Andrea Viscusi's Blog: Unknown to Millions, page 61
December 8, 2014
Dal libro al film: All You Zombies / Predestination
Non capita spesso, ma a volte scopri per caso delle cose di cui non sapevi nulla, e non solo rimani momentaneamente esaltato, ma poi ti sorprendi anche perché sono cose buone, sono come te le saresti immaginate e forse anche meglio di così. È successa una cosa del genere pochi giorni fa, quando ho scoperto l'origine della sigla di Futurama, ed è andata in modo simile con il film Predestination, adattamento cinematografico del racconto di Heinlein All You Zombies.
Ma facciamo un passo alla volta. Prima di tutto piazzo il disclaimer spoiler, anche se cercherò di affrontare questa similrecensione partendo dal presupposto che si conosca già il racconto (che poi è la situazione dalla quale sono partito io). Se quindi non conoscete nemmeno quello, allora forse è meglio rimandare questo post a quando vi siete aggiornati.
All You Zombies è un racconto di Robert Anson Heinlein pubblicato nel 1959. In italiano lo si trova in diverse antologie (sia di Heinlein sia multiautore) con i titoli Tutti i miei fantasmi o Tutti voi zombie. È un racconto piuttosto breve, che narra la storia eccezionale di una persona che grazie al proficuo uso di viaggio nel tempo e chirurgia invasiva, finisce per essere padre e madre di se stesso. Può sembrare impossibile, ma Heinlein era sveglio e ha trovato il sistema: una bambina nasce nel 1945, appena diciottenenne viene messa incinta da un uomo che poi sparisce, dopo il parto cambia sesso e diventa uomo, sua figlia viene portata indietro nel tempo al 1945, mentre la sua versione maschile viaggia invece indietro per poterla impregnare. Ecco la Trinità del Paradosso: padre, madre e figlio sono tutti la stessa persona. Tecnicamente possibile, ammettendo la possibilità di viaggiare nel tempo. Il candidato risolva per esercizio il problema dal punto di vista genetico: se un DNA si accoppia sessualmente con lo stesso DNA, il risulato è lo stesso DNA?
Il racconto mi è sempre piaciuto, perché è davvero geniale, e credo che Heinlein con questa pubblicazione si sia per sempre aggiudicato il primato come inventore del Paradosso Definitivo. Peraltro lo trovate anche online, se volete leggerlo (chiaramente in inglese). Il titolo deriva da una frase conclusiva del racconto:
La cosa che non mi sarei mai aspettato è che nel 2014, a cinquantacinque anni dalla pubblicazione del racconto, qualcuno decidesse di trarne un film. E anche quando l'ho scoperto (poche settimane fa) sono rimasto alquanto scettico: sappiamo bene come il cinema abbia la capacità di prendere le idee più straordinarie e appiattirle per assecondare le presunte esigenze del mercato dell'intrattenimento. Quindi è stato puramente per curiosità che ho voluto guardare questo film, ma una volta visto mi sono dovuto ricredere totalmente.
Predestination è un film uscito pochi mesi fa, scritto e diretto dai fratelli Spierig, noti soprattutto per Daybreakers, film a base di vampiri del 2009. È un adattamento diretto di All You Zombies, e fa quasi strano dirlo, è un adattamento molto fedele. Ciò non è necessariamente un bene, libri e film sono due canali diversi per cui ciò che rende buono un libro non è detto che funzioni anche sullo schermo, ma in genere ci si lamenta sempre che i film non rispettino la carta da cui sono tratti: questo è uno dei rari casi in cui invece è proprio così. Anzi, a dirla tutta Predestination forse ha anche qualcosa in più.
I protagonisti sono Ethan Hawke (che aveva già lavorato con gli Spierig proprio in Daybreakers), che interpreta l'agente del Temporal Bureau che contatta John/Jane negli anni 70 proponendogli/le di entrare nella Polizia Temporale, e Sarah Snook, giovane attrice a cui è affidato il difficile ruolo di interpretare sia un personaggio maschile che femminile. Da questo punto di vista bisogna riconoscere che sia la Snook sia il reparto trucco del film hanno fatto un ottimo lavoro: io non sono un gran fisionomista (ok, quasi per nulla), ma la differenza tra Jane e John, che sono la stessa persona in versione femmina e maschio, è molto convincente. Nelle scene in cui i due sono presenti insieme, e si può effettuare un confronto diretto, la cosa è sorprendente: è vero che John ha un aspetto androgino, ma questo ha comunque senso anche all'interno della storia. Se la preoccupazione era quindi che il cambio di sesso e il bisticcio di salti temporali potesse essere banalizzato, il pericolo è stato scampato.
Dicevo che nel film c'è qualcosa di più, e lo intendo in più sensi. C'è intanto qualche elemento aggiunto a livello di trama: in particolare, c'è la caccia a un terrorista, il Fizzle Bomber, che la Polizia Temporale (e il protagonista in particolare) stanno cercando di catturare prima che possa compiere l'attentato distruttivo a New York nel marzo 1975. Questo non era presente nel racconto, ma qui riesce a dare una visione più completa di che quale sia il lavoro del Temporal Bureau: se è chiaro che il viaggio nel tempo è un presupposto essenziale per generare il paradosso, c'è bisogno comunque di giustificarne l'utilizzo, e con il Fizzle Bomber la questione risulta più chiara. Heinlein non si preoccupava di dare uno scopo preciso al TB, limitandosi ad asserirne l'esistenza (in realtà in altri racconti seguenti citerà di nuovo la Polizia Temporale, che si presume essere la stessa organizzazione).
Ma non è solo questo il valore aggiunto del film. Di nuovo, il gioco di Heinlein in All You Zombies era semplicemente quello di mettere in scena la situazione che potesse portare al padre/madre/figlio nella stessa persona, senza preoccuparsi di approfondire o contestualizzare più di tanto. Ma in Predestination, seguendo la piccola Jane fin dalla nascita, vedendo i suoi drammi iniziati dall'infanzia, fino al trauma della gravidanza, la perdita della figlia e il cambio forzato di sesso, per poi apprendere che è lei stessa ad essersi causata questa situazione, la storia assume una profondità tutta diversa. Ci sono un paio di scene molto intense, una ad esempio è quella in cui poco dopo l'operazione Jane (ormai diventata John) prova a dare alla sua voce un timbro più maschile: Hi, nice to meet you. It's a lovely day. My name is... my name is Jane. Anche l'incontro tra Jane e John è reso in maniera eccellente, e qui molto del merito va sicuramente a Sarah Snook che interpreta entrambi (una ragazza giovane che non ha mai avuto una relazione, e un uomo che è stato quella ragazza e sa già come le cose andranno). Ecco quindi che la storia non è semplicemente un puzzle da risolvere, un gioco di incastri che porta lo spettatore al wtf moment, ma un apologo ben più strutturato che tocca temi complessi. L'identità, innanzitutto, ma diversamente da quanto si potrebbe pensare non si parla solamente di identità sessuale: Jane ha avuto difficoltà a capire se stessa ben prima di cambiare sesso, e solo alla fine la situazione si ribalta, quando sono gli altri a diventare gli zombie. C'è poi la libertà di scelta, e la predestinazione (ovviamente): John lo chiede anche all'agente (Do I have a choice?) e lui le risponde che la scelta esiste sempre. Ma è davvero così? Nemmeno l'agente ne è tanto sicuro, perché in seguito chiederà al suo superiore (Noah Taylor): And what happens when the day comes when i have no knowledge of my future? Conoscere il futuro, il proprio destino, ci aiuterebbe davvero a compiere scelte migliori? Infine c'è la percezione e il confronto con se stessi, che mai come in questo caso diventa letterale: è possibile cambiare così tanto da essere una persona diversa, si potrebbe mai amare se stessi, al punto da essere completamente persi una volta rimasti soli (cioè, soli senza di sé)?
Tutti questi approfondimenti non erano presenti in All You Zombies, ma sono invece nel film, e questo rende Predestination un prodotto di ottimo livello, al di là della sua origine letteraria. C'è anche da riconoscere che oltre alla fedeltà della trama, ci sono molti altri particolari e dettagli che si riferiscono direttamente al racconto: oltre alla presenza di un dottor Heinlein, troviamo gli stessi "comandamenti" del TB, la citazione della frase riferita a tutti voi zombie, e perfino la battuta finale che chiuda l'opera è la stessa. Considerato tutto questo, mi sento quasi di dire che Predestination sia uno dei rarissimi casi (me ne vengono in mente giusto due) in cui il film è meglio del libro!
Sarebbe bello che Predestination arrivasse anche in Italia, tuttavia ho il timore che possa invece andare ad allargare le file dei film che non vedrete mai: troppo di nicchia, e troppo acuto anche se presentato come un thriller sci-fi. E il fatto che sia tratto da un racconto di R.A. Heinlein, qui da noi, non è certo una raccomandazione efficace.
Ma facciamo un passo alla volta. Prima di tutto piazzo il disclaimer spoiler, anche se cercherò di affrontare questa similrecensione partendo dal presupposto che si conosca già il racconto (che poi è la situazione dalla quale sono partito io). Se quindi non conoscete nemmeno quello, allora forse è meglio rimandare questo post a quando vi siete aggiornati.
All You Zombies è un racconto di Robert Anson Heinlein pubblicato nel 1959. In italiano lo si trova in diverse antologie (sia di Heinlein sia multiautore) con i titoli Tutti i miei fantasmi o Tutti voi zombie. È un racconto piuttosto breve, che narra la storia eccezionale di una persona che grazie al proficuo uso di viaggio nel tempo e chirurgia invasiva, finisce per essere padre e madre di se stesso. Può sembrare impossibile, ma Heinlein era sveglio e ha trovato il sistema: una bambina nasce nel 1945, appena diciottenenne viene messa incinta da un uomo che poi sparisce, dopo il parto cambia sesso e diventa uomo, sua figlia viene portata indietro nel tempo al 1945, mentre la sua versione maschile viaggia invece indietro per poterla impregnare. Ecco la Trinità del Paradosso: padre, madre e figlio sono tutti la stessa persona. Tecnicamente possibile, ammettendo la possibilità di viaggiare nel tempo. Il candidato risolva per esercizio il problema dal punto di vista genetico: se un DNA si accoppia sessualmente con lo stesso DNA, il risulato è lo stesso DNA?Il racconto mi è sempre piaciuto, perché è davvero geniale, e credo che Heinlein con questa pubblicazione si sia per sempre aggiudicato il primato come inventore del Paradosso Definitivo. Peraltro lo trovate anche online, se volete leggerlo (chiaramente in inglese). Il titolo deriva da una frase conclusiva del racconto:
I know where I come from. But where do all you zombies come from?Con questa domanda il protagonista vuole evidenziare come lui sia l'unico a conoscere davvero le proprie origini, mentre tutti gli altri, tutti noi zombie, camminiano su questa Terra ignari della ragione per cui esistiamo. È un'idea molto forte, e chiude efficacemente un racconto che rimane bene impresso.
La cosa che non mi sarei mai aspettato è che nel 2014, a cinquantacinque anni dalla pubblicazione del racconto, qualcuno decidesse di trarne un film. E anche quando l'ho scoperto (poche settimane fa) sono rimasto alquanto scettico: sappiamo bene come il cinema abbia la capacità di prendere le idee più straordinarie e appiattirle per assecondare le presunte esigenze del mercato dell'intrattenimento. Quindi è stato puramente per curiosità che ho voluto guardare questo film, ma una volta visto mi sono dovuto ricredere totalmente.
Predestination è un film uscito pochi mesi fa, scritto e diretto dai fratelli Spierig, noti soprattutto per Daybreakers, film a base di vampiri del 2009. È un adattamento diretto di All You Zombies, e fa quasi strano dirlo, è un adattamento molto fedele. Ciò non è necessariamente un bene, libri e film sono due canali diversi per cui ciò che rende buono un libro non è detto che funzioni anche sullo schermo, ma in genere ci si lamenta sempre che i film non rispettino la carta da cui sono tratti: questo è uno dei rari casi in cui invece è proprio così. Anzi, a dirla tutta Predestination forse ha anche qualcosa in più.
I protagonisti sono Ethan Hawke (che aveva già lavorato con gli Spierig proprio in Daybreakers), che interpreta l'agente del Temporal Bureau che contatta John/Jane negli anni 70 proponendogli/le di entrare nella Polizia Temporale, e Sarah Snook, giovane attrice a cui è affidato il difficile ruolo di interpretare sia un personaggio maschile che femminile. Da questo punto di vista bisogna riconoscere che sia la Snook sia il reparto trucco del film hanno fatto un ottimo lavoro: io non sono un gran fisionomista (ok, quasi per nulla), ma la differenza tra Jane e John, che sono la stessa persona in versione femmina e maschio, è molto convincente. Nelle scene in cui i due sono presenti insieme, e si può effettuare un confronto diretto, la cosa è sorprendente: è vero che John ha un aspetto androgino, ma questo ha comunque senso anche all'interno della storia. Se la preoccupazione era quindi che il cambio di sesso e il bisticcio di salti temporali potesse essere banalizzato, il pericolo è stato scampato.
Dicevo che nel film c'è qualcosa di più, e lo intendo in più sensi. C'è intanto qualche elemento aggiunto a livello di trama: in particolare, c'è la caccia a un terrorista, il Fizzle Bomber, che la Polizia Temporale (e il protagonista in particolare) stanno cercando di catturare prima che possa compiere l'attentato distruttivo a New York nel marzo 1975. Questo non era presente nel racconto, ma qui riesce a dare una visione più completa di che quale sia il lavoro del Temporal Bureau: se è chiaro che il viaggio nel tempo è un presupposto essenziale per generare il paradosso, c'è bisogno comunque di giustificarne l'utilizzo, e con il Fizzle Bomber la questione risulta più chiara. Heinlein non si preoccupava di dare uno scopo preciso al TB, limitandosi ad asserirne l'esistenza (in realtà in altri racconti seguenti citerà di nuovo la Polizia Temporale, che si presume essere la stessa organizzazione).Ma non è solo questo il valore aggiunto del film. Di nuovo, il gioco di Heinlein in All You Zombies era semplicemente quello di mettere in scena la situazione che potesse portare al padre/madre/figlio nella stessa persona, senza preoccuparsi di approfondire o contestualizzare più di tanto. Ma in Predestination, seguendo la piccola Jane fin dalla nascita, vedendo i suoi drammi iniziati dall'infanzia, fino al trauma della gravidanza, la perdita della figlia e il cambio forzato di sesso, per poi apprendere che è lei stessa ad essersi causata questa situazione, la storia assume una profondità tutta diversa. Ci sono un paio di scene molto intense, una ad esempio è quella in cui poco dopo l'operazione Jane (ormai diventata John) prova a dare alla sua voce un timbro più maschile: Hi, nice to meet you. It's a lovely day. My name is... my name is Jane. Anche l'incontro tra Jane e John è reso in maniera eccellente, e qui molto del merito va sicuramente a Sarah Snook che interpreta entrambi (una ragazza giovane che non ha mai avuto una relazione, e un uomo che è stato quella ragazza e sa già come le cose andranno). Ecco quindi che la storia non è semplicemente un puzzle da risolvere, un gioco di incastri che porta lo spettatore al wtf moment, ma un apologo ben più strutturato che tocca temi complessi. L'identità, innanzitutto, ma diversamente da quanto si potrebbe pensare non si parla solamente di identità sessuale: Jane ha avuto difficoltà a capire se stessa ben prima di cambiare sesso, e solo alla fine la situazione si ribalta, quando sono gli altri a diventare gli zombie. C'è poi la libertà di scelta, e la predestinazione (ovviamente): John lo chiede anche all'agente (Do I have a choice?) e lui le risponde che la scelta esiste sempre. Ma è davvero così? Nemmeno l'agente ne è tanto sicuro, perché in seguito chiederà al suo superiore (Noah Taylor): And what happens when the day comes when i have no knowledge of my future? Conoscere il futuro, il proprio destino, ci aiuterebbe davvero a compiere scelte migliori? Infine c'è la percezione e il confronto con se stessi, che mai come in questo caso diventa letterale: è possibile cambiare così tanto da essere una persona diversa, si potrebbe mai amare se stessi, al punto da essere completamente persi una volta rimasti soli (cioè, soli senza di sé)?
Tutti questi approfondimenti non erano presenti in All You Zombies, ma sono invece nel film, e questo rende Predestination un prodotto di ottimo livello, al di là della sua origine letteraria. C'è anche da riconoscere che oltre alla fedeltà della trama, ci sono molti altri particolari e dettagli che si riferiscono direttamente al racconto: oltre alla presenza di un dottor Heinlein, troviamo gli stessi "comandamenti" del TB, la citazione della frase riferita a tutti voi zombie, e perfino la battuta finale che chiuda l'opera è la stessa. Considerato tutto questo, mi sento quasi di dire che Predestination sia uno dei rarissimi casi (me ne vengono in mente giusto due) in cui il film è meglio del libro!
Sarebbe bello che Predestination arrivasse anche in Italia, tuttavia ho il timore che possa invece andare ad allargare le file dei film che non vedrete mai: troppo di nicchia, e troppo acuto anche se presentato come un thriller sci-fi. E il fatto che sia tratto da un racconto di R.A. Heinlein, qui da noi, non è certo una raccomandazione efficace.
Published on December 08, 2014 02:00
December 6, 2014
The Futurama-Prada-Henry Connection
Breve post frivolo per stemperare la seriosità degli ultimi temi affrontati, e anche per far presente che anche se Futurama è finita (di nuovo), questo non significa che abbia smesso di parlarne qui sopra.
Procediamo con ordine. Come potete ben immaginare la mia ossessione per Futurama non riguarda solo lo show in sé ma anche tutto quanto ne è più o meno direttamente collegato, tant'è che la mia attuale suoneria del telefono è proprio l'opening theme degli episodi. Non credo che ci sia bisogno di farvelo presente, ma giusto per completezza, sto parlando di questo:
Questo pezzo, composto da Christopjer Tyng come tutte la musica della serie, presenta numerose varianti e versioni estese, lo stesso opening è in realtà una versione editata di una più lunga. Ecco quindi che quando un paio di sere fa, guardando la tv, mi sono trovato davanti lo spot di un profumo, anche se non stavo in quel momento prestando attenzione, mi si sono immediatamente drizzate le orecchie. La pubblicità di cui parlo è questa:
Ora, non so se ho io l'orecchio tanto allenato a riconoscere i remix, ma appena l'ho sentita ho colto subito la connessione con la sigla di Futurama. Una versione che non conoscevo, forse? Ho resistito lo spazio di dieci minuti prima di andare a cercare su internet quella stessa pubblicità, e ringrazio il signore che esista oggi uno strumento che ti permette di fare le domande più stupide e ottenere risposta, perché c'è sempre qualcuno più stupido di te che quelle domande se le è fatte prima, e ho scoperto che la canzone di sottofondo dello spot non è un remix del tema di Futurama.
Tutt'altro! Il pezzo è Psyché Rock di Pierre Henry, compositore francese che dagli anni 50 in poi è stato tra quelli che hanno sviluppato la musica concreta, una corrente che ha influenzato e plasmato il successivo sviluppo della musica elettronica. Nel 1967 Henry ha pubblicato l'album Messe pour le temps présent, che conteneva proprio questa traccia. Ed è stata una sorpresa scoprire che l'affinità non è casuale, ma che Tying si è proprio ispirato a Henry per comporre la sigla di Futurama. Beh, "ispirato" forse è un eufemismo, perché si può parlare in pratica di una versione alternativa, un riarrangiamento, un remix, chiamatelo come volete. Non un plagio, perché l'origine è dichiarata, ed ero stato io troppo ottuso da non chiedermi prima quale fosse l'origine della sigla. E anzi, guardando il video si colgono anche una serie di influenze più profonde anche a livello di estetica e temi. Quindi non si può pensare che la scelta del team di Futurama sia stata casuale. Ecco il pezzo originale, che ha quasi cinquant'anni, e che continueremo a sentire fino al prossimo millennio!
Procediamo con ordine. Come potete ben immaginare la mia ossessione per Futurama non riguarda solo lo show in sé ma anche tutto quanto ne è più o meno direttamente collegato, tant'è che la mia attuale suoneria del telefono è proprio l'opening theme degli episodi. Non credo che ci sia bisogno di farvelo presente, ma giusto per completezza, sto parlando di questo:
Questo pezzo, composto da Christopjer Tyng come tutte la musica della serie, presenta numerose varianti e versioni estese, lo stesso opening è in realtà una versione editata di una più lunga. Ecco quindi che quando un paio di sere fa, guardando la tv, mi sono trovato davanti lo spot di un profumo, anche se non stavo in quel momento prestando attenzione, mi si sono immediatamente drizzate le orecchie. La pubblicità di cui parlo è questa:
Ora, non so se ho io l'orecchio tanto allenato a riconoscere i remix, ma appena l'ho sentita ho colto subito la connessione con la sigla di Futurama. Una versione che non conoscevo, forse? Ho resistito lo spazio di dieci minuti prima di andare a cercare su internet quella stessa pubblicità, e ringrazio il signore che esista oggi uno strumento che ti permette di fare le domande più stupide e ottenere risposta, perché c'è sempre qualcuno più stupido di te che quelle domande se le è fatte prima, e ho scoperto che la canzone di sottofondo dello spot non è un remix del tema di Futurama.
Tutt'altro! Il pezzo è Psyché Rock di Pierre Henry, compositore francese che dagli anni 50 in poi è stato tra quelli che hanno sviluppato la musica concreta, una corrente che ha influenzato e plasmato il successivo sviluppo della musica elettronica. Nel 1967 Henry ha pubblicato l'album Messe pour le temps présent, che conteneva proprio questa traccia. Ed è stata una sorpresa scoprire che l'affinità non è casuale, ma che Tying si è proprio ispirato a Henry per comporre la sigla di Futurama. Beh, "ispirato" forse è un eufemismo, perché si può parlare in pratica di una versione alternativa, un riarrangiamento, un remix, chiamatelo come volete. Non un plagio, perché l'origine è dichiarata, ed ero stato io troppo ottuso da non chiedermi prima quale fosse l'origine della sigla. E anzi, guardando il video si colgono anche una serie di influenze più profonde anche a livello di estetica e temi. Quindi non si può pensare che la scelta del team di Futurama sia stata casuale. Ecco il pezzo originale, che ha quasi cinquant'anni, e che continueremo a sentire fino al prossimo millennio!
Published on December 06, 2014 07:37
December 3, 2014
Rapporto letture - Novembre 2014
Novembre è stato un mese abbastanza variegato, sono riuscito a leggere 5 libri diversi differenziando abbastanza in quanto a generi, forme, nazionalità e supporti. In realtà non ho avuto sorprese rivelazioni eccezionali, anzi, ho sbattuto il muso un paio di volte, ma mica si può sempre leggere dei capolavori, d'altra parte basta tornare al mese scorso e... no, vabbè, lasciamo perdere.
Il primo libro terminato è
Lo specchio di Dio
, aka Jesus Video, dell'autore tedesco Andreas Eschbach. Di Eschbach avevo letto
Miliardi di tappeti di capelli
rimanendone moderatamente affascinato (credo sia un libro che ha avuto un certo riscontro anche oltre l'ambiente fantascientifico). Convinto da quest'opera ho voluto provare altro dello stesso autore, e ho scelto Jesus Video perché l'idea di base mi affascinava: durante scavi archeologici in Israele, viene ritrovata una videocamera sepolta in una tomba di 2000 anni fa... proprio l'epoca di Cristo! Si parte quindi da un assunto interessante, e mi aspettavo quindi una gustosa commistione tra religione e viaggi nel tempo (pensavo a qualche sviluppo tipo il viaggiatore futuro diventa Gesù, cosa già vista diverse volte, ma ero pronto a concedere il beneficio del dubbio). E invece sono rimasto piuttosto spiazzato, perché mi sono trovato di fronte a una specie di Codice Da Vinci, con fazioni in corsa per accaparrarsi la reliquia e il presunto potere/valore che essa contiene. Decine di personaggi che si intrecciano (ho avuto qualche difficoltà a individuare il vero protagonista), ipotesi che si accavallano e si perdono, e alla fine la cosa meno importante di tutte è proprio questo video di Gesù, perché riveste il ruolo passivo di "oggetto che tutti voglioni", e se invece di una registrazione di un viaggiatore nel tempo fosse stato uno dei trenta denari di Giuda non sarebbe cambiato niente. Peraltro quando, nel lungo epilogo, si scopre cosa contiene il video, non si riesce a capire bene se si tratti di qualcosa di autentico o una bufala, e tutto rimane molto vago. In definitiva sono rimasto abbastanza deluso, ma forse perché mi aspettavo tutt'altro tipo di storia. Forse come "caccia al tesoro" non è male, ma non è quello che cercavo io quindi non mi è piaciuto molto. Voto: 5/10
Secondo libro del mese è stato
Il sole dei soli
, secondo titolo pubblicato da Zona 42 dopo
Desolation Road
. Anche questo si può considerare in estrema analisi un'avventura, ma qui il contesto è ben diverso: la storia di Karl Schroeder (uno degli "autori emergenti" più interessanti della fantascienza contemporanea) si svolge in n futuro imprecisato, all'interno di Virga, un'enorme sfera cava di dimensioni planetarie in cui vivono milioni di persone, in un delicato equilibrio tra gravità, luce, calore e formazioni di volo. La storia segue alcuni personaggi principali che si imbarcano per una missione proprio sul "sole dei soli" da cui deriva tutta l'energia di Virga. Ognuno dei protagonisti è mosso da motivazioni diverse, che si intersecano in una serie di progetti, vendette, rivelazioni. Il libro abbonda di esplorazioni, battaglie, fughe e complotti, ed è estremamente avvincente vedere questa trama avventura calata in un'ambientazione così particolare. Devo ammettere che ho avuto alcune difficoltà a figurarmi l'ambiente di Virga, in particolare per quanto riguarda grandezze e distanze all'interno del volume della sfera, ma la storia riesce a essere godibile anche senza comprenderne appieno tutti i particolari più "tecnici" (che comunque sono molto interessanti). L'unico aspetto negativo è che il libro non è autoconclusivo, infatti è il primo di una serie di cinque, che se tutto va bene verranno in seguito pubblicati sempre da Zona 42. Voto: 7/10
Breve intermezzo con un ebook della serie Vaporteppa: L1L0 di Pippo Abrami, un racconto steampunk in cui un robot dall'inequivocabile aspetto di coniglio viene costruito da uno scienziato con la missione di salvare sua figlia. La storia è narrata interamente dalla prospettiva di L1L0 ed è probabilmente questo a renderla divertente e scorrevole, vista l'indole sarcastica del robot, che deve in qualche modo far combaciare i propositi dei suoi tre cervelli di scimmia. In realtà al di là di questo c'è poco altro da dire, la lettura è piacevole ma non colpisce particolarmente per originalità o profondità, si merita quindi la sufficienza ma una volta concluso si dimentica in fretta. Sarebbe probabilmente un buon soggetto per successive avventure. Voto: 6/10
Passo poi a un collega di Factory, Filippo Bernardeschi con la raccolta di racconti
L'ultima consegna
. Devo premettere che questo probabilmente non è un genere a me estremamente affine: ci si muove tra realismo magico e mistero, fino al semplice racconto "intmista". In buona parte delle storie non è tanto la trama ad essere il cardine del racconto, quanto una serie di atmosfere e impressioni, dettagli apparentemente insignificanti su cui l'autore cerca di focalizzare l'attenzione. In questo modo storie di "vita ordinaria" vengono sconvolte da un cambio di prospettiva dovuto alla presenza di elementi estranei, a volte surreali o soprannaturali, a volte semplicemente imprevedibili. Lo stile è forte ed evocativo, e riesce a suscitare potenti suggestioni, sia a livello visivo che emotivo, spesso al limite tra mondo reale e onirico. È quindi una raccolta di sicuro interesse, che forse non riesco ad apprezzare in pieno per mia predisposizione a stili e contenuti diversi. Voto: 7/10
Infine ho voluto concludere la saga di Odissea nello Spazio, leggendo
3001: Odissea finale
, quarto e ultimo libro della serie iniziata negli anni 70 da Arthur C. Clarke. Se già
2061
mi era sembrato fiacco, più votato alla speculazione scienfica che allo sviluppo della trama, questo libro ha tradito le mie aspettative, ignorando quasi completamente la "mitologia" introdotta con 2001 e anche il successivo
2010
, e concentrandosi soprattutto a descrivere il livello socio-tecnologico della società umana del quarto millennio. Nonostante l'inizio sia estremamente intrigante, con il ritrovamento e la rianimazione di Frank Poole (l'astronauta che era stato ucciso da HAL in 2001), il collegamento con i capitoli precedenti è minimo e quasi secondario, e la soluzione individuata dall'umanità decisamente anticlimatica, in grado di demolire in un solo capitolo tutto il potere evocativo del Monolito. Mi aspettavo davvero molto di più, perché a questo punto si può dire che il mistero delle entità che hanno sorvegliato e guidato l'evoluzione umana non viene spiegato. Voto: 5/10
Nota di servizio: il recente aggiornamento dell'interfaccia di aNobii mi ha reso impossibile inserire le immagini linkate alle relative schede da me commentate (non so se la funzione "blogga oggetto" sia stata del tutto rimossa o sono io che non la trovo), quindi ho ripreso soltanto le copertine. In ogni caso sulla mia pagina si trovano come sempre tutte le informazioni sulle letture dal 2008 a oggi.
Il primo libro terminato è
Lo specchio di Dio
, aka Jesus Video, dell'autore tedesco Andreas Eschbach. Di Eschbach avevo letto
Miliardi di tappeti di capelli
rimanendone moderatamente affascinato (credo sia un libro che ha avuto un certo riscontro anche oltre l'ambiente fantascientifico). Convinto da quest'opera ho voluto provare altro dello stesso autore, e ho scelto Jesus Video perché l'idea di base mi affascinava: durante scavi archeologici in Israele, viene ritrovata una videocamera sepolta in una tomba di 2000 anni fa... proprio l'epoca di Cristo! Si parte quindi da un assunto interessante, e mi aspettavo quindi una gustosa commistione tra religione e viaggi nel tempo (pensavo a qualche sviluppo tipo il viaggiatore futuro diventa Gesù, cosa già vista diverse volte, ma ero pronto a concedere il beneficio del dubbio). E invece sono rimasto piuttosto spiazzato, perché mi sono trovato di fronte a una specie di Codice Da Vinci, con fazioni in corsa per accaparrarsi la reliquia e il presunto potere/valore che essa contiene. Decine di personaggi che si intrecciano (ho avuto qualche difficoltà a individuare il vero protagonista), ipotesi che si accavallano e si perdono, e alla fine la cosa meno importante di tutte è proprio questo video di Gesù, perché riveste il ruolo passivo di "oggetto che tutti voglioni", e se invece di una registrazione di un viaggiatore nel tempo fosse stato uno dei trenta denari di Giuda non sarebbe cambiato niente. Peraltro quando, nel lungo epilogo, si scopre cosa contiene il video, non si riesce a capire bene se si tratti di qualcosa di autentico o una bufala, e tutto rimane molto vago. In definitiva sono rimasto abbastanza deluso, ma forse perché mi aspettavo tutt'altro tipo di storia. Forse come "caccia al tesoro" non è male, ma non è quello che cercavo io quindi non mi è piaciuto molto. Voto: 5/10
Secondo libro del mese è stato
Il sole dei soli
, secondo titolo pubblicato da Zona 42 dopo
Desolation Road
. Anche questo si può considerare in estrema analisi un'avventura, ma qui il contesto è ben diverso: la storia di Karl Schroeder (uno degli "autori emergenti" più interessanti della fantascienza contemporanea) si svolge in n futuro imprecisato, all'interno di Virga, un'enorme sfera cava di dimensioni planetarie in cui vivono milioni di persone, in un delicato equilibrio tra gravità, luce, calore e formazioni di volo. La storia segue alcuni personaggi principali che si imbarcano per una missione proprio sul "sole dei soli" da cui deriva tutta l'energia di Virga. Ognuno dei protagonisti è mosso da motivazioni diverse, che si intersecano in una serie di progetti, vendette, rivelazioni. Il libro abbonda di esplorazioni, battaglie, fughe e complotti, ed è estremamente avvincente vedere questa trama avventura calata in un'ambientazione così particolare. Devo ammettere che ho avuto alcune difficoltà a figurarmi l'ambiente di Virga, in particolare per quanto riguarda grandezze e distanze all'interno del volume della sfera, ma la storia riesce a essere godibile anche senza comprenderne appieno tutti i particolari più "tecnici" (che comunque sono molto interessanti). L'unico aspetto negativo è che il libro non è autoconclusivo, infatti è il primo di una serie di cinque, che se tutto va bene verranno in seguito pubblicati sempre da Zona 42. Voto: 7/10
Breve intermezzo con un ebook della serie Vaporteppa: L1L0 di Pippo Abrami, un racconto steampunk in cui un robot dall'inequivocabile aspetto di coniglio viene costruito da uno scienziato con la missione di salvare sua figlia. La storia è narrata interamente dalla prospettiva di L1L0 ed è probabilmente questo a renderla divertente e scorrevole, vista l'indole sarcastica del robot, che deve in qualche modo far combaciare i propositi dei suoi tre cervelli di scimmia. In realtà al di là di questo c'è poco altro da dire, la lettura è piacevole ma non colpisce particolarmente per originalità o profondità, si merita quindi la sufficienza ma una volta concluso si dimentica in fretta. Sarebbe probabilmente un buon soggetto per successive avventure. Voto: 6/10
Passo poi a un collega di Factory, Filippo Bernardeschi con la raccolta di racconti
L'ultima consegna
. Devo premettere che questo probabilmente non è un genere a me estremamente affine: ci si muove tra realismo magico e mistero, fino al semplice racconto "intmista". In buona parte delle storie non è tanto la trama ad essere il cardine del racconto, quanto una serie di atmosfere e impressioni, dettagli apparentemente insignificanti su cui l'autore cerca di focalizzare l'attenzione. In questo modo storie di "vita ordinaria" vengono sconvolte da un cambio di prospettiva dovuto alla presenza di elementi estranei, a volte surreali o soprannaturali, a volte semplicemente imprevedibili. Lo stile è forte ed evocativo, e riesce a suscitare potenti suggestioni, sia a livello visivo che emotivo, spesso al limite tra mondo reale e onirico. È quindi una raccolta di sicuro interesse, che forse non riesco ad apprezzare in pieno per mia predisposizione a stili e contenuti diversi. Voto: 7/10
Infine ho voluto concludere la saga di Odissea nello Spazio, leggendo
3001: Odissea finale
, quarto e ultimo libro della serie iniziata negli anni 70 da Arthur C. Clarke. Se già
2061
mi era sembrato fiacco, più votato alla speculazione scienfica che allo sviluppo della trama, questo libro ha tradito le mie aspettative, ignorando quasi completamente la "mitologia" introdotta con 2001 e anche il successivo
2010
, e concentrandosi soprattutto a descrivere il livello socio-tecnologico della società umana del quarto millennio. Nonostante l'inizio sia estremamente intrigante, con il ritrovamento e la rianimazione di Frank Poole (l'astronauta che era stato ucciso da HAL in 2001), il collegamento con i capitoli precedenti è minimo e quasi secondario, e la soluzione individuata dall'umanità decisamente anticlimatica, in grado di demolire in un solo capitolo tutto il potere evocativo del Monolito. Mi aspettavo davvero molto di più, perché a questo punto si può dire che il mistero delle entità che hanno sorvegliato e guidato l'evoluzione umana non viene spiegato. Voto: 5/10Nota di servizio: il recente aggiornamento dell'interfaccia di aNobii mi ha reso impossibile inserire le immagini linkate alle relative schede da me commentate (non so se la funzione "blogga oggetto" sia stata del tutto rimossa o sono io che non la trovo), quindi ho ripreso soltanto le copertine. In ogni caso sulla mia pagina si trovano come sempre tutte le informazioni sulle letture dal 2008 a oggi.
Published on December 03, 2014 00:20
December 1, 2014
Coppi Night 30/11/2014 - Asso
Mio malgrado ho una certa cultura delle commedie erototrash che sono state la massima espressione del cinema italiano negli anni 70-80. Tutte le volte che all'interno del Coppi Club vince un film del genere mi dico "dai, fuori uno, non ne rimarrà molti altri..." e invece tre settimane dopo ci risiamo, e io muoio un po' dentro. Che poi, non che io sia contrario in assoluto al trash e al demenziale, anzi, ci sono alcuni film di cui posso ritenermi nel complesso soddisfatto. In altri casi però la visione è una tortura, e questo è stato uno dei peggiori. Proverò a spiegare in tutta calma perché, anche se non garantisco che a metà post inizierò a battere la tastiera nel muro.
Nei film "di Celentano", lui è il protagonista che ricopre ogni volta un ruolo diverso, interpretando personaggi piuttosto schematici che però hanno un loro senso in questo tipo di storie. Tipicamente il protagonista vive in un mondo suo, poi conosce una donna, ne rimane sconvolto, la rincorre, alla fine la conquista, e viva tutti. Il tutto inframezzato da gag varie, che in certi casi non sono nemmeno male, se non fosse che vista una viste tutte. Il problema con Asso è che il film prende presto una direzione del tutto imprevista, ma non imprevista nel senso buono, di originale e intrigante, bensì imprevista nel senso cattivo, cioè casuale e incoerente. Succede infatti che dopo forse venti minuti di film, Asso, formidabile giocatore d'azzardo, viene ucciso. Poi lo si vede rientrare a casa, da una Edwige Fenech insolitamente pudica (si riesce a scorgere solo un capezzolo in tutto il film), e allora si pensa "ah, vabbè, non era morto davvero, era un bluff pure quello!" E invece no: è morto morto, e quello che è tornato a casa è un fantasma. Da quel momento in poi del fatto che Asso fosse il migliore giocatore di poker del mondo non ci interessa più, perché è morto e la sua unica preoccupazione è trovare un nuovo marito che possa mantenere la mogliettina, sia mai che le venga in mente di lavorare (di fatti ostacola il suo provino per entrare nel corpo di ballo di un teatro). Ma le femministe nel 1981 erano già estinte?
Si potrebbe anche stare ad analizzare la completa illogicità delle doti "soprannaturali" di Asso, perché una volta è invisibile, poco dopo i mortali vedono i suoi vestiti librarsi nell'aria, prima ha difficoltà a passare attraverso una porta chiusa, poi si teletrasporta da una parte all'altra, a volte viene percepito e udito dai viventi, altre urla e nessuno lo sente. Ma tutto questo non è niente in confronto al fatto che di "Asso" non vediamo nulla, perché la sua avventura ultraterrena non ha niente a che vedere con il gioco d'azzardo, e se fosse stato un idraulico non sarebbe cambiato molto. E la linea di difesa "vabbè, almeno fa ridere" non regge, perché, santiddio, no, non fa ridere. È prima di ogni altra cosa noioso (tant'è che mi sono addormentato proprio durante la fase cruciale, quindi non so alla fine con chi si è risposata la Fenech).
Nove anni dopo in milioni avrebbero pianto vedendo Patrick Swayze e Demi Moore in Ghost, e forse Asso si può considerare il suo padre ideale, visto che alcuni risvolti della trama sono simili: il fantasma che può essere visto solo da qualcuno, l'impegno a mettere al sicuro la moglie, la vendetta nei confronti dell'assassino; e soprattutto che anche qui si piange tanto. Di frustrazione.
Nei film "di Celentano", lui è il protagonista che ricopre ogni volta un ruolo diverso, interpretando personaggi piuttosto schematici che però hanno un loro senso in questo tipo di storie. Tipicamente il protagonista vive in un mondo suo, poi conosce una donna, ne rimane sconvolto, la rincorre, alla fine la conquista, e viva tutti. Il tutto inframezzato da gag varie, che in certi casi non sono nemmeno male, se non fosse che vista una viste tutte. Il problema con Asso è che il film prende presto una direzione del tutto imprevista, ma non imprevista nel senso buono, di originale e intrigante, bensì imprevista nel senso cattivo, cioè casuale e incoerente. Succede infatti che dopo forse venti minuti di film, Asso, formidabile giocatore d'azzardo, viene ucciso. Poi lo si vede rientrare a casa, da una Edwige Fenech insolitamente pudica (si riesce a scorgere solo un capezzolo in tutto il film), e allora si pensa "ah, vabbè, non era morto davvero, era un bluff pure quello!" E invece no: è morto morto, e quello che è tornato a casa è un fantasma. Da quel momento in poi del fatto che Asso fosse il migliore giocatore di poker del mondo non ci interessa più, perché è morto e la sua unica preoccupazione è trovare un nuovo marito che possa mantenere la mogliettina, sia mai che le venga in mente di lavorare (di fatti ostacola il suo provino per entrare nel corpo di ballo di un teatro). Ma le femministe nel 1981 erano già estinte?Si potrebbe anche stare ad analizzare la completa illogicità delle doti "soprannaturali" di Asso, perché una volta è invisibile, poco dopo i mortali vedono i suoi vestiti librarsi nell'aria, prima ha difficoltà a passare attraverso una porta chiusa, poi si teletrasporta da una parte all'altra, a volte viene percepito e udito dai viventi, altre urla e nessuno lo sente. Ma tutto questo non è niente in confronto al fatto che di "Asso" non vediamo nulla, perché la sua avventura ultraterrena non ha niente a che vedere con il gioco d'azzardo, e se fosse stato un idraulico non sarebbe cambiato molto. E la linea di difesa "vabbè, almeno fa ridere" non regge, perché, santiddio, no, non fa ridere. È prima di ogni altra cosa noioso (tant'è che mi sono addormentato proprio durante la fase cruciale, quindi non so alla fine con chi si è risposata la Fenech).
Nove anni dopo in milioni avrebbero pianto vedendo Patrick Swayze e Demi Moore in Ghost, e forse Asso si può considerare il suo padre ideale, visto che alcuni risvolti della trama sono simili: il fantasma che può essere visto solo da qualcuno, l'impegno a mettere al sicuro la moglie, la vendetta nei confronti dell'assassino; e soprattutto che anche qui si piange tanto. Di frustrazione.
Published on December 01, 2014 10:42
November 27, 2014
Il prezzo delle parole
Intervengo per dire la mia su un dibattito che sta animando in queste settimane la blogsfera e i social network, almeno quella parte che frequento io. La cosa è nata dalla disavventura di un'autrice self americana (una delle poche che campa davvero di selfpublishing), che si è vista restituire un libro pagato pochi dollari da un lettore inferocito che lamentava che fosse troppo costoso, nonostante a suo stesso dire il migliore mai letto (non ho voglia di mettervi link, cercatevelo). Poi (forse collegato a questo fatto, forse no) è esplosa una feroce polemica su un gruppo facebook dedicato ad e-book e self publishing, nato da l'osservazione di un membro che faceva notare che se un romanzo su Amazon si paga 0.99, allora un racconto dovrebbe costare al più la metà.
La questione che ne emerge può essere interessante. Il discorso sarebbe molto lungo, e bisognerebbe partire dalla percezione generalmente condivisa del "lavoro creativo", ma in questa sede concentriamoci solo sulla scrittura, e sul rapporto prettamente monetario tra autori e lettori. Buona parte degli interventi su questo argomento da parte degli autori aveva come punto centrale il fatto che la qualità non si misura con la quantità, che scrivere un buon racconto non è più facile di scrivere un romanzo, e che il tempo e l'impegno profuso nella scrittura devono pur trovare un loro corrispettivo, altrimenti sarebbe meglio regalare. Come io mi collochi su questi aspetti è evidente, se si considerano alcuni miei post precedenti, in particolare in merito alla dignità del racconto e al prezzo di copertina del libro di un esordiente. Questo però è il punto di vista dal lato dell'autore, che posso esprimere pur essendo l'ultimo dei bischeri in questo senso.
Ma il lettore, da parte sua, che cosa vuole? Il lettore per cosa paga?
Mi pare che questo lato della faccenda non sia stato affrontato da nessuno. E poiché tutti sono (o dovrebbero essere) lettori prima che scrittori, io credo che sia il punto di partenza per qualunque argomentazione.
Se dico, come lettore, che per me un libro di 100 pagine vale il doppio di un libro di 50, allora sto semplicemente valutando le parole al peso: potrei spingermi fino a calcolare il valore di una singola lettera, e quindi per me risulterebbe facile determinare quanto sono disposto a pagare per qualunque opera, mi basta sapere quanto è lunga. Ma questa impostazione nasconde un sottinteso: ovvero che quello per cui io sto pagando è il tempo che impiego a leggere l'opera stessa. Di conseguenza, la lettura per me è semplicemente un modo per trascorrere il tempo, come potrebbero essere una sigaretta o uno yo-yo.
Ma i lettori cercano davvero questo? Indubbiamente c'è qualcuno che non vuole altro, perché buona parte della produzione editoriale è composta di libri che non richiedono alcun "investimento mentale". Ma i lettori attenti, quelli buoni, quelli insomma che ogni autore vorrebbe avere per sé, chiaramente vogliono altro.
Un lettore autentico vuole essere coinvolto, stupito, intrigato, portato a riflettere, sconvolto, preso a sberle. È questo che si cerca in un libro, e non certo la mera sequenza di parole su cui far scorrere gli occhi. Certo la lettura si definisce sempre "passatempo", ma solo nel senso che è un'attività a cui si dedica in genere il tempo "che avanza". Un buon lettore non vuole soltanto leggere qualcosa, ma pretende che questo qualcosa lo smuova, in un modo o nell'altro.
Ecco perché un lettore può essere disposto a pagare un prezzo più alto per un'opera più breve. Ecco perché l'equivalenza tra numero di pagine e prezzo del libro non ha senso: perché non sono le parole che stiamo pagando, ma il loro potere di evocare qualcosa, suscitare emozioni e riflessioni. E questa capacità è ovviamente inquantificabile: non si può determinare il potere di un'opera (di qualsiasi genere, letterario, musicale, visivo) di provocare reazioni intellettive... anche se è evidente che alcune hanno questo potere, altre no.
Questa quindi è la sfida che un autore si trova ad affrontare: convincere i suoi potenziali lettori che il loro tempo è bene investito, e che un'ora spesa a leggerlo abbia più valore dello stesso tempo impiegato a leggere altro.
La questione che ne emerge può essere interessante. Il discorso sarebbe molto lungo, e bisognerebbe partire dalla percezione generalmente condivisa del "lavoro creativo", ma in questa sede concentriamoci solo sulla scrittura, e sul rapporto prettamente monetario tra autori e lettori. Buona parte degli interventi su questo argomento da parte degli autori aveva come punto centrale il fatto che la qualità non si misura con la quantità, che scrivere un buon racconto non è più facile di scrivere un romanzo, e che il tempo e l'impegno profuso nella scrittura devono pur trovare un loro corrispettivo, altrimenti sarebbe meglio regalare. Come io mi collochi su questi aspetti è evidente, se si considerano alcuni miei post precedenti, in particolare in merito alla dignità del racconto e al prezzo di copertina del libro di un esordiente. Questo però è il punto di vista dal lato dell'autore, che posso esprimere pur essendo l'ultimo dei bischeri in questo senso.Ma il lettore, da parte sua, che cosa vuole? Il lettore per cosa paga?
Mi pare che questo lato della faccenda non sia stato affrontato da nessuno. E poiché tutti sono (o dovrebbero essere) lettori prima che scrittori, io credo che sia il punto di partenza per qualunque argomentazione.
Se dico, come lettore, che per me un libro di 100 pagine vale il doppio di un libro di 50, allora sto semplicemente valutando le parole al peso: potrei spingermi fino a calcolare il valore di una singola lettera, e quindi per me risulterebbe facile determinare quanto sono disposto a pagare per qualunque opera, mi basta sapere quanto è lunga. Ma questa impostazione nasconde un sottinteso: ovvero che quello per cui io sto pagando è il tempo che impiego a leggere l'opera stessa. Di conseguenza, la lettura per me è semplicemente un modo per trascorrere il tempo, come potrebbero essere una sigaretta o uno yo-yo.
Ma i lettori cercano davvero questo? Indubbiamente c'è qualcuno che non vuole altro, perché buona parte della produzione editoriale è composta di libri che non richiedono alcun "investimento mentale". Ma i lettori attenti, quelli buoni, quelli insomma che ogni autore vorrebbe avere per sé, chiaramente vogliono altro.
Un lettore autentico vuole essere coinvolto, stupito, intrigato, portato a riflettere, sconvolto, preso a sberle. È questo che si cerca in un libro, e non certo la mera sequenza di parole su cui far scorrere gli occhi. Certo la lettura si definisce sempre "passatempo", ma solo nel senso che è un'attività a cui si dedica in genere il tempo "che avanza". Un buon lettore non vuole soltanto leggere qualcosa, ma pretende che questo qualcosa lo smuova, in un modo o nell'altro.
Ecco perché un lettore può essere disposto a pagare un prezzo più alto per un'opera più breve. Ecco perché l'equivalenza tra numero di pagine e prezzo del libro non ha senso: perché non sono le parole che stiamo pagando, ma il loro potere di evocare qualcosa, suscitare emozioni e riflessioni. E questa capacità è ovviamente inquantificabile: non si può determinare il potere di un'opera (di qualsiasi genere, letterario, musicale, visivo) di provocare reazioni intellettive... anche se è evidente che alcune hanno questo potere, altre no.
Questa quindi è la sfida che un autore si trova ad affrontare: convincere i suoi potenziali lettori che il loro tempo è bene investito, e che un'ora spesa a leggerlo abbia più valore dello stesso tempo impiegato a leggere altro.
Published on November 27, 2014 23:30
November 24, 2014
Film che non vedrete mai: Upstream Color
Intanto vi rassicuro, questo non è diventato un blog a tema vermi, ed è solo una coincidenza se queste bestie sono tema ricorrente di due post consecutivi. In realtà a differenza di quello, il film in questione è piuttosto recente, e di tutt'altro livello. Rientra nella categoria dei film che non vedrete mai perché è improbabile che qualcuno decida mai di doppiarlo, anche se devo riconoscere che finora ho portato fortuna, poiché The Man from Earth ha in effetti avuto una sua traduzione e anche Synecdoche New York è finalmente arrivato in Italia a pochi mesi dal mio post. Quindi potrebbe esserci qualche possibilità che vediate anche questo in futuro, e ve lo auguro.
Iniziamo col contestualizzare: Upstream Color è un film del 2013 scritto e diretto da Shane Carruth. Il nome probabilmente non vi dice niente, a meno che non seguiate le produzioni cinematografiche collocate al di fuori dal mainstream, opere di autori misconosciuti ma con grande potenziale. Carruth ha raggiunto un certo livello di fama con il suo primo film Primer, una storia decisamente atipica di viaggio nel tempo. In realtà anche definirlo in questi termini è superficiale, perché Primer è un film complesso, a molteplici livelli di interpretazione, e se anche il viaggio nel tempo è presente in una forma diversa da quella con cui viene di solito presentato, il tema centrale del film è un altro. Devo anche ammettere che Primer è un film che mi ha richiesto più di una visione per riuscire a comprenderlo, e ancora non sono sicuro di esserci riuscito completamente.
Upstream Color è per certi versi affine al suo primo lavoro. Carruth, che oltre a scrivere e dirigere, interpreta anche un ruolo principale in entrambi, costruisce film fatti di pochi dialoghi ma di molti messaggi non verbali, e se questo già si vedeva in Primer, qui è ancora più accentuato. La cura tecnica del film è evidente e impeccabile, e in questo in particolare c'è un'attenzione elevatissima per la componente sonora, ma di questo parleremo tra poco.
La storia di Upstream Color non è facile da riassumere. Quanto segue è potenzialmente uno spoiler, ma in effetti credo che questo sia uno di quei film che non viene rovinato dal conoscerne lo svolgimento, perché la sequenza degli eventi non è la parte determinante. Pertanto mi sento di dire che potete leggere senza perdere nulla, ma se non volete saltate al prossimo paragrafo, o tornate dopo averlo visto. A parte alcune sequenze iniziali che assumeranno significato solo in seguito, il film inizia con un'aggressione alla protagonista Kris (Amy Seimetz), durante la quale le viene spinto in gola un piccolo verme. La creatura le si annida dentro, e la presenza del parassita la rende estremamente passiva e suggestionabile. L'aggressore ne approfitta per manipolarla in modo da farsi intestare tutti i suoi beni, dopodiché la abbandona così com'è. A questo punto entra in scena un personaggio enigmatico ma fondamentale, chiamato nei titoli di coda "The Sampler", il Campionatore (perché lo vediamo andare in giro a registrare e campionare suoni ambientali per farne poi della musica sperimentale... ma forse non solo per questo). Il Campionatore richiama a sé Kris (sempre con l'uso di particolari suoni) e poi esegue un'operazione di estrazione del parassita, trasferendolo nel corpo di un maiale, che alleva insieme ad altri in una fattoria isolata. La ragazza rientra poi a casa sua, frastornata e ignara di quanto successo, e gradualmente riprende contatto con la sua vita dopo alcune settimane di assenza, scoprendo che qualcosa non va. In seguito conosce Jeff (ecco Shane Carruth), e i due sembrano da subito avere un'affinità inspiegabile. Frequentandosi e condividendo esperienze e ricordi, arrivano a capire che c'è qualcosa che li accomuna: entrambi sono stati vittima del complesso furto eseguito tramite il parassita, ma non è solo questo: la connessione è più profonda, perché i loro "corrispondenti suini" sono a loro volta in contatto. Il collegamento tra uomini e maiali è chiaro ma indefinibile, si manifesta con il passaggio di sensazioni da un'estremità all'altra ma senza una vera presa di coscienza, e ha la sua massima espressioni quando la scrofa-Kris rimane incinta e viene poi privata dei suoi piccoli, prelevati dal Campionatore e gettati nel fiume. In una sequenza successiva apprenderemo che dai corpi in decomposizione dei cuccioli scaturiscono delle spore (scusate la pubblicità occulta) che vengono assorbite attraverso le radici da alcune piante, i cui fiori diventano blu e vengono appositamente raccolti, ed è da questi fiori che si trovano i piccoli bachi usati dal ladro per parassitare le sue vittime: il cerchio si completa, un ciclo vitale composto da più soggetti umani e non: il fiore - il parassita - il ladro - la vittima - il Campionatore - il maiale - le spore - il fiore, e così via. Questo ciclo verrà spezzato proprio da Kris, quando insieme a Jeff inizia a mettere a posto i pezzi di quanto è accaduto, e va in cerca dei suoni composti dal Campionatore, trovando proprio nella sua musica il collegamento mancante per raggiungere la fattoria in cui sono tenuti i maiali.
Dicevo prima che questo film ha molto da dire, ma lo fa senza usare parole. Chiaramente i personaggi parlano, ma i dialoghi sono una parte marginale del film, decisamente inferiori rispetto alle sole immagini e ai
suoni
. Questo è in effetti un film in cui la componente audio riveste un ruolo centrale, ed è uno degli aspetti che più mi ha colpito, poiché nel cinema è difficile che il suono sia sfruttato in modo completo (anche quando vengono prodotte eccellenti colonne sonore), e pure in questo caso il merito va a Carruth stesso, che ha composto anche la musica che accompagna il film (e di conseguenza anche le campionature). Non a caso il personaggio chiave dell'intera vicenda è proprio questo Campionatore, che passa le sue giornate tra registrare e riarrangiare suoni naturali e allevare i maiali parassitati. In effetti il ruolo del Campionatore non è del tutto chiaro, e non si capisce se la sua parte nel ciclo vitale parassita-fiore sia volontario o incidentale: è indubbiamente lui a permettere al ladro di acquisire i vermi, ma non sappiamo se ne è al corrente. Personalmente ritengo di no, ma la questione può essere interpretata. È anche da segnalare che le altre persone associate ai maiali sono chiamate nei titoli di code "The Sampled", i campionati: un indizio del fatto che il Campionatore non archivia e manovra solo i suoni, ma forse, volontariamente o meno, quelle stesse persone di cui racchiude una parte di coscienza all'interno dei suini. Non sappiamo perché lo faccia, ma è evidente che sa quello che sta facendo.
Ma qual è il senso di Upstream Color? Certo è già interessante il meccanismo del parassita, ed è notevole il dramma delle vittime del ladro, ma il film è troppo intelligente per fermarsi a questo livello superficiale degli eventi. Non è quello che succede a definire il significato dell'opera (e per questo mi preoccupavo relativamente di spoilerarlo), ma come lo spettatore percepisce questa serie di immagini, suoni. Come il verme che collega uomini e maiali in un modo profondo ma intangibile, anche il legame tra l'autore e lo spettatore è labile ma tangibile. C'è un messaggio che viene veicolato, a un livello più basso di quello verbale, quasi suggerito. La mia idea (sicuramente opinabile) è che il film cerchi di affrontare il concetto di identità, la definizione di sé: chi sono i protagonisti, chi sono davvero, nel momento in cui seguono le istruzioni di un ladro mediate da un verme? E quando avvertono le sensazioni di un maiale con il quale condividono un parassita? Il sottile entanglement che esiste tra Campionatore e Campionato, tramite un animale da allevamento in che modo influisce sulle loro vite? C'è una scena che in questo senso ritengo fondamentale, a circa due terzi del film: durante le loro uscite, Kris e Jeff si raccontano storie della loro infanzia, e queste si mescolano, si sovrappongono, al punto che quando uno racconta l'altro afferma che sta raccontando un suo aneddoto, che quella storia appartiene al suo passato e non a quello del compagno. Ecco allora, se il legame tra i due, subdolo e incomprensbile quanto può essere, porta le loro vite a sovrapporsi, che cosa rimane a distinguerli?
Non posso essere sicuro che questo sia davvero quanto Shane Carruth volesse trasmettere. Upstream Color è volutamente (e palesemente) un film aperto a interpretazioni, una storia che non ha un unico punto di vista, e che grazie all'utilizzo di un linguaggio non verbale può facilmente prestarsi a diversi approcci. È probabile che ci siano molti aspetti che non sono stato in grado di cogliere, perché già la seconda visione mi ha aiutato molto a mettere insieme i pezzi. In ogni caso, è sicuro che il film riesce a coinvolgere lo spettatore in modo profondo e trasmettere un messaggio (quale che sia) che raramente giunge così forte nel cinema contemporaneo.
Iniziamo col contestualizzare: Upstream Color è un film del 2013 scritto e diretto da Shane Carruth. Il nome probabilmente non vi dice niente, a meno che non seguiate le produzioni cinematografiche collocate al di fuori dal mainstream, opere di autori misconosciuti ma con grande potenziale. Carruth ha raggiunto un certo livello di fama con il suo primo film Primer, una storia decisamente atipica di viaggio nel tempo. In realtà anche definirlo in questi termini è superficiale, perché Primer è un film complesso, a molteplici livelli di interpretazione, e se anche il viaggio nel tempo è presente in una forma diversa da quella con cui viene di solito presentato, il tema centrale del film è un altro. Devo anche ammettere che Primer è un film che mi ha richiesto più di una visione per riuscire a comprenderlo, e ancora non sono sicuro di esserci riuscito completamente.
Upstream Color è per certi versi affine al suo primo lavoro. Carruth, che oltre a scrivere e dirigere, interpreta anche un ruolo principale in entrambi, costruisce film fatti di pochi dialoghi ma di molti messaggi non verbali, e se questo già si vedeva in Primer, qui è ancora più accentuato. La cura tecnica del film è evidente e impeccabile, e in questo in particolare c'è un'attenzione elevatissima per la componente sonora, ma di questo parleremo tra poco.La storia di Upstream Color non è facile da riassumere. Quanto segue è potenzialmente uno spoiler, ma in effetti credo che questo sia uno di quei film che non viene rovinato dal conoscerne lo svolgimento, perché la sequenza degli eventi non è la parte determinante. Pertanto mi sento di dire che potete leggere senza perdere nulla, ma se non volete saltate al prossimo paragrafo, o tornate dopo averlo visto. A parte alcune sequenze iniziali che assumeranno significato solo in seguito, il film inizia con un'aggressione alla protagonista Kris (Amy Seimetz), durante la quale le viene spinto in gola un piccolo verme. La creatura le si annida dentro, e la presenza del parassita la rende estremamente passiva e suggestionabile. L'aggressore ne approfitta per manipolarla in modo da farsi intestare tutti i suoi beni, dopodiché la abbandona così com'è. A questo punto entra in scena un personaggio enigmatico ma fondamentale, chiamato nei titoli di coda "The Sampler", il Campionatore (perché lo vediamo andare in giro a registrare e campionare suoni ambientali per farne poi della musica sperimentale... ma forse non solo per questo). Il Campionatore richiama a sé Kris (sempre con l'uso di particolari suoni) e poi esegue un'operazione di estrazione del parassita, trasferendolo nel corpo di un maiale, che alleva insieme ad altri in una fattoria isolata. La ragazza rientra poi a casa sua, frastornata e ignara di quanto successo, e gradualmente riprende contatto con la sua vita dopo alcune settimane di assenza, scoprendo che qualcosa non va. In seguito conosce Jeff (ecco Shane Carruth), e i due sembrano da subito avere un'affinità inspiegabile. Frequentandosi e condividendo esperienze e ricordi, arrivano a capire che c'è qualcosa che li accomuna: entrambi sono stati vittima del complesso furto eseguito tramite il parassita, ma non è solo questo: la connessione è più profonda, perché i loro "corrispondenti suini" sono a loro volta in contatto. Il collegamento tra uomini e maiali è chiaro ma indefinibile, si manifesta con il passaggio di sensazioni da un'estremità all'altra ma senza una vera presa di coscienza, e ha la sua massima espressioni quando la scrofa-Kris rimane incinta e viene poi privata dei suoi piccoli, prelevati dal Campionatore e gettati nel fiume. In una sequenza successiva apprenderemo che dai corpi in decomposizione dei cuccioli scaturiscono delle spore (scusate la pubblicità occulta) che vengono assorbite attraverso le radici da alcune piante, i cui fiori diventano blu e vengono appositamente raccolti, ed è da questi fiori che si trovano i piccoli bachi usati dal ladro per parassitare le sue vittime: il cerchio si completa, un ciclo vitale composto da più soggetti umani e non: il fiore - il parassita - il ladro - la vittima - il Campionatore - il maiale - le spore - il fiore, e così via. Questo ciclo verrà spezzato proprio da Kris, quando insieme a Jeff inizia a mettere a posto i pezzi di quanto è accaduto, e va in cerca dei suoni composti dal Campionatore, trovando proprio nella sua musica il collegamento mancante per raggiungere la fattoria in cui sono tenuti i maiali.
Dicevo prima che questo film ha molto da dire, ma lo fa senza usare parole. Chiaramente i personaggi parlano, ma i dialoghi sono una parte marginale del film, decisamente inferiori rispetto alle sole immagini e ai
suoni
. Questo è in effetti un film in cui la componente audio riveste un ruolo centrale, ed è uno degli aspetti che più mi ha colpito, poiché nel cinema è difficile che il suono sia sfruttato in modo completo (anche quando vengono prodotte eccellenti colonne sonore), e pure in questo caso il merito va a Carruth stesso, che ha composto anche la musica che accompagna il film (e di conseguenza anche le campionature). Non a caso il personaggio chiave dell'intera vicenda è proprio questo Campionatore, che passa le sue giornate tra registrare e riarrangiare suoni naturali e allevare i maiali parassitati. In effetti il ruolo del Campionatore non è del tutto chiaro, e non si capisce se la sua parte nel ciclo vitale parassita-fiore sia volontario o incidentale: è indubbiamente lui a permettere al ladro di acquisire i vermi, ma non sappiamo se ne è al corrente. Personalmente ritengo di no, ma la questione può essere interpretata. È anche da segnalare che le altre persone associate ai maiali sono chiamate nei titoli di code "The Sampled", i campionati: un indizio del fatto che il Campionatore non archivia e manovra solo i suoni, ma forse, volontariamente o meno, quelle stesse persone di cui racchiude una parte di coscienza all'interno dei suini. Non sappiamo perché lo faccia, ma è evidente che sa quello che sta facendo.Ma qual è il senso di Upstream Color? Certo è già interessante il meccanismo del parassita, ed è notevole il dramma delle vittime del ladro, ma il film è troppo intelligente per fermarsi a questo livello superficiale degli eventi. Non è quello che succede a definire il significato dell'opera (e per questo mi preoccupavo relativamente di spoilerarlo), ma come lo spettatore percepisce questa serie di immagini, suoni. Come il verme che collega uomini e maiali in un modo profondo ma intangibile, anche il legame tra l'autore e lo spettatore è labile ma tangibile. C'è un messaggio che viene veicolato, a un livello più basso di quello verbale, quasi suggerito. La mia idea (sicuramente opinabile) è che il film cerchi di affrontare il concetto di identità, la definizione di sé: chi sono i protagonisti, chi sono davvero, nel momento in cui seguono le istruzioni di un ladro mediate da un verme? E quando avvertono le sensazioni di un maiale con il quale condividono un parassita? Il sottile entanglement che esiste tra Campionatore e Campionato, tramite un animale da allevamento in che modo influisce sulle loro vite? C'è una scena che in questo senso ritengo fondamentale, a circa due terzi del film: durante le loro uscite, Kris e Jeff si raccontano storie della loro infanzia, e queste si mescolano, si sovrappongono, al punto che quando uno racconta l'altro afferma che sta raccontando un suo aneddoto, che quella storia appartiene al suo passato e non a quello del compagno. Ecco allora, se il legame tra i due, subdolo e incomprensbile quanto può essere, porta le loro vite a sovrapporsi, che cosa rimane a distinguerli?
Non posso essere sicuro che questo sia davvero quanto Shane Carruth volesse trasmettere. Upstream Color è volutamente (e palesemente) un film aperto a interpretazioni, una storia che non ha un unico punto di vista, e che grazie all'utilizzo di un linguaggio non verbale può facilmente prestarsi a diversi approcci. È probabile che ci siano molti aspetti che non sono stato in grado di cogliere, perché già la seconda visione mi ha aiutato molto a mettere insieme i pezzi. In ogni caso, è sicuro che il film riesce a coinvolgere lo spettatore in modo profondo e trasmettere un messaggio (quale che sia) che raramente giunge così forte nel cinema contemporaneo.
Published on November 24, 2014 23:00
November 21, 2014
Coppi Night 16/11/14 - Paura nella città dei morti viventi
Ho già espresso in altre occasioni la mia avversione ai film horror, soprattutto quelli contemporanei basati essenzialmente su jumpscares e con plot che non rispetta alcuna coerenza interna. C'è però un particolare sottogenere di horror che, anche se non conosco bene, mi appassiona molto di più: l'horror-trash italiano, che non so nemmeno se ha una sua classificazione particolare ma la meriterebbe. Per capirsi, leggete cosa scrivvo di
Troll 2
.
Paura nella città dei morti viventi è un film di Lucio Fulci, nome già di spicco del settore, e forse uno dei maggiori registi italiani in termini assoluti (non lo so, non conosco il cinema italiano, ma penso che sia abbastanza quotato). A volerla fare breve, è una storia di zombie ambientata nella cittadina di Dunwich, che inizia quando il sacerdote locale si impicca spalancando con questo suo gesto le porte dell'inferno e permettendo ai morti di ritornare a camminare e cacciare i vivi. Per scongiurare l'apocalisse intervengono una giovane medium e un giornalista che la accompagna (dopo averla salvata da un seppellimento accidentale), che si uniranno ad alcuni eroi locali tra cui l'immancabile bambino innocente.
Come sempre in questi casi, messa così la trama non sembra niente di assurdo, o almeno niente che non si sia già visto nell'ambito del cinema horror. Ma è lo svolgimento del film a fare la differenza: ecco quindi spuntare da ogni direzione decine di personaggi di cui ci vengono raccontate le imprese quando non ce ne frega nulla, scene di violenza scollegate dagli attacchi degli zombie (il padre che trapana la testa al fidanzatino della figlia), morti improvvise e inutili dei personaggi che sembravano protagonisti fino a un minuto prima, completa assenza di logicità negli eventi soprannaturali mostrati (non si capisce se i morti viventi siano eterei, visto che appaiono e scompaiono all'improvviso, alcuni sembrano avere dei poteri e altri attaccano fisicamente, alcuni sono decomposti altri no, e infine il prete-zombie ammazzato semplicemente trafiggendolo con un palo, un sistema decisamente anticlimatico per chiudere le porte degli inferi). Così tutto si perde in un miscuglio indefinibile di volti, eventi, discorsi... e vermi.
Sì, perché ci sono in effetti due elementi portanti che reggono tutto il film: vermi e scimmie. I vermi (termine generico in cui includo animali diversi, sia lombrichi che larve di insetti) ricorrono in decine di scene, la più eclatante quella in cui i (presunti) protagonisti sono in casa e le finestre si spalancano per investirli con un'autentica tempesta di bigattini, con quintali di bachi da sego (vivi, presumo) che ricoprono il pavimento, e c'è da chiedersi che bel lavorino sia toccato a chi ha dovuto ripulire il set. Le scimmie sono le creature invisibili che emettono urli immani nella notte di Dunwich, versi striduli che di solito si sentono solo nelle foreste pluviali, e così penetranti che riescono a creare autentico disagio nello spettatore (forse sono in effetti l'antesignano dei moderni jumpscares).
Insomma, anche in questo caso un film che nonostante la manifesta insensatezza riesce a mantenere vivo l'interesse, proprio perché è impossibile orientarsi e anticipare cosa può succedere, e ogni scena nasconde potenzialmente una carica comica devastante. Le scene splatter, peraltro, non sono realizzate nemmeno tanto male. E se lo guardate, non chiedetevi cosa significa quell'urlo finale sull'immagine del bambino, la risposta è semplicemente niente, ho dovuto cercarlo sui forum dedicati per crederci.
Paura nella città dei morti viventi è un film di Lucio Fulci, nome già di spicco del settore, e forse uno dei maggiori registi italiani in termini assoluti (non lo so, non conosco il cinema italiano, ma penso che sia abbastanza quotato). A volerla fare breve, è una storia di zombie ambientata nella cittadina di Dunwich, che inizia quando il sacerdote locale si impicca spalancando con questo suo gesto le porte dell'inferno e permettendo ai morti di ritornare a camminare e cacciare i vivi. Per scongiurare l'apocalisse intervengono una giovane medium e un giornalista che la accompagna (dopo averla salvata da un seppellimento accidentale), che si uniranno ad alcuni eroi locali tra cui l'immancabile bambino innocente.Come sempre in questi casi, messa così la trama non sembra niente di assurdo, o almeno niente che non si sia già visto nell'ambito del cinema horror. Ma è lo svolgimento del film a fare la differenza: ecco quindi spuntare da ogni direzione decine di personaggi di cui ci vengono raccontate le imprese quando non ce ne frega nulla, scene di violenza scollegate dagli attacchi degli zombie (il padre che trapana la testa al fidanzatino della figlia), morti improvvise e inutili dei personaggi che sembravano protagonisti fino a un minuto prima, completa assenza di logicità negli eventi soprannaturali mostrati (non si capisce se i morti viventi siano eterei, visto che appaiono e scompaiono all'improvviso, alcuni sembrano avere dei poteri e altri attaccano fisicamente, alcuni sono decomposti altri no, e infine il prete-zombie ammazzato semplicemente trafiggendolo con un palo, un sistema decisamente anticlimatico per chiudere le porte degli inferi). Così tutto si perde in un miscuglio indefinibile di volti, eventi, discorsi... e vermi.
Sì, perché ci sono in effetti due elementi portanti che reggono tutto il film: vermi e scimmie. I vermi (termine generico in cui includo animali diversi, sia lombrichi che larve di insetti) ricorrono in decine di scene, la più eclatante quella in cui i (presunti) protagonisti sono in casa e le finestre si spalancano per investirli con un'autentica tempesta di bigattini, con quintali di bachi da sego (vivi, presumo) che ricoprono il pavimento, e c'è da chiedersi che bel lavorino sia toccato a chi ha dovuto ripulire il set. Le scimmie sono le creature invisibili che emettono urli immani nella notte di Dunwich, versi striduli che di solito si sentono solo nelle foreste pluviali, e così penetranti che riescono a creare autentico disagio nello spettatore (forse sono in effetti l'antesignano dei moderni jumpscares).
Insomma, anche in questo caso un film che nonostante la manifesta insensatezza riesce a mantenere vivo l'interesse, proprio perché è impossibile orientarsi e anticipare cosa può succedere, e ogni scena nasconde potenzialmente una carica comica devastante. Le scene splatter, peraltro, non sono realizzate nemmeno tanto male. E se lo guardate, non chiedetevi cosa significa quell'urlo finale sull'immagine del bambino, la risposta è semplicemente niente, ho dovuto cercarlo sui forum dedicati per crederci.
Published on November 21, 2014 00:00
November 18, 2014
Apparat - Krieg und Frieden
Mentre a casa nostra Romina Power tira fuori una canzone contro le scie chimiche* e i tg dedicano 10 minuti ognuno al nuovo album di Vasco Rossi (ma non si era ritirato?), nel resto del mondo gli interpreti della musica elettronica nelle sue varie forme vengono trattati con un certo rispetto, e c'è anche chi pensa di affidare a loro la stesura di composizioni di notevole spessore culturale. Per citarne un paio al volo, è il caso di Jeff Mills con la sua opera musical-visiva-teatrale
Chronicles of Possible Worlds
, o Ellen Allien che scrive
LISm
come accompagnamento di uno spettacolo di danza del Centre Pompidou, o Paul e Fritz Kalkbrenner che realizzano la colonna sonora del film
Global Player
. Ed è anche il caso di Apparat, il cui talento è stato richiesto per curare la parte musicale di una rappresentazione di Guerra e pace. Ne è risultato questo
Krieg und Frieden
, che in seguito è stato raccolto e pubblicato sull'etichetta Mute.
Se fin dall'inizio della sua carriera, Sascha Ring aka Apparat ha dimostrato di saper unire con cognizione le strutture tipiche dell'elettronica con sonorità e atmosfere classiche, qui il gioco è praticamente ribaltato: si tratta di "musica vera", nella quale si possono però scorgere le influenze della formazione EDM dell'autore. Già nel suo ultimo album prima di questo,
The Devil's Walk
, si esprimeva la necessità di superare gli schemi ricorrenti dell'elettronica, con un focus più accentuato su ambience e quella cosa indefinibile che alcuni chiamano leftfield. In Krieg und Frieden il percorso si completa, e ci troviamo ad ascoltare qualcosa che difficilme può essere racchiuso in una o due etichette specifiche.
Certo per valutare al meglio l'opera bisognerebbe vederla eseguita per lo scopo originale, ovvero come colonna sonora di questa interpretazione di Guerra e pace, ma anche ascoltandola a sé la qualità e la forza dell'ispirazione sono evidenti. Si riesce a percepire, in quei distanti suoni distorti (come in Tod o Blank Page), l'intenzione dell'autore, il suo tentativo di mostrare un'epoca tormentata e instabile. Le poche lyrics (alcune cantate da Ring stesso) accentuano questo senso di straniamento e malinconia, così come i lenti crescendo che si compiono poi nel breve finale (PV) mantengono l'ascoltatore sempre in bilico, sull'orlo di una tensione inespressa. Forse il pezzo più "facile" è l'ultimo, A Violent Sky, in cui sembra infine riaccendersi una scintilla di serenità, anche grazie al ritorno a schemi musicali familiari.
Forse nel momento in cui si passa a parlare di musica da orchestra non sono probabilmente il commentatore più competente, visto che non ho una formazione musicale ufficiale (escludiamo il flauto che suonavo alle medie) né seguo abitualmente questo genere. Tuttavia quando un dj sfrutta le sue capacità per creare qualcosa di diverso dal solito mi lascio sedurre, e devo ammettere che in questo caso Apparat ha centrato l'obiettivo (non che mi aspettassi diversamente). Credo che dischi come questi siano la dimostrazione di come la musica elettronica sia molto più vicina di quanto si creda comunemente a quella classica, nel senso in cui entrambe partono da una maggiore attenzione a quella che è la struttura (armonica, matematica) della composizione e dei singoli suoni. Forse non è un collegamento così immediato, ma personalmente mi accorgo spesso di come il confine tra questi due apparenti estremi sia in realtà molto sottile. E anche qualcun altro l'ha capito, certo non qui da noi, ma nel resto del mondo.
*Non l'ho ascoltata, ne ho solo sentito parlare, quindi non so se è effettivamente così, ma comunque stiano le cose, è ridicolo e basta.
Se fin dall'inizio della sua carriera, Sascha Ring aka Apparat ha dimostrato di saper unire con cognizione le strutture tipiche dell'elettronica con sonorità e atmosfere classiche, qui il gioco è praticamente ribaltato: si tratta di "musica vera", nella quale si possono però scorgere le influenze della formazione EDM dell'autore. Già nel suo ultimo album prima di questo,
The Devil's Walk
, si esprimeva la necessità di superare gli schemi ricorrenti dell'elettronica, con un focus più accentuato su ambience e quella cosa indefinibile che alcuni chiamano leftfield. In Krieg und Frieden il percorso si completa, e ci troviamo ad ascoltare qualcosa che difficilme può essere racchiuso in una o due etichette specifiche.Certo per valutare al meglio l'opera bisognerebbe vederla eseguita per lo scopo originale, ovvero come colonna sonora di questa interpretazione di Guerra e pace, ma anche ascoltandola a sé la qualità e la forza dell'ispirazione sono evidenti. Si riesce a percepire, in quei distanti suoni distorti (come in Tod o Blank Page), l'intenzione dell'autore, il suo tentativo di mostrare un'epoca tormentata e instabile. Le poche lyrics (alcune cantate da Ring stesso) accentuano questo senso di straniamento e malinconia, così come i lenti crescendo che si compiono poi nel breve finale (PV) mantengono l'ascoltatore sempre in bilico, sull'orlo di una tensione inespressa. Forse il pezzo più "facile" è l'ultimo, A Violent Sky, in cui sembra infine riaccendersi una scintilla di serenità, anche grazie al ritorno a schemi musicali familiari.
Forse nel momento in cui si passa a parlare di musica da orchestra non sono probabilmente il commentatore più competente, visto che non ho una formazione musicale ufficiale (escludiamo il flauto che suonavo alle medie) né seguo abitualmente questo genere. Tuttavia quando un dj sfrutta le sue capacità per creare qualcosa di diverso dal solito mi lascio sedurre, e devo ammettere che in questo caso Apparat ha centrato l'obiettivo (non che mi aspettassi diversamente). Credo che dischi come questi siano la dimostrazione di come la musica elettronica sia molto più vicina di quanto si creda comunemente a quella classica, nel senso in cui entrambe partono da una maggiore attenzione a quella che è la struttura (armonica, matematica) della composizione e dei singoli suoni. Forse non è un collegamento così immediato, ma personalmente mi accorgo spesso di come il confine tra questi due apparenti estremi sia in realtà molto sottile. E anche qualcun altro l'ha capito, certo non qui da noi, ma nel resto del mondo.
*Non l'ho ascoltata, ne ho solo sentito parlare, quindi non so se è effettivamente così, ma comunque stiano le cose, è ridicolo e basta.
Published on November 18, 2014 00:20
November 15, 2014
Coppi Night 09/11/14 - Ichi the Killer
I miei limiti li ammetto. Probabilmente la mia formazione è troppo superficiale, o io sono troppo provinciale, per riuscire ad apprezzare il cinema asiatico. Mi è capitato di vedere qualche film coreano o giapponese, e pure qualcosa d'animazione in stile Miyazaki, però, devo ammettere, non è che ne sia mai rimasto tanto impressionato. La mia sensibilità è troppo lontana, presumo, da quella richiesta per apprezzare questo tipo di opere. Il mio giudizio quindi è da prendere con cautela, e probabilmente è sottostimato rispetto a quanto il film meriterebbe davvero.
Certo è che Ichi the Killer non si può prendere completamente sul serio. Cioè, lo so che la società giapponese sguazza in questo genere di eccessi ed esasperazioni, soprattutto a livello visivo, però dai, non riesco a credere che questo film voglia essere drammatico. Ci sono alcune scene forti, ma inserite all'interno di un contesto talmente macchiettistico che è difficile farsi impressionare davvero. Se poi si vuole esaminare anche la storia, ci sono un sacco di cose che stridono, ma non nel senso di errori o plot hole, semplicemente vicende difficili da collocare e interpretare, personaggi che non si riesce a comprendere (e in certi casi nemmeno a riconoscere, discorsi razzisti "sti cinesi son tutti uguali" a parte), sottotrame senza sbocco e così via. Anche qui però so che in buona parte si tratta di un diverso modo di "fare cinema", forse non facile da assimilare per chi è abituato ad altro, quindi alzo le mani.
Premesso tutto ciò, penso che non si possa definire un film noioso, anche se certe parti intermedie forse scorrono troppo lentamente (o meglio ancora, avrebbero potuto essere tolte, ma qui si rientra nel discorso della diversa concezione di cinema ecc ecc...). La dose di violenza estrema, anche abbastanza esplicita, e le fontanelle di sangue riescono a tenere viva l'attenzione, e visto che non la trama in sé non è l'elemento principale sono proprio queste sequenze a costituire la parte più interessante e memorabile. Perché se dovessi fare un riassunto della storia mi troverei in effetti in difficoltà, ma se devo invece riportare la scena in cui lo psicopatico (cioè, uno degli psicopatici) si taglia la lingua la ricordo bene. E non so se questo sia un indizio di qualità o meno, se fosse nelle intenzioni o no. Quindi, ammetto i miei limiti e dico che questo film, se lo volete guardare, boh, fate pure, poi però non mi venite a chiedere niente a me, ok?
Certo è che Ichi the Killer non si può prendere completamente sul serio. Cioè, lo so che la società giapponese sguazza in questo genere di eccessi ed esasperazioni, soprattutto a livello visivo, però dai, non riesco a credere che questo film voglia essere drammatico. Ci sono alcune scene forti, ma inserite all'interno di un contesto talmente macchiettistico che è difficile farsi impressionare davvero. Se poi si vuole esaminare anche la storia, ci sono un sacco di cose che stridono, ma non nel senso di errori o plot hole, semplicemente vicende difficili da collocare e interpretare, personaggi che non si riesce a comprendere (e in certi casi nemmeno a riconoscere, discorsi razzisti "sti cinesi son tutti uguali" a parte), sottotrame senza sbocco e così via. Anche qui però so che in buona parte si tratta di un diverso modo di "fare cinema", forse non facile da assimilare per chi è abituato ad altro, quindi alzo le mani.Premesso tutto ciò, penso che non si possa definire un film noioso, anche se certe parti intermedie forse scorrono troppo lentamente (o meglio ancora, avrebbero potuto essere tolte, ma qui si rientra nel discorso della diversa concezione di cinema ecc ecc...). La dose di violenza estrema, anche abbastanza esplicita, e le fontanelle di sangue riescono a tenere viva l'attenzione, e visto che non la trama in sé non è l'elemento principale sono proprio queste sequenze a costituire la parte più interessante e memorabile. Perché se dovessi fare un riassunto della storia mi troverei in effetti in difficoltà, ma se devo invece riportare la scena in cui lo psicopatico (cioè, uno degli psicopatici) si taglia la lingua la ricordo bene. E non so se questo sia un indizio di qualità o meno, se fosse nelle intenzioni o no. Quindi, ammetto i miei limiti e dico che questo film, se lo volete guardare, boh, fate pure, poi però non mi venite a chiedere niente a me, ok?
Published on November 15, 2014 00:46
November 11, 2014
Coming soon: Retcon
Oggi è il mio compleanno. Esatto, non date retta a facebook, non era due giorni fa come ho volutamente indicato in modo errato, ma oggi. Un anno fa annunciavo l'uscita di
Spore
, il mio primo "libro vero", una raccolta di miei racconti (alcuni inediti, altri no) che costituiva anche l'esordio alle stampe per la Factory Editoriale I Sognatori. La storia di Spore non si è conclusa, e anzi presto ne sentirete ancora parlare, ma in questo post voglio parlare di altro.
Vi siete chiesti che cosa ho fatto, in quest'ultimo anno? Non penserete mica che siccome ho una pubblicazione a mio nome me ne sono rimasto buono ad aspettare la gloria e il ca$h? Eh no, ho continuato a lavorare, e lavora lavora sono arrivato a poter annunciare, oggi, che presto il mio primo romanzo sarà pubblicato!
Ho già accennato in passato a Retcon (questo è il working title, probabilmente sarà cambiato), e l'opera era già arrivata in finale al premio della Mezzotints... che poi ha chiuso. Copione già visto, peraltro, come quando sono stato eletto Scrittore dell'anno da Edizioni XII, con la possibilità di proporre un mio lavoro per la pubblicazione... salvo poi la chiusura di XII dieci mesi dopo. Ma stavolta pare che ce la possiamo fare. Non ci sono ancora date certe, ma indicativamente nei primi mesi dell'anno, Retcon (o comunque si chiamerà) sarà stampato!
Per il momento non posso fornire dettagli più precisi e non posso rivelare qual è l'editore che si è interessato all'opera e lo pubblicherà, ma posso dire che si tratta di un editore di rilievo nell'attuale panorama della fantascienza, forse non estremamente prolifico ma con standard di qualità molto alti (sia per i testi scelti che per la cura dei libri), e una buona distribuzione nelle librerie. Ma non chiedetemi altro a questo proposito, non risponderò.
Posso dirvi invece qualcosa di più sul romanzo, di cui ho appena consegnato la revisione e che adesso è quindi in fase di rilettura per gli ultimi aggiustamenti. Retcon è una storia che si sviluppa su più fronti, tra loro collegati, e tratta di temi diversi ma anch'essi interdipendenti: l'esplorazione spaziale (ma non quella convenzionale), i sogni, gli universi alternativi (cioè, non proprio, ma mettiamola in questi termini), il potere creativo/distruttivo dell'intelligenza, e altre quisquilie tipo l'origine del cosmo, la superstoria dell'universo, la definizione di realtà e così via. Sicuramente sono di parte, ma credo che in Retcon ci siano molti spunti interessanti, e se me lo permettete, credo che possa essere una lettura in grado se non di sconvolgere, almeno di alterare la prospettiva con cui solitamente concepiamo il mondo. Ma non voglio sbrodolarmi addosso, saranno i lettori a giudicare, quindi la pianto qui...
A presto quindi con gli aggiornamenti, passate di qui ogni tanto per apprendere tutte le novità. Mi sarebbe piaciuto mettervi la copertina, ma come immaginerete non è ancora pronta, quindi inserisco un'immagine random. Beh, oddio, forsi così random non è...
Vi siete chiesti che cosa ho fatto, in quest'ultimo anno? Non penserete mica che siccome ho una pubblicazione a mio nome me ne sono rimasto buono ad aspettare la gloria e il ca$h? Eh no, ho continuato a lavorare, e lavora lavora sono arrivato a poter annunciare, oggi, che presto il mio primo romanzo sarà pubblicato!Ho già accennato in passato a Retcon (questo è il working title, probabilmente sarà cambiato), e l'opera era già arrivata in finale al premio della Mezzotints... che poi ha chiuso. Copione già visto, peraltro, come quando sono stato eletto Scrittore dell'anno da Edizioni XII, con la possibilità di proporre un mio lavoro per la pubblicazione... salvo poi la chiusura di XII dieci mesi dopo. Ma stavolta pare che ce la possiamo fare. Non ci sono ancora date certe, ma indicativamente nei primi mesi dell'anno, Retcon (o comunque si chiamerà) sarà stampato!
Per il momento non posso fornire dettagli più precisi e non posso rivelare qual è l'editore che si è interessato all'opera e lo pubblicherà, ma posso dire che si tratta di un editore di rilievo nell'attuale panorama della fantascienza, forse non estremamente prolifico ma con standard di qualità molto alti (sia per i testi scelti che per la cura dei libri), e una buona distribuzione nelle librerie. Ma non chiedetemi altro a questo proposito, non risponderò.
Posso dirvi invece qualcosa di più sul romanzo, di cui ho appena consegnato la revisione e che adesso è quindi in fase di rilettura per gli ultimi aggiustamenti. Retcon è una storia che si sviluppa su più fronti, tra loro collegati, e tratta di temi diversi ma anch'essi interdipendenti: l'esplorazione spaziale (ma non quella convenzionale), i sogni, gli universi alternativi (cioè, non proprio, ma mettiamola in questi termini), il potere creativo/distruttivo dell'intelligenza, e altre quisquilie tipo l'origine del cosmo, la superstoria dell'universo, la definizione di realtà e così via. Sicuramente sono di parte, ma credo che in Retcon ci siano molti spunti interessanti, e se me lo permettete, credo che possa essere una lettura in grado se non di sconvolgere, almeno di alterare la prospettiva con cui solitamente concepiamo il mondo. Ma non voglio sbrodolarmi addosso, saranno i lettori a giudicare, quindi la pianto qui...
A presto quindi con gli aggiornamenti, passate di qui ogni tanto per apprendere tutte le novità. Mi sarebbe piaciuto mettervi la copertina, ma come immaginerete non è ancora pronta, quindi inserisco un'immagine random. Beh, oddio, forsi così random non è...
Published on November 11, 2014 23:30
Unknown to Millions
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