Alessio Brugnoli's Blog, page 122
January 29, 2019
Il senso del lutto
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Per chi mi conosce, sa che per me il 29 gennaio è un giorno particolare: è l’anniversario della morte di mia nonna, che spero sia fiera di me, per tutto il tempo che dedico all’Esquilino, a volte sbagliando, a volte facendo anche cose buone.
Ed è il giorno in cui il mio buon amico Massimo se ne è andato. Per i casi della vita, l’ultima volta che ci siamo incrociato, che abbiamo chiacchierato e riso assieme, è stato proprio qui a Piazza Vittorio. Conoscendolo, dovunque sia, sicuramente starà scuotendo il capo, con il sorriso sulle labbra, per tutte gli affanni, le arrabbiature e le cose di nessuna importanza, a cui do troppo peso e di cui mi faccio carico.
E come sempre, avrebbe pure ragione, nel definirmi, come fece una volta, un vecchio, intrattabile e collerico mulo, ma di buon cuore.
Come ricordarli ? Di parole ne scrivo tante, spesso inutili, ma stavolta, mi piacerebbe condividere un brano che ho trovato sul mio pc, che ci metterei la mano sul fuoco sul fatto che non sia mio e di cui mi sto scervellando nel trovare l’autore, che racconta di come si vivesse il lutto al Sud
Nei nostri paesi del sud il lutto era un evento abbastanza condiviso. Più che dal passaparola o dai manifesti funebri, l’annuncio veniva dato da un drappo nero. Adornava il portoncino d’ingresso e scendeva sui due lati. Era il primo triste messaggio di lutto alla comunità. Di norma quel lembo di stoffa era semplice e sventolante ma poteva essere anche drappeggiato, fermato con cordoncini e nappe dorate. E non era solo un problema di spesa.
All’apparire del drappo, partiva il passaparola e iniziava il silenzioso via vai di gente per rendere omaggio al defunto. Del lutto era partecipe la comunità e la porta di casa rimaneva accostata. Era inimmaginabile che qualcuno della famiglia, più che al dolore, dovesse pensare ad aprire e chiudere porte. Le tende alle finestre e ai balconi restavano chiuse per lasciare la casa in penombra. La luce e il sole sono segni di vita, incompatibili lì dove una vita si era appena spenta. La scelta della stanza funebre coincideva in genere con la camera da letto, illuminata da qualche fioca abat-jour e dalle fiammelle fumose e tremolanti delle candele accanto al letto.
Gli specchi venivano coperti con teli neri, come si usava fare da generazioni anche se nessuno sapeva perché. Di certo evitavano lugubri riflessi o vanitose distrazioni. Quando si prevedeva che un gran numero di persone avrebbe reso omaggio alla salma, si sceglieva la camera più grande della casa e, scostati i mobili, la si faceva addobbare con paramenti, tappeti, coperte broccate e candelabri dorati. L’aria si saturava presto col profumo dei fiori e della cera ardente. Il religioso silenzio ero rotto solo dal pianto dei familiari e dalla nenia delle donnine in nero che recitavano il rosario sottovoce, scorrendo fra le dita i grani del rosario. L’arrivo delle suore era segno di rispetto per famiglie molto religiose o molto benefattrici.
In qualche casa appariva il registro dei visitatori, destinato alla firma o a qualche affettuoso ricordo. Era il segno che distingueva i defunti più in vista. Nato per inviare i ringraziamenti agli intervenuti senza dimenticare nessuno, in realtà era utile per vedere non solo i presenti ma anche gli assenti.
Prima che fosse sostituito da apposite automobili furgonate, il carro funebre, seguito da parenti ed amici a piedi, era davvero un carro in legno, imponente, con cocchiere e cavalli. Il loro numero variava a seconda del livello del funerale, di prima, seconda o terza classe. Variava la spesa e naturalmente la sontuosità della carrozza e il numero dei cavalli. La carrozza di prima classe, scelta per prestigio e massima visibilità, era arricchita da colonnine, capitelli dorati e ganci per i cuscini di fiori. Aveva il cocchiere, con la livrea nera piena di bottoni dorati, e i cavalli, due o quattro, bardati con finimenti di lusso. Procedevano con andatura lenta e solenne e, nel silenzio della strada, si sentiva solo la preghiera del sacerdote e il tonfo e ritonfo degli zoccoli che risuonavano sul selciato. Il corteo era preceduto dalla sfilata delle corone, fatte da rami di palma intrecciati ed arricchiti da inserti di fiori. La quantità di corone era proporzionale all’importanza del defunto o al cordoglio della comunità per la sua scomparsa. Erano portate a mano, una dietro l’altra, da amici e volontari.
A volte, per qualche funerale eccellente, partecipava anche la banda musicale, che si collocava in genere davanti al carro. I musicanti in divisa procedevano inquadrati, assorti nei loro pensieri. A un segno del capobanda approntavano gli strumenti e partivano struggenti marce funebri.
Anche la cerimonia religiosa non era eguale per tutti. Quella ordinaria era celebrata dal buon parroco del posto aiutato dal sacrestano. Messa veloce, parole di circostanza, un giro d’incenso e via verso il cimitero. Ma c’era anche la messa solenne, quella cantata. Almeno tre sacerdoti, i chierichetti con la tunica, una ricca omelia, l’incensiere col turibolo delle grandi occasioni, il coro, il suono soffocato dell’organo. Il misterioso viaggio per l’aldilà era sicuramente in classe unica ma per la cerimonia d’addio non c’era alcuna livella.
Il ritorno a casa, dopo il funerale, segnava il momento di pausa dopo le lunghe ore trascorse nella veglia e nel pathos della cerimonia. Bisognava prendersi cura dei familiari ancora immersi nel dolore ed incapaci di badare a se stessi. Con discrezione ed affetto si riportava un segno di vita nella casa dove era stata sospesa ogni attività domestica. Non era pensabile che un familiare potesse mettersi a cucinare scodellando stoviglie e tegami.
Era il momento del “consuolo”, operazione intima, riservata ai parenti più stretti, alle immancabili cummarelle, agli amici più cari. Un passaparola veloce, di casa in casa, e solo tra chi si era offerto di prepararlo, forzando a volte le resistenze e l’orgoglio degli stessi interessati. Arrivavano ceste di cibo preparato con amore e non mancava mai la zuppiera di brodo, alimento principe che alimentava senza lo sforzo di masticare e destinato a quelli cui si era “chiuso lo stomaco”.
La quantità di cibo portato doveva essere sempre superiore al numero delle persone interessate. Potevano esserci a casa parenti o amici venuti in visita da lontano e non li si poteva lasciare digiuni.
Il rito del “consuolo” durava circa otto giorni, quelli del lutto stretto, del silenzio assoluto rotto solo dalle visite di condoglianze. Non si accendeva neppure la radio né, quando arrivò, la televisione. Il “consuolo” aveva lo scopo di dare conforto alla famiglia facendola sentire al centro dell’attenzione. Spesso, però, era l’occasione per superare vecchi dissapori tra parenti o per ricostruire, tra famiglie vicine, rapporti di vicinato logori da anni.
Usi, costumi e tradizioni di un passato lontano quando la vita nella piccola comunità del paese significava condividere gioie e dolori. Oggi anche la morte è cambiata. I ricoveri ospedalieri precedono spesso gli ultimi giorni di vita e può capitare di sapere della morte di un vicino di casa solo dopo diverse ore dall’evento o a tumulazione avvenuta. Il lutto come evento triste ed ineluttabile della vita, vissuto nell’intimità e senza clamori.
E così diventa più vera l’amara saggezza di Totò: “…la morte è nu passaggio dal sonoro al muto. Quanno s’è stutata ‘a lampetella, significa che ll’opera è fernuta e ‘o primo attore s’è ghiuto a cuccà”.
Perchè il lutto non è crogiolarsi nel dolore. E’ riconoscere il fatto che una persona ci manchi, accettando la nostra debolezza e onorando il suo ricordo, affinché tutto ciò che abbiamo condiviso assieme, non sia perduto, ma ci aiuti a tenere dritta la barra del timone della nostra vita.
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January 28, 2019
Aperitivo solidale per Today, Tomorrow, To Nino
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Qualche tempo fa, ho accennato all’iniziativa della Casa dei diritti sociali Today, Tomorrow, To Nino, con cui l’associazione provvede a fornire borse di studio a ragazzi in difficoltà, affinché possano usufruire pienamente del loro diritto allo studio.
Per finanziare tale progetto, oltre al crowdfounding su Produzioni dal Basso, la Casa dei diritti sociali ha organizzato alcuni aperitivi solidali.
Il prossimo sarà dopodomani, 30 gennaio, alle ore 19, a presso Gatsby Café, in Piazza Vittorio Emanuele II, dove si potrà mangiare e bere con una sottoscrizione di 15 euro.
Poi, per chi non bazzica l’Esquilino, il giorno dopo, vi sarà un altro aperitivo solidale a Centocelle, presso La Pecora Elettrica, via delle Palme 158.
In particolare, alla Pecora Elettrica, si potranno accompagnare gli stuzzichini con la falanghina Selva Lacandona prodotta nelle terre confiscate alla camorra, prodotto di cui in questo bistrot/libreria, dove una volta presentai il fumetto di Mauro Sgarbi, sempre per parlare di amici del Rione, vanno particolarmente orgogliosi!
Tiberio Sempronio Gracco
di W. Blösel, I Gracchi e la disgregazione della nobilitas fino alla dittatura di Silla (dal 133 al 78), in Id., Roma: l’età repubblicana. Forum ed espansione del dominio (trad. it. a cura di U. Colla), Torino, Einaudi, 2016, pp. 133-138.
I due fratelli che dovevano dare un forte impulso alla storia degli anni dal 133 al 121 appartenevano all’alta nobilitas, e in certo modo vi erano quindi predestinati. Tiberio Sempronio Gracco, nato nel 162, e suo fratello Gaio, più giovane di nove anni, avevano per padre un uomo che era stato due volte console (nel 177 e nel 163) e aveva celebrato un trionfo, e per madre Cornelia, la figlia di Scipione l’Africano. Inoltre la loro sorella Sempronia aveva sposato Scipione Emilano. All’età di soli quindici anni, Tiberio Gracco, al comando di suo cognato, aveva ottenuto la corona muralis, perché per primo…
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January 27, 2019
MUSE’ – Nuovo museo Paludi di Celano
Il Lago del Fucino, nonostante le sue stranezze e la sua storia complicata, è stato abitato sin dalla preistoria, ad esempio nell’area di Celano, che inizialmente occupava la zona settentrionale della riva nord del Lago Fucino e solo in un secondo momento, a causa degli straripamenti e alle invasioni barbariche, gli abitanti si trasferirono sul monte Tino.
Tra il V e il VI sec. a.C. Celano era sicuramente un vicus con relativo oppidum la cui sussistenza era basata sulla pastorizia interna, e solo dopo la romanizzazione, nel III sec. a.C., con la nascita di uno dei maggiori tratturi che la collegava con Foggia, il paese acquistò importanza, tanto che, dopo l’abbandono di Alba Fucens, il centro venne considerato caput Marsorum.
I resti più antichi del suo territorio si trovano nella località Le Paludi, un nome, un programma, in cui gli gli scavi archeologici, iniziati nel 1980, hanno riportato alla luce uno dei più interessanti modelli abitativi e sepolcrali dell’età del bronzo del bacino fucense, ossia un villaggio palafitticolo e una necropoli risalenti all’età del bronzo, benché un’indagine effettuata su livelli più profondi faccia pensare, a causa dei reperti ceramici, una frequentazione del sito sin dal Neolitico.
Durante gli scavi sono emerse sei deposizioni a tumulo, intatte, oltre a centinaia di pali e buche di palo attribuibili sia a strutture abitative su elevato ligneo sia a passerella che collegavano le abitazioni tra loro e con la terra ferma. Grazie alla presenza costante di acqua, i pali lignei, i sarcofagi in cui erano adagiati i defunti, le derrate alimentari e tutti quegli elementi necessari alla ricostruzione complessiva dell’ambiente nel corso dell’età del bronzo, come per esempio la flora e la fauna, si sono conservati
La necropoli era stata costruita in una zona dove precedentemente sorgevano le case, come testimoniano i ritrovamenti dei pali lignei all’interno del perimetro delimitato dai tumuli o addirittura sopra le fosse, presenza spiegabile solo se pensiamo che, a causa dell’innalzamento del livello delle acque del lago, le sepolture non fossero più visibili e si ricominciasse a costruirvi sopra
Le tipologie abitative appaiono complesse e di difficile ricostruzione: al momento è chiara la presenza di tre capanne rettangolari a cui si possono ricondurre alcuni reperti per lo più ceramici. Sono venute alla luce sei tombe a tumulo e resti di una settima distrutta in antico, che hanno restituito alcune pietre della marginatura e pochi resti ossei. Tutte le tombe presentano la medesima struttura : deposizione a sarcofago ricavato dal tronco di albero, a sua volta inserito in una fossa aperta al centro del tumulo marginato da pietre. Il corredo è essenziale: l’unico esemplare maschile recava con sé un rasoio in bronzo con evidenti valori simbolici, le donne indossavano fibule e aghi in bronzo e gli infanti erano privi di corredi.
Altra località indagata archeologicamente nella zona di Celano “Ruscella” a sud del paese, a poche centinaia di metri ad est del villaggio in delle “Paludi”, in cui sono stati trovati resti di edifici della tarda antichità, a cui, agli iniiz dell’epoca bizantina fu sovrapposta una necropoli, con sepolture a fossa terragna, su letti di laterizi, orientate ovest-est, in cui sono stati alcuni frammenti in ceramica acroma, databili al IV-VI sec. d.C. e resti di lucerne e aghi crinali in osso.Le due fasi di utilizzo dell’area erano interrotte da un considerevole fase di insabbiamento e da uno strato alluvionale composto essenzialmente da ghiaia e ciottoli.
Sempre presso ” le Paludi”, non molto lontano dai resti del villaggio palafitticolo, sono stati rinvenuti: una ruota idrica lignea, frammenti di contenitori in ceramica comune, un coltellino, un piccolo punteruolo in ferro, piccoli oggetti in legno, diversi resti ossei di animali e frammenti di macine in pietra levigata che fanno presupporre l’esistenza, in epoca medievale, di un mulino. Molto probabilmente esso era di tipo vitruviano, mosso da una ruota idraulica verticale fornita di circa venti pale radiali e usufruiva un’alimentazione idrica dalla parte bassa, cioè l’acqua giungeva alla ruota attraverso un canale ligneo posto sotto di essa, da una gora artificiale scavata nel terreno e alimentata da sorgenti ubicate a monte dell’insediamento produttivo.
Per valorizzare tali reperti, è stato costruito il MUSE’ – Nuovo museo Paludi di Celano, tra i più grandi del centro Italia, copre una superficie di 5000 metri quadrati ed è caratterizzato da forme architettoniche molto interessanti: la sua forma complessiva, mimetizzata perfettamente nella piana del Fucino, si rifà, infatti, ad una sepoltura a tumulo di età protostorica, in cui aprono oblò e finestrature mentre piazzette interne e terrazze permettono di osservare l’ambiente sia esterno che interno.
Il museo è contiguo ad una palude artificiale che in parte è utilizzata per ricostruire le scene di vita del villaggio palafitticolo. In uno dei laghetti artificiali ci sono diversi resti dei grandi pali di quercia e della necropoli di cui ho accennato sopra…
Tutto bene ? No, perché come succede sempre in Italia, da una parte sono finiti i soldi, cosa che ne ha messo in crisi la manutenzione ordinaria e non ha permesso di completare i lavori, dall’altra, il Museo è stato trasformato in un deposito e un laboratorio di restauro per le opere d’arte danneggiate dal terremoto dell’Aquila. Cosa doverosa, senza dubbio, ma che ne ha ridotto la fruibilità
Per cui sarebbe bene che ciò che potenzialmente potrebbe essere uno dei musei della preistoria più interessanti d’Italia possa essere valorizzato per quello che merita..
January 26, 2019
Santa Maria la Pinta
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Quella linguaccia di Procopio di Cesarea racconta che Belisario, sbarcato in Sicilia per combattere i Goti per ordine di Giustiniano, non ebbe difficoltà a conquistare Catania e Siracusa, le principali città dell’isola. L’unico intoppo lo ebbe a Palermo, gli ostrogoti avevano un considerevole presidio pronto a resistere e ad affrontare un lungo assedio.
Al suo comando vi era Sinderico, il quale decise di mandare degli inviati a Belisario con lo scopo di intimargli di partire e di non tentare alcun assedio. Il generale bizantino, invece di mandarlo al diavolo, si rese conto di avere enormi difficoltà nell’assalire la città da terra: il che fa pensare come, nell’area del Palazzo Reale, il circuito delle mura puniche fosse stato rafforzato con una fortezza.
Cosa tra l’altro sostenuta dallo storico rinascimentale Tommaso Fazello il quale riferisce di aver visto nel Palazzo un’ antica iscrizione marmorea, (ancora esistente nel 1558) secondo la quale i Saraceni avevano costruito in quel sito una fortezza eretta sulle rovine di una roccaforte più antica.
Comunque sia, per averla vinta, il generale bizantino ideò allora uno stratagemma: data la vicinanza della città al mare e la scarsa altezza delle mura cittadine, ordinò ai suoi uomini di far entrare le navi nel porto ed ancorarle; poi, notando che le alberature erano più alte delle mura, fece riempire le scialuppe di arcieri e le fece installare in cima agli alberi; da qui fu possibile colpire i difensori e gli abitanti della città, cosa che condusse alla capitolazione nel giro di pochi giorni.
Per festeggiare il successo, come ex voto Belisario fece costruire, nei pressi di quello che nell’età normanna sarà chiamata Aula Viridis, Aula Verde, una vasta aula interclusa da una loggia scoperta, probabilmente resto di un odeon di età romana, che in età medievale sarà sede dell’assemblea cittadina, la chiesa Santa Maria Dell’Annunziata.
Chiesa che sarà poi chiamata della Pinta, per l’ampio ciclo di affreschi che la decorava, ispirato a quelli presenti a San Pietro e a San Paolo fuori le Mura. Dato che le prime notizie documentate della chiesa risalgono al 1187, l’attribuzione all’epoca di Giustiniano fu a lungo contestata.
Nel 1539 Teofilo Folengo, il grande poeta maccheronico, che nonostante quanto racconta nelle sue opere, nella vita reale era un pio monaco benedettino, fu spedito in Sicilia, prima nel grande monastero di Santa Maria delle Scale a Monreale, che era uno dei più ricchi e culturalmente vivaci del Sud Italia, per poi diventare priore del monastero di S. Maria delle Ciambre a Borgetto, quello sì, alquanto periferico.
Ma in quel paesino, Folengo ci stava ben poco: data la sua amicizia con il vicerè Ferrante Gonzaga, passava la maggior parte del tempo a Palermo, ospite proprio della chiesa della Pinta. Durante questo soggiorno, Folengo scrisse Hagiomachia, una raccolta di 18 vite di martiri in esametri latini e della Palermitana, poema volgare in terzine, ricco di reminiscenze dantesche.
Palermitana in cui Folengo narra in prima persona di un suo pellegrinaggio in Palestina e dell’incontro con una comunità di pastori-monaci guidati dall’anziano Palermo. Con essi egli assiste a una rappresentazione sacra ehe ripercorre gli eventi veterotestamentari dalla creazione del mondo alla dissoluzione dei Limbo e alla apparizione délia Chiesa; e sempre in loro compagnia contempla quindi a Betlemme la scena délia nascita del Redentore.
Palermo muore alla vista degli strumenti della Passione esibiti dagli angeli, mentre gli altri pastori, dopo essersi presentati a Teofilo, prendono congedo. Se il primo libro si chiude con la morte di Palermo, il secondo ripercorre, in parte per bocca di san Giuseppe, gli eventi del Nuovo Testamento: dall’ Annunciazione alla Presentazione al Tempio e al Cantico di Simeone… Insomma, temi e atmosfere ben diverse da quelle del Baldus…
In più, come una sorta di ringraziamento per la chiesa che lo ospitava, scrive L’Atto della Pinta, una sacra rappresentazione piuttosto complessa, dove viene narrato il percorso della Salvezza, dalla Creazione del mondo all’Annunciazione a Maria, che viene presto rappresentata e con enorme successo, benché, come raccontavano i cronisti dell’epoca, la messa in scena fosse alquanto costosa, circa 12000 scudi.
La chiesa fu però abbattuta nel 1648, La chiesa venne abbattuta dal viceré Cardinale Trivulzio, venuto a governare la città dopo le rivolte cittadine del 1648, che per evitare strane sorprese da parte dei palermitani e per proteggere al meglio il Palazzo Reale, aveva aveva fatto costruire due baluardi ben armati sul suo fianco settentrionale.
Tuttavia, l’evento diede lo spunto al gesuita Agostino Inveges di descrivere la Pinta. Data la fatica che ho patito per trovare il suo brano, beh, ve lo dovete purtroppo cibare
stUna delle più belle chiese,ch’edificarono gli antichi greci né loro tempi in Sicilia. Questo antico tempio, secondo riferisce F. Simone (ò Simonetto) di Leontino vescovo di Siracusa: […] fu edificato, e consacrato insieme dall’eroe Belisario Capitano di Giustiniano Imp. Alla gloriosa Madre di Dio V. per la vittoria in Palermo contro à Vandali (legge Goti) nell’an.Del mondo 4516. E del redentore 545 (legge 535) […] à gloria della suprema Regina del Cielo: la cui immagine essendo stata depinta assai devota; fu chiamato il tempio di S. Maria Depinta.[…]. Hor la nostra antichissima chiesa di S. Maria Della Pinta: era fabbricata nel gran piano del palazzo viceregio a pié del novo suo baluardo settentrionale. La figura del sito era riquadrata; poiché in ogni lato havea circa 30. Passi di distanza. La frontiera del suo muro settentrionale riguardava la bella strada del Cassaro, ove havea tre porte: la maggiore di mezo, che dava l’ingresso alla nave, e le due minori, che aprivan il passo alle due ali: & alle tre porte s’ascendeva per 7.Scalini, posti parti dentro, e parte fuori: poiché il sito della chiesa era rilevato sopra il Cassaro circa 7. Palmi. Il suo modello non era ordinario; cioè la nave, e le ali non erano in giro ricinte di muraglie, come nelle chiese latine:ma all’uso dei Tempij Gentilij; eran tutte al cielo aperte: & architettate di colonne di pietre in più pezzi, e di tetto di legname fatto in forma di carina di nave. La lunghezza della nave,e delle ali era uguale, e cominciava dal Cassaro, o’ dal muro, e porte settentrionali; sopra cui da Levante a’ Ponente s’attraversava la lunghezza del titolo di circa 30 passi. Onde la chiesa tutta alla mia età coll’ordinanza delle sue colonne figurava un T. latino maiuscolo; ch’era l’antico Tau, e la vera figura, della croce. La nave e’l titolo avea ugual larghezza di 7 passi, e mezo circa; ma la lunghezza disuguale:poiché, la lunghezza della navea have 6. Colonne, e fra quee 5. Passi. Ma la lunghezza del titolo era dal muro di Ponente a’ quel di Levante eran 5. Altri archi; quel di mezo alla larghezza della nave, li dui ultimi grandissimi, e li 2.
Di mezo alla larghezza delle ali. Et ogni ala al pari della nave havea 6. Colonne,e 5 archi: ma di larghezza circa 4 passi,e mezo. Al fianco però delle colonne d’ogni ala era un ampio e discoperto cimiterio, o’ giardino: li quali venivan in giro da un’alta muraglia di 24. Pal. In circa rinterrati. Nel solo titolo eran gl’altari. I quali eran tre: tutti appoggiati alle mura: cioè l’altar di mezo, era appoggiato al muro meridionale, e riguardava la porta maggiore: ove era un bel quadro della Nuntiata: al corno del vangelo, & al muro orientale del titolo era l’altare della Candelora, odi S. Maria delle Gratie: & a’ quello dell’epistola, o’ alla muraglia occidentale era l’immagine devotissima, & antichissima del S.Crocifisso all’istesso muro dipinta: che hoggi e transportata alla chiesa dell’Itria, insieme cogli altri due ricordati quadri. Dietro il titolo, e del muro meridionale della chiesa eran fabbricate, e la sagristia, e le stanze del cappellano. Ma la nave, e le ali di questa chiesa nei tempi furon più lunghe di quelle che alla mia età si vedevano; poiché Don Garzia de Toledo per far il Cassaro ne ruinò quella parte settentrionale; che la dirittura della strada gl’impediva.
Brano da cui si intuisce come la pianta di tale chiesa fosse alquanto bizzarra: un’aula ripartita in tre navate con una abside nella parte mediana della parte di occidente, preceduta forse da un narcete, con le navate laterali che, invece di essere delimitate da una parete continua, si aprivano all’esterno con un portico colonnato.
Questa peculiare caratteristica, aveva fatto pensare all’Invegenes come la chiesa fosse il riadattamento di un antico tempio greco: altri studiosi, dato che elementi simili si ritrovano nell’architettura sacra islamica, hanno ipotizzato come la Pinta non fosse nulla più che una moschea riadattata al culto cristiano.
Però, negli ultimo anni, è emerso un dato particolare: diverse chiese paleocristiane di Roma, per facilitare l’afflusso e il deflusso dei pellegrini, sembrano avere avuto un’architettura simile. Al contempo, lo stessa tipologia di chiesa è emersa in altri luoghi della Sicilia, come a Priolo e Palagonia, sempre fondati nell’epoca di Giustiniano.
Per cui, l’attribuzione a Belisario potrebbe non essere poi così campata in aria: ora nella Pinta, aveva sede una confraternita, che per la demolizione, si trovò improvvisamente sfrattata. Tanto protestò, che gli fu assegnata una nuova chiesa accanto all’oratorio di San Mercurio, una delle prime opere di Giacomo Serpotta.
La nuova chiesa della Pinta, abbandonata da anni e restaurata di recente, è impreziosits dagli stucchi di Giuseppe Serpotta fratello del più famoso Giacomo, dal pavimento d’epoca e da affreschi decorativi, molti dei quali opere di Pietro Novelli.
Tra l’altro, osservando i dipinti provenienti dalla vecchia chiesa, il quadro dell’ Annunziata somiglia molto, come stile, alle opere siciliane di Polidoro da Caravaggio, mentre il quadro raffigurante la Madonna della Grazia o della «Candellara» ritratta con Santa Lucia a destra, e Sant’Agata a sinistra, affine allo stile del Perugino. E’ possibile che sia opera di Benedetto da Pesaro, nipote di Gaspare, uno dei pittori di corte di Alfonso il Magnanimo, a cui qualcuno attribuisce il Trionfo della Morte di Palazzo Abatellis
January 25, 2019
Il commercio miceneo nel Mediterraneo (parte I)
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La transizione tra la media e tarda età del bronzo, nella Grecia continentale, coincide con un periodo di forti mutamenti sociali.
Si passa infatti da una società basata su comunità di villaggio autonome, legate da forti vincoli parentelari, di tipo orizzontale,caratterizzate dalla scarsità di sepolture eminenti, dalla pratica delle sepolture intramurane raccolte intorno a singole unità residenziali, dall’assenza di edifici pubblici, da un’architettura basata su semplici case per lo più a pianta absidata e da produzioni ceramiche e metallurgiche poco elaborate a una in cui emergono forti differenze sociali, con il potere e le ricchezze che tendono a concentrarsi in élite ristrette, concentrate in centri protourbani, come Tebe in Beozia, Asine in Argolide, Peristerià in Messenia, a cui è subordinato, dal punto di vista economico e culturale, il territorio circostante.
Alcuni siti furono forticati e articolati in forma progettuale: Malthì, in Messenia, era un abitato complesso, con un terrazzo centrale che ospitava gli edifici maggiori e uno inferiore cinto da mura; all’interno di queste si addossava un complesso di ambienti in sequenza lineare, forse una struttura di magazzini, che sembra rifarsi a un modello condiviso: ad Argo, insediamento arroccato sulla piana dell’Argolide e dotato di un grande edificio centrale, un analogo complesso venne costruito a ridosso delle mura. Kolonna nell’isola di Egina, nel Golfo Saronico, era dotata di doppia cinta muraria – l’una intorno al nucleo centrale dell’abitato, ove sorgeva l’edificio centrale, l’altra a difesa della parte più esterna.
Tale trasformazione fu favorita dal verificarsi di almeno tre fenomeni: il primo fu la crescita demografica, causata dall’aumentata produttività agricola, che però, per le caratteristiche orografiche del territorio elladico, non fu omogenea, portando quindi a una concentrazione delle eccedenze produttive nelle mani di pochi gruppi di potere
Il secondo fu rapporto con le raffinate culture urbane delle Cicladi e di Creta, che portò, prima in Eubea, Messenia e in Argolide, poi nel resto del territorio, alla costruzione dell’identità da parte delle élites, adottando e rielaborando in maniera autonoma quanto appreso dal mondo minoico.
Il terzo, la necessità di testimoniare il loro potere con l’esibizione e l’accumulo di beni di lusso, portò all’inserimento delle comunità elladiche nelle reti di scambi internazionali; le élites, però, in qualche modo, dovevano trovare materie prime e prodotti con cui da tali beni. A questa esigenza, si associava la sempre maggiore diffusione degli utensili e delle armi in bronzo.
Se il rame proveniva da Cipro, che in maniera diretta o in diretta era facilmente raggiungibile dagli elladici, più complesso era l’accesso ai punti terminali della cosiddetta via dello stagno, che dalla Gran Bretagna,portava tale metallo per via terra nella Pianura Padana e nei Balcani e per via mare in Sardegna.
Il trovare qualcosa da scambiare con le importazioni provenienti da Creta, Egitto e Siria e con il bronzo, ebbe due effetti dirompenti nella società elladica: da una parte, l’aumentata necessità di incrementare le produzioni specializzate nel campo della ceramica e della metallurgia, portò all’adozione di un modello economico centralizzato, incentrato nella realtà palaziale, già sperimentato a Creta e che fu portato al massimo dello sviluppo nella Grecia Continentale.
Dall’altra, svolse il ruolo di volano per il commercio mediterraneo del mondo proto miceneo. Essendo le rotte per l’Egitto e la Siria monopolizzate dai minoici, il mondo elladico dovette trovare mercati alternativi. Il primo fu l’Anatolia occidentale, l’area luvia, che, per motivi non chiari, aveva pochi contatti con Creta: di fatto, allo stato attuale, è stato ritrovato solo una sorta di emporio a Mileto.
Invece i mercanti e i cercatori di metallo proto micenei divennero frequentatori abituali dell’area: addirittura parrebbe che, data la grande quantità di ceramica di produzione tessalica rinvenuta a Wilusa, la nostra Troia, questa potesse essere una sorta di porto franco.
Il secondo fu l’Italia, in cui le tracce di questi antichi commerci sono concentrate n due aree ben precise: il basso Tirreno ed il settore ionico-adriatico.Ritrovamenti archeologici relativi al TE-I sono stati effettuati a Porto Perone (Taranto), Molinella (Foggia), Punta Le Terrane (Brindisi) e Capo Piccolo (Crotone) per quanto concerne il versante ionico-adriatico. Sul versante tirrenico importanti ritrovamenti provengono da Vivara e dalle isole Eolie
I siti nell’ambito adriatico ionico, probabilmente, più che empori, svolgevano la funzione di luoghi di sosta e rifornimento sia per la rotta diretta verso la Sicilia, sia per quella diretta a Nord, verso il Polesine e i terminali della via dello stagno e dell’ambra. Ovviamente, ciò non esclude la presenza di scambi realizzati a livello locale.
Più complesso era il ruolo delle Eolie e di Vivara: da una parte, le prime fungevano da nodo di interscambio per una serie di rotte commerciali, attive sin dal Neolitico, che univano la penisola italiana, la Sicilia e la Sardegna, dall’altra erano grandi produttrici, per l’epoca, di allume, che nell’antichità era un importante sostanza utilizzata nella lavorazione dei tessuti, uno dei principali prodotti di esportazione del mondo miceneo.
A Vivara, invece, terminavano due rotte commerciali provenienti dall’entroterra, dedicate a due materie prime differenti: il metallo, essenzialmente rame, proveniente dall’alto Lazio e il vino, che i proto micenei probabilmente esportavano in Anatolia.
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Ancora più complessi erano i rapporti con la Sicilia, in particolare con la cultura di Castelluccio, in tutta la parte orientale e meridionale dell’isola, fino all’agrigentino, che è così caratterizzata:
la ceramica era fatta a mano (il tornio non è ancora conosciuto) e presentava decorazioni geometriche brune su fondo rosso o giallino.
Gli abitati erano situati prevalentemente nell’interno, su colline; qualche volta erano fortificati da un aggere di pietrame. Le capanne avevano pianta ovale o circolare. I villaggi – di cui abbiamo scarse testimonianze – sorgevano l’uno vicino all’altro, in modo che gli artigiani potessero girare facilmente da un abitato all’altro. Il metallo era ancora relativamente raro e quindi molto pregiato. All’uso quotidiano erano destinati prevalentemente gli strumenti litici (di selce o quarzite), eredità del passato.
Le necropoli a grotticella artificiale sono costituite da stanze sepolcrali collettive, del diametro di 1 – 2 metri, scavate nelle balze calcaree (il calcare è una roccia poco dura, facile da lavorare); alcune tombe sono precedute da un vestibolo a pilastri, raro esempio di architettura preistorica in Sicilia. Le camere sepolcrali, di forma ovale, erano chiuse a volte con semplici muretti a secco, a volte con portelli in pietra, di altezza variabile tra i 70 e i 90 cm., decorati con motivi spiraliformi in rilievo.
Le attività principali dell’uomo erano l’agricoltura di sussistenza, l’allevamento di bovini e caprini-ovini, la caccia e la raccolta di molluschi presenti nelle vicine aree acquitrinose. In più i villaggi della cultura di Castelluccio, sin dalle origini non era isolata dal resto del mondo, ma faceva parte di una serie di rotte commerciali che tramite Malta, univano la Sicilia al Nord Africa.
Rotte commerciali, in cui questi svolgevano il ruolo di produttori di manufatti in pietra, ad esempio macine per le graminacee, in selce e basalto, tanto che i castellucciani realizzarono vere e proprie cave. L’arrivo dei protomicenei cambiò notevolmente questo stato di cose, svolgendo un ruolo analogo a quello avuto dai minioici presso di loro: da una parte, esportando in Sicilia beni di lusso, favorirono la stratificazione sociale, dall’altra importando zolfo, utilizzato all’epoca sia in campo agricolo che per i rituali religiosi, vino, olio, che era la materia prima base per la realizzazione dei loro unguenti, e schiavi, modificarono profondamente i rapporti di produzione locali, dando origine a una serie di cambiamenti che porteranno alla nascita della cultura di Tapsos…
January 24, 2019
Il ritorno del murale di Gaetano
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Benché qualche simpatico buontempone esquilino ci abbia accusato di essere scappati con la cassa del crowdfunding, noi ci occupiamo del progetto di street a via Giolitti non siamo né scomparsi nel nulla, né rimasti con le mani in mano.
Oltre a impegnarci nel progetto di decorare serrande della Casa dei diritti sociali, con ottimi risultati, senza indugere in falsa modestia, abbiamo anche discusso e riflettuto a lungo sul rifacimento del murale dedicato al nostro caro Gaetano. Sinceramente, non ci pareva il caso di replicare quanto distrutto dall’atto vandalico, per cui abbiamo dovuto scegliere tra tanti, nuovi possibili bozzetti.
Senza anticiparvi nulla, il nuovo murale, frutto di tale confronto, proverà a catturare lo spirito e la poesia di una persona, che, nel suo quotidiano, rappresenta le tante cose buone del nostro Rione.
Per cui, questo weekend, un muratore provvederà al rifacimento del muro a via Giolitti, intonacandoli di nuovo e passandovi il gesso: poi nel weekend del 2 e del 3 febbraio il buon Mauro Sgarbi, sposino e ormai esquilino adottivo, tornerà a dipingere, in compagnia delle musiche e dei balli de Le Danze di Piazza Vittorio.
E poi ? Se il Municipio dovesse intonacare entrambi i muri di via Cappellini, vorremmo lanciare in primavera un progetto per riempire di colori il lato adiacente a via Giolitti 241, coinvolgendo i principali street artist romani.
Perché solo quello? No, non siamo diventati scemi o ci stanno antipatici gli abitanti del palazzo successivo. Semplicemente i condomini di tale isolato si sono già organizzati in autonomia con un loro progetto di street art, cosa che vi confesso mi fa felice, perché come dice Li er Barista
“Più Arte c’è nelle strade, mejo stamo tutti…”
January 23, 2019
Tornando a parlare del Silfio
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Molti miei amici si sono incuriositi delle vicende del Silfio e mi hanno chiesto qualche dettaglio in più su questa piante estinta... Avendo ahimé poco da dire, preferisco far parlare il buon Teofrasto. Questi, per chi non bazzica gli studi classici, era uno dei principali discepoli di Aristotele: lo Stagirita vi era tanto affezionato,che, nel suo testamento, affidò a lui i suoi figli, la sua biblioteca e le sue opere originali, e lo designò come suo successore alla guida del Liceo, a scapito di altri filosofi illustri quali Eudemo di Rodi e Aristosseno.
Teofrasto era uno scrittore instancabile: secondo Diogene Laerzio, fu autore di ben 223 trattati. Di tutto ciò, però, rimane pochissimo: Della pietà, che, sotto parecchi aspetti, è forse la prima apologia del vegetarianesimo, I Caratteri, un insieme di caricature di figure morali, che traspone nella realtà concreta le analisi etiche di Aristotele e un paio di trattati di botanica.
In uno di questi, Ricerche sulle piante, così scrive del silfio
Il silfio ha una radice voluminosa e grossa, il fusto alto come quello della ferula e all’incirca della stessa grossezza. La foglia, che si chiama ‘maspeton’, sembra quella del sedano. Ha un seme schiacciato, per così dire a forma di foglia, detto appunto ‘fogli’. È una pianta a stelo annuale come la ferula. All’inizio produce le foglie, che servono a purgare i montoni, a ingrassarli e a dare alle loro carni un gusto delizioso. Dopo essa produce uno stelo, che si mangia, si dice, non importa come, se bollito o grigliato, e che purga l’organismo in quaranta giorni. Il silfio ha due tipi di succo: quello dello stelo e quello della radice. Per tale motivo il primo è detto succo dello stelo, il secondo succo radicale. La radice ha un involucro nero che si toglie. Ci sono nei paesi dei limiti al sezionamento delle radici, che permettono di preservare la parte giudicata utile per futuri tagli, e di tagliare giusto ciò di cui si può disporre. Non è consentito tagliarlo in maniera sconsiderata, né più della quantità stabilita, poiché il prodotto grezzo si altera e si guasta se lo si lascia invecchiare. Quando lo si porta al Pireo, il silfio è sottoposto al seguente trattamento: dopo averlo messo in alcuni recipienti e mescolato con della farina di grano, viene agitato a lungo. Questo procedimento serve a fargli prendere colore. Dopo quest’operazione si conserva senza guastarsi. Questo è tutto in relazione al trattamento e al taglio.
Il silfio occupa in Libia una vasta porzione di territorio. Si parla di oltre 4000 stadi, e di una grande abbondanza intorno alla Sirte, a partire da Euesperides (Bengasi). Il silfio ha la particolarità di non crescere nelle zone sottoposte a lavoro agricolo e di sparire da tutte le zone totalmente lavorate e coltivate. La pianta, infatti, a tutta evidenza, non necessita di cure ed è selvatica. Secondo gli abitanti di Cirene, il silfio fece la sua apparizione 7 anni prima che essi si stabilissero nel territorio della loro città. Questa fondazione avvenne circa 300 anni prima dell’arcontato di Semonide di Atene. Ecco quanto essi raccontano. In seguito ad altri rapporti, la radice del silfio raggiunge 1 cubito o poco più. Essa forma al centro una protuberanza, che costituisce la parte più sporgente e arriva quasi alla luce del sole. È da questa pianta che proviene il cosiddetto ‘latte’. All’interno germoglia lo stelo chiamato ‘magydaris’. Da questa a sua volta germogliano quello che si chiama la ‘foglia’ e che è il seme. Quando comincia a soffiare un forte vento del sud dopo la Canicola (fine agosto), i semi si disperdono, dando vita al silfio. Radice e stelo si sviluppano nello stesso anno.
Non c’è nulla di singolare (questo è anche il comportamento delle altre specie), salvo che, a quanto si racconta, la crescita avviene subito dopo la semina. Ciò che è singolare e in disaccordo con le indicazioni precedenti, è evitare di estirpare le piante di silfio ogni anno. Che errore! La pianta forma meno bene il suo seme e il suo fusto analogamente alla sua radice. Se invece le piante madri sono estirpate, le nuove piante diventano più belle perché la terra è mossa. Ecco ciò che contraddice l’opinione secondo la quale il silfio evita la terra coltivata. Si mangiano, pare, anche le radici appena tagliate in tranci immerse in aceto, e il seme è di un giallo oro. Un’altra contraddizione: i montoni non si purgano se mangiano i semi. Si dice in effetti che in primavera e in inverno vengano lasciati andare sulle montagne e che questi animali bruchino il silfio insieme a un’altra pianta che somiglia all’artemisia. Ora, le due piante sono riscaldanti e prive di effetto purgante, seccano e fanno digerire. Se un montone arriva malato o in cattive condizioni, esso guarisce presto o muore, ma nella maggior parte dei casi guarisce.
Resta da sapere quale delle due versioni sia quella vera. Quella detta ‘magydaris’ è un’altra specie di silfio, meno diffusa e meno aspra, priva del suo succo lattiginoso. Se si ha dimestichezza essa è ben riconoscibile solo a vederla. Cresce in Siria ma non a Cirene ma si dice sia comune anche sul monte Parnaso. Alcuni chiamano silfio questa pianta. Resta da verificare se essa eviti, come il vero silfio, il terreno coltivato, se essa richiami da vicino o da lontano il vero silfio nel seme e nello stelo e infine se anche essa emetta un succo per così dire in lacrime
Altro che ne parla è Plinio, uomo che scrisse di tutto, da opere storiche, come Bellorum Germaniae libri XX a dizionari dal celtico al latino, da un opuscolo sull’arte del lancio del giavellotto a cavallo (De iaculatione equestri) a grammatiche della lingua latina.
Di tutto ciò, è rimasta solo Naturalis historia, che sospetto essere stata scritta per passatempo. In tale libro, così si dice del Silfio
Il silfio o laterpizio è famosissimo per il prestigio di cui gode; i Greci lo chiamano ‘silphion’ e fu trovato in Cirenaica. Il suo succo, detto ‘lasere’, è di grande importanza per l’uso quotidiano e per la preparazione di medicinali: lo si vende al prezzo dell’argento. Sono ormai molti anni che in quella regione non se ne trova più, perché i pubblicani, che prendono in affitto i pascoli, pensano di ricavarne un guadagno maggiore se li usano per il bestiame e così facendo li devastano. Ai miei tempi se ne è trovato in tutto un solo fusto, che fu inviato all’imperatore Nerone. Può capitare che il bestiame si imbatta in uno stelo appena spuntato, ed è facile accorgersene, perché la pecora che l’ha brucato cade subito addormentata, mentre la capra prende a starnutire ripetutamente. È ormai da lungo tempo che a noi non arriva altro lasere all’infuori di quello prodotto in abbondanza in Persia, o in Media, o in Armenia; ma è di qualità molto inferiore rispetto a quello della Cirenaica, e per di più è spesso mescolato con gomma, o sacopenio, o fave tritate: ragione di più, questa, per non ritenere trascurabile il fatto che sotto il consolato di Gaio Valerio e di Marco Erennio (93 a.C.) furono portate da Cirene a Roma 30 libbre di laserpizio, a spese dello stato; cosi come è rilevante il fatto che Cesare, durante la sua dittatura, all’inizio della guerra civile, prelevò dall’erario, insieme all’oro e all’argento, 1500 libbre di laserpizio.
Nelle fonti greche più sicure troviamo che questa pianta nacque dal terreno bagnato improvvisamente da una pioggia nera e fitta come pece, che si verificò nei pressi del Giardino delle Esperidi e della Grande Sirte, 7 anni prima della fondazione di Cirene, avvenuta nell’anno 143 di Roma (611 a.C.); e che l’effetto di questa pioggia era stato avvertito, in Africa, su un’area vasta 4000 stadi. In quella zona soleva nascere il laserpizio, pianta selvatica e ribelle, pronta a ritirarsi in zone desertiche, se si tentava di coltivarla: aveva radici numerose e spesse, fusto simile a quello della ferula e di grossezza analoga; le foglie erano chiamate ‘maspetum’ e somigliavano molto a quelle dell’apio; i semi avevano l’aspetto di foglie; il fogliame vero e proprio cadeva in primavera. Di laserpizio si nutriva solitamente il bestiame, che dapprima con esso si purgava, poi acquistava peso, mentre la carne prendeva un sapore straordinariamente gradevole. Dopo che le foglie erano cadute, anche gli uomini si cibavano del fusto, preparato in tutti i modi, lesso e arrosto, e anche per loro nei primi quaranta giorni aveva effetto purgativo. Il succo veniva raccolto in due modi, dalla radice e dal fusto, e prendeva perciò i nomi di ‘rhizias’ e ‘caulias’: quest’ultimo era di minor pregio e tendeva a guastarsi. La radice era coperta da una scorza nera.
Per frodare i compratori si versava il succo in recipienti mescolandolo con crusca, poi si agitava più volte questo miscuglio finché era pronto: se non si seguiva tale procedimento sarebbe andato a male. Si capiva che il preparato era al punto giusto in base al colore e al fatto che si presentava secco, avendo finito di trasudare. Secondo notizie riportate da altre fonti, la radice del laserpizio era più grossa di un cubito e aveva alla superficie un tubero che, tagliato, lasciava colare un succo simile a latte, mentre al di sopra c’era un fusto che veniva detto ‘magydaris’. Le foglie, di colore dorato, servivano da semenza e cadevano a partire dal sorgere della costellazione del Cane, quando soffiava dal sud vento da austro. Da esse nasceva il laserpizio, la cui radice e il cui fusto si esaurivano nel giro di un anno. Stando a queste fonti, veniva estratto scavando la terra tutt’intorno e non aveva effetto purgativo sul bestiame ma, se era malato, lo guariva oppure lo faceva morire immediatamente, il che accadeva però di rado. La prima di queste notizie si attaglia al silfio di Persia
Detto questo, un altro estratto del quarto libro di De Coquinaria
Piatto da usare come dolce: prendi pinoli e noci, puliscili e abbrustoliscili, mescolali con miele, pepe e Salsa, latte, uova e poco vino puro e olio.
Piatto di formaggio e di pesce salato: cuocilo nell’olio dopo averlo pulito delle lische e tritato. In una padella fai sciogliere delle cervella scottate, la polpa dei pesci, dei fegatini di pollo, delle uova sode; del formaggio molle riscaldato. Trita in padella del pepe, del ligustico, dell’origano, delle bacche di ruta con vino melato e con olio. Metti a fuoco lento finché cuociano. Legherai con uova crude, coprirai di cumino spezzettato e porterai in tavola.
Piatto secco: polpette di pesce porco (è il Delphinus Phocaena): togli le lische d pesce e tritalo finemente. Trita del pepe, del ligustico, dell’origano, del prezzemolo, del coriandolo, una bacca di ruta, della menta secca, che unirai al pesce. Fai delle polpette. Aggiungi il vino, la Salsa e l’olio. Cuoci. Una volta cotte mettile in padella. Fai questa salsa: (mescola) pepe, ligustico, ,santoreggia, cipolla, vino, Salsa, olio. Getta tutto in padella perché si cuocia. Legherai con uova, cospargerai di pepe e porterai in tavola.
Piatto ex holisatro (smirnio): lessa lo smirnio in acqua con sale ammonisco e spremine il succo in una padella. Mescola il pepe tritato, il ligustico, il coriandolo, la santoreggia, la cipolla, il vino, la Salsa, l’aceto e l’olio. Getta il tutto in padella, cuoci e rendi denso con amido. Cospargi di timo e di pepe tritato. Fai così per qualsiasi altra erba che vorrai.
Piatto di acciughe fritte: lava le acciughe; rompi delle uova e sbattile con poca acqua. Aggiungi la Salsa, il vino, l’olio: metti al fuoco e quando bollirà gettaci le acciughe. Quando tutto sarà incorporato, rivoltalo con delicatezza. Fai prendere colore e bagna con Salsa acida semplice. Cospargi di pepe e porta in tavola.
Piatto di sgombri (Plinio XXXII, 53) e cervella: friggi delle uova sode, scotta e snerva delle cervella. cuoci dei ventrigli di pollo. Trita tutto eccetto il per.:e e gettali in una padella, mettendo nel mezzo del salame cotto. Trita del pesce, del ligustico, cospargi di passito per render dolce. Versa della peperata nella padella: fai bollire. Quando bollirà mescola con un ramo di ruta e lega con amido.
Piatto di triglie (Mullus Barbatus) invece di salsume: raschia le triglie e – pulite – mettile in una padella pulita, aggiungi olio quanto basta e nel mezzo mettivi del salsume. Fai in modo che bolla. Quando bollirà, aggiungi vino melato e amido.
Piatto di pesci: togli le scaglie a un qualsiasi pesce sventrato: sminuzzalo con scalogni (da Ascalon, città della Palestina ) o d’altro genere in padella e mettici sopra i pesci. Aggiungi Salsa e olio. Quando sarà cotto, mettici nel mezzo del salume cotto. Aggiungi l’aceto. Cospargi anche di santoreggia montana (è varietà d’origano).
Piatto lucreziano: pulisci delle cipolle porraie (è l’Allium Schoenoprassum) gettando via il verde e affettalo in padella. Bagnale con poca Salsa, coro olio e con acqua. Mentre cuociono metti nel mezzo del salsume crudo. Quando ciò sarà quasi cotto col salsume, aggiungici il miele e poco aceto e mosto cotto. Assaggia. Se sarà insipido, aggiungi della Salsa e poco miele. Cospargi di santoreggia montana e bolli.
Piatto di sgombri (lagitis): squama e lava gli sgombri; rompi delle uova e mescolale con i pesci. Aggiungi la salsa, il vino e l’olio; fai in modo che bolla. Quando bollirà cospargi di salsa acida di vino semplice. Cospargi di pepe e porta in tavola.
Piatto di pesci nel loro sugo: pulisci da crudi qualsiasi tipo di pesce e componilo in padella. Aggiungi olio. Salsa, vino, mosto cotto, un mazzetto di porri e uno di coriandoli. Mentre si cuoce, trita del pepe, del ligustico, dell’origano e un mazzetto di maggiorana. Lavora bene il tutto col sugo stesso. batti delle uova crude e mescola bene. Versa nella padella facendo in modo che tutto si leghi. Quando sarà rappreso, cospargi di pepe e porta in tavola. Piatto di sogliole: batti le sogliole e mettile per bene in padella. Aggiungi
olio, Salsa e vino. Mentre cuociono trita il pepe, il ligustico e incorpora. Versa sopra le sogliole c cuoci a fuoco lento. Quando tutto sarà rappreso cospargi di pepe e servi.
Piatto di pesci: condisci con 30 g di pepe, 6 bicchieri di mosto cotto, 6 bicchieri di vino, 60 g di olio.
Piatto di pesciolini: (condisci con) uva passa, pepe, ligustico, origano, cipolla, vino, Salsa, olio. Metti tutto in padella. Quando sarà cotta aggiungi i pesci cotti. Lega con amido e servi.
Piatto di dentice (Sparus Dentex), d’orata (Chrysophis Curata: i Romani ne erano ghiotti), di cefalo (Mugilis Cephalus): prendi i pesci e preparali, scottali e tritane la polpa. Sguscia poi delle ostriche. Aggiungi nel mortaio 12 grani di pepe, bagna con la Salsa; lavora. Aggiungi ancora una tazza di Salsa, una tazza di vino, metti nel tegame con 90 g d’olio e le ostriche. Fai bollire con la salsa acida di vino. Quando ha bollito ungi una padella e setta il trito sopra detta polpa e sopra il condimento di ostriche. Fai bollire. Quando
bollirà, rompi due uova e gettale sulle ostriche. Quando tutto g sarà rappreso, cospargi di pepe e servi.
Piatto di pesce lupo (forse è il luccio): trita del pepe, del cumino, del prezzemolo, della ruta, della cipolla, del miele, della Salsa, con passito e alcune gocce d’olio.
Piatto caldo e freddo di sorbe: prendi delle sorbe, puliscile, pestale nel mortaio e passale allo staccio. Snerva 4 cervella scottate, mettile nel mortaio con una decina di grani di pepe, bagna di Salsa e pesta. Aggiungi le sorbe e amalgama; rompi 8 uova, aggiungi una tazza di Salsa. Ungi una padella pulita e mettila sulla brace calda sopra e sotto. Quando sarà cotta cospargi di pepe tritato fine e servi.
Piatto di pesche (Amygdalis Persica): pulisci pesche piuttosto dure. Falle a pezzi, scottale, mettile in padella bagnate di poco olio e portale in tavola con salsa di cumino.
Piatto di pere: trita delle pere lessate e ripulite del torsolo insieme al pepe, al cumino, al miele, al passito, alla Salsa e a poco olio. Unite alle uova fanne una padella; cospargila di pepe e porta in tavola.
Piatto caldo e freddo di ortica: prendi delle ortiche, lavale e passale al colino, falle asciugare sul tavolo e tagliale. Trita una quindicina di grani di pepe, bagna con la Salsa; lavora. Aggiungici dopo due tazze di Salsa e 18 r. di olio. Metti a bollire il tegame. Quando bollirà lascia cuocere e toglilo dal fuoco per farlo freddare. Ungi dopo una padella pulita e rompici 8 uova e sbattile. Poni della brace calda sopra e sotto. Quando tutto sarà cotto cospargi di pepe tritato e porta in tavola.
Piatto di cotogne: cuoci le mele cotogne con porri, miele, salsa, olio, mosto cotto e servi oppure lessale col miele.
January 22, 2019
San Leo di Africo
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Oggi, sempre in tema di santi calabro-bizantini, parlerò di Leo, uno degli eremiti più venerati della Grecanica, tanto da causare infinite dispute tra Africo e Bova, che si disputano da secoli la sua nascita e le sue reliquie.
Di Leo, in verità, conosciamo ben poco. Gli unici dati certi sono il suo essere monaco basiliano, la sua lingua greca e il suo vivere ai tempi della conquista normanna della Calabria. In compenso, le informazioni sulla sua vita, da prendere con le molle, ci vengono date dalla tradizione popolare, condensata in una preghiera narrativa, detta “raziuni”, cioè orazione (oppure anche “canzuna”) “di santu Leu”. Ora, dato che molti elementi di questa preghiera sono pari pari ai topoi dell’agiografia bizantina, nulla vieta che siano stati tratti da un bios greco perduto.
Sappiamo così che San Leo nacque a Bova nel periodo XI-XII secolo, dall’onesta famiglia dei Rosaniti, i quali, per dare al figlio un’istruzione decente, lo mandarono a studiare nello scriptoria del monastero della santissima Annunziata di Africo, dove ricevette la vocazione religiosa.
Secondo la raziuni, Leo spesso e volentieri marinava le lezioni, tanto da far preoccupare l’egumeno, che temeva che il giovinetto avesse cominciato a frequentare cattive compagnie. Per cui, stanco delle sue continue assenze, una volta scatenò tutti i suoi monaci, con lo scopo di trovarlo e di ricondurlo sulla retta via a forza di randellate; invece questi lo trovarono dentro una grotta, nel mentre «faceva penitenza e orazioni».
L’egumeno, felice di trovarsi davanti un potenziale santo eremita, invece che l’ennesimo perditempo, invitò gli scopritori al silenzio, perché Leo andava preso «con parole dolci», ed intanto, si mise a preparare l’abito per monacarlo.
Come tutti i santi calabro bizantini, Leo fervore si diede alle pratiche dell’ascetismo proprie degli asceti greci di quel tempo: anacoretismo, penitenza, digiuni prolungati, contemplazione e lavoro manuale. In più, trovandosi circondato da troppi monaci, decise di abbandonare il cenobio e si ritirò in una capanna, presso Africo, sulla via di Polsi, vicino a dove si trova un cumulo di pietre detto «croce di san Leo», perché, secondo la tradizione, egli ve ne aveva alzato una in segno di devozione.
La raziuni racconta che, per campare, raffinava la resina che estraeva dai pini dell’Aspromonte, trasformandola in pece. Dato che questa era, assieme alla seta, una delle principali fonti di ricchezza della Calabria bizantina, è assai probabile che in fondo, in termini economici, Leo non se la passasse così male: se dovessimo dare retta alla raziuni, il frutto del suo lavoro era venduto a Rhegion e a Messina, il che implica un giro d’affare assia ampio.
Sempre legato alla pece, è uno dei suoi primi miracoli, in cui, per nutrire i poveri di Africo, la trasformò in pane: per questo Leo è raffigurato con la scure ed il pane di pece. In ogni modo, la fama dei suoi miracoli si diffuse e i boschi dell’Aspromonte risultarono troppo popolati per i suoi gusti.
Così Leo prese armi e bagagli e se ne andò in Sicilia, nel villaggio di Rometta, vicino Messina. Lì continuò a perseguire il suo ideale di vita ascetica, fra austerità e penitenze. Luogo che a noi dice ben poco, ma che all’epoca aveva un valore simbolico fortissimo.
Rometta fu infatti fondata in età bizantina, il suo nome in greco vuol dire le difese, le fortezze (ta erymata) e durante la conquista araba della Sicilia, vi si concentrò l’ultima difesa bizantina contro l’invasione araba. In particolare, dal 963 al 965, la cittadina sostenne un durissimo assedio e i suoi abitanti si contraddistinsero per un atto estremo di eroismo. Tra il 24 e il 25 ottobre 964, fra la spiaggia e la roccaforte assediata, avvenne una sanguinosa battaglia. L’armata bizantina, forte di 30.000 uomini, inviata nell’isola da Costantinopoli per respingere gli arabi e riconquistare all’impero la Sicilia, impegnò l’esercito assediante con impeto e con cariche di cavalleria.
Ma gli Arabi, sebbene inferiori di numero, riuscirono a fermare l’avanzata degli avversari e, incitati dal proprio condottiero, Ibn Ammar, costrinsero i bizantini alla fuga. Al termine della battaglia, oltre diecimila soldati di Bisanzio giacevano morti sul campo mentre il resto fu tratto prigioniero. Si narra che sul campo fu trovata una spada appartenuta al profeta dell’Islam, Maometto, che era stata catturata dai Bizantini in una precedente battaglia.
L’assedio a Rometta continuò sino al maggio successivo, quando, ormai, i difensori, senza alcuna speranza di ulteriori aiuti da Costantinopoli, stremati dalla fame e dai continui assalti portati dagli assedianti, inviarono fuori dalle mura le donne, i bambini e gli anziani superstiti che furono accolti nel campo nemico. All’alba del 5 maggio 965, gli Arabi, dopo aver offerto ripetutamente la resa ai guerrieri romettesi e ricevutone da questi il rifiuto, sferrarono l’attacco decisivo alle mura di Rometta con tutte le loro forze. I pochi difensori li accolsero con le armi in pugno: caddero tutti, ad uno ad uno, combattendo. Rometta fu saccheggiata e data alle fiamme.
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Andare a Rometta, per Leo significava forse commemorare coloro che considerava dei martiri e trasfigurare il loro sacrificio, rendendolo metafora della lotta dell’Uomo contro il Male e le sue tentazioni. Come Paolo di Tarso, Leo poteva ripetere a se stesso
Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede.
A Rometta, Leo continuò a perseguire il suo ideale di vita ascetica, fra austerità e penitenze.
Osservava il digiuno, per diversi giorni di seguito, donando il suo cibo ai poveri; si nutriva sono di aspre erbe di montagna. Dormiva sulla nuda terra, si immergeva nelle gelide acque dei laghi e si flagellava col cilicio, sempre pregando con fervore.
In più, andava a pregare in quello che è probabilmente uno dei più antichi battisteri della Sicilia, la chiesa di Santa Maria dei Cerei, che rappresenta uno dei rari esempi di edificio sacro con pianta a croce greca (equilatera) inscritta in un quadrato.
Quando Leo, dice la “raziuni”, si sentì vicino alla morte, «al suo convento volle tornare». Anche questo è un bisogno frequente degli eremiti: tornare alla comunità nei tempi forti della vita terrena. Era viandante, malandato, affaticato. Lungo la strada chiese aiuto ad un pastore che portava una fascina di erbe. Questi lasciò a terra la fascina, prese il vecchio sulle spalle, lo portò alle porte del convento senza sentirne alcun peso e, quando lo ripose in terra, si accorse che la fascina di legna era accanto a lui. Comprese così di aver servito un Santo.
San Leo chiese al pecoraio di avvertire il padre priore, perché desiderava confessarsi. Ma questi, sbracciando con atto di disprezzo, negava questa carità e rimase con il braccio paralizzato. Allora si mise ad invocare san Leo, promettendogli una chiesa.
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E quando la chiesa fu finita, commenta la “raziuni”, le campane si misero a suonare da sole e per molti anni, dal suo sepolcro, si diffuse un profumo soave.
Chiesetta, in cui gli abitanti di Bova si recano in pellegrinaggio il 5 maggio, mentre quelli di Africo il 12, è stata costruita sui resti dell’antico monastero dell’Annunziata ed alcuni ipotizzano che si trattasse di una grangia dell’Abbazia di Santa Maria dei Tridetti, sita nel comune di Staiti. Nel monastero, secondo alcune teorie, fu vergato nel 964 il lezionario attualmente conservato alla Laurenziana di Firenze.
Come accennavo, da secoli dura la disputa tra Bova e Africo per le reliquie del Santo: il corpo di Leo fu sicuramente sepolto ad Africo, ma in una data imprecisata ma probabilmente coincidente con qualche calamità naturale (alluvione o terremoto), i cittadini di Bova prelevarono le reliquie per custodirle a Bova, lasciando ad Africo solo un osso, che oggi è possibile vedere sul petto del reliquiario argenteo conservato nella chiesa di San Salvatore ad Africo Nuovo.
Tale busto è del tutto analogo a quello presente a Bova e realizzato da maestranze messinesi nel 1635, stesso anno nel quale è stata realizzata la statua in marmo presente nella Chiesa di San Leo ad Africo Vecchio. In quel busto i Bovesi conservano le ossa del cranio, i femori e le tibie, mentre l’osso in possesso degli Africesi dovrebbe appartenere alla mano. Ciò sarebbe confermato dal fatto che fino al 1739 il reliquiario di Africo, poi sostituito dall’attuale busto argenteo, aveva la foggia di un braccio.
Sempre per testimoniare il diritto a custodire le ossa, i Bovesi raccontano di un intervento prodigioso e deciso di Leo a favore del popolo. Dopo il terremoto del 1659, Bova non era in grado di pagare i debiti al fisco e a Madrid erano ben intenzionati a spedire tutti a remare sulle galere iberiche. Per salvare i grecanici da questa triste sorte, Leo apparve in sogno al re di Spagna, convincendolo ad applicare una sorta di condono fiscale.
Dopo secoli di dispute, nel 1951 una parte delle reliquie di Leo fu restituita ad Africo: purtroppo il paese fra il 14 e il 18 ottobre di quell’anno fu devastato da una violenta alluvione. Il paese fu evacuato la popolazione fu alloggiata per pochi giorni nelle scuole elementari di Bova, per poi, alla fine di ottobre, essere trasferita a Gambarie e da lì provvisoriamente distribuita in vari altri comuni della provincia, fra i quali Reggio di Calabria, Bova Marina e Palmi.
In particolare, più di mille persone furono allocate in baracche di legno a Reggio di Calabria, in contrada Lazzaretto di Condera… In questo tipico esempio di italica disorganizzazione, a qualcuno venne in mente, fregandosene altamente della volontà e delle speranze degli Africesi, invece di ricostuire il loro paese d’origine, di deportarli in massa nel nuovo centro da costruire in località La Quercia di Capo Bruzzano, nel territorio del Comune di Bianco.
Così nacque il primo paese italiano senza storia e territorio… Chissà cosa avrà pensato Leo di questa vicenda, dall’alto della nuvoletta su cui si trova…
January 21, 2019
I diavoli della Zisa
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Come già raccontato, nel 1635 la Zisa fu ceduta gratuitamente a don Giovanni de Sandoval, il quale provvide ad adattare il palazzo al gusto barocco: tra i tanti interventi, vi fu la modifica della decorazione della sala della Fontana, la cui volta fu affrescata con la raffigurazione, che andava tanto di moda all’epoca, degli dei dell’Olimpo.
Rappresentazione che colpì la fantasia del popolo palermitano, che scambiò le figure mitologiche per diavoli e che ci tessé sopra una serie di storie e leggende.
La più famosa, parla d’amore e di morte: ad Al-Mahdiyya, in Tunisia, la città fatimide degna di Mille e una Notte, il figlio di un emiro dei nomadi Banu Hammad, Azel Comel, bello come il sole, abile nella magia e libero come il deserto, il cui sguardo rubava il cuore di ogni donna, si innamorò di El-Aziz, la splendida figlia del califfo sciita.
Vi era però un antico e profondo odio tra i loro padri: così, quando Azel Comel chiese in sposa la sua bella, non solo gli fu negata la sua mano, ma fu anche diseredato, per avere osato tale affronto alla propria famiglia.
Ma Azel non si perse d’animo: sapeva come il padre avesse nascosto i propri tesori in una grotta in mezzo al deserto, custodita da un orgoglioso Ifrit, uno spirito del fuoco imprigionato a tradimento e costretto a fungere da custode a tali ricchezze.
Azel, in cambio della possibilità di prendere oro e gemme, liberò l’Ifrit dall’incantesimo, per poi tornare ad Al-Mahdiyya, dove, travestito da schiava, si introdusse nell’harem del califfo, per rapire la sua amata. Dopo esserci riuscito, fuggì nel porto, dove rubò una nave e convinse gli jinn del vento a condurlo oltre il mare, nella ricca e splendente Ṣiqilliyya.
Il Califfo fatimide, saputa la notizia, mandò la sua flotta a inseguire i due amanti, per catturarli: Azel Comel scatenò contro le navi i māridūn, signori delle tempeste che dormono nel profondo degli abissi. Questi, ubriachi di caos e distruzione, affondarono tutte le navi.
Alla notizia quanto accaduto, la madre di El-Aziz morì di crepacuore: così il califfo maledì la figlia e Azel Comel. I due amanti, ignari di tutto, giunsero a Balarm, dove odori, sapori e suoni fecero da dolce palcoscenico al loro amore.
Una sera, recatosi alla periferia della città, Azel evocò Ashmed, il diavolo esperto nelle arti delle geometria, matematica, astronomia e i suoi sodali, e in cambio della sua anima, chiese loro di costruire in una notteil palazzo della Zisa, dove, nei suoi sotterranei, avrebbe nascosto il tesoro che si era portato dietro dalla sua terra d’origine.
Ashmed accettò lo scambio, ma all’alba, fu ingannato da Azel, che lo vincolò al palazzo, imprigionandolo assieme agli assistenti nell’affresco e rendendolo custode delle ricchezze presenti. Le creature degli inferi sarebbero state liberate solo quando qualcuno avrebbe contato il loro numero esatto. Cosa che Azel rese impossibile con secondo incantesimo, che avrebbe ottenebrato i sensi di chiunque avesse tentato nell’impresa.
Il giorno dopo, però, un uccello viaggiatore fece cadere dal becco un biglietto diretto ad El-Aziz, in cui si narrava della morte della madre e del fatto che l’Ifrit liberato da Azel si fosse vendicato della prigionia, bruciando vivo suo padre.
La notizia scatenò i rimorsi di El Aziz che corse ad al-Halisah, la nostra Kalsa, per gettarsi in mare e morire affogata. Azel Comel, vedendo l’amata morta fu preso da un attacco di follia. Passò le notti ed i giorni correndo per mari e per monti, affamato e pieno di collera, finché Malak al-Mawt, l’angelo della morte, ebbe pietà di lui e gli donò pace.
Cosi i diavoli continuano annoiati a custodire il tesoro, progionieri dei colori e dell’intonaco, in attesa che qualcuno abbia sufficiente intelligenza e forza d’animo per contare il loro numero. Impresa a quanto pare impossibile, che ha ha influenzato perfino il linguaggio della città, come dimostra il celebre modo di dire palermitano “E chi su, li diavoli di la Zisa?” (“E cosa sono? I diavoli della Zisa?”) per indicare una circostanza in cui non tornano i conti.
Secondo un’altra leggenda, il giorno dell’Annunziata (25 marzo) chi fissa per troppo tempo i diavoli della Zisa ad un certo punto li vedrà muovere la coda o storcere la bocca. O altre secondo cui i giorni di vento intenso a Palermo sono causati dall’uscita provvisoria dei diavoli dal castello che portano con sé l’aria fresca del palazzo stesso…
Alessio Brugnoli's Blog

