Andrea Viscusi's Blog: Unknown to Millions, page 47

January 5, 2016

Leggo dunque sono meglio?

Sta girando in questi giorni sui social uno slogan (chiamatelo hashtag, chiamatelo meme) che incoraggia alla lettura con poche semplici parole: io leggo dunque sono. È un messaggio forte, una pubblicità progresso, un contributo alla diffusione della cultura, in un momento buio come mai ce ne sono stati per i libri e l'editoria. Quindi è importante condividerlo e portarlo avanti, perché ne va alla lunga della salvezza della nostra stessa civiltà.
Solo che io non l'ho fatto. Nonostante nella mia cerchia di contatti (che in buona parte ruotano tutte intorno al mondo della lettura/scrittura/editoria) le apparizioni di questo meme siano state numerose, io ho evitato di propagarlo. Ma non per disinteresse nei confronti del tema, quanto perché se l'intento è nobile, non condivido il sottinteso del messaggio diffuso. Mi permetto quindi di chiarire la mia posizione nello spazio sul blog.
Quello che non mi piace di leggodunquesono è l'implicito senso di superiorità che l'affermazione comporta. L'idea di tracciare un confine tra noi e loro, quelli che leggono e quindi sono e quelli che, poveri loro, non leggono e quindi non possono davvero definirsi viventi.
Parliamoci chiaro, io sono uno che legge, e anche parecchio. Un "lettore forte", da 60-80 libri l'anno. E voglio specificare anche che non faccio un discorso populista, non sto dicendo "eammecheccazzomenefregamme!!!", per sostenere che l'ignoranza è forza. Se c'è un'attività della mia vita che più di tutte ha contribuito a formarmi e rendermi quello che sono, è la lettura.
Ma, come ho appena scritto, sto parlando di una attività. Non l'unica. Non posso ignorare musica, film, viaggi, giochi, sport, cibo, sbronze. Ridurre tutta la dimensione di una persona a un unico aspetto è una strawman fallacy , un modo distorto di rappresentare "l'altra parte" così da farla apparire inferiore, indegna, di poco valore.
Ora, il punto è: chi legge è migliore di chi non legge? Un lettore è più di un non lettore? Ok, la domanda è complessa, e per rispondere dovremmo prima trovare una definizione condivisa di cosa renda una persona migliore. Ma mi rifiuto di credere di poter dare un valore più alto a qualcuno sulla base di quello che ritiene importante per la propria formazione. Forse questo mi risulta più facile perché da sempre sono abituato a essere considerato un fruitore di prodotti di nicchia: leggo fantascienza, ascolto musica elettronica, adoro Futurama , colleziono lumache. Tutti elementi che mi collocano fuori dal mainstream e che quindi mi hanno provocato nel corso degli anni innumerevoli occhiate diffidenti. Anche per questo non mi scandalizzo quando mi trovo davanti qualcuno che non condivide le mie passioni, e in particolare i miei gusti letterari, musicali o che altro. Perché alla fine dei conti, spesso quando ci lamentiamo che gli altri non leggono, stiamo dicendo in realtà che non leggono quello che noi vorremmo che leggessero (come dicevo parlando di questi giovani che signora mia non leggono più!).
Spostiamo allora la questione, e lasciamo perdere il confronto con gli altri, la contrapposizioni di noi a loro. Se non posso affermare che gli altri, i non lettori, siano inferiori, sono sicuro che io stesso sarei una persona diversa, e per certi (molti) versi peggiore, se non leggessi. In un giorno un po' cupo pensavo a voce alta che quello che ho letto, visto, ascoltato, hanno contribuito, anche in modo indiretto, a rendermi quello che sono. Ma so anche che i libri non sono l'unico mezzo per ottenere questo tipo di crescita, e non posso contestare chiunque cerchi la sua strada in modo diverso.
Leggo, dunque sono... meglio? No, questo no. Leggo, dunque sono migliorato.
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Published on January 05, 2016 01:00

January 3, 2016

Coppi Night 27/12/2015 - Dèmoni

Siamo arrivati all'ultima Coppi Night dell'anno! E come meglio concludere dopo i bagordi natalizi che con un filmaccio splatter di scuola italiana, di quelli che in seguito sarebbero diventati dei cult e nobilitati da Tarantino e similari?
Dèmoni (il cui titolo si premura di mettere l'accento) è un film di Lamberto Bava del 1985, e si inserisce in quel filone di film in cui senza una spiegazione ragionevole (nemmeno all'interno del film stesso), mostri assassini iniziano a moltiplicarsi e sbudellare nei modi più vari i malcapitati personaggi. Ok, non siamo a livelli di ridicolaggine di Troll 2 , ma è sempre quello stesso horror così estremo da far ridere, dalle parti del so bad it's so good.
Praticamente l'intero film si svolge all'interno di un cinema (ed ecco come si risparmia sulle scenografie), dove viene proiettato un film horror di fronte a un pubblico di invitati per il primo spettacolo di questo nuovo locale. Poi, non si sa se deliberatamente o no (la titolare del cinema inizialmente sembra coinvolta negli eventi, ma poi combatte con gli altri e fa la stessa fine), si diffonde una sorta di infezione che trasforma le persone in mostri assassini, le cui vittime diventano a loro volta dei dèmoni. Lo svolgimento della trama è quindi tutto un fuggi-spara-ammazza per le stanze (numerosissime!) del cinema, con i vari personaggi convenuti, ognuno opportunamente stereotipato, che via via cadono per mano dei mostri, fino a che non rimane soltanto la coppia della giovane e innocente protagonista e del giovane e coraggioso pretendente di lei.
Devo ammettere che il livello degli effetti non è così infimo, e i primi piani degli sbudellamenti fanno un loro effetto. Non siamo al succo di pomodoro, per capirsi, anche se alcune immagini risultano comunque abbastanza spassose, ma d'altra parte pure The Green Inferno tanto acclamato non mi è sembrato migliore da questo punto di vista.
Quello che non capirò mai di questi film è in che modo autori e registi pensassero di portare avanti la trama. Cioè, è evidente che non c'è una sceneggiatura vera e propria, per questo non capisco quale sia il ruolo di quelli che sono accreditati come autori. Per dire, verso metà film iniziamo a seguire un gruppetto di punk (uso il termine perché sono proprio i "punk" intesi come vostra mamma vi vestiva per carnevale in seconda elementare) che stanno viaggiando in macchina e sniffando coca fuori dal cinema, e poi per sfuggire alla polizia ci finiscono dentro. Dopodiché scompaiono, presumibilmente vengono ammazzati come tutti gli altri, ma non ne sappiamo più niente. E allora perché spendere tutto questo tempo per introdurre i personaggi? Oppure, l'amica della protagonista, anche lei infettata, a un certo punto subisce una trasformazione diversa da tutti gli altri, perché si squarcia a metà sulla schiena e dal suo corpo esce una creaturina che scappa via. Si può pensare che questo sia uno stadio successivo della mutazione ma niente, non se ne sa più nulla e non succederà più con nessun altro. Insomma, non capisco su queste sceneggiature cosa ci fosse scritto, a parte "immagine di sangue che schizza e trache strappata coi denti".
Comunque, alla fine dei conti rimane una visione pressoché godibile, perché tra recitazione da filmino della cresima e sequenze splatter c'è di che divertirsi, al contrario di tanti altri film splatter che invece alla fine sono soltanto noiosi.
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Published on January 03, 2016 23:30

January 1, 2016

Parallàxis n. 4

Quando un paio di mesi fa ho parlato di Stranimondi e di cosa ho visto/ascoltato/scoperto, ho citato tra i progetti più interessanti quello di Parallàxis, giovane rivista di narrativa e saggistica con un approccio moderno, maturo e interdisciplinare al fantastico inteso nelle sue accezioni più varie. L'eccellente lavoro svolto dalla redazione (anch'essa parecchio giovane) della rivista mi ha catturato subito, e ho acquistato con piacere uno dei volumi (che poi ho letto giusto nelle settimane scorse).
Scoprendo che era possibile sottoporre dei racconti in valutazione mi sono avvicinato subito, e sono riuscito a far rientrare un mio lavoro sul numero 4, in uscita in questi giorni.
http://parallaxis.it/
La muta è un racconto ascrivibile all'ucronia, ma non la definirei quel tipo di ucronia in cui il nucleo della vicenda è proprio definire il punto di divergenza rispetto alla nostra storia. Il diverso corso storico fa da ambientazione alla vicenda della protagonista (giovane pure lei, manco a dirlo), ma il nucleo è un altro. Si tratta di un racconto del tutto inedito che sono contento di poter finalmente proporre, e ancor di più di poter presentare su una rivista così prestigiosa e ben realizzata.
Naturalmente oltre al mio racconto, Parallàxis n. 4 contiene anche altri notevoli contributi, ed è importante sottolineare come tutti i racconti siano appositamente tradotti, anche quando traduzioni precedenti sono già disponibili. Nel volume è presente anche un "racconto dimenticato", risalente al 2013, e un saggio conclusivo, oltre a una raccolta fotografica di scatti originali. C'è quindi di che saziarsi, materiale sufficiente a provocare quel twist in the mind che è il payoff della rivista. Per qualche parola in più (anche su La muta) potete leggere l'editoriale del numero appena uscito.
Parallàxis si può acquistare in cartaceo sul sito (dal quale si può anche scaricare un'anteprima in pdf), oppure in versione ebook su Amazon. E non dimenticate di likezzare la pagina facebook della rivista. Buon twist di inizio anno a tutti!
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Published on January 01, 2016 01:00

December 30, 2015

Doctor Who Christmas Special 2015 - The Husbands of River Song

Considerando che ho iniziato a commentare Doctor Who a partire dalla stagione 8, quindi dopo l'ultima apparizione di River Song in The Name of the Doctor, non ho avuto finora occasione di parlare del personaggio interpretato da Alex Kingston. Bene, questo è quindi il momento giusto per parlarne.
Alla sua prima comparsa, nel doppio episodio della quarta stagione Silence in the Library/Forest of the Dead, River Song è un personaggio straordinario. Complice anche il fatto che quello sia uno degli episodi miglior di tutta la serie moderna (devo ancora rivalutare in prospettiva qualche puntata della stagione nove, ma finora lo considero alla pari con Blink), l'interazione tra River e il Decimo Dottore è eccezionale, vista la disparità di informazioni tra i due. River lo conosce bene, lui invece la incontra per la prima volta e ne rimane in qualche modo assoggettato, soprattutto quando lei rivela di conoscere il suo nome. La scena è questa: 

River morirà poi a fine dell'episodio, facendosi promettere dal Dottore che non cambierà la storia per salvarla, perché non vuole che quello che c'è stato tra loro sia riscritto. Bellissimo e terribile, sul momento.
Il problema è che quando Steven Moffat (che ha scritto questo episodio) diventa lo showrunner nella stagione successiva, è imperativo che River Song ritorni, e così la rivediamo ogni tanto, e la sua timeline si complica in modo forse eccessivo, diventando uno dei perni centrali dell'arco narrativo dell'Undicesimo Dottore. Melody Pond/River Song ritorna in tutti gli episodi più importanti, dai finali di stagione a quello in cui Amy e Rory abbandonano lo show, ed è in qualche modo legata a tutti i protagonisti delle stagioni 5-6-7. Il problema maggiore a mio avviso è che il suo rapporto con il Dottore non è così profondo come ci è dato ad intendere, e la loro relazione non appare davvero così centrale per nessuno dei due, non tanto da giustificare l'intensità della scena qui sopra. Forse anche la differenza di età tra Matt Smith e Alex Kingston contribuisce a rendere il loro matrimonio piuttosto awkward, mentre già con Peter Capaldi si può scorgere una chimica diversa... che però non credo che vedremo, perché probabilmente questo era l'episodio conclusivo della storia di River Song.
Insomma, mi piace il concept di River Song, ma non tanto la sua esecuzione. Per cui non ero troppo entusiasmato all'idea di rivederla comparire. Ma alla fine The Husbands of River Song si rivela un episodio godibile, per lo più leggero (in contrasto con i toni della stagione nove, ma va bene così), in cui possiamo vedere per la prima volta come River si comporta in assenza del Dottore, dato che lei non sa che il Dottore ha (e potrebbe avere) un nuovo volto dopo quello di Matt Smith. La vediamo quindi agire in bilico tra crimine e giustizia, mentire e fingere per uno scopo più alto, fare la cosa sbagliata per un obiettivo nobile: tutte cose che già sapevamo ma non si erano mai viste "dall'esterno". Sulla trama non serve soffermarsi più di tanto, il cattivo di turno è uno di quelli sopra le righe, ma riesce a movimentare la storia e creare un paio di situazioni simpatiche (come la vendita della testa nel ristorante). Ci sono un paio di momenti in cui siamo portati a credere che River finga di amare il Dottore per poterlo piegare ai suoi scopi, ma fortunatamente in seguito questa idea viene allontanata, perché per quanto accattivante svuoterebbe di significato ogni loro interazione precedente.
La puntata cambia di registro quando, alla fine, il Dottore e River (che adesso sa di trovarsi con lui) si trovano su Darillium, quello che lui (fin dal loro primo incontro nella biblioteca) sa essere il luogo della loro ultima notte insieme. Anche lei in qualche modo lo sospetta, perché contrariamente alla sua politica anti spoiler ha sentito dire che quello sarà il loro ultimo incontro prima della sua morte, e inoltre nonostante le promesse di portarla lì il Dottore le ha sempre tirato il pacco all'ultimo momento. Si capisce che stavolta sarà davvero così quando lui le regala il cacciavite sonico che lei avrà nella libreria, e che incidentalmente le salverà la vita (in senso digitale). Sappiamo quindi che lì su Darillium saranno insieme un'ultima volta, per una sola notte... che dura ventiquattro anni su quel pianeta.
C'è quindi spazio per una sorta di lieto fine, con l'intesa che il lieto fine dipende sempre da dove si interrompe la storia. Purtroppo in retrospettiva questo finale contraddice in parte quanto già visto in precedenza: infatti, proprio in Forest of the Dead, River accusa il Dottore di aver sempre saputo che quella sarebbe stata la loro ultima notte, ma adesso si scopre che pure lei sotto sotto lo sapeva, e che comunque è stata una luuunga notte. Inoltre, dopo la fine della sesta stagione era stato diffuso un miniepisodio intitolato Last Night (che adesso non riesco a ritrovare) in cui l'Unidcesimo Dottore si preparava proprio per il suo appuntamento su Darillium con River, cosa che adesso è stata retconizzata, a meno di non considerare che anche quella sia una delle occasioni in cui non si è presentato. Certo non è un peccato grave, visto che in Doctor Who tutto viene contraddetto, alla lunga, ma l'operazione non è mai gradevole. Insomma, la mia maggiore preoccupazione è che alla luce di quanto visto qui, le scene di Silence in the Library perdono parte del loro valore, mentre finora erano tra le più intense mai viste in DW.
Alla fine dei conti si può comunque considerare The Husbands of River Song un buon episodio, divertente e a suo modo incastrato nella continuity della serie, e forse, stavolta, davvero l'ultima apparizione di River Song nello show (sarebbe difficile farle conoscere un'altra faccia del Dottore che non ha mai visto prima)... ma nemmeno questo è sicuro, perché appunto, in Doctor Who tutto può essere riscritto. Voto: 6.5/10
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Published on December 30, 2015 00:00

December 28, 2015

Coppi Night 20/12/15 - La zona morta

Forse non tutti sanno che Stephen King è stata una delle mie prime letture "da adulto", perché all'epoca (avevo 11-12 anni) mia sorella ne era ossessionata e io trafugavo i libri dalla sua camera. Ho letto più o meno tutti i suoi "classici", tranne quelli davvero troppo corposi che un po' mi spaventavano: It, L'ombra dello scorpione, Tommyknockers, Insomnia non ho osato tirarli giù dalla mensola. Ma da Carrie a Misery, da Cose preziose a Desperation, perfino Gli occhi del drago, oltre naturalmente alla serie della Torre Nera (fino al quarto libro, il quinto poi me lo sono preso da solo), me li sono fatti tutti. E tra tutti questi c'è stato anche La zona morta, che se i miei ricordi non mi ingannano, credo di aver letto durante le vacanze estive in cui ho dato l'esame di terza media.
Questo lungo preambolo per dire che, stando alla mia memoria del libro, questo film lo ripercorre quasi esattamente. Mi ricordo infatti che il romanzo era sostanzialmente diviso in due parti, nella prima in cui si cercava di trovare un assassino, nella seconda c'era invece un candidato malvagio alle elezioni. Il film fa esattamente la stessa cosa, e, a mio avviso, un po' perde in incisività.
A parte il fatto che si tratta di uno di quei film invecchiati male, che nonostante la regia di Cronenberg non presenta particolari guizzi d'immaginazione, e si perde in sequenze lente e musiche irritanti. Al netto di questo però, la storia stessa non è così accattivante. A mio avviso concentrando tutto sul candidato cattivo, e mostrando qualcosa in più del suo personaggio e delle sue caratteristiche, ci sarebbe stato modo di dare più pathos alla sequenza finale, così invece il film sembra disgiunto, quasi come due episodi distinti di una serie. Di fatti, mi hanno informato che da La zona morta è stata tratta più di recente una serie tv, che in effetti come formula si addice di più alla premessa del film.
Per chi ha letto il libro, la visione di questo film risulta pressoché inutile, dato che non aggiunge niente e non interpreta in nessun modo quanto avviene nel romanzo, limitandosi a dargli una forma visiva. Chi non lo ha letto provi pure, ma non credo che ne trarrà grande giovamento.
(Ah, giuro che non l'ho fatto apposta a usare Ned Flanders come immagine per due post consecutivi del Coppi Club, ma non potevo non cogliere l'occasione di citare la parodia The Ned Zone fatta in uno speciale di Halloween dei Simpson.)
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Published on December 28, 2015 05:40

December 24, 2015

Vincenzo Vasi e Valeria Sturba - OoopopoiooO

Prendetevi dieci secondi per rileggere il titolo un paio di volte e poi tornate. Noterete che la parola non è così complicata, anzi, ha una sua scivolosa musicalità, e no, non è un palindromo.
OoopopoiooO è il nome del project composto da Vincenzo Vasi e Valeria Sturba, thereministi e sperimentatori sonori come ce ne sono pochi, almeno a casa nostra. E se sentite uno strano solletichino dietro la nuca a leggere questi nomi, è perché di Vincenzo Vasi avevamo già parlato su questo blog, recensendo il suo album Braccio elettrico . Ma se allora Vasi componeva da solista, negli ultimi anni la sua musica si è arricchita della collaborazione di Valeria Sturba, giovane musicista di formazione classica che a un certo punto ha capito che appassionarsi davvero alla musica doveva darsi al theremin e ai fischietti (l'ho semplificata, ma più o meno è andata davvero così).
Il duo si è mosso inizialmente con esibizioni live, in buona parte improvvisate, e ha iniziato poi a raccogliere alcune delle nuove tracce da loro scritte o interpretate nel primo album, che si chiama appunto OoopopoiooO , uscito quest'anno sempre con Tremoloa Records. Il disco contiene 13 pezzi, scritti quasi tutti da Vasi o Sturba, con solo due eccezioni in cui i due si prestano a una reinterpretazione, come nel caso di Stabat Mater, tratta dall'opera di Pergolesi.
L'album si apre con Ricondizionamento, un pezzo che ha l'obiettivo dichiarato di "rieducare" l'ascoltatore, preparandolo per le sonorità e le strutture musicali alle quali sta andando incontro. Chi non supera il ricondizionamento può anche evitare di ascoltare il resto, ma se fate uno sforzo ne vale decisamente la pena.
Vincenzo e Valeria si presentano innanzitutto come thereministi, ma a dire la verità il theremin ha un ruolo di secondo piano in questo disco. Se in Braccio elettrico il theremin era quasi l'unico strumento utilizzato da Vasi, in OoopopoiooO la varietà dei suoni è molto maggiore. Il violino (strumento sul quale si è appunto formata la Sturba) ricopre una parte importante dei pezzi, ma anch'esso viene impiegato in modo diverso dal normale, campionato e inserito nel disegno futurista di questa nuova musica. Anche la voce, sia intesa come canto nel senso convenzionale che come strumento più grezzo, trova molto spazio, con l'inclusione di vere e proprie canzoni come Mandorle e Strada.
Certo il theremin non manca, e abbiamo ad esempio un solo theremin (anche se i theremin sono due) come Medusa, e altri pezzi che ne fanno un uso considerevole, come How do you feel to be in love with a ghost? e Crystal Ling, ma in altri casi è del tutto assente. Non che questo diminuisca in alcun modo il valore di questi pezzi, perché a essere costante e riconoscibile è un'idea di musica che non ha una definizione precisa, e in cui ogni elemento, anche quello meno "nobile", può contribuire a creare un insieme ordinato e armonico.
Ho avuto l'immensa fortuna di trovarmi un concerto degli OoopopoiooO dietro casa, i primi di dicembre, e così ho potuto ascolare dal vivo Vincenzo e Valeria. Il concerto era basato in buona parte sulle tracce dell'album, ma l'esecuzione live è un'esplosione di improvvisazione (che da sotto il palco si riconosce facilmente), una sequenza di climax e continue aggiunte che rendono ogni pezzo, e probabilmente ogni concerto, unico. Per dire, se il giorno dopo ne avessero fatto un altro sempre lì, ci sarei tornato subito, non fosse altro per vedere l'ippopotamo che canta il Bolero (vedi da 9 minuti circa):


Come accade spesso quando parlo di musica, mi rendo conto che si tratta di un ascolto non indicato a tutti, eppure sono sicuro che se provate ad abbandonare le nozioni che avete appreso su cosa è musica e cosa non lo è, potreste arrivare a godere pienamente di un'esperienza così vivida.
Potete seguire gli Ooopopoiooo sulla loro pagina Facebook, mentre sul canale Youtubbe di Valeria Sturba trovate i video dei concerti e delle tracce (consiglio Misther Theremin).
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Published on December 24, 2015 04:15

December 22, 2015

Possibili discontinuità del servizio

Rapido post di servizio per informare l'utenza di Unknown to Millions che nelle prossime settimane il blog potrebbe subire una fase di rallentamento. E non mi riferisco alle feste di fine anno, che non sono mai state un problema, piuttosto al fatto che nel corso di gennaio mi troverò in mezzo a un trasloco, pertanto il mio "tempo libero" sarà per la maggior parte assorbito da incombenze come trascinare scatoloni per sette rampe di scale e litigare con l'idraulico. E non dico niente dell'Ikea.
Non dico che il blog finirà in stasi, ma è probabile che la frequenza dei post si ridurrà, magari solo un paio a settimana, e soprattutto mi limiterò probabilmente ai post meno impegnativi, come le recensioni del Coppi Club o qualche segnalazione veloce.
Insomma non è un addio ma solo un abbiate pazienza. Se tutto va come previsto, con l'inizio di febbraio torneremo a pieno regime e sarà anche il momento di inaugurare alcune delle novità anticipate qualche tempo fa.
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Published on December 22, 2015 23:00

December 19, 2015

Coppi Night 13/12/15 - Chappie/Humandroid

Avevo visto Chappie (sì, ok, Humandroid) quando è uscito al cinema, perché Blomkamp è uno dei pochi registi di cui mi fido abbastanza da spendere i soldi del biglietto quasi alla cieca, nonostante la parziale delusione di Elysium. Infatti avevo già parlato in modo collaterale di questo film, con una riflessione più ampia proprio sulla produzione di Blomkamp. Comunque, ora che si è riproposta l'occasione, l'ho rivisto volentieri.
Negli ambienti degli appassionati di fantascienza il film non è stato accolto con molto calore. Troppo semplicistico, poco plausibile a livello tecnologico, e su questo sono d'accordo. Tuttavia, credo che la plausibilità non fosse in alcun senso l'obiettivo della storia. Lo si può capire fin dalle prime scene, quando viene detto che gli scout, i robot semisenzienti delle forze dell'ordine, entrano in funzione nell'anno 2017. Considerando che il film è del 2014, e che attualmente siamo parecchio lontanti da avere robot con queste capacità, credo sia evidente che Blomkamp volesse dirci "ehi, so che tra tre anni non saremo davvero così, ma concedetemi qualche licenza narrativa". Infatti anche altri aspetti del film sono sicuramente molto semplificati: il modo in cui il programmatore crea un software di intelligenza artificiale, la crescita di Chappie, la possibilità di trascrivere una coscienza. Siamo al solito discorso sulla sospensione dell'increduiltà, che se applicato nei termini giusti, permette di godersi questo film e ricavarne quello che è il senso sottostante, che non sta nel mostrare le conseguenze dell'uso di poliziotti robot.
Chappie è un film sull'identità e la crescita, sul rapporto tra le generazioni. Non è un caso che il robot si affidato alle cure di due diverse "famiglie", con valori completamente opposti: da una parte il programmatore che vuole sviluppare la sua morale, la sensibilità e la parte più "emotiva", dall'altro una banda di criminali che gl insegna la sopravvivenza, l'uso della forza, lo sprezzo delle regole imposte. Sono due strade ben diverse, ma è interessante notare che entrambi mentono a Chappie, entrambi cercano di piegarlo in modo più o meno subdolo ai propri obiettivi, nobili o no che siano. Chappie soffre dal tradimento di entrambi, e grazie a questo cresce, assorbe quello che gli serve da entrambi i mondi, arrivando a trovare un punto di equilibrio tra i due schemi di valori che si esprime nelle ultime sequenze del film, e che rende il robot il vero punto di riferimento morale della storia.
Naturalmente non è un film perfetto, ma a mio avviso le critiche che gli vengono mosse non sono quelle più appropriate. In molti hanno infatti lamentato la performance dei Die Antwoord, gruppo musicale piuttosto "estremo" (in molti sensi) sudafricano, ma io credo che sia stata invece una scelta molto azzeccata, proprio perché c'era bisogno di mostrare qualcosa di davvero lontano dalla "normalità". Certo le marchette con il nome del gruppo e la colonna sonora dei loro pezzi potevano essere limitate. Allo stesso modo il personaggio di Hugh Jackman è forse eccessivo nella sua bigotteria, e diventa quasi una macchietta al limite di un Ned Flanders, ma serve comunque bene il ruolo di antagonista, in una storia che in fondo enfatizza tutti gli atteggiamenti (dai criminali ai poliziotti, dai tecnici agli imprenditori) proprio per mostrare come una coscienza appena nata si rapporta con ognuno di questi.
Insomma, a me Chappie è piaciuto e lo ritengo un film di buon livello, non alla pari con District 9 che rimane il capolavoro del regista, ma più che valido. Per apprezzarlo bisogna abbandonare l'idea che sia un film di hard sf, con l'intento di mostrare gli sviluppi tecnologici futuri, e concentrarsi invece sul messaggio morale che sta sotto la superficie.
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Published on December 19, 2015 01:22

December 15, 2015

Ma Star Wars è fantascienza? (e argomenti correlati)

Il titolo è un clickbait spudorato, ma in effetti se oggi non parlo di Star Wars che ci sto a fare nella blogsfera? In merito all'uscita de Il risveglio della forza ho già condiviso su facebook le mie impressioni e attese, quindi non ripeto il discorso. Quello che in questo post volevo esporre è il mio punto di vista iniziale sulla saga, con il che intendo i 6 film, senza considerare tutto l'expanded universe (che comunque, a quanto ho capito, è stato retconizzato). Dopodiché risponderemo anche alla domanda del titolo, che è materia d'esame nei corsi di fantascienza da quarant'anni a questa parte. Si tratta di un passaggio doveroso, e siccome ho idea che nelle prossime settimane non si parlerà d'altro, tanto vale riunire in un unico posto le mie considerazioni per non dovermi ripetere di continuo.

Partiamo dall'inizio. Ho visto gli episodi IV-V-VI quando già avevano questa numerazione, cioè nell'edizione rimasterizzata degli anni 90 o giù di lì. All'epoca mi aggiravo intorno ai dieci anni di età, e naturalmente mi sono goduto i film per l'avventura, la varietà, la storia semplice ma epica. Niente di male in tutto questo. Certo, a rivederli oggi noto facilmente le ingenuità e incongruenze che pur abbondano anche nella prima trilogia. Ma ci si passa sopra senza preoccuparsi troppo, grazie anche all'effetto nostalgia.
Passiamo quindi al nodo cruciale intorno a cui si sono sviluppate negli anni tutte le discussioni a tema Guerre stellari: quanto fa schifo al confronto la seconda trilogia, quella dei prequel? Il responso è pressoché unanime, ed è difficile trovare un sosentiore convinto degli episodi I-II-III. Nemmeno io posso fare altro che convenire: i tre film più nuovi sono obiettivamente scialbi, superficiali e scivolano proprio su quegli aspetti che avrebbero dovuto renderli grandiosi. Ci sono alcuni errori piuttosto grossolani e imperdonabili, se si considera il potenziale (anche meramente commerciale) dietro questi film. Non sto a fare l'elenco di quelli che sono i (numerosi) peccati commessi in questi film, ma se vogliamo riassumere in un paio di "filoni tematici", si parla di occasioni sprecate e riscritture improprie. Tra le occasioni sprecate troviamo il repentino e didascalico passaggio di Anakin Skywalker al Lato Oscuro o l'approfondimento del rapporto maestro-allievo tra Skywalker e Kenobi; le riscritture sono l'invenzione dei midichlorian o Yoda che brandisce la spada laser.
Il lettore accorto noterà che non ho citato Jar Jar Binks tra i peccati mortali, e questo a ragion veduta. È vero, il gungan è diventato l'icona dell'imperfezione dei prequel, ma io credo che per quanto irritante e fuori posto, il povero Jar Jar sia solo un sintomo dei problemi di fondo. Tutto sommato, se si eliminano le scene in cui compare, la struttura narrativa rimane intatta, cosa che invece non si può dire degli altrettanto detestabili Ewok dell'episodio VI.
Quindi, in sostanza, riconosco che gli episodi I-II-III sono dei film mediocri, quando avrebbero potuto essere colossali, ma alla fine dei conti risultano per lo più godibili, con la sola eccezione del II, che rimane evitabile per buona parte della sua durata. D'altra parte, anche IV-V-VI hanno i loro buoni momenti che bisogna superare stringendo i denti, a voler essere obiettivi. Insomma, non ci siamo mai trovati di fronte a dei capolavori assoluti.
E qui ci si ricollega alla domanda iniziale. Se Star Wars non è un capolavoro, perché è diventato uno dei rappresentanti storici del cinema di fantascienza? Insomma, è o non è fantascienza? Va bene, lo sappiamo, le etichette non sono sempre così utili, e individuarle non è necessariamente un bene (lo abbiamo imparato parlando di Ammaniti, no?). Ma dai, non ci giriamo intorno... Star Wars va considerato sf?
La mia risposta (opinabile quanto volete, e fatelo pure) è no. In Guerre stellari non c'è niente di quell'elemento speculativo che dovrebbe ritrovarsi di un'opera di fantascienza. Alieni, astronavi, laser, iperspazio, pianeti... tanti elementi esotici, ma non basta il worldbuilding per ottenere questa etichetta. Volendo trovare un'etichetta più appropriata, forse si può pensare al planetary romance, qualcosa sul genere di John Carter. Ma di certo Star Wars non è rappresentativo degli scopi e potenzialità della fantascienza, sviluppandosi su modelli per lo più afferenti al fantasy, o al romanzo d'avventura/esplorazione. Anzi, probabilmente si puà imputare alla famiglia Skywalker una buona parte della responsabilità per l'attuale percezione distorta del cinema di fantascienza, per cui oggigiorno questa classificazione viene applicata ai film di supereroi ma non a Her , tanto per dire.
Con questo non sto facendo un discorso radical snob del tipo "guardateli voi questi filmetti". Ho già detto che la serie di Star Wars è per buona parte godibile e mi godrò anche i nuovi film (per i quali ho buone aspettative). Ma non consiglierò mai a qualcuno che voglia vedere dei buoni film di sf L'impero colpisce ancora o La minaccia fantasma.
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Published on December 15, 2015 23:00

December 12, 2015

Rapporto letture - Novembre 2015

Forse per la prima volta da quando ho iniziato a compilare i rapporti letture mensili su questo blog, mi trovo a dover parlare di un "rapporto lettura", al singolare. Perché ad ottobre sono riuscito a leggere (o almeno, a terminare) un libro solo. Ma visto che stiamo parlando di Christopher Priest, non vedo nessun problema a dedicare un intero post al suo libro.

Ho già accennato in precedenza che Priest sta diventando uno dei miei autori di riferimento, e che piano piano ho intenzione di assorbirne l'intera opera. Dopo The Prestige (bello), The Adjacent (immenso) e Inverted World (straordinario) sono passato quindi a The Islanders .  Forse, lo ammetto, non ho azzeccato del tutto la scelta su quale leggere dopo gli altri, perché The Islanders è un libro complesso, che richiede una notevole concentrazione da parte del lettore e forse una conoscenza più approfondita delle altre produzioni dell'autore. Il libro infatti è una sorta di guida turistica del Dream Archipelago, un vastissimo complesso di isole che ricopre tutta la zona equatoriale di un mondo immaginario da Priest, in cui l'autore ha ambientato molte delle sue storie. La guida è presentata fin dall'introduzione per quello che è, e troviamo "voci" per molte delle isole (non tutte, ma nessuno sa quante siano in totale) disposte in ordine alfabetico. Solo che quello che raccontano non è in ordine. Per alcune isole viene descritto appunto l'aspetto turistico, con l'indicazione di attrattive, tipo di cucina, valuta in corso eccetera; per altre invece ci sono informazioni più approfondite, ad esempio in merito a illustri personaggi originari di quel posto, o importanti avvenimenti che lo riguardano; per altre ancora viene presentata una storia che si svolge lì, senza praticamente dire niente della conformazione del posto. Inizialmente può sembrare un insieme disomogeneo e casuale, come se l'autore si fosse limitato a mettere insieme una serie di testi scritti per scopi diversi. Ma procedendo nella lettura (da metà in poi), si iniziano a scorgere collegamenti. A volte una singola frase inserita novanta pagine prima si riallaccia a quanto si legge dopo, e fornisce una visione d'insieme sempre più ampia. Può sembrare che non ci siano storie e personaggi, ma questi emergono lentamente, prima come voci enciclopediche e poi (prima ancora di rendersene conto), ne stiamo leggendo la storia in prima persona, e dopo ancora la stessa storia vista da un'altra prospettiva. Ci sono alcuni eventi-chiave che costituiscono un vago arco narrativo, come la morte di un mimo durante una sua esibizione di cui, pezzo per pezzo, ricostruiamo l'intero svolgimento. E i personaggi ricorrenti vengono via via plasmati, acquisendo dimensioni sempre maggiori, ma c'è bisogno di tantissma attenzione per poter seguire questo percorso. Per questo The Islanders non è facile, ma costituisce probabilmente un punto di raccordo per l'inter produzione di Priest, e forse letto con un background più ampio del mio (ho trovato solo un riferimento a Prachous, l'isola in cui si svolge l'ultima parte di The Adjacent) è possibile tracciare una mappa del Dream Archipelago, anche se mappe vere non ne esistono ed è impossibile tracciarne. Non è facile nemmeno assegnargli un voto, ma ritengo di potergli assegnare un voto 8/10 per la profonda immersività e l'immenso world building che ci sta dietro.
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Published on December 12, 2015 03:00

Unknown to Millions

Andrea Viscusi
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