Alessio Brugnoli's Blog, page 131
November 8, 2018
Omaggio a Sant’Elia
Antonio Sant’Elia è stato qualcosa di più di un architetto: ha costruito un immaginario che, complice i fumetti, le illustrazioni e il cinema ci portiamo dietro da un secolo… Tutte le volte che nella nostra mente pensiamo alla città del futuro, sia questo trionfale, inquieto o decadente, non possiamo non confrontarci con le sue utopie.
Ogni ulteriore commento, da parte mia, è di troppo… E’ meglio quindi lasciare spazio alle sue parole e al frutto delle sue immagini.
L’architettura futurista è l’architettura del calcolo, dell’audacia temeraria e della semplicità; l’architettura del cemento armato, del ferro, del vetro, del cartone, della fibra tessile e di tutti quei surrogati del legno, della pietra e del mattone che permettono di ottenere il massimo della elasticità e della leggerezza
Per architettura si deve intendere lo sforzo di armonizzare con libertà e con grande audacia, l’ambiente con l’uomo, cioè rendere il mondo delle cose una proiezione diretta del mondo dello spirito
Sentiamo di non essere più gli uomini delle cattedrali, dei palazzi, degli arengari; ma dei grandi alberghi, delle stazioni ferroviarie, delle strade immense, dei porti colossali, dei mercati coperti, delle gallerie luminose, dei rettifili, degli sventramenti salutari. Noi dobbiamo inventare e rifabbricare la città futurista simile ad un immenso cantiere tumultuante, agile, mobile, dinamico in ogni sua parte e la casa futurista simile ad una macchina gigantesca. La casa di cemento, di vetro, di ferro….. deve essere sull’orlo di un abisso tumultuante: la strada si sprofonderà nella terra per parecchi piani, che accoglieranno il traffico metropolitano e saranno congiunti, per i transiti necessari, da passerelle meccaniche e da velocissimi tapis roulant
Da un’architettura così concepita non può nascere nessuna abitudine plastica e lineare, perché i caratteri fondamentali dell’architettura futurista saranno la caducità e la transitorietà. Le case dureranno meno di noi. Ogni generazione dovrà fabbricarsi la sua città. Questo costante rinnovamento dell’ambiente architettino contribuirà alla vittoria del Futurismo, che già si afferma con le parole in libertà, il dinamismo plastico, la musica senza quadratura e l’arte dei rumori, per il quale lottiamo senza tregua contro la vigliaccheria passatista
Dopo tali visioni, mi fa sorridere il fatto che Sant’Elia sia più moderno dei nostri amministratori grillini, i quali, nel ripensare Roma, hanno rinunciato alla sfida del Futuro, per rimanere schiavi di un passato asfissiante
November 7, 2018
Il cd. Tempio di Minerva Medica come non l’avete mai visto
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Appena disponibile il visore 3D potrete ammirare il cd. Tempio di Minerva Medica da tutte le angolazioni possibili spostandovi semplicemente con il mouse tenendo premuto il tasto sinistro
Buona visione!
Storie di famiglia
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Qualche giorno fa, grazie a uno dei miei tanti cugini, è saltato fuori il foglio matricolare del mio bisnonno Giovanni: vedendolo, qualche amico se ne è uscito dicendo: perché non gli dedichi una storia ? Effettivamente, Giovanni se la meriterebbe tutta.
Medaglia d’argento, per avere resistito e catturato un centinaio di austriaci, con una mitragliatrice, tanta inventiva e una buona dose di faccia tosta, visto che fece credere ai nemici di trovarsi davanti, invece che un uomo solo, uno sproposito di italiani, dopo la guerra guidò l’occupazione delle terre da parte dei combattenti e reduci…
Però per dirla tutta, non è il solo che meriterebbe di essere citato in un racconto. Questo onore potrebbe toccare anche a nonno Ventura, probabilmente il primo a lavorare nel campo dell’edilizia: mestiere praticato dai suoi figli Claudio, il mio bisnonno, e da suo fratello Stefano, poi da nonno Alfonso, dai prozii Duilio, Fausto, Dolorino e Peppe.
E per citare mio papà
Da mio padre Alfonso abbiamo proseguito la tradizione Io, Claudio e Silvio che abbiamo fatto anche i muratori.Da zio Dolorino hanno proseguito la tradizione Renzo e Bizio. Da Stefano hanno proseguito la tradizione Vittorietto e Barzillari dai quali discendono i Brugnoli che stanno tutti nell’edilizia.
Insomma, pare una delle tante genealogie che appaiono nei libri della Bibbia, però, che dire, la mia famiglia è senza dubbio assa complicata. Tornando a nonno Ventura, tutto gli si può dire, tranne che non fosse anarcoide e amasse godersi la vita: si era sposato con una riccona, piena di negozi al Pantheon e con rigore scientifico, era riuscito a mangiarsi tutto. Quando stava insieme agli amici e gli chiedevano di raccontare le barzellette, rispondeva
nun è ora di barzellette se prima nun ci simo beuti parecchi bicchierei de vinu.
In compenso, nel 1849 aveva combattuto con Garibaldi a difesa della Repubblica Romana: al ritorno del Papa Re, non seguì il Nizzardo, me ne rimase a casa e dato che non era un tizio rancorso, fece amicizia con alcuni soldati francesi, con cui andava a caccia assieme. Nonno Ventura notò che, mentre lui si dedicava alla selvaggina di piuma e di pelo, i transalpini sparavano ai serpente. Applicando l’antico principio del
Contenti loro, contenti tutti
Non fece troppe domande. A Natale, i francesi, che lo avevano preso in simpatia, lo invitarono a cena; il piatto principale pareva anguilla e nonno, che ne era goloso, non si fece pregare. Peccato che, al termine della cena, i transalpino dissero aveva mangiato le serpi catturate durante la caccia. Ventura, che dal punto di vista culinario era assai più conservatore del sottoscritto, non fu sportivo, prese il fucile e tentò di sparare ai francesi, che passarono così un brutto quarto d’ora.
Fratello di bisnonno Ventura era zio Beniamino che faceva lo scalpellino. Dopo la presa di Roma del 1871 i carabinieri costruirono la caserma sotto il Cadipozze alla casa di Pelliccioni. Una sera zio Beniamino, tornando dal lavoro. fu fermato dai carabinieri i quali gli domandarono come si chiamasse. Beniamino. che mestiere facesse. lo scalpellino, che cosa lavorava, il peperino, da dove veniva, da Marino. I carabinieri. credendo di essere stati presi in giro,arrestarono zio Beniamino ma pagarono a caro prezzo questa decisione perché, poche sere dopo furono malmenati da parenti e amici di Beniamino, ovviamente guidati da nonno Ventura e costretti a randellate a liberare il prigioniero.
A questi possiamo aggiungere un prozio anarchico e bombarolo, uno che campava scrivendo lunari e vendendo elisir contro tutti i mali e bisnonno Claudio, che era nel Genio minatori e che aveva collaborato con Gelasio Caetani di Sermoneta nel progetto e nella realizzazione della mina di Col di Lana..
November 6, 2018
La speranza è un’erbaccia dura
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Ieri sera, nella Sala Giuseppina, presso la Gelateria Fassi, si è tenuta la presentazione del libro La Ragazza di Homs di Susan Dabbous: una bellissima esperienza, goduta da pochi intimi, sia per la furia di Giove Pluvio, sia per la pigrizia d noi esquilini, io non faccio eccezione, che consideriamo la Cultura solo come una coperta di Linus, per consolarci delle nostra inadeguatezza, e come una stampella per i nostri pregiudizi: quando invece li rimette in discussione, con esperienze concrete, ce ne teniamo ben lontani.
Chi non è venuto, lo dico con sincerità, ha perso un’occasione per approfondire e riflettere su temi forti e contemporanei. Il primo è la guerra in Siria, che sentiamo così lontano e distante, una sorta di rumore di fondo del nostro quotidiano. Come alcuni sanno, ho vissuto in maniera diretta l’esperienza di Sarajevo. L’ho sempre considerata, con i suoi massacri e l’indifferenza con come li abbiamo accolti, un fallimento di ciò che ci rende umani… Mille volte mi sono illuso che avessimo imparato la lezione e che quanto successo non si sarebbe mai ripetuto. Invece Damasco, Homs, Aleppo, invece hanno mostrato quanto mi sbagliassi. Dopo anni di massacri, a nessuno frega più niente di cacciare Assad e di aiutare la conquista della libertà; i membri della comunità internazionale se ne fregano altamente della sofferenza della popolazione e pensano soltanto a difendere i loro interessi particolari, con l’obiettivo di conservare o accrescere l’orticello che si sono ritagliati ai danni dei siriani
Il secondo è il fenomeno dell’immigrazione: ci illudiamo di conoscere i numeri, perché spesso li tiriamo a caso e nascondiamo la testa sotto la sabbia dinanzi alle storie e ai drammi delle persone, che usiamo come capro espiatorio dei tanti fallimenti della nostra società. Che è una risorsa, non per i conti da ragioniere relativi alla demografia, l’IA e la robotica avanzata ridefiniranno in maniera radicale il modo di concepire la forza lavoro, ma per il fatto che il confronto con l’altro ci aiuta a rimanere umani
Il terzo è nel nostro fallimento nel raccontare tali realtà: sta vincendo una narrazione basata sull’egoismo e sulla paura e progressivamente, ci siamo ritrovato in mondo che ha molto in comune con quello descritto da Orwell in 1984.
Dove l’ignoranza, invece che una cosa di cui vergognarsi, è diventata un motivo di vanto, dove ci sono i due minuti d’odio, ogni volta dedicati a un nuovo nemico immaginari, con la neolingua, in cui il senso delle parole è distorto e svilito e il bispensiero, il meccanismo psicologico che consente di credere che tutto possa farsi e disfarsi: la volontà e la capacità di sostenere un’idea e il suo opposto, in modo da non trovarsi mai al di fuori del gregge, rinunciando alla sfida di essere eretici
Insomma, dovrei essere pieno di sfiducia per l’Uomo… Eppure… Forse è meglio lasciare la parola Susan…
C’è stato qualcosa di speciale ieri alla presentazione nel Palazzo del Freddo. Nella Sala Giuseppina, riparati dalla pioggia, seduti in cerchio, ho raccontato de La ragazza di Homs a delle persone che hanno attraversato Roma col diluvio universale per sentire la sua storia. Ebbene ne è emersa una chiacchierata tra persone che la pensano alla stessa maniera che vogliono essere dalla stessa parte della storia, persone che guardano con preoccupazione questi tempi di sovranismo e porti chiusi. Ci siamo confrontati e sfogati e anche un po’ consolati nel non sentirci soli. Credo che tutti abbiamo lasciato quella sala portandoci dentro il calore di quel salotto
In fondo la speranza non è mai perduta… Perché questa non è un fiore delicato, ma un’erbaccia dura e ostinata, che spunta nei luoghi più impensati e che non può essere estirpata.
November 5, 2018
5 novembre 2018 – Presentazione del romanzo “La ragazza di Homs” al Palazzo del Freddo – Fassi
Lunedì 5 novembre alle ore 19,00 la Sala Giuseppina Fassi ospita la presentazione del romanzo “La ragazza di Homs” della giornalista italo-siriana Susan Dabbous, pubblicato a maggio da Castelvecchi.
L’evento è organizzato in collaborazione con le DANZE DI PIAZZA VITTORIO che riprendono così la loro stagione culturale, centrata sull’idea che l’Esquilino sia un crocevia di dialogo tra persone, culture ed esperienze differenti.
Uno dei fulcri narrativi del romanzo, focalizzato sulla guerra in Siria, è la distruzione dell’antica Emesa, la patria dell’imperatore romano Eliogabalo, le cui tracce riempiono il rione XV, città di poeti, sognatori e pazzi. E’ una storia di Beirut, che con fatica cerca di guarire dalle sue ferite e su Milano, città che finisce di non avere passato. Una storia di guerra, migrazione e coraggio, di abbandoni e solitudine, di amore sincero e assoluto, di amicizia e solidarietà; di etica e tentazione, di speranza e…
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November 4, 2018
La basilica di San Bernardino all’Aquila
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Quando bazzicavo l’Aquila, spesso me ne andavo a spasso per via Fortebraccio, per poi trovarmi davanti la scalinata che porta alla basilica di San Bernardino, che, con la sua tormentata storia, è un perfetto specchio delle vicissitudini vissuta dalla città abruzzese in questi secoli.
Pochi lo sanno, ma San Bernardino, nato tra l’altro a Massa Marittima, dopo essere diventato vicario generale dell’ordine dei francescani in Italia, fu invitato dal vescovo Amico Agnifili in Abruzzo, per tentare di riappacificare le due fazioni cittadine; seppur malato, nei primi mesi del 1444, si recò quindi all’Aquila dove morì dopo poco tempo, il 20 maggio. Le sue spoglie furono poste nella chiesa di San Francesco in piazza del Palazzo, ora distrutta; dato che sulla sua tomba cominciarono a verificarsi miracoli a iosa, gli aquilani, fiutando il business dei pellegrinaggi, smisero di scannarsi tra loro e
cominciarono a rompere le scatole a papa Niccolò V, affinché Bernardino fosse santificato e venisse costruita un’adeguata chiesa per onorarlo.
Ad appoggiate tale richiesta, vi erano anche una coppia di santi. Il primo era Giovanni da Capestrano, figlio di un barone tedesco e di una giovane dama abruzzese, grande predicatore e maltrattatore d’eretici, il cui passatempo principale era rompere le uova nel paniere a Maometto II: nel 1456 fu incaricato dal Papa, insieme ad alcuni altri frati, di predicare la Crociata contro l’Impero Ottomano che aveva invaso la penisola balcanica. Percorrendo l’Europa orientale, il Capestrano riuscì a raccogliere decine di migliaia di volontari, alla cui testa partecipò all’assedio di Belgrado nel luglio di quell’anno. Egli incitò i suoi uomini all’assalto decisivo con le parole di san Paolo: «Colui che ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento». L’esercito turco fu messo in fuga e lo stesso sultano Maometto II venne ferito.L’altro era Giacomo della Marca, che oltre a predicare, passava il tempo a sedare guerre, scrivere statuti cittadini e fondare confraternite e aveva l’hobby dell’architettura.
Tanto fecero, che i lavori cominciarono nel 1454, a soli dieci anni dalla morte del santo; inizialmente, la basilica doveva essere costruita sul luogo di Santa Maria del Carmine, ma una rivolta dei parrocchiani, che presero a randellate in capo gli operai e i sovraintendenti alla demolizione, fece cambiare al volo idea. Fu così scelto lo spazio tra il vecchio ospedale San Salvatore e la chiesa di Sant’Alò, che, essendo in stato di abbandono, non poteva essere difesa da fedeli dal pessimo carattere.
Il progetto era stato affidato proprio Giacomo della Marca, il quale, ispirato sia ai martyrion paleocristiani, cioè le chiese contenenti reliquie di martiri, conosciute nei suoi viaggi in Oriente, sia dalle sperimentazioni di Brunelleschi, ipotizzò un edificio a pianta centrale, sormontato da una grande cupola, con al centro la tomba di Bernardino. Il terremoto del 1461, che provocò alcuni danni alla costruzione, costrinse all’interruzione dei lavori che ripresero nel 1464, fece cambiare idea a Giacomo, prima, per il solito, annoso problema di dove piazzare l’altare maggiore, poi, per la questione che la
dimensioni della chiesa potevano essere inadeguate a contenere il previsto afflusso di pellegrini; per cui si optò per una soluzione più “tradizionale”, aggiungendo al tiburio tre navate, ai cui lati vi erano una serie di cappelle gentilizie, dalla pianta semi ottagonale.
I lavori furono forse terminati nel 1472, in quell’anno infatti il corpo di San Bernardino fece il suo ingresso nella nuova basilica per essere posto nella cappella a lui dedicata; in questa prima fase la chiesa presentava una facciata in laterizio di grande originalità, dotata di portico ed eretta tra il 1465 e il 1468, sempre su progetto di Giacomo della Marca, che, a quanto pare, in quel periodo, si divertiva più come architetto che come predicatore.
In qualche modo, dato che gli storici hanno le idee poco chiare sul tema, il cantiere di San Bernardino divenne una sorta di laboratorio di sperimentazione, da cui saranno tratte diverse idee adottata nell’architettura della seconda metà del Quattrocento: le similitudini tra la prima fase costruttiva della chiesa aquilana e il progetto di Santa Maria della Pace di Amedeo di Francesco, tra la seconda fase costruttiva e le soluzioni adottate da Baccio Pontelli e Andrea Bregno per Santa Maria del Popolo e da Jacopo di Cristoforo per Sant’Agostino, tra la sua facciata originale e quella di San Pietro in Vincoli,
sempre del Pontelli, interventi tutti successivi, sono troppo accentuate per essere casuali.
Tra il 1488 ed il 1489, su impulso di due dei frati del convento, Francesco e Ambrogio, si affrontò il problema della cupola, che nella forma originale doveva esse molto slanciata verso l’altro e retta da una fine pilastratura nervata: non è noto con certezza di chi si il progetto, è probabile che, essendo diventato in quel periodo il responsabili della Fabbrica, sia di Silvestro dell’Aquila o di qualcuno della sua cerchia.
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Di certo, Silvesto lavorò alacremente alla decorazione interna della basilica: nel 1488 scolpì il mausoleo di Amico Agnifili, il vescovo e quello di Maria Pereyra Camponeschi, cugina di Ferdinando II d’Aragona e nonna del futuro papa Paolo IV. Data l’importanze di quest’ultima commissione, l’artista diede il meglio di sè, scolpendo un monumento che sintetizza influenze tosco-romane — in primis le opere di Andrea Bregno, ritenuto uno dei principali riferimenti di Silvestro, che lavorò con lui nell’arcispedale di Santo Spirito in Saxia — ed urbinate, forse dovute ad un passaggio dello scultore nelle Marche.
In un raffinato arcosolio, è stato ricavato un fondale piatto dal punto di vista plastico come dal punto di vista cromatico essendo la parete dipinta di un rosso omogeneo simile al porfido;su questa quinta è quindi modellato un complesso sarcofago con le figure gisant e dormienti di Maria e di Beatrice, quest’ultima collocata sotto il giaciglio della madre.A lato del sarcofago, due putti d’influenza toscana sorreggono lo stemma del casato. I pilastri laterali sono suddivisi in quattro settori e impreziositi dalle statue di San Giovanni Battista, Santa Lucia, San Francesco e Santa Caterina da Siena Il festone
sovrastante, invece, può essere ricondotto alle decorazioni del rinascimento urbinate ed in particolare alla Sala delle Veglie del Palazzo Ducale.
Burman, trascinato dall’entusiasmo, così scrisse sull’opera
È nei dettagli della parte centrale del monumento che si rileva il genio di Silvestro, la superiorità ineffabile della sua mano nei confronti di tutti gli altri scultori nella storia dell’Aquila e che dimostra il suo diritto d’essere incluso nell’elenco dei più grandi scultori del Quattrocento.
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A seguito del successo del mausolei di Maria Pereyra Camponeschi, gli fu affidato il compito di realizzare l’Arca di San Bernardino, la tomba del santo. Il monumento, in pietra e con rivestimento in marmo, ha la forma di una grande arca isolata su base quadrata ,caratterizzato da pilastroni angolari con incavate nicchie; a coronamento dei pilastri è una possente trabeazione, finemente lavorata, a sua volta coronata da un arco lunettato.
Sul fronte principale è presente, nell’ordine inferiore, un’apertura rettangolare bipartita con un’esile colonnina, caratterizzata da una grata metallica, che permette la visuale all’interno del sepolcro. Nell’ordine superiore è una Madonna con bambino tra San Bernardino e Jacopo di Notar Nanni, quest’ultimo committente e donatore dell’opera.Nella lunetta di coronamento è il Padre Eterno circondato da mezzo giro di cherubini. Le quattro nicchie ospitano in basso le statue dei Santi Pietro e Paolo ed in alto quelle di San Giovanni Battista e San Giovanni Evangelista.Infine, il basamento raccoglie due epigrafi dedicate al santo oltre che un inciso sulla committenza e sulla data di ultimazione dell’opera
Il fronte posteriore è caratterizzato da un ordine inferiore similare a quello del prospetto principale mentre nell’ordine superiore è un’iscrizione con la vita di San Bernardino e la storia della basilica. Nella lunetta è presente un Cristo uscente dal sepolcro; le nicchie ospitano in basso le statue di San Francesco e Sant’Antonio da Padova ed in alto quelle di San Sebastiano e Santa Caterina d’Alessandria. Nel basamento è un’esaltazione del sepolcro con paragoni alle opere degli scultori greci Fidia, Prassitele, Scopas, Timoteo e Briasside. Alla raffinatezza del lavoro scultoreo — già visibile nel mausoleo
Camponeschi, di fattezze proto-rinascimentali — si unì una maestosità ed una solennità, oltre che uno studio volumetrico, chiaramente d’impronta rinascimentale che fanno del sepolcro una delle prime opere caratterizzanti di questo stile dopo il tempietto di San Pietro in Montorio del Bramante a Roma del 1502.
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Al contempo, Silvestro presentò un progetto di ampliamento e rinnovamento della facciata, che, nonostante l’interesse di papa Giulio II, non fu mai realizzato. Tra il 1495 e il 1500, fu poi realizzata La Resurrezione, Incoronazione di Maria e quattro santi, la pala d’altare in terracotta invetriata di Andrea della Robbia commissionata dalla famiglia Vetusti Oliva. Nel realizzare la terracotta, l’artista, facendosi trascinare dall’entusiasmo, realizzò una complessa macchina compositiva, in cui appaiono ben 28 figure, compreso il Cristo che risorge risorge dal sepolcro tra due gruppi di santi e in posizione elevata
rispetto ad alcuni soldati dormienti; nella parte superiore è lo stesso Cristo che incorona la Vergine circondato da quattro gruppi di angeli festanti, la cui idea di base, di gran lunga migliorata e perfezionata, fu ripresa da Raffaello nella sua trasfigurazione.
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Nella prima metà del Cinquecento si decise, inoltre, di rimettere mano alla facciata e per realizzarla venne chiamato l’architetto Nicola Filotesio, meglio noto come Cola dell’Amatrice, architetto dalla vita tormentata. Ad esempio, il 10 marzo 1536, quando il papa Paolo III decise di bandire dalla città di Ascoli tutti i ribelli. Nicola, essendo amico del loro capo, decise di fuggire insieme alla moglie. Poco fuori dalla città di Ascoli, in prossimità del Torrente Chiaro, i due si resero conto di essere inseguiti dalle guardie, attratti più dalla bellezza della donna che da Nicola: per evitare lo stupro e salvare la pelle al marito, Maria decise di suicidarsi, gettandosi in un burrone.
Nicola, per evidenziare il legame tra San Bernardino e la Toscana, si ispirò al progetto presentato da Michelangelo per realizzare la facciata di San Lorenzo a Firenze, in modo da realizzare una sorta di quinta teatrale, che nascondesse la struttura architettonica della chiesa. secondo alcuni storici, il Filotesio avrebbe ricevuto il progetto dallo stesso Michelangelo, secondo altri ebbe semplicemente modo di osservarlo durante un viaggio a Roma nel 1525. I lavori iniziarono proprio nel 1525 e furono completati a scaglioni: nel 1527 venne completato il primo ordine, nel 1540 il secondo e infine nel 1542 la
facciata poteva dirsi finita con il completamento del terzo e ultimo ordine.
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Nel 1599 il fiammingo Aert Mytens realizzò la crocefissione per la cappella maggiore, che Karel van Mander, il Vasari delle Fiandre, così definì
All’Aquila, egli eseguì un’opera veramente eccezionale ed eccellente su una superficie così grande che da sola ricopriva un’intera campata. Vi si vedeva una Crocifissione, piena di figure grandiose e di svariati ornamenti, sorprendentemente inventiva nella composizione e nella resa; compiuta con massima difficoltà, infatti, essa venne dipinta con l’ausilio di una scala, in una circostanza nient’affatto semplice, capace di scoraggiare e spaventare qualsiasi artefice
Nel 1703, la basilica venne, come detto, devastata dal Grande Terremoto che colpì la città. San Bernardino fu tra gli edifici a subire i maggiori danni, con la sola facciata e le mura laterali che rimasero in piedi. La ricostruzione della basilica cominciò qualche anno dopo la catastrofe e cambiò radicalmente volto alla chiesa, non solo per l’apparato decorativo — virato, come nel caso della basilica di Santa Maria di Collemaggio ed altre chiese minori, verso lo stile barocco dell’epoca — ma anche per quanto riguarda l’organizzazione spaziale dell’aula. L’incarico della ricostruzione fu dato a un ignoto
architetto locale, che sempre per evidenziare legame con la Toscana, si ispirò alla pianta del duomo di Firenze, inserendo, sul preesistente impianto longitudinale, un asse trasversale sul quale viene collocato il mausoleo del Santo che, posto sulla nave laterale e sopraelevato di cinque gradini, crea una seconda chiesa con relative navate ai lati.
La basilica divenne così composta da quattro fondamentali spazi: l’aula absidale, al cui interno trovano collocazione il coro e l’altare maggiore, la pianta centrale cupolata, l’organismo trasversale con la cappella del Santo e le tre navi con le cappelle laterali. Un’ulteriore rilevante modifica settecentesca riguardò proprio le cappelle laterali che, se originariamente creavano lungo le fiancate una ricca articolazione, conferita dalla sporgenza delle loro volumetrie poligonali, nella successiva ricostruzione vennero uniformate all’esterno con un semplice muro rettilineo
Rimaneva il problema del ricostruire la cupola: per risolverlo, Giovan Battista Contini, grande amico di Bernini, architetto, scenografo e grande esperto di ingegneria idraulica, dato che, tra il 1690 ed il 1693 venne chiamato a fronteggiare le inondazioni del Po nella pianura Padana. Contini, preso dall’entusiasmo, propose un’ardita struttura a prisma ottagonale alzata a tutta l’altezza del tamburo, ma l’architetto aquilano gli fece notare come una soluzione del genere, difficilmente avrebbe retto a una scossa di terremoto. Per cui, entrambi progettarono, con il supporto dello strutturalista Filippo Barigioni, allievo di Carlo Fontana, un nuovo progetto, più tradizionale, meno slanciato della cupola quattrocentesca e più stabile.
Il terremoto del 2009 produsse nuovi danni alla basilica; a farne le spese fu soprattutto la parte absidale dove si registrarono il crollo parziale della torre campanaria e lesioni di grave entità sul tamburo della cupola, che però, a testimonianza della bontà del lavoro compiuto nel Settecento, resse; Si riscontrarono inoltre danni alla facciata. I lavori di restauro, con tutti i problemi connessi alla ricostruzione della città, terminarono nel 2015 e portarono la sua riapertura al pubblico il 2 maggio 2015.
November 3, 2018
Sacraria Argei all’Esquilino ?
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Un paio di giorni fa, parlando delle feste romane in onore dei defunti, ho citato i riti degli Argei, talmente arcaici da non essere indicati nel calendario ufficiale romano delle feste religiose, cioè non erano feriae publicae, essendo antecedenti alla fondazione dell’Urbs.
Riti che come già accennato consistevano a marzo in una processione che percorreva 27 sacraria, cappelle dalla regio Suburana a quella Esquilina, Collina e Palatina, secondo quanto ci tramanda Ulpiano, a cui partecipava anche la la Flaminica Dialis, la moglie del flamine diale, il sacerdote preposto al culto di Giove, in abbigliamento di lutto e nella cerimonia al termine della Lemuria, in cui le Vestali gettavano nel Tevere da ponte Sublicio fantocci in giunco (scirpea).
La Flamica Dialis, tra l’altro, che secondo il buon Gellio, doveva rispettare una serie di divieti, che in altri contesti, sarebbero stati definiti tabù tribali: doveva portare una veste colorata (quod venenato operitur), doveva mettere un germoglio di albero “felice” nello scialle (et quod in rica surculum de arbore felici habet), non doveva salire più di tre scalini se non si trattava di una scala “greca” cioè coperta da entrambi i lati (et quod scalas, nisi quae Graecae appellantur, escendere ei plus tribus gradibus religiosum est atque etiam), e nel nostro caso, specifico, quando partecipava alla processione degli Argei non si doveva ornare la testa, né pettinare i capelli (cum it ad Argeos, quod neque comit caput neque capillum depectit).
Cerimonie che prima del sinecismo che porta alla nascita di Roma, dovevano servire a rafforzare i legami tra i pagi delle popoli albensi che abitavano l’area, che Plinio il vecchio chiama con il nome di Foreti, Latinienses, Munienses, Querquetulani, Velienses, ricordando l’origine da un comune antenato mitico e fungere da grande purificazione collettiva, in cui gli Argei fungevano da capri espiatori e da sacrificio per placare gli antenati, inquieti per le cattive azioni compiute dai loro discendenti.
Dove erano questi sacraria ? A darci una sorta di mappa ci pensa il buon Varrone, anche se, a dire il vero, nel suo elenco si perde una buona metà di queste cappelle. L’ unica regione di cui il grande erudito, nomina tutti i distretti in numero di sei era, forse, la seconda, Esquilina, ma il testo è arrivato a noi mutilo. Per la prima regione, Succusana o Suburana, egli nomina solo due distretti, il quarto e il sesto; per la terza, Collina, dal terzo al sesto; per la quarta, Palatina, il quinto e il sesto.
Parlando del nostro Esquilino, un’ipotesi, accettata dalla maggior parte degli studiosi, di ricostruzione del testo originario, farebbe
Esquiliae suo montes habiti, quod pars [Oppio, pars Cespio monte continentur]. Cespeus mons suo antiquo nomine etiam nunc in sacris appellatur. In sacris Argeorum scriptum sic est: ‘Oppius mons princeps [uls Carinas(?), sinistra via in tabernola(?) est. Oppius mons biceps] uls lucum Facutalem, sinistraque secundum m[o]erum est. Oppius mons terticeps cis lucum Esquilinum, dexterior via in tabernola est. Oppius mons quarticeps u[l]s lucum Esquilinum, [secundum] viam dexteriorem in figlinis est. Cespius mons quin ticeps cis lucum Poetelium Esquili[is fi]nis est. Cespius mons sexticeps apud [a]edem Iunonis Lucinae, ubi [a]editumus habere solet
Che tradotto in italiano, risulterebbe
Formano le Esquilie due diversi monti, visto che esse sono comprese parte nell’ Oppio e parte nel Cispio. Nei libri sacri il Cispio è chiamato ancora nella forma antica di «Cespio». Infatti, nei libri degli Argei troviamo scritto quanto segue: “Il primo distretto esquilino è nell’Oppio, oltre le Carine (?), con il suo lato sinistro sulla via delle bottegucce (?); il secondo, sempre nell’Oppio, al di qua del lucus Fagutalis, con lato sinistro sul muro; il terzo, al di qua del lucus Esquilinus, col suo lato destro sulla via delle bottegucce; il quarto, ancora sull’Oppio, si situa oltre il lucus stesso, col lato destro sulla via delle figuline; il quinto è sul Cespio, al di qua del lucus Poetelius, e risulta il più estremo dell’Esquilino; il sesto è sul Cespio ancora, dove si trova il tempio di Giunone Lucina, che dispone di un custode”
Dove appare evidente come nella sua descrizione Varrone faccia riferimenti a un documento assai più arcaico, il libro degli argei, dato che uno dei riferimenti, in relazione alle Carine, non è il muro della fortificazione «serviana», ma il murus terreus Carinarum o aggere preistorico, sopra la Velia, che assieme al murus mustellinus, “il muro della donnola”, costituivano i resti della più antica fortificazione della città.
Ora, abbiamo forse ritrovato, proprio all’Esquilino, uno dei santuari citati dal nostro erudito latino preferito: nel 1987 a Roma, in un’area sul Colle Oppio, tra viale del Monte Oppio e via delle Terme di Traiano, una volta appartenente ai giardini Brancaccio, si compì uno scavo archeologico, dove, oltre ai resti di una fullonica (lavanderia) di età medio-imperiale, saltarono fuori: una grande struttura circolare, in uso dal tardo periodo repubblicano fino ad età tardo-antica (o altomedioevale),rappresentata in un frammento della Forma Urbis, che rappresentava lo stranissimo quartiere, molto simile al rione attuale, che si estendeva tra il fronte nord delle Terme di Traiano e il limite meridionale della Porticus Liviae, in cui convivendo grandi residenze signorili, riconoscibili dai vasti cortili colonnati, ma pure più modesti caseggiati, preceduti da tabernae e portici prospicienti le strade, dove vivevano gli immigrati siriani, greci ed egiziani.
All’interno di tale struttura fu trovato un deposito votivo, di fine VII-VI sec. a.c., contenente sette rocchetti da telaio e nelle sue vicinanze,una piccola area sacra, costituita da un altare in tufo litoide, già danneggiato e semidistrutto in epoca antica, al quale era stato sovrapposto un pavimento di lastre dello stesso materiale, racchiuso da racchiuso in un recinto formato da grandi blocchi di tufo che formavano una struttura di forma rettangolare della quale è attualmente difficile ricostruire la pianta e le dimensioni. Accanto all’altare vi era un deposito votivo. A sud ovest dell’edificio è stato reperito un un pavimento di tufo con un deposito votivo del IV sec. a.c., contenente una statuina bronzea di Kouros, tre tazze di bucchero in miniatura, tre focacce in miniatura e vari frammenti di bucchero
La rotonda fu in principio interpretata come una piscina degli Horti di Mecenate, citata anche questa da fonti antiche, ma il ritrovamento dell’area sacra, coeva a tale struttura, dei depositi votivi e il fatto che nella fase iniziale fosse costruita in cappellaccio e tufo palatino, materiali di costruzioni usati nella Roma più arcaica, fece decadere tale ipotesi.
Ora l’antichità e la sacralità del sito, il fatto che coincidesse con quanto descritto da Varrone, che ne poneva il quarto
viam dexteriorem in figlinis est
ossia in una via caratterizzata dalle botteghe di vasai, che sono state ritrovate nelle vicinanze, cosa rafforzata anche dai cumuli di materiale ceramico di scarto trovato in Via Merulana, ha fatto ipotizzare di avere trovato uno dei santuari argei.
Con un grande forse: alcuni studiosi hanno fatto notare come le fonti antiche, riferite ai sacraria argei, facessero pensare a strutture meno imponenti, la rotonda ha un diametro di 16 metri, di quelle ritrovate e che queste facessero più pensare a una sorta di heroon. In più, nell’ipotesi che un’altra struttura presente nello stesso frammento della Forma Urbis della Rotonda, ancora non identificata e scavata, ma dalla pianta risulta esservi adiacente, caratterizzata di un atrio tuscanico e da una struttura di tipo arcaico, analoga a quelle della via Sacra e alla Regia, potesse essere la domus di Servio Tullio, che sappiamo dalle fonti antiche essere stata eretta nell’Esquilino, allora la costruzione potrebbe essere quanto rimane del Sepulcrum Servii, la tomba del penultimo re di Rom, e il sacrario l’aedes Fortunae Servii, il tempio privato che fece erigere alla sua dea protettrice.
In entrambi le interpretazioni, ci troveremmo sempre davanti a una delle rare testimonianze della Roma arcaica…
Come è stato (veramente) conquistato il West
November 2, 2018
La ragazza di Homs all’Esquilino e solidarietà al nostro Gaetano
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Come sapete, Le danze di Piazza Vittorio non si occupano solo di musica e di balli popolari, ma hanno un approccio globale alla Cultura, centrato sull’idea che l’Esquilino sia un crocevia di dialogo tra persone ed esperienze differenti e un laboratorio per costruire assieme l’Italia del futuro, che si spera migliore dell’attuale
E’ un programma ambizioso, un’utopia ? D’altra parte, come diceva bene Galeano, a questa
mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare
E proprio per proseguire nel nostro cammino, lunedì 5 novembre, alle ore 19.00, nella Sala Giuseppina del Palazzo del Freddo di Giovanni Fassi, che come sempre ringrazio della disponibilità, presentiamo il romanzo La ragazza di Homs della giornalista italo-siriana Susan Dabbous, pubblicato a maggio da Castelvecchi.
Susan, per chi non la conoscesse è una giornalista italo.siriana, che da marzo 2011 segue gli eventi in Medio Oriente per diverse testate italiane tra cui «Avvenire». Nell’aprile del 2013 è stata sequestrata in Siria da un gruppo affiliato ad al-Qaida e rilasciata dopo undici giorni. Nel 2013 ha vinto il Premio Internazionale per la Libertà di Stampa ISF-Città di Firenze. Con Castelvecchi ha pubblicato Come vuoi morire? Rapita nella Siria in guerra (2014), in cui ha raccontato la propria prigionia.
Stavolta invece, si è dedicata alla narrativa, scrivendo un libro ricco di infinite sfumature.E’ un romanzo sulla guerra in Siria, una ferita che ancora sanguina, ma vogliamo e preferiamo ignorare, uno dei fulcri narrativi è la distruzione dell’antica Emesa, la patria dell’imperatore romano Eliogabalo, le cui tracce riempiono il nostro rione, città di poeti, sognatori e pazzi, e sulla sua gemella italiana, l’altrettanto caotica e fuori di sesto Palermo.
E’ una storia di Beirut, che con fatica cerca di guarire dalle sue ferite e su Milano, città che fine di non avere passato. Una storia di guerra, migrazione e coraggio, di abbandoni e solitudine, di’amore sincero e assoluto, di amicizia e solidarietà; di etica e tentazione, di speranza e di seconde opportunità. Valori e principi, che, nella nostra Italia, in cui l’essere umani rischia di diventare un reato, è doveroso ricordare.
E sempre per il dovere di preservare la memoria, le Danze si dedicano anche alla promozione della street art nell’Esquilino. Un paio di giorni fa, una delle opera che abbiamo contribuito a realizzare, il ritratto Gaetano, pietra miliare della storia recente del rione, il nostro venditore di sogni, a via Giolitti è stato danneggiato: poco fa, con Mauro Sgarbi, abbiamo compiuto un sopralluogo, per capire cosa si poteva fare… Il murale, che risulta essere stato preso a martellate, purtroppo non è recuperabile; bisognerà buttare giù tutto e ridipingere il muro da capo… Con l’occasione, assieme a Mauro, alla Casa dei diritti sociali e a tutti coloro che vorranno darci una mano, ci attiveremo per rilanciare il progetto di valorizzazione di quello spazio urbano tramite l’Arte e la Bellezza.
November 1, 2018
Lemuria, Parentalia e Feralia
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Per quanto possa apparire strano, le feste dedicate ai morti non sono soltanto di origine celtica, ma erano assai diffuse nell’antichità classica. I greci avevano le Antesterie, in cui sotto molti aspetti, sopravvivevano elementi della religiosità dell’età del Bronzo, dalla centralità di Di-wo-nu-so e del culto degli antenati al ricordo dei sacrifici umani
I romani, a cui piaceva esagerare, di feste dedicati ai morti ne avevano almeno due: le Lemuria e le Parentalia e Feralia. Le prime, probabilmente le più antiche, data la natura arcaica dei riti ad esse connesse, si celebravano a maggio e, secondo la tradizione, era state istituite da Romolo, in un tardivo senso di colpa, rimpianto, ma anche per placare lo spirito di Remo che forse trucidato per mano fraterna vagava senza pace ( Ovidio. Veloce. V.473 , ecc.). Insomma, una razionalizzazione degli antichi riti per placare gli spiriti dei morti, invidiosi dei vivi.
Erano celebrate, nella forma privata, di notte, in silenzio, e nel corso di tre giorni alterni, cioè, al nono, undicesimo, e il tredicesimo di maggio. Durante questa stagione i templi degli dei erano chiusi, e si pensava che portasse sfortunata, per le donne, sposarsi in questo momento e per tutto il mese di maggio, e coloro che si avventuravano a sposarsi si credeva di morire subito dopo, donde il proverbio,
Mense Maio malae nubent.
Abbiamo una descrizione, alquanto vaga dei riti privati consistente
per il VII Idus Mai N: LEMURIA: ascesa e abluzioni prima di mezzanotte. Offrire fagioli ai Manes, gettando dalla bocca sopra la spalla sinistra dicendo, Haec ego Mitto, il suo redimo meque meosque FABIS. Quindi lavare di nuovo e far rumore, per scacciare i Manes dalla casa dicendo, Manes, Paterni exite.
“Sbatti le pentole e tira le fave se i fantasmi vuoi scacciare”
Ossia il pater familias, per tenera a bada gli spiriti inquieti, doveva nell’ordine: camminare a piedi nudi, lavarsi le mani, gettare fagioli, gettare nove volte fagioli neri alle spalle, rilavarsi, fare casino sbattendo le pentole e pronunciare la versione latina di
“Regà, annatevene, che s’è fatta ‘na certa”
Per quanto riguarda, invece le solennità pubbliche, in ciascuno dei tre giorni, si sa solo che nel secondo, si tenevano giochi nel circo in onore di Marte ( Ovidio. Veloce. V.597 ), mentre il terzo si concludevano i rituali connessi agli Argei, che cominciavano con una processione che si svolgeva il 17 marzo, per i 27 santuari, probabilmente dei villaggi delle varie tribù arcaiche che diedero origine alla serie di sinecismi da cui nacque Roma e che culminavano il 15 maggio, con un rito in cui le Vestali gettavano dal Ponte Sublicio, il più antico ponte di Roma, 27 fantocci di giunchi, con i piedi e le mani legate.
Un ricordo forse di un sacrificio umano, con cui terminavano le cerimonie di purificazione legate ai morti. Così ne parla Dionigi di Alicarnasso
“Si tramanda anche che gli antichi offrissero sacrifici umani a Crono […]. Eracle decise di porre fine a questo tipo di rito sacrificale […]. Affinché gli uomini non avessero paura o scrupoli per aver abolito sacrifici ancestrali, il dio insegnò loro a placare l’ira di Crono lanciando nel fiume Tevere dei fantocci costruiti secondo la figura umana e vestiti allo stesso modo, invece che gettare nelle acque uomini legati mani e piedi […]. Questa cerimonia i Romani avevano l’abitudine di praticare, ancora ai miei tempi, ogni anno, durante il mese di maggio, alle idi. In tale giorno, dopo aver compiuto i preliminari del
rito, i cosiddetti Pontefices, i più prestigiosi dei sacerdoti, e con essi le vergini custodi del fuoco immortale [le Vestali], i pretori e gli altri cittadini, dal ponte sacro gettano nella corrente del Tevere trenta fantocci dalla figura umana chiamati Argivi”
Tra l’altro e ne parlerò in un prossimo post, uno dei santuari degli Argivi era proprio qui all’Esquilino. Più vicine alla nostra sensibilità, erano le Parentalia e le Feralia, che si celebravano, 13 al 21 febbraio. In questi nove giorni i magistrati non portavano le loro insegne, i templi erano chiusi, il fuoco non ardeva sugli altari, non venivano celebrati matrimoni. I primi otto giorni, dal 13 al 20 febbraio, facevano parte del culto privato. Solo l’ultimo giorno, il 21 febbraio, che i calendari indicano come Feralia, era una festa pubblica.
Secondo Festo, si sacrificava durante le Parentalia una pecora agli antenati. Ovidio (Fas. II, 571-615), inoltre ricorda come in quei giorni fosse celebrata la dea Tacita o Muta o Lara, che simboleggiava il silenzio dei defunti. Tacita, secondo il mito era una naiade, una ninfa delle acque figlia del fiumiciattolo Almone, che si getta nel Tevere sotto Roma, in origine si chiamava Lara o Lala, nome che deriva dal greco λαλέω, “parlare, chiacchierare”.
Proprio per il suo troppo parlare, fu punita da Giove, irritato perché aveva rivelato alla sorella Giuturna e a Giunone le mire che il dio nutriva su di lei. Giove le fece mozzare la lingua e l’affidò a Mercurio perché la conducesse agli Inferi. Durante il percorso, Mercurio se ne innamorò ed ebbe con lei rapporti carnali. Da quest’atto nacquero due gemelli, i Lares compitales, ai quali, nella religione dell’antica Roma, era affidato il compito di vigilare le strade della città. Come dea del silenzio, Lala assunse così il nome di Tacita Muta e, come madre dei Lari, venne anche chiamata Acca, proprio perché la lettera h è muta.
Per ricordarla, i latini compivano uno stranissimo rito, che prevedeva come vecchia attorniata da fanciulle ponesse tre grani d’incenso sotto la porta, legasse fili ad un fuso scuro e si mettesse in bocca sette fagioli neri, come nelle Lemuria. Doveva quindi bruciare su un fuoco una testa di pesce impeciato e cucito con amo di rame e spargervi sopra vino, bevendone poi colle fanciulle il residuo. Nelle Feralia, invece, che Ovidio ricollegava all’usanza di “portare” (in lingua latina: fero) doni ai morti, i i cittadini romani recavano offerte alle tombe dei propri antenati, che consistevano nella consegna, sopra un vaso di argilla, di ghirlande di fiori, spighe di grano, un pizzico di sale, pane imbevuto nel vino e viole sciolte.
Sempre Ovidio racconta come, trascurando i romani la celebrazione delle Feralia perché impegnati in una guerra, avvenne una sorta di Walking Dead in salsa capitolina, con gli spiriti dei defunti usciti dalle tombe, urlando e vagando per le strade.
Il 22 marzo, per concludere tali celebrazioni dei defunti, Nel giorno si celebravano le Caristie con banchetti funebri presso le singole famiglie, durante i quali si conciliavano le contese familiari, si offriva incenso ai Lari e si tenevano distribuzioni di pane, vino e sportulae (piccole somme di denaro, pegni o buoni), insomma, la versione latina di dolcetto o scherzetto…
Alessio Brugnoli's Blog


