastero.


Da tempo Laura Imbarbara desiderava fondare un istituto femminile a cui donare tutti i suoi beni e voleva che esso seguisse la regola francescana. Tuttavia, il gesuita Giovanni Antonio Sardo persuase la nobildonna ad adottare la regola benedettina. In quegli anni, infatti, i gesuiti erano impegnati nella gestione del monastero benedettino dell’Origlione ed avevano incontrato diversi problemi. La fondazione del monastero dell’Immacolata gli diede la possibilità di staccare una parte della comunità dell’Origlione e dirigerla verso il nuovo monastero. Fu così che la badessa dell’Origlione, Benedetta Reggio, inviò 12 suore nel monastero fondato dall’Imbarbara e ne divenne a sua volta badessa. Qui morì nel 1612


L’avvio dei lavori di costruzione della chiesa si concretizzò nel 1604, sulla base del progetto architettonico di Antonio Muttone e sotto la supervisione del regio architetto ed ingegnere militare Orazio Lo Nobile. La costruzione fu conclusa nel 1612, tuttavia il completamento effettivo dell’edificio richiese più di 100 anni di lavori e la notevole cifra di 80.000 scudi d’oro. IL monastero, nonostante tutto questo impegno, fu demolito nel 1932 assieme al Bastione d’Aragona per fare posto all’odierno Palazzo di Giustizia. Ciò che rimaneva fu distrutto nel corso dei bombardamenti aerei del 1943.


Se la facciata, ispirata al barocco romano, può apparire austera e sobria, l’interno capovolge totalmente l’impressione, con un trionfo di marmi e stucchi :tutto l’apparato decorativo della chiesa ruota attorno all’altare maggiore, sovrastato dalla grande tela della “Immacolata Concezione” del 1637 opera del grande pittore monrealese Pietro Novelli, che, per valorizzare la sua opera, realizzò anche il cupolino ottagonale tutto a stucco che copre il vano presbiterale.


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Le pareti laterali mostrano fastose decorazioni marmoree che ricoprono interamente l’interno, e bellissime cappelle che si caratterizzano per lo straordinario connubio tra architettura e decorazione. Da ammirare i quattro paliotti ad intarsio marmoreo policromo di inimitabile effetto scenografico, raffinate opere di oreficeria marmorea la cui realizzazione si deve a geniali artisti siciliani con l’utilizzo di pietre dure, agate, lapislazzuli e vetri colorati veneti. Vittorio Amedeo di Savoia, re di Sicilia anche se solo per pochi anni, s’innamorò di questi incantevoli paliotti al punto di portarseli dietro come ricordo al suo ritorno a Torino


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Come controcanto all’Immacolata, vi è la chiesa di Sant’Ippolito, spesso pericolante, costruita nel 1583 su una cappella risalente al XIII secolo, ingrandita con la realizzazione di un “cappellone” restaurato nella prima metà del ‘700. Internamente la chiesa è suddivisa in tre navate, con arcate sostenute da colonne marmoree. Tra le opere d’arte presenti, vi, ìun crocifisso dipinto del XV secolo e la tela di Filippo Randazzo del 1728, esposta sull’altare maggiore, raffigurante “Il martirio di San Ippolito”, che ricordiamolo, dovrebbe essere l’unico antipapa, tra l’altro dal pessimo carattere, elevato agli onori

degli altari







Eppure, nonostante la sua ricchezza di decorazione, l’Immacolata non è il centro religioso del Capo; questo è la chiesa della Madonna della Mercede, dei padri mercedari, l’ordine religioso fondato da San Pietro Nolasco, per riscattare i cristiani fatti prigionieri dai pirati musulmani. I padri mercedari giunsero a Palermo nel 1463 con privilegio dato in Vagliadolid dal Padre Maestro Gomezio di Bosega, per poter fondare nel luogo in cui volevano un convento dell’ordine. Subito furono ospitati nella chiesetta normanna di S. Anna, già della Confraternita dei Frinzari (frangiai) sempre nel Capo, ma per varie

divergenze insorte con quei confrati, nel 1482 i Padri fondarono una chiesa su un promontorio che si affacciava sul mercato e la dedicarono alla Madonna della Mercede (Captivorum Redemptrici Dicatum), e il convento annesso denominato di S. Anna (non più esistente) che fu il primo convento mercedario in Italia.


Il 18 novembre 1590 un gruppo di laici fondarono la Compagnia Santa Maria la Mercè, con lo scopo di divulgare il culto e la devozione alla Vergine invocata sotto questo titolo. Come si legge in alcuni antichi documenti, i confrati portavano in processione una statua (presumibilmente di cera e vestiti di stoffa) della Madonna della Mercede, visto che negli stessi documenti si legge di una statua di marmo e coralli della stessa Madonna. L’8 novembre 1753, data la grande devozione della Città alla Madre della Mercede, il senato palermitano decide di eleggerla Patrona ordinaria della Città di Palermo. Nel 1813 il Rev. Padre Mannino, Priore del Convento, ed il Superiore della Compagnia Francesco Cangeri, commissionarono all’artista di famiglia torinese Girolamo Bagnasco la preziosa statua della Madonna della Mercede, che attualmente viene portata in processione per il quartiere, accompagnata con il grido: A regina du Capu è, viva a madonna micce’. Uno dei momenti particolari di tale evento religioso è : a vulata i l’ancili, con due bambini vestiti da angioletti che sospesi a delle corde si incontrano sulla testa della Madonna recitando poesie e lanciando petali di fiori.


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Accanto alla Mercede, vi è la protettrice laica del quartiere, “A Pupa ru Capo” mosaico creato e affisso nei primissimi anni del Novecento, presumibilmente tra il 1902 ed il 1908, che rappresenta una bellissima Demetra, dea delle messi, in pieno stile Belle Epoque , elegante e sfarzosa che tiene tra le mani un arco di spighe e fiori: un’idea di trionfo della natura e della fertilità, realizzata come pubblicità del forno Morello da Salvatore Gregoretti.


Da questo punto in poi, oltre a incontrare tante opere di street art, si entra nel regno dei Beati Paoli, un’antica setta segreta palermitana di cui si sa ancora molto poco, ma che pare abbia operato nei secoli XVI, XVII e, forse, XVIII, continuando l’azione di una più antica setta, conosciuta come “I Vendicosi”. Uno dei primi a parlare ufficialmente dell’esistenza dei Beati Paoli fu il marchese di Villabianca, nei suoi Opuscoli palermitani, considerandoli sicuramente estinti ed etichettandoli come uomini scellerati, dei brutali assassini che andavano in giro di notte commettendo omicidi; insomma una sorta di cosca mafiosa ante litteram, i cui membri si radunavano o in una grotta sotterranea sotto la chiesa di S. Maria di Gesù, anche detta di S. Maruzza, accessibile soltanto da due parti, dall’odierna via Beati Paoli, dove al n. 45 abitava il giurespedito G.B. Baldi, oppure dal vicino vicolo degli Orfani, adiacente alla suddetta chiesa.


Società segreta il cui nome deriva dall’errata italianizzazione del siciliano Biat’i Paula, ovvero Beato di Paola, con chiaro riferimento a S. Francesco di Paola, difatti, secondo la tradizione, i membri della setta andavano in giro travestiti da monaci per rifugiarsi nelle chiese e carpire informazioni preziose da utilizzare nelle loro riunioni notturne e che è state resa famosa da Luigi Natoli, che nel suo romanzo “I Beati Paoli” li trasforma in una sorta di batman palermitani, vendicatori dei torti subiti dalla povera gente.


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Più avanti, si incontra la chiesa di Sant’Agata alla Guilla, sulla casa palermitana della protettrice di Catania, che prende il nome da un temine arabo che fa riferimento a una polla d’acqua originata dal Papireto che scorreva nelle vicinanze. La chiesa, uno dei rari esempi di gotico catalano a Palermo. Nel 1556 vi aveva sede una confraternita composta da nobili i quali nel 1580 accolsero anche la maestranza dei muratori che veneravano come patroni i Ss. Quattro Coronati, questi vi resiedettero fino al 1727, insomma, l’equivalente locale della massoneria inglese. Nel 1685 don Girolamo Quaranta vi fondò un Conservatorio per alcune donne “levate dal peccato”ossia ex prostitute. Nonostante il suo fascino, però la chiesa è abbandonata.






L’ultima tappa della nostra passeggiata è stata Piazza dei Sette Angeli, per vedere i mosaici romani, forse parti di un edificio pubblico attinente al foro, uno dei pochi resti riferibili alla Panormus romana; Nelle piazza sorgeva anche un antico monastero fondato dal viceré Ettore Pignatelli (1529), dedicato a San Francesco di Paola e intitolato ai Sette Angeli in ricordo di un affresco che decorava una chiesa che si trovava lì in precedenza. Secondo la tradizione è in quest’area che sono nate sant’Oliva e santa Ninfa, patrone della città, e la chiesa era a loro consacrata.


La chiesa e il monastero furono in gran parte distrutti nel 1860 durante i combattimenti tra truppe borboniche e garibaldine e sul vuoto lasciato si è formata la piazza, che il 18 aprile 1943 fu teatro di una tragedia. Una bomba alleata esplose dentro un rifugio antiaereo, provocando un numero imprecisato di morti, visto che nessuno aveva idea di quante persone vi fossero.

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Published on December 30, 2018 09:08

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Alessio Brugnoli
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