Andrea Viscusi's Blog: Unknown to Millions, page 51
October 3, 2015
Dal libro al film: L'uomo di Marte / The Martian
È il film del momento, e chi sono io per non cavalcare l'onda e approfittare di questa breve finestra di popolarità per un po' di sano SEO? Beh, a dirla tutta in realtà si tratta di un libro che ho letto qualche mese fa e apprezzato, e di cui ero ansioso di vedere la trasposizione cinematografica, confidando che Ridley Scott potesse aver fatto un buon lavoro (secondo me l'utimo che vedremo da parte sua, prima che si dedichi a Prometheus/Alien 2-3-4 e Blade Runner 2-3, ma questo è un altro discorso). Quindi sono andato a vedere subito
The Martian
, facendo finta di ignorare che il titolo italiano è diventato Sopravvissuto, nonostante il libro L'uomo di Marte fosse ben evidente in molte librerie e sarebbe stato molto più facile da associare al film.
Come sempre, ci vuole cautela nell'accostare libri e film derivati, perché media diversi utilizzano linguaggi diversi, pertanto la fedeltà del cinema alla carta non è mai il criterio principale. Quello che è più importante è l'aderenza allo spirito del libro, e quello certamente è ben rispettato. Il messaggio di L'uomo di Marte, se proprio vogliamo andare a scavare sotto la superficie di avventura e sopravvivenza e geekitudine, è una celebrazione dell'ingegno e ingegnosità umana, un inno alla ragione e al positivismo (non solo "ottimismo"), e anche una dichiarazione d'amore per lo Spazio. Mark Watney, pur sapendo di essere l'unico essere umano su un pianeta, senza possibilità di soccorso per almeno quattro anni, decide di non lasciarsi andare, ma impiegare tutte le sue risorse e conoscenze per non morire. Come lo sentivamo dichiarare già nel trailer: I'm going to science the shit out of this (epica frase purtroppo intraducibile, e che nella versione doppiata perde molta della sua grinta).
In questo senso The Martian riesce a trasporre in modo effiace L'uomo di Marte, anche se per forza di cose è obbligato a tralasciare molti particolari. Nel libro infatti le descrizioni delle strategie adottate da Watney (calcoli, principi fisici e chimici, lavori di ingegneria e botanica, programmi di viaggio) sono molto più approfondite, e costituiscono una buona parte del gusto finale della storia, almeno fino a circa metà romanzo. È ovvio che riportare numeri e impartire lezioni di chimica su schermo sarebbe stato noioso e forse anche antipatico, per cui si è opportunamente scelto di far vedere Mark in azione, facendo intendere che ogni sua mossa è studiata. Da questo punto di vista forse il film perde una parte di quell'attrattiva geek che il libro mantiene, ma d'altra parte si apre a un pubblico più vasto e meno specializzato.
Due aspetti di The Martian a mio avviso sono stati gestiti meglio che nel libro. Il primo è la storia parallela che si svolge principalmente alla NASA, con le varie squadre che inizialmente ritengono che Watney sia morto e in seguito si impegnano a trovare un modo per salvarlo. Nel libro, l'introduzione dei personaggi sulla Terra avviene dopo circa un terzo di narrazione in prima persona del protagonita, con un brusco cambio di prospettiva che sulle prime è vagamente disorientante, mentre nel film conosciamo subito le persone che seguiranno Watney a distanza. In secondo luogo, i compagni di missione di Mark, che lo hanno abbandonato creduto morto su Marte, ricoprono qui un ruolo più centrale e a loro modo eroico. Intendiamoci, anche nel libro il salvataggio e l'ammutinamento viene deciso da loro, quindi le loro azioni sono comunque eroiche, ma nel libro non emerge davvero la loro determinazione, mentre vederli in azione, soprattutto nelle fasi finali del film, rende loro giustizia, mostrandoli come personaggi completamente all'altezza del loro compagno in termini di competenza, coraggio, e ottimismo. In generale quindi il film riesce ad allargare il focus della narrazione da Mark Watney agli altri umani coinvolti, e questo è sicuramente positivo.
Se vogliamo poi parlare della rigorosità scientifica (visto che ho già sentito qualcuno che ha visto il film lamentarsi che non è possibile coltivare patate su Marte), rimando in prima battuta al libro, nel quale come già dicevo ogni mossa studiata da Watney è ben documentata, e resa per lo meno plausibile. Nel film, per forza di cose qualche concessione si è dovuta fare, e una su tutte è la gravità: sembra che su Marte si possa camminare e spostarsi e far esplodere le cose come sulla Terra, ma le cose sarebbero un po' diverse. Mark Watney dovrebbe procedere a goffi balzelli, e molte delle sue operazioni sarebbero parecchio rallentate rispetto a come le abbiamo viste. Leggendo il libro questo viene fatto presente e lasciato all'immaginazione del lettore, ma sarebbe stato troppo difficile girare quasi la totalità del film simulando la gravità ridotta. Scott lo sa e lo ha fatto presente, quindi diamogli almeno atto di onestà. In compenso le sequenze a zero-g sull'astronave Hermes sono buone, ma in proporzione sono davvero poche.
Concludendo, The Martian è senza dubbio un buon film, appassionante, leggero ed estremamente motivational. Il breve epilogo (assente nel libro) rafforza ulteriormente quel messaggio positivo, e tutto questo, in concomitanza con l'annuncio della presenza di acqua liquida su Marte, forse in prospettiva potrà davvero risultare determinante per incoraggiarci a fare quel passo, e arrivare davvero sul nostro vicino di orbita. Il che non sarebbe un risultato da poco, se si considera che Andy Weir parte come self publisher.
Come sempre, ci vuole cautela nell'accostare libri e film derivati, perché media diversi utilizzano linguaggi diversi, pertanto la fedeltà del cinema alla carta non è mai il criterio principale. Quello che è più importante è l'aderenza allo spirito del libro, e quello certamente è ben rispettato. Il messaggio di L'uomo di Marte, se proprio vogliamo andare a scavare sotto la superficie di avventura e sopravvivenza e geekitudine, è una celebrazione dell'ingegno e ingegnosità umana, un inno alla ragione e al positivismo (non solo "ottimismo"), e anche una dichiarazione d'amore per lo Spazio. Mark Watney, pur sapendo di essere l'unico essere umano su un pianeta, senza possibilità di soccorso per almeno quattro anni, decide di non lasciarsi andare, ma impiegare tutte le sue risorse e conoscenze per non morire. Come lo sentivamo dichiarare già nel trailer: I'm going to science the shit out of this (epica frase purtroppo intraducibile, e che nella versione doppiata perde molta della sua grinta).In questo senso The Martian riesce a trasporre in modo effiace L'uomo di Marte, anche se per forza di cose è obbligato a tralasciare molti particolari. Nel libro infatti le descrizioni delle strategie adottate da Watney (calcoli, principi fisici e chimici, lavori di ingegneria e botanica, programmi di viaggio) sono molto più approfondite, e costituiscono una buona parte del gusto finale della storia, almeno fino a circa metà romanzo. È ovvio che riportare numeri e impartire lezioni di chimica su schermo sarebbe stato noioso e forse anche antipatico, per cui si è opportunamente scelto di far vedere Mark in azione, facendo intendere che ogni sua mossa è studiata. Da questo punto di vista forse il film perde una parte di quell'attrattiva geek che il libro mantiene, ma d'altra parte si apre a un pubblico più vasto e meno specializzato.
Due aspetti di The Martian a mio avviso sono stati gestiti meglio che nel libro. Il primo è la storia parallela che si svolge principalmente alla NASA, con le varie squadre che inizialmente ritengono che Watney sia morto e in seguito si impegnano a trovare un modo per salvarlo. Nel libro, l'introduzione dei personaggi sulla Terra avviene dopo circa un terzo di narrazione in prima persona del protagonita, con un brusco cambio di prospettiva che sulle prime è vagamente disorientante, mentre nel film conosciamo subito le persone che seguiranno Watney a distanza. In secondo luogo, i compagni di missione di Mark, che lo hanno abbandonato creduto morto su Marte, ricoprono qui un ruolo più centrale e a loro modo eroico. Intendiamoci, anche nel libro il salvataggio e l'ammutinamento viene deciso da loro, quindi le loro azioni sono comunque eroiche, ma nel libro non emerge davvero la loro determinazione, mentre vederli in azione, soprattutto nelle fasi finali del film, rende loro giustizia, mostrandoli come personaggi completamente all'altezza del loro compagno in termini di competenza, coraggio, e ottimismo. In generale quindi il film riesce ad allargare il focus della narrazione da Mark Watney agli altri umani coinvolti, e questo è sicuramente positivo.
Se vogliamo poi parlare della rigorosità scientifica (visto che ho già sentito qualcuno che ha visto il film lamentarsi che non è possibile coltivare patate su Marte), rimando in prima battuta al libro, nel quale come già dicevo ogni mossa studiata da Watney è ben documentata, e resa per lo meno plausibile. Nel film, per forza di cose qualche concessione si è dovuta fare, e una su tutte è la gravità: sembra che su Marte si possa camminare e spostarsi e far esplodere le cose come sulla Terra, ma le cose sarebbero un po' diverse. Mark Watney dovrebbe procedere a goffi balzelli, e molte delle sue operazioni sarebbero parecchio rallentate rispetto a come le abbiamo viste. Leggendo il libro questo viene fatto presente e lasciato all'immaginazione del lettore, ma sarebbe stato troppo difficile girare quasi la totalità del film simulando la gravità ridotta. Scott lo sa e lo ha fatto presente, quindi diamogli almeno atto di onestà. In compenso le sequenze a zero-g sull'astronave Hermes sono buone, ma in proporzione sono davvero poche.Concludendo, The Martian è senza dubbio un buon film, appassionante, leggero ed estremamente motivational. Il breve epilogo (assente nel libro) rafforza ulteriormente quel messaggio positivo, e tutto questo, in concomitanza con l'annuncio della presenza di acqua liquida su Marte, forse in prospettiva potrà davvero risultare determinante per incoraggiarci a fare quel passo, e arrivare davvero sul nostro vicino di orbita. Il che non sarebbe un risultato da poco, se si considera che Andy Weir parte come self publisher.
Published on October 03, 2015 01:50
September 30, 2015
DTS live @ Stranimondi - Milano 10 settembre
Vi ho già parlato di
Stranimondi
, la manifestazione dedicata alla narrativa d'immaginazione (fantasy, fantascienza, horror, weird) che si terràa a Milano il 10 e 11 ottobre. L'evento prevede la presenza di numerosi (piccoli e microscopici) editori del fantastico, ospiti italiani e internazionali, e ha un programma fitto di presentazioni, panel, dibattiti.
Tra i numerosi appuntamenti in calendario, sabato alle ore 15:30 presenteremo con Zona 42
Dimenticami Trovami Sognami
, concentrando in una mezz'ora di tempo tutto quanto ci possa venire in mente per appassionare un pubblico smaliziato come quello che troveremo qui. Quindi cercheremo di dare del nostro meglio, ma al di là della presentazione di DTS, la partecipazione a Stranimondi sarà sicuramente un'occasione per conoscersi, confrontarsi e discutere del nostro piccolo (strano) mondo.
Peraltro, lo stesso sabato alle 18:30, salirò nuovamente sul palco, ma stavolta come relatore per Andrea Di Meo, a cui farò da spalla per la presentazione di SB 15395. Quindi ci sono tanti motivi per partecipare, che potete scoprire meglio sul sito di Stranimondi, la pagina e il gruppo facebook appena nato proprio per fare da collegamento tra la manifestazione, i lettori e gli editori.
Quindi ci vediamo a Milano per uno spritzino? Tac!
Tra i numerosi appuntamenti in calendario, sabato alle ore 15:30 presenteremo con Zona 42
Dimenticami Trovami Sognami
, concentrando in una mezz'ora di tempo tutto quanto ci possa venire in mente per appassionare un pubblico smaliziato come quello che troveremo qui. Quindi cercheremo di dare del nostro meglio, ma al di là della presentazione di DTS, la partecipazione a Stranimondi sarà sicuramente un'occasione per conoscersi, confrontarsi e discutere del nostro piccolo (strano) mondo.Peraltro, lo stesso sabato alle 18:30, salirò nuovamente sul palco, ma stavolta come relatore per Andrea Di Meo, a cui farò da spalla per la presentazione di SB 15395. Quindi ci sono tanti motivi per partecipare, che potete scoprire meglio sul sito di Stranimondi, la pagina e il gruppo facebook appena nato proprio per fare da collegamento tra la manifestazione, i lettori e gli editori.
Quindi ci vediamo a Milano per uno spritzino? Tac!
Published on September 30, 2015 23:40
September 28, 2015
Doctor Who 9x02 - The Witch's Familiar
Ci avevate creduto, eh? Pensavate davvero che Clara, Missy e TARDIS fossero stati disintegrati dai Dalek, e che il Dottore avrebbe ucciso il piccolo Davros nel tentativo di riscrivere la storia, vero? Il cliffhanger di The Magician's Apprentice vi aveva tenuto col fiato sospeso fino a...
No, ok. Siamo seri. Nessuno se l'era bevuta. Quindi in un certo senso è stato un bene che la prima scena ci mostri già Missy e Clara da un'altra parte, vive e decisamente non exterminate. Non aver giocato sulla loro possibile sopravvivenza lasciandola cadere come una rivelazione è stata una mossa ragionevole. Ora, per quanto ritenga che il trucco "non era una disintegrazione ma un teletrasporto" sia una mossa vile e per di più non si possa sfruttare così spesso (l'abbiamo vista di recente in
Time Heist
), in questo caso ha avuto il pregio di spiegarci anche come sia sopravvissuta Missy alla fine di
Death in Heaven
. Fatta pace con il passato, dimentichiamoci questo trucchetto, ok?
E così in The Witch's Familiar seguiamo la storia su due percorsi paralleli: da una parte il Dottore (che genuinamente crede che le sue compagne siano state uccise) che si confronta con Davros e i Dalek, dall'altra la nuova coppia Missy/Clara in giro per Skaro, alla ricerca di un modo di ricongiungersi col Dottore, e potenzialmente salvarlo dal pericolo. Forse delle due è quasi quest'ultima a risultare più interessante: vediamo infatti come Missy riesca a manipolare senza alcuna difficoltà la companion del Dottore, costringendola nelle fogne del pianeta, usandola come esca e infilandola nell'armatura di un Dalek. E in quest'occasione scopriamo come il "filtro mnemonico/emotivo" (di cui avevamo visto qualcosa in Into the Dalek ) funzioni per quest creature: ogni pensiero è indirizzato verso la spersonalizzazione, ogni emozione è trasformata in odio, l'eccitazione diventa una scarica di disintegratore. È una dinamica dei Dalek che non viene spesso evidenziata, e che dimostra come essi non siano esseri senza emozioni (a differenza dei Cyberman, ad esempio), ma piuttosto capaci solo di esprimere ostilità.
Il Dottore e Davros hanno invece una delle loro tipiche conversazioni a proposito di genocidio, potere divino, bene e male, successo e fallimento. Al Dottore scappa detto che Gallifrey non è stato distrutto durante la Time War, ma esiste ancora, da qualche parte, Davros rivela di desiderare un'ultima alba del suo amato pianeta. E sembra davvero che il creatore dei Dalek abbia avuto un tardivo ripensamento e voglia redimersi, quando la vera trappola scatta. Confessoe che anch'io c'ero cascato, e fino a quel momento pensavo "no, dai, ora non facciamo che pure Davros in fondo è buono ed è solo un misero solitario incompreso". Lo avrei trovato totalmente fuori dal personaggio, perché insomma, Davros è quello che l'ultima volta che l'abbiamo visto aveva spostato dei pianeta per creare una bomba in grado di annichilire tutta la realtà... fortunatamente l'obiettivo dello scienziato era un altro, e cioè trarre vantaggio dalla compassione del Dottore per trafugare la sua "energia rigenerativa", da donare ai Dalek e a sé stesso, per creare una razza ancora più potente di guerrieri e continuare a vivere. Beh, se l'idea era questa fin dall'inizio, bisogna ammettere che Davros ha anche un discreto talento come attore. Non fatico comunque a crederlo, perché i piani convoluti rientrano nelle sue abitudini. Ma salta fuori che il Dottore era invece avanti, e aveva capito che cosa sarebbe successo, anche se mi chiedo come pensava di sopravvivere, senza l'intervento di Missy (che lui considerava morta). Non mi è ben chiaro se alla fine i Dalek abbiano davvero assorbito l'energia dei Time Lord, e ne siano quindi stati potenziati, o se il deus ex cloaca finale li abbia distrutti tutti prima che potessero esprimere i loro nuovi poteri. Ma abbiamo già imparato che nonostante tutti gli upgrade, ogni volta che rivediamo i Dalek sono essenzialmente resettati alla loro forma base, quindi dubito che vedremo mai un Time-Dalordek.
Se nella prima parte dell'episodio tutto si basava su un dilemma morale e qualche mistero da svelare, qui troviamo più azione e sostanza, il che è piacevole per un doppio episodio, in cui spesso la seconda parte appare più fiacca. In realtà il Dottore è rimasto abbastanza passivo per tutto l'episodio, nel senso che ha fatto poco, e in questo caso in particolare ha parecchio chiacchierato. Si può forse affermare che la parte del Dottore è stata svolta da Missy, che è stata quella a girovagare e usare l'ingegno per emergere da situazioni impossibili. Una buona dimostrazione di come il Master sia una mente almeno di pari livello al Dottore, e che non sia da sottovalutare: mi auguro che il suo personaggio non venga bruciato troppo in fretta. Totalmente in balia degli eventi Clara, il cui ruolo in queste due puntate è stato quasi nullo. C'è stato un momento intrigante quando è entrata nel Dalek, ricordando la sua prima apparizione in Asylum of the Dalek, e per un attimo ho pensato che il Dottore avrebbe richiamato quell'occasione (anche se quella era un'altra istanza della impossible girl), o forse addiritture che Clara sarebbe morta lì dentro, con un perfetto effetto chiasmico... ma forse ho voluto sperare troppo.
Tra gli elementi degni di nota, c'è sicuramente quello che credo sarà l'arco narrativo della stagione: la confessione del Dottore, che probabilmente riguarda la vera ragione per cui tanto tempo prima il Time Lord è scappato da Gallifrey. Sia Davros che Missy fanno degli accenni sospetti all'idea di un ibrido, ed è probabile che questo tema venga richiamato in seguito. Davros parlava dell'ibrido Dalek/Time Lord, ma io credo che il vero segreto coinvolgesse in qualche modo l'umanità, quindi forse Umano/Time Lord... che d'altra parte è già stato visto altre volte (Donna, Jenny, in un certo senso River Song). Ne riparleremo tra qualche settimana.
Altro elemento interessante sono gli occhiali, vogliamo chiamarli sonic shades? Credo che alla fine fosse solo una gag occasionale per questo episodio, ma il trailer del successivo fa supporre che possano diventare un accessorio ricorrente, spero solo che non sostituiscano davvero il cacciavite, insomma, non si può lasciare il cacciavite...
The Witch's Familiar, ora che si può valutare l'episodio nella sua interezza, si conferma una storia con alcuni spunti validi ma anche qualche scivolone. Non rimarrà nella storia ma si guarda con piacere, e funziona bene come season premiere, promettendo novità interessanti (Missy, la confessione, l'ibrido) che se ben sfruttate renderanno la stagione di buon livello. Voto: 7/10
No, ok. Siamo seri. Nessuno se l'era bevuta. Quindi in un certo senso è stato un bene che la prima scena ci mostri già Missy e Clara da un'altra parte, vive e decisamente non exterminate. Non aver giocato sulla loro possibile sopravvivenza lasciandola cadere come una rivelazione è stata una mossa ragionevole. Ora, per quanto ritenga che il trucco "non era una disintegrazione ma un teletrasporto" sia una mossa vile e per di più non si possa sfruttare così spesso (l'abbiamo vista di recente in
Time Heist
), in questo caso ha avuto il pregio di spiegarci anche come sia sopravvissuta Missy alla fine di
Death in Heaven
. Fatta pace con il passato, dimentichiamoci questo trucchetto, ok?E così in The Witch's Familiar seguiamo la storia su due percorsi paralleli: da una parte il Dottore (che genuinamente crede che le sue compagne siano state uccise) che si confronta con Davros e i Dalek, dall'altra la nuova coppia Missy/Clara in giro per Skaro, alla ricerca di un modo di ricongiungersi col Dottore, e potenzialmente salvarlo dal pericolo. Forse delle due è quasi quest'ultima a risultare più interessante: vediamo infatti come Missy riesca a manipolare senza alcuna difficoltà la companion del Dottore, costringendola nelle fogne del pianeta, usandola come esca e infilandola nell'armatura di un Dalek. E in quest'occasione scopriamo come il "filtro mnemonico/emotivo" (di cui avevamo visto qualcosa in Into the Dalek ) funzioni per quest creature: ogni pensiero è indirizzato verso la spersonalizzazione, ogni emozione è trasformata in odio, l'eccitazione diventa una scarica di disintegratore. È una dinamica dei Dalek che non viene spesso evidenziata, e che dimostra come essi non siano esseri senza emozioni (a differenza dei Cyberman, ad esempio), ma piuttosto capaci solo di esprimere ostilità.
Il Dottore e Davros hanno invece una delle loro tipiche conversazioni a proposito di genocidio, potere divino, bene e male, successo e fallimento. Al Dottore scappa detto che Gallifrey non è stato distrutto durante la Time War, ma esiste ancora, da qualche parte, Davros rivela di desiderare un'ultima alba del suo amato pianeta. E sembra davvero che il creatore dei Dalek abbia avuto un tardivo ripensamento e voglia redimersi, quando la vera trappola scatta. Confessoe che anch'io c'ero cascato, e fino a quel momento pensavo "no, dai, ora non facciamo che pure Davros in fondo è buono ed è solo un misero solitario incompreso". Lo avrei trovato totalmente fuori dal personaggio, perché insomma, Davros è quello che l'ultima volta che l'abbiamo visto aveva spostato dei pianeta per creare una bomba in grado di annichilire tutta la realtà... fortunatamente l'obiettivo dello scienziato era un altro, e cioè trarre vantaggio dalla compassione del Dottore per trafugare la sua "energia rigenerativa", da donare ai Dalek e a sé stesso, per creare una razza ancora più potente di guerrieri e continuare a vivere. Beh, se l'idea era questa fin dall'inizio, bisogna ammettere che Davros ha anche un discreto talento come attore. Non fatico comunque a crederlo, perché i piani convoluti rientrano nelle sue abitudini. Ma salta fuori che il Dottore era invece avanti, e aveva capito che cosa sarebbe successo, anche se mi chiedo come pensava di sopravvivere, senza l'intervento di Missy (che lui considerava morta). Non mi è ben chiaro se alla fine i Dalek abbiano davvero assorbito l'energia dei Time Lord, e ne siano quindi stati potenziati, o se il deus ex cloaca finale li abbia distrutti tutti prima che potessero esprimere i loro nuovi poteri. Ma abbiamo già imparato che nonostante tutti gli upgrade, ogni volta che rivediamo i Dalek sono essenzialmente resettati alla loro forma base, quindi dubito che vedremo mai un Time-Dalordek.
Se nella prima parte dell'episodio tutto si basava su un dilemma morale e qualche mistero da svelare, qui troviamo più azione e sostanza, il che è piacevole per un doppio episodio, in cui spesso la seconda parte appare più fiacca. In realtà il Dottore è rimasto abbastanza passivo per tutto l'episodio, nel senso che ha fatto poco, e in questo caso in particolare ha parecchio chiacchierato. Si può forse affermare che la parte del Dottore è stata svolta da Missy, che è stata quella a girovagare e usare l'ingegno per emergere da situazioni impossibili. Una buona dimostrazione di come il Master sia una mente almeno di pari livello al Dottore, e che non sia da sottovalutare: mi auguro che il suo personaggio non venga bruciato troppo in fretta. Totalmente in balia degli eventi Clara, il cui ruolo in queste due puntate è stato quasi nullo. C'è stato un momento intrigante quando è entrata nel Dalek, ricordando la sua prima apparizione in Asylum of the Dalek, e per un attimo ho pensato che il Dottore avrebbe richiamato quell'occasione (anche se quella era un'altra istanza della impossible girl), o forse addiritture che Clara sarebbe morta lì dentro, con un perfetto effetto chiasmico... ma forse ho voluto sperare troppo.
Tra gli elementi degni di nota, c'è sicuramente quello che credo sarà l'arco narrativo della stagione: la confessione del Dottore, che probabilmente riguarda la vera ragione per cui tanto tempo prima il Time Lord è scappato da Gallifrey. Sia Davros che Missy fanno degli accenni sospetti all'idea di un ibrido, ed è probabile che questo tema venga richiamato in seguito. Davros parlava dell'ibrido Dalek/Time Lord, ma io credo che il vero segreto coinvolgesse in qualche modo l'umanità, quindi forse Umano/Time Lord... che d'altra parte è già stato visto altre volte (Donna, Jenny, in un certo senso River Song). Ne riparleremo tra qualche settimana.
Altro elemento interessante sono gli occhiali, vogliamo chiamarli sonic shades? Credo che alla fine fosse solo una gag occasionale per questo episodio, ma il trailer del successivo fa supporre che possano diventare un accessorio ricorrente, spero solo che non sostituiscano davvero il cacciavite, insomma, non si può lasciare il cacciavite...
The Witch's Familiar, ora che si può valutare l'episodio nella sua interezza, si conferma una storia con alcuni spunti validi ma anche qualche scivolone. Non rimarrà nella storia ma si guarda con piacere, e funziona bene come season premiere, promettendo novità interessanti (Missy, la confessione, l'ibrido) che se ben sfruttate renderanno la stagione di buon livello. Voto: 7/10
Published on September 28, 2015 13:53
September 26, 2015
Coppi Night 20/09/2015 - Open Grave
Dopo qualche settimana di assenza da questi schermi, si ritorna ad un film horror, stavolta una declinazione vagamente originale dell'apocalisse zombie. Open Grave si apre come una storia di mistero, in cui un gruppo di sconosciuti (in quanto smemorati) si trova a convivere in una piccola
cabin in the woods
, circondati da qualche genere di cadaveri deambulanti. Dai pochi indizi sparsi nel corso del film si capisce presto che l'epidemia che si sta diffondendo tra gli uomini, che li trasforma appunto in quella sorta di zombie, è la ragione per cui si sono volontariamente rinchiusi in quell'ambiente ristretto e isolato, ma quale fosse il vero obiettivo della loro permanenza, e perché no ricordino nulla, è più complicato da spiegare.
Inizialmente devo dire che il film mi ha intrigato: la scena iniziale in cui Sharlto Copley si sveglia nella tomba a cielo aperto (roll credits!) e deve guadagnarsi la sua strada fuori dal mucchio di cadaveri è un incipit gustoso. Ma ben presto subentra un senso di frustrazione, perché il film sembra concentrarsi innanzitutto sulle dinamiche all'interno del gruppo: la reciproca diffidenza, la lotta per la leadership, le presunte relazioni sentimentali, eccetera. Tutte cose di cui, francamente, ci si stanca presto, quando è evidente che il vero problema sono dei cazzo di zombie che ti stanno attaccando! Insomma sembra di guardare un extendend version di The Walking Dead, con i protagonisti che vagano da una parte e dall'altra, si scontrano senza ragione, chiacchierano tanto e concludono poco. Le spiegazioni poi arrivano, ok, ma in modo così tardivo, frammentato e grossolano, che a quel punto la noia ha preso il sopravvento e non interessa più sapere cosa come e perché. Voglio dire, quando per riallacciare tutta la storia devi affidarti alla voce narrante finale, significa che hai sbagliato qualcosa nel modo di trasmettere le informazioni allo spettatore, no?
Peccato perché l'idea mi sembrava interessante, e credo che una storia scritta basata su questa trama sarebbe molto più efficace della sua versione filmica. Da apprezzare il tentativo di basare un horror su un nucleo narrativo concreto piuttosto che sui jumpscare, ma il risultato finale è traballante.
Inizialmente devo dire che il film mi ha intrigato: la scena iniziale in cui Sharlto Copley si sveglia nella tomba a cielo aperto (roll credits!) e deve guadagnarsi la sua strada fuori dal mucchio di cadaveri è un incipit gustoso. Ma ben presto subentra un senso di frustrazione, perché il film sembra concentrarsi innanzitutto sulle dinamiche all'interno del gruppo: la reciproca diffidenza, la lotta per la leadership, le presunte relazioni sentimentali, eccetera. Tutte cose di cui, francamente, ci si stanca presto, quando è evidente che il vero problema sono dei cazzo di zombie che ti stanno attaccando! Insomma sembra di guardare un extendend version di The Walking Dead, con i protagonisti che vagano da una parte e dall'altra, si scontrano senza ragione, chiacchierano tanto e concludono poco. Le spiegazioni poi arrivano, ok, ma in modo così tardivo, frammentato e grossolano, che a quel punto la noia ha preso il sopravvento e non interessa più sapere cosa come e perché. Voglio dire, quando per riallacciare tutta la storia devi affidarti alla voce narrante finale, significa che hai sbagliato qualcosa nel modo di trasmettere le informazioni allo spettatore, no?Peccato perché l'idea mi sembrava interessante, e credo che una storia scritta basata su questa trama sarebbe molto più efficace della sua versione filmica. Da apprezzare il tentativo di basare un horror su un nucleo narrativo concreto piuttosto che sui jumpscare, ma il risultato finale è traballante.
Published on September 26, 2015 01:40
September 23, 2015
Ultimi acquisti - Settembre 2015 (parte 2)
Dopo i primi cinque album di recente entrati nella mia collezione, passiamo alla seconda parte degli acquisti di settembre (ce ne sarà una terza per gli EP).
Ho già parlato in qualche occasione di Ruede Hagelstein, autore non troppo prolifico e non troppo di spicco che però seguo con interesse. Pochi mesi fa è uscito il suo secondo album, Apohpenia. Oltre ad avere un titolo e una copertina eccezionali, questo album contiene una serie di tracce facilmente etichettabili come techno, ma in cui troviamo comunque una saporita varietà di stili. Dai pezzi più minimal a quelli più ricchi e fantasiosi, con una buona presenza di vocal morbidi e melodici, che erano invece la base del suo precedente
Soft Pack
. Ottimo lavoro di un artista che a mio avviso meriterebbe maggior riconoscimento.
Torniamo alla techno più classica con l'album di Mirko Loko uscito per Cadenza.
Comet Plan
si basa su un'idea semplice di techno, rifacendosi in gran parte agli schemi minimal con l'aggiunta di qualche pezzo strumentale. Disco interessante da ascoltare, che non regala (ma nemmeno promette) particolari guizzi, buono da avere nella collezione ma certo non un game changer.
...discorso che invece non si applica a Rebellion der Traumer. L'unico album dei Kollektiv Turmstrasse uscito finora, che in effetti risale al 2010 ma ho acquisito dolo adesso, è decisamente qualcosa di atipico e sorprendente. I due certo avevano già dimostrato di avere una concezione molto personale della techno, e di saperla proporre in atmosfere e registri inaspettati. In questa raccolta la loro abilità viene dimostrata, con una serie di tracce al tempo stesso essenziali e complesse, che fa un uso abbondanto del breakbeat, e riesce ad armonizzare bassi e percussioni creando sonorità profonde e per lo più cupe. Anche gli innesti di vocal, quando compaiono, contribuiscono a creare un senso di straniamento e dissociazione. L'ascolto di questo disco è piacevole a livello estetico, ma provoca sensazioni non del tutto positive. Il che è un merito notevole.
Anche l'ultimo album che presento per questo mese è qualcosa di anomalo. E d'altra parte cosa ti puoi aspettare quando metti insieme Ricardo Villalobos e Max Loderbauer? Eccoli fusi nell'alias Vilod a presentare la loro prima collaborazione ufficiale (anche se hanno già lavorato assieme più volte),
Safe in Harbour
. Ecco, questo è uno di quei casi in cui se qualcuno mi chiedesse "ma che questa la chiami musica?" avrei effettivamente qualche imbarazzo a rispondere di sì, come faccio di solito. Perché questa è quella che potremo definire musica astratta, suoni che seguono una metrica non sempre facile da individuare, tracce spoglie, che fanno della ripetitività e dell'asimmetria la loro caratteristica principale. Per me è un ascolto che apre la mente su dimensioni diverse, quasi aliene, e per questo ne traggo soddisfazione. Ma non mi aspetto che per molti valga lo stesso.
Ho già parlato in qualche occasione di Ruede Hagelstein, autore non troppo prolifico e non troppo di spicco che però seguo con interesse. Pochi mesi fa è uscito il suo secondo album, Apohpenia. Oltre ad avere un titolo e una copertina eccezionali, questo album contiene una serie di tracce facilmente etichettabili come techno, ma in cui troviamo comunque una saporita varietà di stili. Dai pezzi più minimal a quelli più ricchi e fantasiosi, con una buona presenza di vocal morbidi e melodici, che erano invece la base del suo precedente
Soft Pack
. Ottimo lavoro di un artista che a mio avviso meriterebbe maggior riconoscimento.
Torniamo alla techno più classica con l'album di Mirko Loko uscito per Cadenza.
Comet Plan
si basa su un'idea semplice di techno, rifacendosi in gran parte agli schemi minimal con l'aggiunta di qualche pezzo strumentale. Disco interessante da ascoltare, che non regala (ma nemmeno promette) particolari guizzi, buono da avere nella collezione ma certo non un game changer.
...discorso che invece non si applica a Rebellion der Traumer. L'unico album dei Kollektiv Turmstrasse uscito finora, che in effetti risale al 2010 ma ho acquisito dolo adesso, è decisamente qualcosa di atipico e sorprendente. I due certo avevano già dimostrato di avere una concezione molto personale della techno, e di saperla proporre in atmosfere e registri inaspettati. In questa raccolta la loro abilità viene dimostrata, con una serie di tracce al tempo stesso essenziali e complesse, che fa un uso abbondanto del breakbeat, e riesce ad armonizzare bassi e percussioni creando sonorità profonde e per lo più cupe. Anche gli innesti di vocal, quando compaiono, contribuiscono a creare un senso di straniamento e dissociazione. L'ascolto di questo disco è piacevole a livello estetico, ma provoca sensazioni non del tutto positive. Il che è un merito notevole.
Anche l'ultimo album che presento per questo mese è qualcosa di anomalo. E d'altra parte cosa ti puoi aspettare quando metti insieme Ricardo Villalobos e Max Loderbauer? Eccoli fusi nell'alias Vilod a presentare la loro prima collaborazione ufficiale (anche se hanno già lavorato assieme più volte),
Safe in Harbour
. Ecco, questo è uno di quei casi in cui se qualcuno mi chiedesse "ma che questa la chiami musica?" avrei effettivamente qualche imbarazzo a rispondere di sì, come faccio di solito. Perché questa è quella che potremo definire musica astratta, suoni che seguono una metrica non sempre facile da individuare, tracce spoglie, che fanno della ripetitività e dell'asimmetria la loro caratteristica principale. Per me è un ascolto che apre la mente su dimensioni diverse, quasi aliene, e per questo ne traggo soddisfazione. Ma non mi aspetto che per molti valga lo stesso.
Published on September 23, 2015 00:03
September 20, 2015
Doctor Who 9x01 - The Magician's Apprentice
Dopo nove mesi di assenza, in cui si sono succedute news, indiscrezioni, sneak peek e prologhi, parte la nuova stagione di Doctor Who, la seconda con Peter Capaldi nel ruolo del Dodicesimo Dottore. E riparte subito col botto, perché in The Magician's Apprentice lo schieramento di armi pesanti è notevole: ritorna subito in scena Missy (era già stato chiarito che non era davvero morta in
Death in Heaven
), la UNIT, i Dalek in piena forma e lo stesso Davros, visto per l'ultima volta nel finale della quarta stagione, quando il Decimo Dottore lo aveva (presumibilmente) eliminato (di nuovo). Ma in quanto storico arcinemico del Dottore, sappiamo che Davros (al pari del Master) non può davvero morire, ed è una regola così implicita che probabilmente nessuno si prenderà il compito di spiegare come è potuto succedere.
L'inizio di questa stagione è in un certo senso simile a quello della stagione sette: il Dottore è scomparso da tempo, per qualche ragione nessuno ha più sue notizie, ma c'è chi lo sta cercando e percorre l'universo intero per trovarlo. In realtà sappiamo molto presto, già dalla breve scena su Karn, che a richiedere la sua presenza è Davros, che in punto di morte vuole conferire un'ultima volta con lui, ma sembra che il Dottore voglia sottrarsi a questo incontro, ed è solo quando viene messo con le spalle al muro che accetta. Clara e Missy lo seguono, e a sua insaputa anche il Tardis viene portato su Skaro, dove la trappola orchestrata dai Dalek scatta. A rimetterci la vita sono tutti gli attuali compagni del dottore: Clara, Missy e pure il Tardis vengono sterminati. Appunto, non c'è male come primo episodio.
Il tema di base dell'episodio è abbastanza simile a quello di Into the Dalek : il confronto con il proprio nemico peggiore è un'esperienza da cui si può capire molto di sé, e Davros è quanto di più vicino al concetto puro di Dalek. La domanda su cui si basa tutta la storia è quella che pone il Dottore durante il viaggio: Davros ha creato i Dalek, ma chi ha creato Davros? Sappiamo che cosa intende, perché nei brevi flashback che abbiamo visto, scopriamo che il Dottore è stato su Skaro molto tempo prima, quando ancora i Dalek non esistevano e le due fazioni del pianeta erano in guerra (da troppo tempo per ricordare per cosa si combattesse), e si è trovato nella situazione di salvare un Davros bambino. Ed eccoci al solito dilemma del viaggio nel tempo: se potessi tornare indietro e uccidere Hitler da bambino, lo faresti? E ancora di più, sarebbe giusto farlo?
In realtà questo dilemma, proprio riferito ai Dalek, è già stato affrontato dal Dottore. Perché in Genesis of the Daleks, abbiamo visto il Quarto Dottore lì, su Skaro, proprio nel momento in cui Davros dava origine alla sua creazione, e lo abbiamo visto confrontarsi con la possibilità di distruggere tutti i Dalek, prima ancora che nascessero. In quell'occasione, aveva deciso (beh, era quasi arrivato alla conclusione) di non avere quel diritto:
Moffat sa che questo è già successo, e infatti durante il colloquio con Davros questa scena viene mostrata, insieme ad altri momenti di confronto tra i due. Ma il Quarto Dottore non è il Dodicesimo. Non è stato nella Time War, non ha eliminato la sua stessa razza dall'universo e soprattutto i Dalek non avevano appena ucciso le persone a cui tiene di più. In quel momento era in una posizione di completo vantaggio, e i Dalek erano ancora, in un certo senso, innocenti. Adesso molte cose sono diverse, e nell'ultima scena vediamo il Dottore puntare l'arma contro il piccolo Davros, deciso a risolvere la cosa. Come Rusty diceva appunto in Into the Dalek: "You are a good Dalek".
Diciamo la verità, io non credo che sparerà davvero al piccolo Davros. L'episodio si conclude volutamente con il cliffhanger, e potrebbe succedere qualunque cosa su quel campo di battaglia, in mezzo alle hand mines. Ma certo qualcosa di radicale deve succedere, perché Clara, Missy e il Tardis sono stati eliminati, e una soluzione deve venire fuori. Una soluzione che, spero, sia più fanasiosa del loop temporale che si creerebbe con la morte di Davros bambino. Certo, sappiamo già che le regole con cui funzionano le riscritture della storia in Doctor Who sono abbastanza flessibili da permettere più o meno tutto (a seconda delle esigenze della trama), ma la morte di Davros non credo che possa effettivamente resettare la recente tragedia. Quindi, in effetti, non so bene come la storia potrebbe evolvere, anche se il titolo dell'episodio successivo The Witch's Familiar, fa pensare che Missy possa avere un ruolo importante: chi altri potrebbe essere la strega contrapposta al mago che è il Dottore?
Questo episodio è sicuramente molto intenso per essere una season premiere, anzi forse lo è fin troppo. I riferimenti al passato del Dottore (incluso il Classic Who, non solo il New Who) sono numerosi, e forse non tutti gli spettatori contemporanei possono coglierli, e l'abbondanza di "grandi personaggi" coinvolti è disorientante: insomma, Dalek, Davros e Master insieme non so se si sono mai visti, e sembrerebbe materiale per un finale di stagione piuttoso che un'apertura. Ma questo non è necessariamente un problema, forse è più sospetto il fatto che ancora una volta la storia del Dottore si sia avvolta su se stessa, facendoci intuire che Davros è stato forgiato da quel breve incontro con il Dottore, e che quindi lui stesso può ritenersi responsabile della nascita dei Dalek. Il voler sempre pescare nella mitologia dello show, e rendere il Dottore il centro di tutto, alla lunga può risultare deleterio. Sicuramente è epico, non lo nego, però è un modo di forzare l'epicità, piuttosto che crearla.
Ultimi due appunti sui rapporti tra alcuni dei personaggi. Mi è piaciuto come Missy/Master sia stata confermata come il miglior amico del Dottore, ma che nonostante questo non sia diventata "buona": il ritorno della Mary Poppins psicopatica è molto gradito, e forse non sarebbe male vederla più spesso come antagonista (anche indiretto) di molte altre storie, come ai tempi del Terzo Dottore. Un atro rapporto interessante è quello tra Davros e i Dalek: anche in questo caso, come in precedenza, vediamo che lui non ha controllo sulle sue creature, che nutrono una sorta di astioso rispetto verso di lui, ma non lo obbediscono. A proposito di Clara posso solo dire che è stata una gioia vederla morire, anche se è scontato che in qualche modo sopravvivrà (se non altro perché nei trailer l'abbiamo vista in altri episodi). Un buon antipasto per la sua imminente (e confermata) uscita di scena...
Non è facile dare un voto ragionato per la prima parte di un episodio doppio, ma dovendo valutare The Magician's Apprentice sulla base di quello che si vede e quello che promette, gli assegno un voto 7/10.
L'inizio di questa stagione è in un certo senso simile a quello della stagione sette: il Dottore è scomparso da tempo, per qualche ragione nessuno ha più sue notizie, ma c'è chi lo sta cercando e percorre l'universo intero per trovarlo. In realtà sappiamo molto presto, già dalla breve scena su Karn, che a richiedere la sua presenza è Davros, che in punto di morte vuole conferire un'ultima volta con lui, ma sembra che il Dottore voglia sottrarsi a questo incontro, ed è solo quando viene messo con le spalle al muro che accetta. Clara e Missy lo seguono, e a sua insaputa anche il Tardis viene portato su Skaro, dove la trappola orchestrata dai Dalek scatta. A rimetterci la vita sono tutti gli attuali compagni del dottore: Clara, Missy e pure il Tardis vengono sterminati. Appunto, non c'è male come primo episodio.Il tema di base dell'episodio è abbastanza simile a quello di Into the Dalek : il confronto con il proprio nemico peggiore è un'esperienza da cui si può capire molto di sé, e Davros è quanto di più vicino al concetto puro di Dalek. La domanda su cui si basa tutta la storia è quella che pone il Dottore durante il viaggio: Davros ha creato i Dalek, ma chi ha creato Davros? Sappiamo che cosa intende, perché nei brevi flashback che abbiamo visto, scopriamo che il Dottore è stato su Skaro molto tempo prima, quando ancora i Dalek non esistevano e le due fazioni del pianeta erano in guerra (da troppo tempo per ricordare per cosa si combattesse), e si è trovato nella situazione di salvare un Davros bambino. Ed eccoci al solito dilemma del viaggio nel tempo: se potessi tornare indietro e uccidere Hitler da bambino, lo faresti? E ancora di più, sarebbe giusto farlo?
In realtà questo dilemma, proprio riferito ai Dalek, è già stato affrontato dal Dottore. Perché in Genesis of the Daleks, abbiamo visto il Quarto Dottore lì, su Skaro, proprio nel momento in cui Davros dava origine alla sua creazione, e lo abbiamo visto confrontarsi con la possibilità di distruggere tutti i Dalek, prima ancora che nascessero. In quell'occasione, aveva deciso (beh, era quasi arrivato alla conclusione) di non avere quel diritto:
Moffat sa che questo è già successo, e infatti durante il colloquio con Davros questa scena viene mostrata, insieme ad altri momenti di confronto tra i due. Ma il Quarto Dottore non è il Dodicesimo. Non è stato nella Time War, non ha eliminato la sua stessa razza dall'universo e soprattutto i Dalek non avevano appena ucciso le persone a cui tiene di più. In quel momento era in una posizione di completo vantaggio, e i Dalek erano ancora, in un certo senso, innocenti. Adesso molte cose sono diverse, e nell'ultima scena vediamo il Dottore puntare l'arma contro il piccolo Davros, deciso a risolvere la cosa. Come Rusty diceva appunto in Into the Dalek: "You are a good Dalek".
Diciamo la verità, io non credo che sparerà davvero al piccolo Davros. L'episodio si conclude volutamente con il cliffhanger, e potrebbe succedere qualunque cosa su quel campo di battaglia, in mezzo alle hand mines. Ma certo qualcosa di radicale deve succedere, perché Clara, Missy e il Tardis sono stati eliminati, e una soluzione deve venire fuori. Una soluzione che, spero, sia più fanasiosa del loop temporale che si creerebbe con la morte di Davros bambino. Certo, sappiamo già che le regole con cui funzionano le riscritture della storia in Doctor Who sono abbastanza flessibili da permettere più o meno tutto (a seconda delle esigenze della trama), ma la morte di Davros non credo che possa effettivamente resettare la recente tragedia. Quindi, in effetti, non so bene come la storia potrebbe evolvere, anche se il titolo dell'episodio successivo The Witch's Familiar, fa pensare che Missy possa avere un ruolo importante: chi altri potrebbe essere la strega contrapposta al mago che è il Dottore?
Questo episodio è sicuramente molto intenso per essere una season premiere, anzi forse lo è fin troppo. I riferimenti al passato del Dottore (incluso il Classic Who, non solo il New Who) sono numerosi, e forse non tutti gli spettatori contemporanei possono coglierli, e l'abbondanza di "grandi personaggi" coinvolti è disorientante: insomma, Dalek, Davros e Master insieme non so se si sono mai visti, e sembrerebbe materiale per un finale di stagione piuttoso che un'apertura. Ma questo non è necessariamente un problema, forse è più sospetto il fatto che ancora una volta la storia del Dottore si sia avvolta su se stessa, facendoci intuire che Davros è stato forgiato da quel breve incontro con il Dottore, e che quindi lui stesso può ritenersi responsabile della nascita dei Dalek. Il voler sempre pescare nella mitologia dello show, e rendere il Dottore il centro di tutto, alla lunga può risultare deleterio. Sicuramente è epico, non lo nego, però è un modo di forzare l'epicità, piuttosto che crearla.
Ultimi due appunti sui rapporti tra alcuni dei personaggi. Mi è piaciuto come Missy/Master sia stata confermata come il miglior amico del Dottore, ma che nonostante questo non sia diventata "buona": il ritorno della Mary Poppins psicopatica è molto gradito, e forse non sarebbe male vederla più spesso come antagonista (anche indiretto) di molte altre storie, come ai tempi del Terzo Dottore. Un atro rapporto interessante è quello tra Davros e i Dalek: anche in questo caso, come in precedenza, vediamo che lui non ha controllo sulle sue creature, che nutrono una sorta di astioso rispetto verso di lui, ma non lo obbediscono. A proposito di Clara posso solo dire che è stata una gioia vederla morire, anche se è scontato che in qualche modo sopravvivrà (se non altro perché nei trailer l'abbiamo vista in altri episodi). Un buon antipasto per la sua imminente (e confermata) uscita di scena...
Non è facile dare un voto ragionato per la prima parte di un episodio doppio, ma dovendo valutare The Magician's Apprentice sulla base di quello che si vede e quello che promette, gli assegno un voto 7/10.
Published on September 20, 2015 07:54
September 17, 2015
Jeremy Scott - The Ables
Da quest parti si parla poco di supereroi. O meglio, sono più o meno costretto a parlarne quando vedo un film di questo filone in una serata del Coppi Club, ma avrete notato che il tono è sempre poco entusiasta. Mi sono quindi avvicinato con un certo scetticismo a
The Ables
, opera prima di Jeremy Scott, che proprio di supereroi tratta.
Spettampò, ma se non mi interessano i supereroi, e questo qui è il primo libro che scrive, come l'ho trovato? Ecco un po' di background: Jeremy Scott è uno dei due ideatori del canale youtube
CinemaSins
(come d'altra parte la copertina stessa ci ricorda), il cui prodotto di punta sono i video della serie Everything Wrong With, dove un film viene percorso scena per scena e tutte le incongruenze, incoerenze, errori e cliché sono evidenziati e conteggiati. Si tratta di un gioco, certo, ma dopo averne visti qualche decina ci si accorge come tutti i film di un certo tipo ricadono negli stessi peccati, e la cosa si fa interessante, a maggior ragione per qualcuno che ha la pretesa di narrare storie in modo efficace.
Qualche mese fa Jeremy ha annunciato che avrebbe pubblicato un libro, ovviamente forte di un pubblico già disposto a leggerlo: quattromilioni-quasicinque di iscritti al canale sono un buon bacino in cui pescare lettori. E ci sono cascato anch'io nella rete, con la curiosità di scoprire cosa Jeremy potesse riuscire a dire, lui che fa le pulci a tutti quanti, vediamo come se la cava, allora, dai! No, in realtà non credo che questo sia l'atteggiamento giusto per approcciarsi a un libro, e in questo caso in effetti è stato un altro il motivo a spingermi all'acquisto: l'idea di base della storia.
Come ho detto, The Ables è una storia sui supereroi, quindi per me non avrebbe pressoché nessuna attrattiva. Ma questo romanzo affronta il tema da un punto di vista inusuale: i protagonisti sono infatti supereroi disabili. Cosa te ne fai della telecinesi se sei cieco e non puoi vedere gli oggetti da muovere col pensiero? Come sfrutti il tuo superudito se sei sordomuto? A che serve poter diventare un gigante se la tua asma cronica ti impedisce di fare qualunque sforzo? Sono queste le situazioni dalle quali partono i giovani protagonisti della storia, un gruppo di ragazzini appena entrati al loro primo anno di super-scuola... di cui frequentano la classe speciale per disabili.
Volendo inquadrare il libro, siamo dalle parti del young adult, ma senza la componente sentimentale, con personaggi principali che hanno un'età compresa tra i dodici e i diciassette anni, il trasloco della famiglia, la nuova scuola, i nuovi compagni e così via. Nell'universo narrativo di The Ables i supereroi vivono in una sorta di cerchia ristretta di cui gli umani "normali" non sono a conoscenza, si concentrano in poche piccole città in cui possono vivere liberamente senza mascherare la propria identità, e fanno di lavoro i custodi. Questo è il termine con cui sono definiti quelli di loro impegnati nella protezione dell'umanità, anche se questa ne ignora l'esistenza (grazie alla presenza di superpoteri in grado di alterare la memoria degli spettatori di eventi supereroistici). Il narratore in prima persona della storia è Philip, il telecinetico cieco di cui sopra. Dopo aver scoperto di avere dei superpoteri (che emergono nell'adolescenza, e prima sono tenuti segreti anche dai genitori), Phil e il suo gruppo di amici cercheranno in qualche modo di dimostrare che anche loro, nonostante le evidenti limitazioni, possono essere degli eroi.
Detta così può sembrare stucchevole. Si può subito pensare al romanzo furbetto che prende un "tema sociale" forte e quindi deve essere per forza apprezzato, come quando fanno i Film Profondi Sull'Olocausto. No, Jeremy Scott è bravo a non cadere in questo circolo vizioso di autocompiacimento e mantiene i piedi per terra con la sua storia, schierando personaggi ben consci tanto dei loro limiti che delle loro potenzialità, e che non una volta approfittano della loro condizione. Anzi, con un pragmatismo tipico di un ragazzino alle prime scariche di ormoni, cercano il modo di aggirare i loro handicap: Phil riesce in effetti a trovare il modo di vedere, anche se in modo approssimativo, e allo stesso modo la squadra di giovani eroi cerca di compensare ognuno le mancanze dell'altro. Premesso tutto questo, ci troviamo comunque di fronte a un'avventura, con un supercattivo che si manifesta molto presto e sembra particolarmente ossessionato proprio da Philip e i suoi amici, e che ha intenzione di sovvertire l'intero mondo dei custodi.
Ho detto che non aveva senso affrontare il libro pensando ai peccati che si potevano rilevare, mettendosi per una volta dall'altra parte dello schermo rispetto a Jeremy. Tuttavia è automatico trovarsi a pensare se l'autore sia riuscito a evitare tutti quei cliché di cui accusa continuamente i film che gli passano sottomano. La risposta è: sì e no. Di cliché ce ne sono a decine: il bullo, il fratellino rompicoglioni, il preside stronzo, la profezia, e più di un deus ex machina. A ben guardare però si tratta di cliché usati nel modo giusto, di meccanismi narrativi forse scontati ma universali ed efficaci, quindi per la maggior parte non irritanti. Neanche i colpi di scena che si succedono (nello scontro finale ce ne sono quattro o cinque di seguito) sono tutti imprevedibili, ma hanno quel giusto livello prevedibilità che serve a far sentire soddisfatto il lettore attento. Forse si può dire che la scrittura non sia così eccellente, si sente l'assenza uno stile narrativo definito, e sembra in effetti che si sia cercato soprattutto di tradurre in parola scritta una storia concepita a livello visivo, come un film. Infine c'è da rilevare che ci sono un paio di fili narrativi che sono evocati a un certo punto ma poi non sono più ripresi, lasciando il dubbio sulla loro funzione.
Alla fine dei conti quindi The Ables non è certamente un libro che brilla per originalità assoluto, ma è costruito con criterio e riesce ad appassionare ed intrattenere. Naturalmente l'universo narrativo si presta ad ulteriori approfondimenti, e ci sono sicuramente aspetti interessanti sia nel seguito della storia raccontata (l'ultimo capitolo sembra già piantare i semi per qualche novità gustosa) che nel passato, visto che ci sono già numerosi elementi per una vera e propria "mitologia" dietro a quanto succede nel romanzo. Insomma, è probabile che ne vedremo ancora di questi superhandicappati, e se solo Jeremy riesce ad affinare la sua scrittura, potrebbe essere una buona serie da seguire.
Spettampò, ma se non mi interessano i supereroi, e questo qui è il primo libro che scrive, come l'ho trovato? Ecco un po' di background: Jeremy Scott è uno dei due ideatori del canale youtube
CinemaSins
(come d'altra parte la copertina stessa ci ricorda), il cui prodotto di punta sono i video della serie Everything Wrong With, dove un film viene percorso scena per scena e tutte le incongruenze, incoerenze, errori e cliché sono evidenziati e conteggiati. Si tratta di un gioco, certo, ma dopo averne visti qualche decina ci si accorge come tutti i film di un certo tipo ricadono negli stessi peccati, e la cosa si fa interessante, a maggior ragione per qualcuno che ha la pretesa di narrare storie in modo efficace.Qualche mese fa Jeremy ha annunciato che avrebbe pubblicato un libro, ovviamente forte di un pubblico già disposto a leggerlo: quattromilioni-quasicinque di iscritti al canale sono un buon bacino in cui pescare lettori. E ci sono cascato anch'io nella rete, con la curiosità di scoprire cosa Jeremy potesse riuscire a dire, lui che fa le pulci a tutti quanti, vediamo come se la cava, allora, dai! No, in realtà non credo che questo sia l'atteggiamento giusto per approcciarsi a un libro, e in questo caso in effetti è stato un altro il motivo a spingermi all'acquisto: l'idea di base della storia.
Come ho detto, The Ables è una storia sui supereroi, quindi per me non avrebbe pressoché nessuna attrattiva. Ma questo romanzo affronta il tema da un punto di vista inusuale: i protagonisti sono infatti supereroi disabili. Cosa te ne fai della telecinesi se sei cieco e non puoi vedere gli oggetti da muovere col pensiero? Come sfrutti il tuo superudito se sei sordomuto? A che serve poter diventare un gigante se la tua asma cronica ti impedisce di fare qualunque sforzo? Sono queste le situazioni dalle quali partono i giovani protagonisti della storia, un gruppo di ragazzini appena entrati al loro primo anno di super-scuola... di cui frequentano la classe speciale per disabili.
Volendo inquadrare il libro, siamo dalle parti del young adult, ma senza la componente sentimentale, con personaggi principali che hanno un'età compresa tra i dodici e i diciassette anni, il trasloco della famiglia, la nuova scuola, i nuovi compagni e così via. Nell'universo narrativo di The Ables i supereroi vivono in una sorta di cerchia ristretta di cui gli umani "normali" non sono a conoscenza, si concentrano in poche piccole città in cui possono vivere liberamente senza mascherare la propria identità, e fanno di lavoro i custodi. Questo è il termine con cui sono definiti quelli di loro impegnati nella protezione dell'umanità, anche se questa ne ignora l'esistenza (grazie alla presenza di superpoteri in grado di alterare la memoria degli spettatori di eventi supereroistici). Il narratore in prima persona della storia è Philip, il telecinetico cieco di cui sopra. Dopo aver scoperto di avere dei superpoteri (che emergono nell'adolescenza, e prima sono tenuti segreti anche dai genitori), Phil e il suo gruppo di amici cercheranno in qualche modo di dimostrare che anche loro, nonostante le evidenti limitazioni, possono essere degli eroi.
Detta così può sembrare stucchevole. Si può subito pensare al romanzo furbetto che prende un "tema sociale" forte e quindi deve essere per forza apprezzato, come quando fanno i Film Profondi Sull'Olocausto. No, Jeremy Scott è bravo a non cadere in questo circolo vizioso di autocompiacimento e mantiene i piedi per terra con la sua storia, schierando personaggi ben consci tanto dei loro limiti che delle loro potenzialità, e che non una volta approfittano della loro condizione. Anzi, con un pragmatismo tipico di un ragazzino alle prime scariche di ormoni, cercano il modo di aggirare i loro handicap: Phil riesce in effetti a trovare il modo di vedere, anche se in modo approssimativo, e allo stesso modo la squadra di giovani eroi cerca di compensare ognuno le mancanze dell'altro. Premesso tutto questo, ci troviamo comunque di fronte a un'avventura, con un supercattivo che si manifesta molto presto e sembra particolarmente ossessionato proprio da Philip e i suoi amici, e che ha intenzione di sovvertire l'intero mondo dei custodi.
Ho detto che non aveva senso affrontare il libro pensando ai peccati che si potevano rilevare, mettendosi per una volta dall'altra parte dello schermo rispetto a Jeremy. Tuttavia è automatico trovarsi a pensare se l'autore sia riuscito a evitare tutti quei cliché di cui accusa continuamente i film che gli passano sottomano. La risposta è: sì e no. Di cliché ce ne sono a decine: il bullo, il fratellino rompicoglioni, il preside stronzo, la profezia, e più di un deus ex machina. A ben guardare però si tratta di cliché usati nel modo giusto, di meccanismi narrativi forse scontati ma universali ed efficaci, quindi per la maggior parte non irritanti. Neanche i colpi di scena che si succedono (nello scontro finale ce ne sono quattro o cinque di seguito) sono tutti imprevedibili, ma hanno quel giusto livello prevedibilità che serve a far sentire soddisfatto il lettore attento. Forse si può dire che la scrittura non sia così eccellente, si sente l'assenza uno stile narrativo definito, e sembra in effetti che si sia cercato soprattutto di tradurre in parola scritta una storia concepita a livello visivo, come un film. Infine c'è da rilevare che ci sono un paio di fili narrativi che sono evocati a un certo punto ma poi non sono più ripresi, lasciando il dubbio sulla loro funzione.
Alla fine dei conti quindi The Ables non è certamente un libro che brilla per originalità assoluto, ma è costruito con criterio e riesce ad appassionare ed intrattenere. Naturalmente l'universo narrativo si presta ad ulteriori approfondimenti, e ci sono sicuramente aspetti interessanti sia nel seguito della storia raccontata (l'ultimo capitolo sembra già piantare i semi per qualche novità gustosa) che nel passato, visto che ci sono già numerosi elementi per una vera e propria "mitologia" dietro a quanto succede nel romanzo. Insomma, è probabile che ne vedremo ancora di questi superhandicappati, e se solo Jeremy riesce ad affinare la sua scrittura, potrebbe essere una buona serie da seguire.
Published on September 17, 2015 14:08
September 15, 2015
Quell'antipatico del protagonista
Una decina di giorni fa è uscita sul blog "Tutto bene nella mia testa" una recensione di DTS che si muove a partire dallo slogan "Dorian Berti ti disprezza!" Nel post si evidenzia come Dorian, protagonista del mio romanzo, sia alla fine dei conti un personaggio odioso, irritante, detestabile. Leggendo questa breve recensione mi sono fatto una risata (perché, dai, è divertente), però poi mi è venuto da riflettere. A parte il caso specifico, che non credo sia il caso di approfondire, mi sono detto: "Beh, è vero, forse Dorian è un po' antipatico. Ma il protagonista di una storia deve per forza essere simpatico?"
Ho quindi ripercorso mentalmente alcune delle ultime letture e ho trovato che, in realtà, di protagonisti che potessi considerare a me simpatici ce n'erano davvero pochi. Certo, influiscono molto il genere e il tono della storia che si legge, ma a ben pensarci la simpatia non è un requisito essenziale per il protagonista di una storia.
Precisazione: con "simpatia" non itendo gigioneria, non mi riferisco a un personaggio che fa battute, interpreta sketch e lancia strizzatine d'occhio al lettore. In effetti ne esistono anche di simili (ad esempio ne L'uomo di Marte , giusto per citare l'esempio più recente che mi viene), ma non è quello di cui sto parlando. La simpatia in questo senso è intesa come l'instaurarsi di un rapporto positivo tra lettore e personaggio, l'emergere di una volontà condivisa, un sostegno riversato dall'esterno all'interno del libro. Il protagonista di una storia deve possedere questo requisito? Deve ricevere il sostegno del lettore?
Personalmente, anche riesaminando le mie letture (e in particolare alcune di quelle che mi sono rimaste di più impresse), credo che non sia così. Non necessariamente, almeno. Faccio giusto un esempio, attigendo appunto a una saga che ho amato tanto: Roland di Gilead, il pistolero protagonista della saga della Torre Nera di Stephen King. Roland è testardo al limite dell'ottuso, è veloce di mano ma non altrettanto di testa, e a volte terribilmente ingenuo. In tante occasioni avrei voluto prenderlo a schiaffi e dirgli "Ahò, ma che stai a fà!?" Ciò non di meno, Roland di Gilead è un eroe, e la sua è una grande storia.
Naturalmente la cosa vale anche al di fuori della narrativa, e si può applicare anche a film e videogame. Caden di Synecdoche New York è morboso ed egocentrico, e scivola sempre più verso il patetico. Anche Tim, il protagonista di Braid , non fa nulla per risultare simpatico, e una volta che la sua storia viene rivelata, anzi, lo si può apertamente disprezzare. Eppure continuano anche loro a essere degli eroi, e la loro è una grande storia.
Un discorso simile riesco ad applicarlo a posteriori a molti dei protagonisti delle mie storie preferite. E, prendendo l'argomento dalla direzione opposta, anche ai protagonisti delle mie storie, quelle che scrivo. La simpatia nei confronti dei miei protagonisti, anzi, credo sia l'eccezione. Quindi sto sbagliando tutto? Leggo i libri sbagliati e scrivo storie mal concepite?
No, non lo penso affatto. E la spiegazione non sta nel fatto che il protagonista di una storia può avere un suo fascino anche quando è cattivo, negativo, repellente: un anti-eroe è comunque un eroe (questa anzi è una scappatoia per farlo risultare simpatico, perché è più facile tifare per il bullo piuttosto che per il secchione). Il punto è che il protagonista deve evocare nel lettore empatia, non simpatia.
Il protagonista (l'eroe), si muove in base a un suo personale schema di valori, che può essere reso più o meno esplicitamente, ma deve comunque essere percepibile. E in base a tali valori, il lettore deve essere in grado di comprendere le sue azioni e condividerle, anche quando non sono le stesse che lui compirebbe, anche quando vanno contro la logica e il senso comune e la strizzata d'occhio. Questo, a mio avviso, è quanto si richiede al protagonista di una storia, ed è ciò che ne determina la riuscita o il fallimento agli occhi del lettore.
Roland di Gilead può essere uno stronzo e un arrogante, ma agisce in accordo ai suoi propositi, fa ciò che un pistolero dovrebbe fare. Caden Cotard porta fino all'estremo la sua incapacità di accettare il mondo, ma persevera nella sua illusione di controllo. Tim è egocentrico e ossessivo, ma fa quello che è necessario per imparare qualcosa su se stesso. E anche Dorian Berti fa quello che, se io fossi stato Dorian Berti, avrei fatto. Non è quindi un problema se Dorian vi disprezza e se il sentimento è reciproco da parte vostra, l'importante è che capiate perché Dorian fa quello che fa. E lo stesso per tutti gli altri eroi di cui leggete ogni giorno. Credo che questo sia in assoluto l'esercizio più importante a cui la narrativa deve abituarci, quello di insegnarci a mutare il nostro PoV e adattarlo a quello di un altro personaggio diverso da noi, per quanto odioso e antitetico al nostro sia.
Se un autore riesce a ottenere questo, allora può usare come protagonista anche Hitler, Gengis Khan e Vlad III Draculia. Passeranno comunque alla storia come eroi.
Ho quindi ripercorso mentalmente alcune delle ultime letture e ho trovato che, in realtà, di protagonisti che potessi considerare a me simpatici ce n'erano davvero pochi. Certo, influiscono molto il genere e il tono della storia che si legge, ma a ben pensarci la simpatia non è un requisito essenziale per il protagonista di una storia.Precisazione: con "simpatia" non itendo gigioneria, non mi riferisco a un personaggio che fa battute, interpreta sketch e lancia strizzatine d'occhio al lettore. In effetti ne esistono anche di simili (ad esempio ne L'uomo di Marte , giusto per citare l'esempio più recente che mi viene), ma non è quello di cui sto parlando. La simpatia in questo senso è intesa come l'instaurarsi di un rapporto positivo tra lettore e personaggio, l'emergere di una volontà condivisa, un sostegno riversato dall'esterno all'interno del libro. Il protagonista di una storia deve possedere questo requisito? Deve ricevere il sostegno del lettore?
Personalmente, anche riesaminando le mie letture (e in particolare alcune di quelle che mi sono rimaste di più impresse), credo che non sia così. Non necessariamente, almeno. Faccio giusto un esempio, attigendo appunto a una saga che ho amato tanto: Roland di Gilead, il pistolero protagonista della saga della Torre Nera di Stephen King. Roland è testardo al limite dell'ottuso, è veloce di mano ma non altrettanto di testa, e a volte terribilmente ingenuo. In tante occasioni avrei voluto prenderlo a schiaffi e dirgli "Ahò, ma che stai a fà!?" Ciò non di meno, Roland di Gilead è un eroe, e la sua è una grande storia.
Naturalmente la cosa vale anche al di fuori della narrativa, e si può applicare anche a film e videogame. Caden di Synecdoche New York è morboso ed egocentrico, e scivola sempre più verso il patetico. Anche Tim, il protagonista di Braid , non fa nulla per risultare simpatico, e una volta che la sua storia viene rivelata, anzi, lo si può apertamente disprezzare. Eppure continuano anche loro a essere degli eroi, e la loro è una grande storia.
Un discorso simile riesco ad applicarlo a posteriori a molti dei protagonisti delle mie storie preferite. E, prendendo l'argomento dalla direzione opposta, anche ai protagonisti delle mie storie, quelle che scrivo. La simpatia nei confronti dei miei protagonisti, anzi, credo sia l'eccezione. Quindi sto sbagliando tutto? Leggo i libri sbagliati e scrivo storie mal concepite?
No, non lo penso affatto. E la spiegazione non sta nel fatto che il protagonista di una storia può avere un suo fascino anche quando è cattivo, negativo, repellente: un anti-eroe è comunque un eroe (questa anzi è una scappatoia per farlo risultare simpatico, perché è più facile tifare per il bullo piuttosto che per il secchione). Il punto è che il protagonista deve evocare nel lettore empatia, non simpatia.
Il protagonista (l'eroe), si muove in base a un suo personale schema di valori, che può essere reso più o meno esplicitamente, ma deve comunque essere percepibile. E in base a tali valori, il lettore deve essere in grado di comprendere le sue azioni e condividerle, anche quando non sono le stesse che lui compirebbe, anche quando vanno contro la logica e il senso comune e la strizzata d'occhio. Questo, a mio avviso, è quanto si richiede al protagonista di una storia, ed è ciò che ne determina la riuscita o il fallimento agli occhi del lettore.
Roland di Gilead può essere uno stronzo e un arrogante, ma agisce in accordo ai suoi propositi, fa ciò che un pistolero dovrebbe fare. Caden Cotard porta fino all'estremo la sua incapacità di accettare il mondo, ma persevera nella sua illusione di controllo. Tim è egocentrico e ossessivo, ma fa quello che è necessario per imparare qualcosa su se stesso. E anche Dorian Berti fa quello che, se io fossi stato Dorian Berti, avrei fatto. Non è quindi un problema se Dorian vi disprezza e se il sentimento è reciproco da parte vostra, l'importante è che capiate perché Dorian fa quello che fa. E lo stesso per tutti gli altri eroi di cui leggete ogni giorno. Credo che questo sia in assoluto l'esercizio più importante a cui la narrativa deve abituarci, quello di insegnarci a mutare il nostro PoV e adattarlo a quello di un altro personaggio diverso da noi, per quanto odioso e antitetico al nostro sia.
Se un autore riesce a ottenere questo, allora può usare come protagonista anche Hitler, Gengis Khan e Vlad III Draculia. Passeranno comunque alla storia come eroi.
Published on September 15, 2015 00:20
September 12, 2015
Coppi Night 06/09/2015 - Il gigante di ferro
Torniamo a parlare di film d'animazione, stavolta non con l'ultimo arrivato ma con uno che nel giro di pochi anni è diventato un vero classico. Personalmente l'ho scoperto piuttosto tardi, infatti l'ho visto per la prima volta appena un anno fa, e pur accostandomi con una certa diffidenza (mi viene naturale quando guardo film che sono universalmente osannati) ne sono rimasto comunque estasiato, e ho iniziato a proporlo più volte per il Coppi Club, riuscendo solo adesso a farlo vedere a tutto il gruppo.
Il gigante di ferro, tutto sommato, non ha niente di originale. La storia è per tre quarti E.T. e per il resto Rocky IV. Si tratta in fondo di una fiaba, ma intendendo il termine nel senso buono, una storia semplice che procede esattamente come si penserebbe cercando di insegnare qualcosa. E a mio avviso ci riesce.
Uno degli elementi chiave di questa riuscita a mio avviso è l'ambientazione: la storia si svolge nei primi anni 50, in un paesino americano: un'epoca e un luogo in cui la paura della Bomba, il desiderio primeggiare nel mondo e il bisogno di un nemico erano i sentimenti principali ad animare la nazione (o almeno così quel periodo è passato alla storia, quindi che fosse davvero così o no non importa a posteriori). In questo contesto l'arrivo di un GIGANTESCO ROBOT dallo spazio fa da catalizzatore per le reazioni più viscerali, che per comodità di narrazione sono concentrate tutte in un solo personaggio, l'agente del governo sulle tracce del Gigante.
Ed è qui che i temi principali del film si incastrano perfettamente, perché se da una parte l'amicizia tra il robot e il bambino porta avanti il messaggio di pace al di là dell'aspetto e delle origini (appunto, siamo dalle parti di E.T.), dall'altra c'è anche la ricerca di uno scopo, di qualcosa che definisca se stessi, e questo è vero tanto per il Gigante quanto per il "cattivo". La cosa interessante, e che nella parte finale differenzia (e rende molto più intenso) questo film rispetto ad E.T. è che il Gigante è effettivamente pericoloso, è indubbiamente stato concepito come arma, e questa sua natura giustifica in parte le ragioni di chi vorrebbe distruggerlo.
Altro dettaglio determinante è che [spoiler!] la redenzione finale del robot non avviene grazie alla "forza dell'amore" che in tanti film (non sto parando di cartoni, dico proprio film includendo tutti i prodotti "per adulti") costituisce il deus ex machina finale, ma qualcosa di più profondo, quel principio di autodeterminazione che fa pensare al Gigante di voler essere Superman. Sei chi scegli di essere, e anche se sei una macchina distruttrice in grado di cancellare la vita sul pianeta, puoi essere un eroe.
Un discorso a parte andrebbe fatto per l'animazione e il disegno di questo film. Purtropo non ho le competenze adatte per poter descrivere il tratto e lo stile, ma una parte del valore sta sicuramente anche in questo. I disegni sono particolari, spigolosi e contrastati, e riescono in qualche modo a rendere bene l'atmosfera dell'epoca, dando un senso complessivo di "maturità" al film. Il gigante di ferro disegnato come Il re leone non sarebbe stato lo stesso (e ho comunque citato un altro ottimo film).
Concludo con il sollievo di aver visto questo film in compagnia dopo averlo già visto per conto mio, perché sarebbe stato piuttosto imbarazzante trovarmi a piangere alla fine come è successo la prima volta che l'ho visto.
Il gigante di ferro, tutto sommato, non ha niente di originale. La storia è per tre quarti E.T. e per il resto Rocky IV. Si tratta in fondo di una fiaba, ma intendendo il termine nel senso buono, una storia semplice che procede esattamente come si penserebbe cercando di insegnare qualcosa. E a mio avviso ci riesce.
Uno degli elementi chiave di questa riuscita a mio avviso è l'ambientazione: la storia si svolge nei primi anni 50, in un paesino americano: un'epoca e un luogo in cui la paura della Bomba, il desiderio primeggiare nel mondo e il bisogno di un nemico erano i sentimenti principali ad animare la nazione (o almeno così quel periodo è passato alla storia, quindi che fosse davvero così o no non importa a posteriori). In questo contesto l'arrivo di un GIGANTESCO ROBOT dallo spazio fa da catalizzatore per le reazioni più viscerali, che per comodità di narrazione sono concentrate tutte in un solo personaggio, l'agente del governo sulle tracce del Gigante.Ed è qui che i temi principali del film si incastrano perfettamente, perché se da una parte l'amicizia tra il robot e il bambino porta avanti il messaggio di pace al di là dell'aspetto e delle origini (appunto, siamo dalle parti di E.T.), dall'altra c'è anche la ricerca di uno scopo, di qualcosa che definisca se stessi, e questo è vero tanto per il Gigante quanto per il "cattivo". La cosa interessante, e che nella parte finale differenzia (e rende molto più intenso) questo film rispetto ad E.T. è che il Gigante è effettivamente pericoloso, è indubbiamente stato concepito come arma, e questa sua natura giustifica in parte le ragioni di chi vorrebbe distruggerlo.
Altro dettaglio determinante è che [spoiler!] la redenzione finale del robot non avviene grazie alla "forza dell'amore" che in tanti film (non sto parando di cartoni, dico proprio film includendo tutti i prodotti "per adulti") costituisce il deus ex machina finale, ma qualcosa di più profondo, quel principio di autodeterminazione che fa pensare al Gigante di voler essere Superman. Sei chi scegli di essere, e anche se sei una macchina distruttrice in grado di cancellare la vita sul pianeta, puoi essere un eroe.
Un discorso a parte andrebbe fatto per l'animazione e il disegno di questo film. Purtropo non ho le competenze adatte per poter descrivere il tratto e lo stile, ma una parte del valore sta sicuramente anche in questo. I disegni sono particolari, spigolosi e contrastati, e riescono in qualche modo a rendere bene l'atmosfera dell'epoca, dando un senso complessivo di "maturità" al film. Il gigante di ferro disegnato come Il re leone non sarebbe stato lo stesso (e ho comunque citato un altro ottimo film).
Concludo con il sollievo di aver visto questo film in compagnia dopo averlo già visto per conto mio, perché sarebbe stato piuttosto imbarazzante trovarmi a piangere alla fine come è successo la prima volta che l'ho visto.
Published on September 12, 2015 00:30
September 9, 2015
Ultimi acquisti - Settembre 2015 (parte 1)
Sei mesi! Tanto ho dovuto patire prima di poter finalmente mettere le mani su qualche disco nuovo, visto gli acquisti precedenti risalgono a marzo! Che poi non è che nel tempo trascorso da un blocco di acquisti e l'altro me ne stia in silenzio, di materiale da vagliare me ne passa comunque diverso, ma è un'altra cosa quando finalmente maneggio della musica nuova. Perché è vero che gestisco con tranquillità libri e film in digitale, ma la musica è un'altra cosa... forse un giorno ne parleremo.
Passiamo a descrivere i dischi acquistati questo mese, che essendo numerosi divideremo in tre parti. Nessuna compilation, solo album e un paio di EP.
Cominciamo con un disco che aspettavo da un po'. Beh, dai, il nuovo album di Stephan Bodzin è un'occasione esaltante. Powers of Ten continua il percorso che Bodzin ha iniziato diversi anni fa, quando è stato uno dei primi a porre le basi per un nuovo sottogenere della techno da alcuni definito neotrance. Si può intravedere anche una certa affinità, tanto di sonorità che di tematiche, con i lavori inclusi in
Luna
, prodotto in collaborazione con Marc Romboy (con cui negli ultimi anni ha continuato a rilasciare nuove tracce in linea con il progetto). Musica ipnotica e ben strutturata, con una componente melodica dietro cui si riesce comunque a percepire una precisa geometrica, quelle potenze di dieci che stanno alla base di un sistema metrico.
Qui sono arrivato in ritardo io, perché Abaporu , quarto album di Gui Boratto, è uscito da quasi un anno, ma sono riuscito ad averlo solo adesso. Poco male, perché la musica di Boratto mantiene quasi sempre una certa leggerezza che la rende fruibile senza troppa preparazione. In Abaporu ritroviamo i suoni a cui ci ha abituato coi lavori precedenti, vocal dolci e testi semplici e orecchiabili. Tutto sommato niente di nuovo rispetto a quanto si è già sentito da parte sua, ma è un genere in cui ha pochi concorrenti, per cui è sempre un piacere.
Joris Voorn, devo ammetterlo, mi ha leggermente sorpreso con questo suo album. Conoscendo già la sua produzione (e i suoi ottimi remix), mi aspettavo una raccolta di pezzi più marcatamente techno, mentre qui sembra che si sia divertito a mettere insieme tracce con una varietà di generi e stili ben più ampia. Ben venga, perché in Nobody Knows si trovano pezzi techno, house, breakbeat, ambiente e strumentali, con un inaspettato gusto per vocal e melodie. E così quando pensi ormai di conoscere i tuoi dj, questi arrivano dal nulla e ti spiazzano così...
Anche con Fritz Kalkbrenner sono in ritardo, perché Ways Over Water è uscito a fine 2014. Finalmente ho recuperato, e ne sono sollevato, perché mi stavo perdendo qualcosa di veramente buono. Fritz ha sviluppato uno stile tutto suo, un modo di far combaciare la techno con certe sonorità folk che non si ritrova altrove. I testi e le atmosfere tendono spesso al malinconico, e contribuiscono a creare un viaggio ideale lungo il quale l'autore ci accompagna. Una cosa che mi fa molto piacere è che Fritz abbia trovato una strada indipendente rispetto al fratello Paul, del quale sarebbe stato facile cavalcare l'onda: i due invece si mantengono su percorsi paralleli, che solo raramente si incrociano per remix o collaborazioni occasionali.
E parlando del fratello, ecco anche il nuovo album di Paul Kalkbrenner, questo invece fresco fresco di pubblicazione.
7
è (come si potrebbe intuire) il settimo album di Paul, uscito quasi tre anni dopo l'ultimo Guten Tag. Si può dire che il Kalkbrenner più famoso dei due mantiene il suo stile riconoscibile, perché è facile attribuire le tracce al loro padre anche al primo ascolto. Come nei suoi lavori precedenti, anche qui Paul gioca molto con la campionatura di pezzi rock e acustici, includendo ad esempio parti di White Rabbit dei Jefferson Airplane. Devo dire che mi sembra di percepire, col tempo, una crescente angoscia latente nelle sue tracce, come se ci fosse qualcosa che sta avanzando in lui, che lo sta costringendo sempre di più... ma forse sono io che ci vedo (sento) più di quanto ci sia realmente. La musica rimane bella, e sono convinto che qualunque demone possa portarsi dentro, Paul riesce a liberarsene, almeno temporaneamente, quando ci fa ascoltare cose come queste.
Passiamo a descrivere i dischi acquistati questo mese, che essendo numerosi divideremo in tre parti. Nessuna compilation, solo album e un paio di EP.
Cominciamo con un disco che aspettavo da un po'. Beh, dai, il nuovo album di Stephan Bodzin è un'occasione esaltante. Powers of Ten continua il percorso che Bodzin ha iniziato diversi anni fa, quando è stato uno dei primi a porre le basi per un nuovo sottogenere della techno da alcuni definito neotrance. Si può intravedere anche una certa affinità, tanto di sonorità che di tematiche, con i lavori inclusi in
Luna
, prodotto in collaborazione con Marc Romboy (con cui negli ultimi anni ha continuato a rilasciare nuove tracce in linea con il progetto). Musica ipnotica e ben strutturata, con una componente melodica dietro cui si riesce comunque a percepire una precisa geometrica, quelle potenze di dieci che stanno alla base di un sistema metrico.
Qui sono arrivato in ritardo io, perché Abaporu , quarto album di Gui Boratto, è uscito da quasi un anno, ma sono riuscito ad averlo solo adesso. Poco male, perché la musica di Boratto mantiene quasi sempre una certa leggerezza che la rende fruibile senza troppa preparazione. In Abaporu ritroviamo i suoni a cui ci ha abituato coi lavori precedenti, vocal dolci e testi semplici e orecchiabili. Tutto sommato niente di nuovo rispetto a quanto si è già sentito da parte sua, ma è un genere in cui ha pochi concorrenti, per cui è sempre un piacere.
Joris Voorn, devo ammetterlo, mi ha leggermente sorpreso con questo suo album. Conoscendo già la sua produzione (e i suoi ottimi remix), mi aspettavo una raccolta di pezzi più marcatamente techno, mentre qui sembra che si sia divertito a mettere insieme tracce con una varietà di generi e stili ben più ampia. Ben venga, perché in Nobody Knows si trovano pezzi techno, house, breakbeat, ambiente e strumentali, con un inaspettato gusto per vocal e melodie. E così quando pensi ormai di conoscere i tuoi dj, questi arrivano dal nulla e ti spiazzano così...
Anche con Fritz Kalkbrenner sono in ritardo, perché Ways Over Water è uscito a fine 2014. Finalmente ho recuperato, e ne sono sollevato, perché mi stavo perdendo qualcosa di veramente buono. Fritz ha sviluppato uno stile tutto suo, un modo di far combaciare la techno con certe sonorità folk che non si ritrova altrove. I testi e le atmosfere tendono spesso al malinconico, e contribuiscono a creare un viaggio ideale lungo il quale l'autore ci accompagna. Una cosa che mi fa molto piacere è che Fritz abbia trovato una strada indipendente rispetto al fratello Paul, del quale sarebbe stato facile cavalcare l'onda: i due invece si mantengono su percorsi paralleli, che solo raramente si incrociano per remix o collaborazioni occasionali.
E parlando del fratello, ecco anche il nuovo album di Paul Kalkbrenner, questo invece fresco fresco di pubblicazione.
7
è (come si potrebbe intuire) il settimo album di Paul, uscito quasi tre anni dopo l'ultimo Guten Tag. Si può dire che il Kalkbrenner più famoso dei due mantiene il suo stile riconoscibile, perché è facile attribuire le tracce al loro padre anche al primo ascolto. Come nei suoi lavori precedenti, anche qui Paul gioca molto con la campionatura di pezzi rock e acustici, includendo ad esempio parti di White Rabbit dei Jefferson Airplane. Devo dire che mi sembra di percepire, col tempo, una crescente angoscia latente nelle sue tracce, come se ci fosse qualcosa che sta avanzando in lui, che lo sta costringendo sempre di più... ma forse sono io che ci vedo (sento) più di quanto ci sia realmente. La musica rimane bella, e sono convinto che qualunque demone possa portarsi dentro, Paul riesce a liberarsene, almeno temporaneamente, quando ci fa ascoltare cose come queste.
Published on September 09, 2015 02:00
Unknown to Millions
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