Andrea Viscusi's Blog: Unknown to Millions, page 45
March 23, 2016
Coppi Night 20/03/2016 - Battle Royale
Quando è uscito il film di Hunger Games c'è voluto poco prima che emergessero dalle loro tane i beforeitwascool a dire "ah, ma è solo una copia di Battle Royale che comunque è pure cento volte meglio". Conoscevo quindi questo film come l'antesignano di Hunger Games, che a dirla tutta non mi è nemmeno dispiaciuto tanto.
In effetti le similitudini tra la due storie sono evidenti: un gruppo di ragazzi forzato in un ambiente ristretto e obbligato a combattesi alla morte per decretare l'unico sopravvissuto, con i protagonisti maschile e femminile che si alleano e poi sopravvivono in coppia. Questo elemento costituente basterebbe a dire che Hunger Games probabilmente deve qualcosa a Battle Royale, tuttavia l'interpretazione dello stesso fenomeno nei due universi narrativi cambia. Battle Royale non è classificabile come distopia, perché non c'è niente che porti a pensare che il mondo in cui si svolge sia in qualche modo diverso dal nostro. Semplicemente, in questo mondo, qualcuno ha deciso che fosse opportuno prendere una classe di un liceo e imporre ai suoi membri di uccidersi a vicenda.
Non c'è bisogno di altre motivazioni, non c'è nessun regime e nessuna dimostrazione di forza, nessuno status quo da mantenere. In Battle Royale, semplicemente si sceglie di colpire i giovani, punirne uno per educarne cento, soltanto per invidia e rancore nei confronti di qualcuno che potrebbe essere meglio di come l'hai cresciuto. In questo film non c'è amore, o almeno non l'amore romantico, ma solo una qualche forma deviata di attaccamento; e c'è il suicidio, una scelta di morte frequente e in qualche modo nobile per molti che la scelgono (non solo all'interno della battaglia). Per questo Battle Royale è molto più crudo, non tanto per l'abbondanza di sangue e di scene similsplatter, ma perché mostra una realtà torbida, spietata, e paurosamente vicina alla nostra.
Questi i lati positivi, ma di certo non lo si può considerare un perfetto. Un po' per l'età, un po' per la disparità culturale (come sempre, è facile che sia un limite mio, non conosco abbastanza la cultura orientale da riuscire a comprendere a pieno certe opere) e un po' anche per il doppiaggio, il film si inceppa di tanto in tanto, con bruschi cali di ritmo e scene dalla rilevanza remota o incomprensibile. Non è quindi una visione che fila del tutto, ma qualcosa rimane, e non è del tutto piacevole.
In effetti le similitudini tra la due storie sono evidenti: un gruppo di ragazzi forzato in un ambiente ristretto e obbligato a combattesi alla morte per decretare l'unico sopravvissuto, con i protagonisti maschile e femminile che si alleano e poi sopravvivono in coppia. Questo elemento costituente basterebbe a dire che Hunger Games probabilmente deve qualcosa a Battle Royale, tuttavia l'interpretazione dello stesso fenomeno nei due universi narrativi cambia. Battle Royale non è classificabile come distopia, perché non c'è niente che porti a pensare che il mondo in cui si svolge sia in qualche modo diverso dal nostro. Semplicemente, in questo mondo, qualcuno ha deciso che fosse opportuno prendere una classe di un liceo e imporre ai suoi membri di uccidersi a vicenda.Non c'è bisogno di altre motivazioni, non c'è nessun regime e nessuna dimostrazione di forza, nessuno status quo da mantenere. In Battle Royale, semplicemente si sceglie di colpire i giovani, punirne uno per educarne cento, soltanto per invidia e rancore nei confronti di qualcuno che potrebbe essere meglio di come l'hai cresciuto. In questo film non c'è amore, o almeno non l'amore romantico, ma solo una qualche forma deviata di attaccamento; e c'è il suicidio, una scelta di morte frequente e in qualche modo nobile per molti che la scelgono (non solo all'interno della battaglia). Per questo Battle Royale è molto più crudo, non tanto per l'abbondanza di sangue e di scene similsplatter, ma perché mostra una realtà torbida, spietata, e paurosamente vicina alla nostra.
Questi i lati positivi, ma di certo non lo si può considerare un perfetto. Un po' per l'età, un po' per la disparità culturale (come sempre, è facile che sia un limite mio, non conosco abbastanza la cultura orientale da riuscire a comprendere a pieno certe opere) e un po' anche per il doppiaggio, il film si inceppa di tanto in tanto, con bruschi cali di ritmo e scene dalla rilevanza remota o incomprensibile. Non è quindi una visione che fila del tutto, ma qualcosa rimane, e non è del tutto piacevole.
Published on March 23, 2016 00:30
March 21, 2016
Finalista al Premio Italia! Ah, e anche al Premio Vegetti...
Un mesetto fa mi ero permesso di far presente che alcuni miei lavori erano candidabili all'edizione 2016 del
Premio Italia
, del quale era in corso la prima fase, quella della segnalazione da parte degli abilitati al voto. Lo spoglio delle segnalazioni si è concluso nei giorni scorsi, ed è emerso che Dimenticami Trovami Sognami è tra i cinque finalisti per il miglior romanzo di fantascienza italiano del 2015.È sicuramente un risultato importante, tanto per me (che tutto sommato sono degli ultimi arrivati nel settore della sf italiana) che per l'editore Zona 42 , che ha meritatamente ricevuto la candidatura per altre categorie, come miglior collana, miglior traduttore, migliore romanzo internazionale.
Questo non significa che abbia vinto nulla, perché adesso si passa alla seconda fase, in cui verrà chiesto ai partecipanti di scegliere uno tra i cinque finalisti, e credo che nella mia batteria ci sia almeno un avversario duro da battere (se mi stai leggendo, sai che parlo con te!). Ma al di là dell'esito finale, una cosa che mi piace notare è che questa edizione del Premio Italia è stata molto più partecipata delle precedenti, con un numero di votanti decisamente superiore alle precedenti, probabilmente grazie all'estensione della facoltà di voto a tutti i visitatori della fiera Stranimondi. Per questo sono molto contento che in quella che è l'edizione finora più "popolare" del premio, DTS sia riuscito ad emergere. Significa che il pubblico non solo ha apprezzato il libro, ma ha voluto manifestare in modo diretto (e con un certo impegno personale, come la partecipazione a eventi e ai meccanismi di voto, che non sono così semplici come potrebbe sembrare) il suo gradimento. Per me questo è un risultato molto più importante di qualunque stellina, perché forse sono riuscito in qualche misura a convincere i miei lettori a darmi sostegno, e magari anche a fidelizzarli, mettendo le basi per i prossimi progetti.
Nella lista per le altre categorie si può vedere come ho raccolto qua e là altre segnalazioni, principalmente per alcuni dei racconti che ho pubblicato nel corso dell'anno, ma ci sono addirittura tre coraggiosi che hanno segnalato questo stesso blog come "miglior sito web amatoriale", cosa che nemmeno io ho avuto il coraggio di fare! Queste nomination non hanno raggiunto il minimo necessario per accedere alla finale, ma sono comunque gradite attestazioni del mio lavoro, per cui ringrazio.
Colgo l'occasione per segnalare che in effetti DTS è presente anche tra i finalisti del Premio Vegetti , riconoscimento biennale assegnato da una giuria di esperti, a differenza del voto popolare di appassionati e addetti ai lavori con cui è assegnato il Premio Italia. La notizia risale a qualche mese fa, ma tra una cosa e l'altra mi era sfuggito di farlo presente, per cui rimedio ora.
Grazie ancora a tutti quanti mi hanno dato il loro supporto, e spero di potervi ringraziare anche personalmente durante la premiazione, che si svolgera a Bellaria all'interno della prossima Italcon.
Published on March 21, 2016 00:00
March 16, 2016
Coppi Night 13/03/2016 - Blindness
Toh, non sapevo che Saramango scrivesse fantascienza! No ok, non voglio ricominciare il discorso già fatto per Anna di Ammaniti, ma a mio avviso una storia in cui si immagina che un morbo non specificato renda cieca l'intera popolazione mondiale è per definizione ascrivibile alla fantascienza. Questioni di etichetta, certo, che non aggingono o tolgono niente al valore dell'opera. Quello che è ancora più strano è che non avessi mai sentito parlare di questo film del 2008, che se pure è una "produzione minore" di un regista brasiliano, ha un casto di tutto rispetto, che include Julian Moore e Mark Ruffalo. Possibile che l'adattamento di un libro tanto famoso e con personaggi così noti non mi fosse mai giunto all'orecchio?
In ogni caso, Blindness (che nella versione italiana avrebbero potuto farci la cortesia di tradurre letteralmente, per una volta) si è rivelato un film molto interessante. Non ho letto il romanzo quindi al di là della premessa iniziale non sapevo cosa aspettarmi. La storia segue alcuni dei primi "malati di cecità", accompagnati dalla moglie di un oculista (Julian Moore, appunto) che invece continua a vedere normalmente, ma mantiene il segreto. La trama si svolge quindi dal suo punto di vista (è il caso di dirlo), ovvero quello dell'elemento estraneo all'interno di una società che segue regole precise... il che è uno degli approcci tipici della fantascienza, mi verrebbe da dire, ma lasciamo stare. La cecità è inizialmente trattata come emergenza sanitaria, e in assenza di cause individuabili i nuovi ciechi sono quarantenati lontani dal resto della popolazione, obbligati a cavarsela da soli. Presto però il morbo si espande oltre le zone confinate e nel mondo non rimane più nessuno in grado di vedere. I protagonisti, una volta fuggiti dalla quarantena, si trovano in quello che appare come un classico scenario postapocalittico, con i sopravvissuti che si aggirano goffamente per le strade intasate di rifiuti alla ricerca di cibo... il che è un'immagine tipica della fantascienza, ma lasciamo stare.
Ma naturalmente il film (che a quanto mi si dice segue in modo abbastanza fedele il libro) non è una storia survivalista, quindi non si concentra tanto sul modo in cui ciechi possono trovare un posto nel mondo, quanto cerca di mostrare come i caratteri base della "natura umana" sono sempre gli stessi, indipendentemente dalle situazioni e capacità. Nella terra dei nuovi ciechi, chi era cieco già da prima è re, e chi finge di essere cieco può essere usurpatore, se lo vuole. Certo si può anche trovare un filo di retorica sull'inutilità delle apparenze, sul capire le persone per come sono dentro invece che fuori, ma il messaggio è ben più profondo e devo ben veicolato, con il giusto livello di drammaticità.
Quindi se come me non ne avevate mai sentito parlare, recuperatelo in fretta e guardatelo, finché ancora potete.
In ogni caso, Blindness (che nella versione italiana avrebbero potuto farci la cortesia di tradurre letteralmente, per una volta) si è rivelato un film molto interessante. Non ho letto il romanzo quindi al di là della premessa iniziale non sapevo cosa aspettarmi. La storia segue alcuni dei primi "malati di cecità", accompagnati dalla moglie di un oculista (Julian Moore, appunto) che invece continua a vedere normalmente, ma mantiene il segreto. La trama si svolge quindi dal suo punto di vista (è il caso di dirlo), ovvero quello dell'elemento estraneo all'interno di una società che segue regole precise... il che è uno degli approcci tipici della fantascienza, mi verrebbe da dire, ma lasciamo stare. La cecità è inizialmente trattata come emergenza sanitaria, e in assenza di cause individuabili i nuovi ciechi sono quarantenati lontani dal resto della popolazione, obbligati a cavarsela da soli. Presto però il morbo si espande oltre le zone confinate e nel mondo non rimane più nessuno in grado di vedere. I protagonisti, una volta fuggiti dalla quarantena, si trovano in quello che appare come un classico scenario postapocalittico, con i sopravvissuti che si aggirano goffamente per le strade intasate di rifiuti alla ricerca di cibo... il che è un'immagine tipica della fantascienza, ma lasciamo stare.Ma naturalmente il film (che a quanto mi si dice segue in modo abbastanza fedele il libro) non è una storia survivalista, quindi non si concentra tanto sul modo in cui ciechi possono trovare un posto nel mondo, quanto cerca di mostrare come i caratteri base della "natura umana" sono sempre gli stessi, indipendentemente dalle situazioni e capacità. Nella terra dei nuovi ciechi, chi era cieco già da prima è re, e chi finge di essere cieco può essere usurpatore, se lo vuole. Certo si può anche trovare un filo di retorica sull'inutilità delle apparenze, sul capire le persone per come sono dentro invece che fuori, ma il messaggio è ben più profondo e devo ben veicolato, con il giusto livello di drammaticità.
Quindi se come me non ne avevate mai sentito parlare, recuperatelo in fretta e guardatelo, finché ancora potete.
Published on March 16, 2016 11:37
March 14, 2016
Spore (videogioco)
Nel titolo specifico che l'argomento del post è il videogioco del 2008 e non la mia raccolta di racconti, per evitare che si pensi che sto facendo pubblicità, ma se volete prenderlo come un messaggio subliminale forse non siete così lontani dalla verità.
Spore
è un gioco rilasciato da Maxis su un'idea di Will Wright, il famoso inventore di Sim City e The Sims. Anche Spore è di fatto un gioco di simulazione, ma con un obiettivo ben più ambizioso dei suoi titoli precedenti: simulare l'intero percorso evolutivo di una specie intelligente. Questo percorso è diviso in cinque fasi, ben distinte secondo meccaniche di gioco e obiettivi diversi:Fase cellula: il giocatore controlla una cellula in un ambiente marino nel quale si stanno sviluppando le prime forme di vita. A seconda che si tratti di un una cellula ebrivora o carnivora (la scelta viene posta all'avvio della partita), dovrà difendersi o cacciare le altre cellule, accrescendosi e aumentando le proprie capacità (velocità, agilità, attacco) in base al numero di "punti DNA" raccolti. La fase si conclude quando, raggiunta la dimensione massima, la cellula sviluppa una forma rudimentale di intelligenza e abbandona quindi l'ambiente marino emergendo in superficie.Fase creatura: la cellula mette le gambe e comincia a calcare il suolo. Anche qui deve raccogliere punti DNA interagendo con le altre creature, ma il tipo di rapporti si fa molto più complesso. È possibile infatti interagire in maniera amichevole o aggressiva, farsi amiche altre specie o eliminarle completamente. Con l'accumulo dei punti DNA il livello di intelligenza della creatura cresce, così come l'esplorazione del mondo consente di "scoprire" nuove parti del corpo da poter evolvere e aggiungere alla propria creatura.Fase tribù: la creatura, ormai diventata una specie intelligente, si organizza in una forma rudimentale di civiltà, e il giocatore deve così controllare non più un singolo animale ma tutti i membri della tribù. L'obiettivo è quello di confrontarsi con le altre tribù presente, anche qui radendole al suolo o facendosele amiche. In base al tipo di gioco condotto, saranno disponibili opzioni diverse di personalizzazione della tribù.Fase civiltà: ormai diventata la specie dominante del pianeta, il giocatore dovrà scontrarsi con altre nazioni, e arrivare a conquistare l'intero pianeta. Partendo da una sola città deve conquistare le altre, tramite la guerra, il commercio o la religione.Fase spazio: ottenuto il controllo completo del pianeta, si passa a esplorare gli altri a bordo di un'astronave, per entrare in contatto con altre civiltà e scoprire i segreti del cosmo. Si tratta della fase finale del gioco e in tipico stile Will Wright non ha di fatto un obiettivo finale: si tratta di un sandbox in cui si può continuare ad andare avanti esplorando, svolgendo missioni e interagendo con le altre specie finché se ne ha voglia. Le possibilità di questa fase sono pressoché infinte perché si ha a disposizione un'intera galassia, con mezzo milione di sistemi esplorabili, molti dei quali abitati.
Spore è quindi un gioco vasto e variegato, in grado di trattenere il giocatore per ore e ore su una singola partita. Ma al di là del gioco in sé, una delle caratteristiche più interessanti è la possibilità di personalizzare pressoché ogni aspetto della partita. I diversi "creator" permettono infatti di creare e modificare creature, edifici, veicoli, astronavi, addirittura le musiche: tutte realizzazioni che poi compariranno all'interno del gioco casualmente. Non solo: le creazioni possono essere importate ed esportate verso gli altri giocatori, si può così arricchire la propria Sporepedia con migliaia di elementi creati da altri e giocare con questi, oppure vederli spuntare casualmente nelle proprie partite. I creator sono disponibili anche all'esterno delle partite, ed è quindi possibile dedicarsi unicamente alla creazione di animali e costruzioni senza mai impiegarli direttamente. In effetti, all'epoca in cui il gioco era ancora recentemente nuovo, la comunità di Spore era molto attiva e c'erano decine di Sporecast attivi che aggiornavano tutti i giocatori con le ultime migliori creazioni.
Ma c'è anche un altro aspetto molto importante e innovativo, che però emerge solo dopo diverse partite, ovvero la coerenza interna del gioco. La schermata iniziale propone una serie di pianeti all'interno della Galassia sui quali iniziare una partita (è possibile anche iniziare dalle fasi sucessive alla cellula) e la loro posizione non è rappresentativa ma reale e consistente con tutte le altre partite avviate. Questo significa che, una volta raggiunta la fase spaziale, si può arrivare a visitare il pianeta su cui si sta giocando la partita con una specie diversa e interagire con questa o le altre vicine. L'interconnessione diventa evidente soltanto nella fase spaziale, quando si può lasciare il proprio angolo di galassia e visitare i mondi esterni, ma una volta scoperta rende il gioco estremamente dinamico. Proprio come in The Sims, in cui ogni famiglia era una partita a sé, ma compariva anche giocando con tutte le altre, in Spore avviene la stessa cosa... solo che le famiglie sono potenzialmente cinquecentomila. Inoltre, nonostante ogni partita sia una storia a sé, poiché segue lo sviluppo di una creatura su un pianeta in una parte della Galassia, ci sono anche delle tematiche di fondo che sviluppano una sorta di arco narrativo, che sono l'origine della vita (e le diverse interpretazioni di questo mistero, religiose o scientifiche: le spore o Spode?) e il conflitto con i Grox, una specie cyborg ostile che ocucpa la parte centrale della Galassia e il cui obiettivo finale è l'eliminazione di tutta la vita. Oltre a tutto questo ci sono centinaia e centinaia di oggetti, tesori, collezioni, trofei e easter egg (come la posizione del Sistema di Sol e della Terra), così che per arrivare a completare Spore al 100% sono necessarie svariate centinaia di ore di gioco.
Un paio di anni dopo l'uscita del gioco originale è uscita l'espansione Galactic Adventures che seguendo le numerose richieste dei giocatori, che chiedevano una maggior possibilità di intervento nella fase spaziale, e in particolare la possibilità di visitare "di persona" gli altri pianeti, ha introdotto una nuova modalità di gioco nell'ultima fase: le avventure. Si tratta in pratica di "quest" di diverso tipo che il giocatore, una volta arrivato su un pianeta, può svolgere in prima persona, scendendo dall'astronave e muovendosi nel mondo. Anche le avventure sono un elemento personalizzabile, e così oltre al pack iniziale fornito da Maxis erano gli altri giocatori a crearle e distribuirle all'interno della community. Inoltre per ogni avventura era disponibile una classifica con i punteggi migliori dei giocatori aggiornata in tempo reale, che contribuiva a creare competizione sia per la progettazione che per l'esecuzione di nuove avventure.
Parlo al passato perché purtroppo Spore ha subito la normale obsolescenza di tutti i prodotti di intrattenimento, e i suoi sviluppatori hanno progressivamente perso interesse nel suo mantenimento. Per questo a fine 2013 i server che ospitavano le creazioni e gli Sporecast sono stati disattivati, impedendo quindi lo scambio di creazioni e soprattutto delle avventure, che avevano senso solo all'interno della community. Per i giocatori affezionati la perdita è stata enorme, tuttavia il gioco è perfettamente funzionante in single player e garantisce comunque partite lunghe e diversificate. Tecniamente, l'unico modo di "finire" il gioco è conquistare tutto il mezzo milione di sistemi solari della Galassia, ma è un'impresa decisamente impegnativa. Non che non ci sia chi l'ha fatto davvero...
Bisogna riconoscere che Spore fallisce terribilmente nel rappresentare l'evoluizone, poiché mostra un percorso lineare a partire da una singola cellula, con più specie diverse apparentemente originate da altrettante cellule iniziali. Non c'è quindi una vera e propria differenziazione e nessuna speciazione, è sempre un solo organismo a differenziarsi. Se si tiene presente questo, e quindi non lo si usa come base per tenere lezioni alle scuole medie, allora Spore rimane prodotto di ottimo livello, anche grazie allo stile "cartoon" e all'umorismo presente in tutte le fasi del gioco. Insomma, è davvero difficile che Spore possa venire a noia, viste le possibilità poco meno che infinite. Ed è una cosa che si può dire davvero di pochissimi giochi.
Spore
è un gioco rilasciato da Maxis su un'idea di Will Wright, il famoso inventore di Sim City e The Sims. Anche Spore è di fatto un gioco di simulazione, ma con un obiettivo ben più ambizioso dei suoi titoli precedenti: simulare l'intero percorso evolutivo di una specie intelligente. Questo percorso è diviso in cinque fasi, ben distinte secondo meccaniche di gioco e obiettivi diversi:Fase cellula: il giocatore controlla una cellula in un ambiente marino nel quale si stanno sviluppando le prime forme di vita. A seconda che si tratti di un una cellula ebrivora o carnivora (la scelta viene posta all'avvio della partita), dovrà difendersi o cacciare le altre cellule, accrescendosi e aumentando le proprie capacità (velocità, agilità, attacco) in base al numero di "punti DNA" raccolti. La fase si conclude quando, raggiunta la dimensione massima, la cellula sviluppa una forma rudimentale di intelligenza e abbandona quindi l'ambiente marino emergendo in superficie.Fase creatura: la cellula mette le gambe e comincia a calcare il suolo. Anche qui deve raccogliere punti DNA interagendo con le altre creature, ma il tipo di rapporti si fa molto più complesso. È possibile infatti interagire in maniera amichevole o aggressiva, farsi amiche altre specie o eliminarle completamente. Con l'accumulo dei punti DNA il livello di intelligenza della creatura cresce, così come l'esplorazione del mondo consente di "scoprire" nuove parti del corpo da poter evolvere e aggiungere alla propria creatura.Fase tribù: la creatura, ormai diventata una specie intelligente, si organizza in una forma rudimentale di civiltà, e il giocatore deve così controllare non più un singolo animale ma tutti i membri della tribù. L'obiettivo è quello di confrontarsi con le altre tribù presente, anche qui radendole al suolo o facendosele amiche. In base al tipo di gioco condotto, saranno disponibili opzioni diverse di personalizzazione della tribù.Fase civiltà: ormai diventata la specie dominante del pianeta, il giocatore dovrà scontrarsi con altre nazioni, e arrivare a conquistare l'intero pianeta. Partendo da una sola città deve conquistare le altre, tramite la guerra, il commercio o la religione.Fase spazio: ottenuto il controllo completo del pianeta, si passa a esplorare gli altri a bordo di un'astronave, per entrare in contatto con altre civiltà e scoprire i segreti del cosmo. Si tratta della fase finale del gioco e in tipico stile Will Wright non ha di fatto un obiettivo finale: si tratta di un sandbox in cui si può continuare ad andare avanti esplorando, svolgendo missioni e interagendo con le altre specie finché se ne ha voglia. Le possibilità di questa fase sono pressoché infinte perché si ha a disposizione un'intera galassia, con mezzo milione di sistemi esplorabili, molti dei quali abitati.
Spore è quindi un gioco vasto e variegato, in grado di trattenere il giocatore per ore e ore su una singola partita. Ma al di là del gioco in sé, una delle caratteristiche più interessanti è la possibilità di personalizzare pressoché ogni aspetto della partita. I diversi "creator" permettono infatti di creare e modificare creature, edifici, veicoli, astronavi, addirittura le musiche: tutte realizzazioni che poi compariranno all'interno del gioco casualmente. Non solo: le creazioni possono essere importate ed esportate verso gli altri giocatori, si può così arricchire la propria Sporepedia con migliaia di elementi creati da altri e giocare con questi, oppure vederli spuntare casualmente nelle proprie partite. I creator sono disponibili anche all'esterno delle partite, ed è quindi possibile dedicarsi unicamente alla creazione di animali e costruzioni senza mai impiegarli direttamente. In effetti, all'epoca in cui il gioco era ancora recentemente nuovo, la comunità di Spore era molto attiva e c'erano decine di Sporecast attivi che aggiornavano tutti i giocatori con le ultime migliori creazioni.Ma c'è anche un altro aspetto molto importante e innovativo, che però emerge solo dopo diverse partite, ovvero la coerenza interna del gioco. La schermata iniziale propone una serie di pianeti all'interno della Galassia sui quali iniziare una partita (è possibile anche iniziare dalle fasi sucessive alla cellula) e la loro posizione non è rappresentativa ma reale e consistente con tutte le altre partite avviate. Questo significa che, una volta raggiunta la fase spaziale, si può arrivare a visitare il pianeta su cui si sta giocando la partita con una specie diversa e interagire con questa o le altre vicine. L'interconnessione diventa evidente soltanto nella fase spaziale, quando si può lasciare il proprio angolo di galassia e visitare i mondi esterni, ma una volta scoperta rende il gioco estremamente dinamico. Proprio come in The Sims, in cui ogni famiglia era una partita a sé, ma compariva anche giocando con tutte le altre, in Spore avviene la stessa cosa... solo che le famiglie sono potenzialmente cinquecentomila. Inoltre, nonostante ogni partita sia una storia a sé, poiché segue lo sviluppo di una creatura su un pianeta in una parte della Galassia, ci sono anche delle tematiche di fondo che sviluppano una sorta di arco narrativo, che sono l'origine della vita (e le diverse interpretazioni di questo mistero, religiose o scientifiche: le spore o Spode?) e il conflitto con i Grox, una specie cyborg ostile che ocucpa la parte centrale della Galassia e il cui obiettivo finale è l'eliminazione di tutta la vita. Oltre a tutto questo ci sono centinaia e centinaia di oggetti, tesori, collezioni, trofei e easter egg (come la posizione del Sistema di Sol e della Terra), così che per arrivare a completare Spore al 100% sono necessarie svariate centinaia di ore di gioco.
Un paio di anni dopo l'uscita del gioco originale è uscita l'espansione Galactic Adventures che seguendo le numerose richieste dei giocatori, che chiedevano una maggior possibilità di intervento nella fase spaziale, e in particolare la possibilità di visitare "di persona" gli altri pianeti, ha introdotto una nuova modalità di gioco nell'ultima fase: le avventure. Si tratta in pratica di "quest" di diverso tipo che il giocatore, una volta arrivato su un pianeta, può svolgere in prima persona, scendendo dall'astronave e muovendosi nel mondo. Anche le avventure sono un elemento personalizzabile, e così oltre al pack iniziale fornito da Maxis erano gli altri giocatori a crearle e distribuirle all'interno della community. Inoltre per ogni avventura era disponibile una classifica con i punteggi migliori dei giocatori aggiornata in tempo reale, che contribuiva a creare competizione sia per la progettazione che per l'esecuzione di nuove avventure.
Parlo al passato perché purtroppo Spore ha subito la normale obsolescenza di tutti i prodotti di intrattenimento, e i suoi sviluppatori hanno progressivamente perso interesse nel suo mantenimento. Per questo a fine 2013 i server che ospitavano le creazioni e gli Sporecast sono stati disattivati, impedendo quindi lo scambio di creazioni e soprattutto delle avventure, che avevano senso solo all'interno della community. Per i giocatori affezionati la perdita è stata enorme, tuttavia il gioco è perfettamente funzionante in single player e garantisce comunque partite lunghe e diversificate. Tecniamente, l'unico modo di "finire" il gioco è conquistare tutto il mezzo milione di sistemi solari della Galassia, ma è un'impresa decisamente impegnativa. Non che non ci sia chi l'ha fatto davvero...
Bisogna riconoscere che Spore fallisce terribilmente nel rappresentare l'evoluizone, poiché mostra un percorso lineare a partire da una singola cellula, con più specie diverse apparentemente originate da altrettante cellule iniziali. Non c'è quindi una vera e propria differenziazione e nessuna speciazione, è sempre un solo organismo a differenziarsi. Se si tiene presente questo, e quindi non lo si usa come base per tenere lezioni alle scuole medie, allora Spore rimane prodotto di ottimo livello, anche grazie allo stile "cartoon" e all'umorismo presente in tutte le fasi del gioco. Insomma, è davvero difficile che Spore possa venire a noia, viste le possibilità poco meno che infinite. Ed è una cosa che si può dire davvero di pochissimi giochi.
Published on March 14, 2016 00:00
March 11, 2016
Coppi Night 06/03/2016 - Spy
Di film brutti per il Coppi Club se ne sono visti, negli anni (e si parla di una cosa che va avanti all'incirca dal 2008). Abbiamo visto roba come Green Lantern o
Uomini uomini uomini
, Coffee and Cigarettes o
Asso
. Ma credo si possa dire che Spy, film del 2015 di Paul Feig con Jude Law e Jason Statham, si guadagna una posizione sul podio del peggio del peggio.
I nomi noti e di un certo rilievo nel cast ci hanno ingannato, portandoci a credere che fosse sì un film con intenti parodistici, ma tutto sommato sopportabile. Purtroppo il tono è tutt'altro: se anche si può pensare che ci sia della parodia nei confronti del genere spionistico, l'operazione è eseguita così grossolanamente che siamo più vicini alla farsa. Spy è in realtà la storia di un'agente (notare l'apostrofo) dei servizi segreti, che per anni ha fatto da assisente in remoto a un agente sul campo, ma è poi costretta a passare lei stessa in azione. L'agente di cui parliamo è interpretata da Melissa McCarthy, attrice-musa di Paul Feig, che essendo visibilmente grassa è ovviamente per questo motivo già una parodia di per sé. Ah ah, è una cicciona, capito? *gomitata complice*
Ma le brutture del film non si fermano qui. Per tutta la durata della storia assistiamo a una serie di gag basse, gratuitamente volgari, roba che il Bagaglino faceva trentacinque anni fa e già puzzava di ancienne regime. In alcuni casi pare di assistere letteralmente a un cinepanettone, oppure a Boris (chiaramente senza nessun elemento di metatestualità). Roba tipo questa:
Peti, merda, vomito, e selfie con l'uccello di fuori: non manca niente e di per sé non sarebbe un problema, siamo adulti e non ci scandalizziamo per un pene mostrato più e più volte in primo piano. Il problema è che, appunto come nei nostri cari film di natale, queste cose sono poste senza nessun contesto, come se la loro sola presenza bastasse a reggere lo sketch. Anche quando non ci si appoggia sulla volgarità, si assiste a battute e situazioni stantie e imbarazzanti, nel senso che io provavo empaticamente vergogna per coloro che questo film lo hanno realizzato ed erano convinti di fare qualcosa di forte. Gli unici due mezzi sorrisi me li ha strappati Statham, con il suo personaggio dell'agente estremo e i racconti delle torture da lui sopportate. Ma sei secondi con un angolo della bocca storto non bastano a redimere le oltre due ore di film.
Per quanto riguarda la trama non c'è molto da dire, un continuo spostamento da una città all'altra, qualche inseguimento e sparatoria, il cliché dell'agente imbranato che però le azzecca (come se non lo avessimo già visto con tutte le pallottole spuntate, gli Austin Powers, Mr. Bean e Steve Carrel...), qualche supposto twist che invece serve solo come intermezzo tra uno sbadiglio e un sospiro, e la voglia che tutto finisca presto, ti prego, dimmi che è il confronto finale, basta, fate esplodere quella bomba nucleare e facciamola finita tutti.
Una cosa che si può percepire, e che è in linea con la carriera del regista Paul Feig, è come il film sia concepito per un pubblico femminile (o almeno, il pubblico femminile che i produttori vogliono vada al cinema), non solo perché i protagonisti sono tutti donne, ma anche per il taglio e l'oggetto delle battute. È una strategia ormai affermata quella di Feig di "femminilizzare" alcuni generi di film, come ha fatto con Le amiche della sposa e Corpi da reato, e sta per fare anche con Ghostbusters. Peccato che non si tratti di emancipazione, di dare a una donna un ruolo che è di solito pensato per un uomo, ma di un inquadramento in stereotipi che sono solo diversi da quelli ordinari, ma sempre stereotipi sono, e pertanto parimenti avvilenti.
È alla luce di questo film che ho reinterpretato il trailer del nuovo Ghostbusters appena uscito, e capito di che genere di film si tratta. L'idea degli acchiappafantasmi è solo un contesto nuovo in cui sviluppare gli stessi stereotipi e sketch da cabaret. E intendo cabaret tipo Colorado.
I nomi noti e di un certo rilievo nel cast ci hanno ingannato, portandoci a credere che fosse sì un film con intenti parodistici, ma tutto sommato sopportabile. Purtroppo il tono è tutt'altro: se anche si può pensare che ci sia della parodia nei confronti del genere spionistico, l'operazione è eseguita così grossolanamente che siamo più vicini alla farsa. Spy è in realtà la storia di un'agente (notare l'apostrofo) dei servizi segreti, che per anni ha fatto da assisente in remoto a un agente sul campo, ma è poi costretta a passare lei stessa in azione. L'agente di cui parliamo è interpretata da Melissa McCarthy, attrice-musa di Paul Feig, che essendo visibilmente grassa è ovviamente per questo motivo già una parodia di per sé. Ah ah, è una cicciona, capito? *gomitata complice*Ma le brutture del film non si fermano qui. Per tutta la durata della storia assistiamo a una serie di gag basse, gratuitamente volgari, roba che il Bagaglino faceva trentacinque anni fa e già puzzava di ancienne regime. In alcuni casi pare di assistere letteralmente a un cinepanettone, oppure a Boris (chiaramente senza nessun elemento di metatestualità). Roba tipo questa:
Peti, merda, vomito, e selfie con l'uccello di fuori: non manca niente e di per sé non sarebbe un problema, siamo adulti e non ci scandalizziamo per un pene mostrato più e più volte in primo piano. Il problema è che, appunto come nei nostri cari film di natale, queste cose sono poste senza nessun contesto, come se la loro sola presenza bastasse a reggere lo sketch. Anche quando non ci si appoggia sulla volgarità, si assiste a battute e situazioni stantie e imbarazzanti, nel senso che io provavo empaticamente vergogna per coloro che questo film lo hanno realizzato ed erano convinti di fare qualcosa di forte. Gli unici due mezzi sorrisi me li ha strappati Statham, con il suo personaggio dell'agente estremo e i racconti delle torture da lui sopportate. Ma sei secondi con un angolo della bocca storto non bastano a redimere le oltre due ore di film.
Per quanto riguarda la trama non c'è molto da dire, un continuo spostamento da una città all'altra, qualche inseguimento e sparatoria, il cliché dell'agente imbranato che però le azzecca (come se non lo avessimo già visto con tutte le pallottole spuntate, gli Austin Powers, Mr. Bean e Steve Carrel...), qualche supposto twist che invece serve solo come intermezzo tra uno sbadiglio e un sospiro, e la voglia che tutto finisca presto, ti prego, dimmi che è il confronto finale, basta, fate esplodere quella bomba nucleare e facciamola finita tutti.
Una cosa che si può percepire, e che è in linea con la carriera del regista Paul Feig, è come il film sia concepito per un pubblico femminile (o almeno, il pubblico femminile che i produttori vogliono vada al cinema), non solo perché i protagonisti sono tutti donne, ma anche per il taglio e l'oggetto delle battute. È una strategia ormai affermata quella di Feig di "femminilizzare" alcuni generi di film, come ha fatto con Le amiche della sposa e Corpi da reato, e sta per fare anche con Ghostbusters. Peccato che non si tratti di emancipazione, di dare a una donna un ruolo che è di solito pensato per un uomo, ma di un inquadramento in stereotipi che sono solo diversi da quelli ordinari, ma sempre stereotipi sono, e pertanto parimenti avvilenti.
È alla luce di questo film che ho reinterpretato il trailer del nuovo Ghostbusters appena uscito, e capito di che genere di film si tratta. L'idea degli acchiappafantasmi è solo un contesto nuovo in cui sviluppare gli stessi stereotipi e sketch da cabaret. E intendo cabaret tipo Colorado.
Published on March 11, 2016 01:00
March 5, 2016
Rapporto letture - Febbraio 2016
Mese di letture piuttosto variegate, che spaziano da classici a contemporanei, fantascienza con sfumature horror, supereroi, thriller e giallo, internazionali e italiani. Che altro volete?
Ho visto più volte e apprezzato Il villaggio dei dannati (almeno nella versione di Carpenter, non quella precedente), ma non avevo letto il libro di John Wyndham da cui è tratto. I figli dell'invasione (di cui mi piace molto il titolo originale: The Midwich Cuckoo) è un romanzo carico di tensione, a tratti decisamente inquietante, ma anche ricco di speculazione e spunti di riflessione. Il tema della "maternità surrogata" (da cui i cuculi del titolo), tanto attuale in queste settimane, è qui affrontato con precisione e serietà, ed è solo l'anticamera di un ben più profondo tentativo di affrontare l'altro, quell'intruso così simile ma pericolosamente diverso. È un libro che pone più questioni di quante ne risolve, e per questo risulta ancora molto attuale nonostante l'età. Voto: 8/10
Mettiamo da parte il fantastico e occupiamoci di un thriller senza fronzoli.
Legàmi
(occhio all'accento) di Gianni Leoni, autore dei Sognatori con cui ho avuto il piacere di condividere qualche bicchiere di vino (è questo che si fa tra autori, che credete?) è una storia a prima vista semplice, che coinvolge persone tutto sommato comuni: un ghost writer di successo, una prostituta di alto livello, il rampollo di buona famiglia, legati tra loro da un incrocio di relazioni non proprio limpide. La trama si apre come un'indagine sull'omicidio della donna, di cui si apprendono gradualmente i retroscena, e poco dopo metà un twist deciso cambia completamente la prospettiva di quanto si pensa fosse successo. La storia procede bene e appassione, anche se forse sarebbe stato interessante l'approfondimento di un paio di personaggi che sembrano rimanere troppo in secondo piano, nonostante il loro ruolo determinante. Voto: 7/10
Altro microscopico editore di genere italiano con le palle è La Ponga, di cui ho già parlato in qualche post precedente. Stavolta il libro in esame è
Testamento di una maschera
, romanzo di Stefano Tevini, scrittore, filosofo e wrestler (vi sfido a trovare un'altra combinazione di queste tre caratteristiche). Si tratta di una storia di supereroi italiani (tema in auge grazie a Lo chiamavano Jeeg Robot), che però affronta il fenomeno con un taglio diverso da quello a cui siamo abituati a concepire i personaggi. I metaumani infatti qui non sono combattenti solitari, ma strumenti politici, invischiati volontariamente o meno nei torbidi rapporti tra lo Stato e gli altri centri di potere. Il libro alterna una parte ambientata nel presente, con una squadra di metaumani (i Vigilantes) che cerca di affermare la propria posizione con le forze dell'ordine e le bande rivali, a una lunga confessione di un generale che è stato per decenni coinvolto nelle operazioni dei metaumani. Il contesto che ne emerge è molto interessante, perché reinterpreta molti fatti storici dalla prima guerra mondiale in poi (globali ma anche italiani) in chiave supereroistica, mostrando come la presenza di un singolo metaumano potesse cambiare le sorti di un intero conflitto, e come questo rappresenti un rischio per le potenze in lotta, che decidono così di incasellare e contenere il fenomeno. Forse però proprio la complessità di questo scenario è anche uno dei difetti del romanzo, perché lo scenario delineato è talmente ampio che se ne afferra appena un frammento, quando si capisce che ci sarebbe molto di più da raccontare e sapere. In questo senso, le azioni dei protagonisti, che pure segnano un punto di svolta epocale nella storia, passa a volte in secondo piano rispetto al testamento del titolo, che copre invece decenni di attività metaumane segrete. Un grandissimo potenziale quindi in questo libro, forse non pienamente sfruttato, ma chissà, espandibile con altri romanzi. Voto: 7/10
Uno pensa di arrivare a trent'anni avendo letto tutto quanto Isaac Asimov abbia scritto, e invece salta fuori che gli manca qualcosa. Non stiamo però parlando di fantascienza, ma della seconda occupazione dell'autore, il giallo. Murder at the ABA (per noi
Rompicapo in quattro giornate
) è un giallo ambientato interamente a una fiera dell'editoria. Il narratore è uno scrittore ispirato ad Harlan Ellison, che si trova coinvolto a risolvere l'enigma della morte di un collega, apparentemente accidentale, ma che lui è convinto trattarsi di un omicidio. Il protagonista incontra diversi personaggi (reali e inventati, tra i quali lo stesso Asimov) da cui raccoglie gli indizi che lo porteranno alla soluzione. Lo svolgimento delle indagini è abbastanza coinvolgente, anche se forse si dilunga troppo su alcuni aspetti secondari poco rilevanti (come il tempo che indugia a parlare di Asimov), in compenso alcune riflessioni sull'editoria (almeno quella della metà degli anni 70) aggiungono colore alla storia, che alla fine si risolve senza grosso clamore. Rimane una lettura piacevole anche se certo non mind-blowing come altri gialli (coi robot o senza) scritti dall'autore. Voto: 6.5/10
Ho visto più volte e apprezzato Il villaggio dei dannati (almeno nella versione di Carpenter, non quella precedente), ma non avevo letto il libro di John Wyndham da cui è tratto. I figli dell'invasione (di cui mi piace molto il titolo originale: The Midwich Cuckoo) è un romanzo carico di tensione, a tratti decisamente inquietante, ma anche ricco di speculazione e spunti di riflessione. Il tema della "maternità surrogata" (da cui i cuculi del titolo), tanto attuale in queste settimane, è qui affrontato con precisione e serietà, ed è solo l'anticamera di un ben più profondo tentativo di affrontare l'altro, quell'intruso così simile ma pericolosamente diverso. È un libro che pone più questioni di quante ne risolve, e per questo risulta ancora molto attuale nonostante l'età. Voto: 8/10
Mettiamo da parte il fantastico e occupiamoci di un thriller senza fronzoli.
Legàmi
(occhio all'accento) di Gianni Leoni, autore dei Sognatori con cui ho avuto il piacere di condividere qualche bicchiere di vino (è questo che si fa tra autori, che credete?) è una storia a prima vista semplice, che coinvolge persone tutto sommato comuni: un ghost writer di successo, una prostituta di alto livello, il rampollo di buona famiglia, legati tra loro da un incrocio di relazioni non proprio limpide. La trama si apre come un'indagine sull'omicidio della donna, di cui si apprendono gradualmente i retroscena, e poco dopo metà un twist deciso cambia completamente la prospettiva di quanto si pensa fosse successo. La storia procede bene e appassione, anche se forse sarebbe stato interessante l'approfondimento di un paio di personaggi che sembrano rimanere troppo in secondo piano, nonostante il loro ruolo determinante. Voto: 7/10
Altro microscopico editore di genere italiano con le palle è La Ponga, di cui ho già parlato in qualche post precedente. Stavolta il libro in esame è
Testamento di una maschera
, romanzo di Stefano Tevini, scrittore, filosofo e wrestler (vi sfido a trovare un'altra combinazione di queste tre caratteristiche). Si tratta di una storia di supereroi italiani (tema in auge grazie a Lo chiamavano Jeeg Robot), che però affronta il fenomeno con un taglio diverso da quello a cui siamo abituati a concepire i personaggi. I metaumani infatti qui non sono combattenti solitari, ma strumenti politici, invischiati volontariamente o meno nei torbidi rapporti tra lo Stato e gli altri centri di potere. Il libro alterna una parte ambientata nel presente, con una squadra di metaumani (i Vigilantes) che cerca di affermare la propria posizione con le forze dell'ordine e le bande rivali, a una lunga confessione di un generale che è stato per decenni coinvolto nelle operazioni dei metaumani. Il contesto che ne emerge è molto interessante, perché reinterpreta molti fatti storici dalla prima guerra mondiale in poi (globali ma anche italiani) in chiave supereroistica, mostrando come la presenza di un singolo metaumano potesse cambiare le sorti di un intero conflitto, e come questo rappresenti un rischio per le potenze in lotta, che decidono così di incasellare e contenere il fenomeno. Forse però proprio la complessità di questo scenario è anche uno dei difetti del romanzo, perché lo scenario delineato è talmente ampio che se ne afferra appena un frammento, quando si capisce che ci sarebbe molto di più da raccontare e sapere. In questo senso, le azioni dei protagonisti, che pure segnano un punto di svolta epocale nella storia, passa a volte in secondo piano rispetto al testamento del titolo, che copre invece decenni di attività metaumane segrete. Un grandissimo potenziale quindi in questo libro, forse non pienamente sfruttato, ma chissà, espandibile con altri romanzi. Voto: 7/10
Uno pensa di arrivare a trent'anni avendo letto tutto quanto Isaac Asimov abbia scritto, e invece salta fuori che gli manca qualcosa. Non stiamo però parlando di fantascienza, ma della seconda occupazione dell'autore, il giallo. Murder at the ABA (per noi
Rompicapo in quattro giornate
) è un giallo ambientato interamente a una fiera dell'editoria. Il narratore è uno scrittore ispirato ad Harlan Ellison, che si trova coinvolto a risolvere l'enigma della morte di un collega, apparentemente accidentale, ma che lui è convinto trattarsi di un omicidio. Il protagonista incontra diversi personaggi (reali e inventati, tra i quali lo stesso Asimov) da cui raccoglie gli indizi che lo porteranno alla soluzione. Lo svolgimento delle indagini è abbastanza coinvolgente, anche se forse si dilunga troppo su alcuni aspetti secondari poco rilevanti (come il tempo che indugia a parlare di Asimov), in compenso alcune riflessioni sull'editoria (almeno quella della metà degli anni 70) aggiungono colore alla storia, che alla fine si risolve senza grosso clamore. Rimane una lettura piacevole anche se certo non mind-blowing come altri gialli (coi robot o senza) scritti dall'autore. Voto: 6.5/10
Published on March 05, 2016 01:43
March 1, 2016
Coppi Night 28/02/2016 - Immortal ad vitam
Non mi aspettavo di poter mai parlare di questo film, perché non credevo che qualcuno avrebbe mai avuto il coraggio di proporlo durante il Coppi Club, ma complice la recente uscita di Gods of Egypt, l'interesse per le divinità egizie che interagiscono con gli uomini ha catturato l'attenzione, e sono riuscito finalmente a rivedere questo capolavoro.
Ok, quando dico "capolavoro" non intendo in senso letterale. Immortal ad vitam è senza dubbio un film particolare, ma sulla qualità complessiva ci sono diverse scuole di pensiero. Io sono portato a valutarlo in termini positivi, ma per una serie di ragioni che pendono pericolosamente verso il "so bad it's good".
Breve sinossi a beneficio di chi non conoscesse l'opera in questione. Il film è ambientato nel futuro (non so se è specificato l'anno), in una New York popolata da alieni, mutanti e androidi di varia natura. In più nel cielo compare una grande piramide, e da questa emerge Horus, che è tornato sulla Terra per accoppiarsi con un'umana e generare il suo erede. Per fare questo però deve impossessarsi del corpo di un uomo e trovare l'ospite giusto per il piccolo dio, che non può essere una donna qualsiasi. La sua attenzione si concentra su una ragazza dalle caratteristiche particolari che è assistita da un personaggio misterioso dal volto coperto. A questo si accavalla una trama sociopolitica di complotti e cacce all'uomo, per cui i due protagonisti si trovano a dover fuggire da una parte all'altra.
Per molti versi il film ricorda Il quinto elemento, a partire dall'ambientazione, fino ai punti essenziali del plot (la ragazza speciale, l'uomo d'azione, le forze superiori). Se però Il quinto elemento ha un tono leggero e favolistico, qui invece si tende a tinte più cupe, anche se non sempre in modo efficace, visto che in molte occasioni ci si trova di fronte a sequenze involontariamente comiche.
Un aspetto notevole di questo film è che girato in parte live action e in parte in animazione 3D, con modelli come quelli che si potevano ottenere all'inizio degli anni 2000. Alcuni personaggi sono interamente digitalizzati e si sovrappongono in alcune parti a quelli "reali", con un notevole effetto di straniamento. Ma a disorientare in modo più assoluto è la trama, che se in linea di massima segue quanto scritto sopra, nella sua esecuzione prende direzioni impreviste e incomprensibili. L'impressione è che il regista/autore Enki Bilal sia partito con un'idea di base, e poi si sia lasciato trascinare (anche dalla relativa facilità con cui poteva inserire elementi fantastici, grazie all'animazione 3D), infilandoci dentro tutto quello che gli veniva in mente, senza preoccuparsi della coerenza o plausibilità.
Il risultato finale è una sorta di pastiche fantascientifico/lisergico, un film da seguire senza chiedersi cosa o perché, ma se non un altro un'opera in grado di sorprendere (forse anche spiazzare) in più occasioni, e che rimane impressa. Non penso di poterne consigliare la visione con leggerezza, ma se volete vedere Anubi e Bastet giocare a monopoli, un bambino-falco che caccia piccioni, o un cacciatore di taglie-squalo martello-pandimensionale, allora questo è il film che fa per voi.
Ok, quando dico "capolavoro" non intendo in senso letterale. Immortal ad vitam è senza dubbio un film particolare, ma sulla qualità complessiva ci sono diverse scuole di pensiero. Io sono portato a valutarlo in termini positivi, ma per una serie di ragioni che pendono pericolosamente verso il "so bad it's good".Breve sinossi a beneficio di chi non conoscesse l'opera in questione. Il film è ambientato nel futuro (non so se è specificato l'anno), in una New York popolata da alieni, mutanti e androidi di varia natura. In più nel cielo compare una grande piramide, e da questa emerge Horus, che è tornato sulla Terra per accoppiarsi con un'umana e generare il suo erede. Per fare questo però deve impossessarsi del corpo di un uomo e trovare l'ospite giusto per il piccolo dio, che non può essere una donna qualsiasi. La sua attenzione si concentra su una ragazza dalle caratteristiche particolari che è assistita da un personaggio misterioso dal volto coperto. A questo si accavalla una trama sociopolitica di complotti e cacce all'uomo, per cui i due protagonisti si trovano a dover fuggire da una parte all'altra.
Per molti versi il film ricorda Il quinto elemento, a partire dall'ambientazione, fino ai punti essenziali del plot (la ragazza speciale, l'uomo d'azione, le forze superiori). Se però Il quinto elemento ha un tono leggero e favolistico, qui invece si tende a tinte più cupe, anche se non sempre in modo efficace, visto che in molte occasioni ci si trova di fronte a sequenze involontariamente comiche.
Un aspetto notevole di questo film è che girato in parte live action e in parte in animazione 3D, con modelli come quelli che si potevano ottenere all'inizio degli anni 2000. Alcuni personaggi sono interamente digitalizzati e si sovrappongono in alcune parti a quelli "reali", con un notevole effetto di straniamento. Ma a disorientare in modo più assoluto è la trama, che se in linea di massima segue quanto scritto sopra, nella sua esecuzione prende direzioni impreviste e incomprensibili. L'impressione è che il regista/autore Enki Bilal sia partito con un'idea di base, e poi si sia lasciato trascinare (anche dalla relativa facilità con cui poteva inserire elementi fantastici, grazie all'animazione 3D), infilandoci dentro tutto quello che gli veniva in mente, senza preoccuparsi della coerenza o plausibilità.
Il risultato finale è una sorta di pastiche fantascientifico/lisergico, un film da seguire senza chiedersi cosa o perché, ma se non un altro un'opera in grado di sorprendere (forse anche spiazzare) in più occasioni, e che rimane impressa. Non penso di poterne consigliare la visione con leggerezza, ma se volete vedere Anubi e Bastet giocare a monopoli, un bambino-falco che caccia piccioni, o un cacciatore di taglie-squalo martello-pandimensionale, allora questo è il film che fa per voi.
Published on March 01, 2016 23:10
February 25, 2016
Coppi Night 21/02/2016 - Matrimoni e pregiudizi
Ok, tecnicamente questa non è stata proprio una serata del Coppi Club, non per me. Costretto in casa da un'influenza particolarmente accanita, mi sono comunque arreso all'abitudine e ho comunque voluto guardare un film. E siccome in casa c'era il desiderio inespresso di vedersi qualcosa di bollywoodiano, dopo aver scartato kolossal come La sposa dell'imperatore in quanto di durata superiore ai 200 minuti, alla fine siamo finiti su un rappresentate meticcio di questo genere.
Mi sono fatto irretire dal titolo originale: Bride and Prejudice, che in un mumento di recrudescenza Austeniana dovuto agli zombie mi è sembrato particolarmente appropriato. Aggiungiamoci il fatto che nel cast c'è Naveen Andrews, che ho visto torturare a ammazzare gente sull'isola di Lost per sei anni, e il danno è fatto.
Parlo di danno perché, a conti fatti, questo film risulta davvero insipido. Non ho letto il romanzo della Austen, ma so più o meno la storia, e questo dovrebbe esserne l'adattamento contemporaneo e in salsa indiana. Il problema è che il film in realtà è americano, e destinato a un pubblico diverso da quello delle produzioni di Bollywood, per cui la componente tipica di questo tipo di film è molto marginale: giusto tre balletti, di cui due cantati in inglese, tutti nella prima metà del film, e per il resto ce ne stiamo a seguire la storia di questa affinità impossibile tra la giovane indiana e il rampollo americano, tra i quali è palese che non esista nessuna chimica e la cui unione non si capisce chi possa rendere felice (a parte la famiglia di lei, che diventa di conseguenza infinitamente ricca). Inoltre per essere una storia che punta molto sugli stereotipi che un occidentale può avere nei confronti di un indiano, non fa molto per liberarsi di questa patina di superficialità.
Senza la frivolezza e il colore che mi aspettavo da qualcosa di veramente bollywoodiano, rimane una commedia romantica come ne potete trovare tante con quegli attoretti di medio livello che di solito fanno da spalla a Vince Vaughn. A posteriori penso che avrei sopportato molto meglio i 201 minuti di Jodhaa Akbar.
Mi sono fatto irretire dal titolo originale: Bride and Prejudice, che in un mumento di recrudescenza Austeniana dovuto agli zombie mi è sembrato particolarmente appropriato. Aggiungiamoci il fatto che nel cast c'è Naveen Andrews, che ho visto torturare a ammazzare gente sull'isola di Lost per sei anni, e il danno è fatto.Parlo di danno perché, a conti fatti, questo film risulta davvero insipido. Non ho letto il romanzo della Austen, ma so più o meno la storia, e questo dovrebbe esserne l'adattamento contemporaneo e in salsa indiana. Il problema è che il film in realtà è americano, e destinato a un pubblico diverso da quello delle produzioni di Bollywood, per cui la componente tipica di questo tipo di film è molto marginale: giusto tre balletti, di cui due cantati in inglese, tutti nella prima metà del film, e per il resto ce ne stiamo a seguire la storia di questa affinità impossibile tra la giovane indiana e il rampollo americano, tra i quali è palese che non esista nessuna chimica e la cui unione non si capisce chi possa rendere felice (a parte la famiglia di lei, che diventa di conseguenza infinitamente ricca). Inoltre per essere una storia che punta molto sugli stereotipi che un occidentale può avere nei confronti di un indiano, non fa molto per liberarsi di questa patina di superficialità.
Senza la frivolezza e il colore che mi aspettavo da qualcosa di veramente bollywoodiano, rimane una commedia romantica come ne potete trovare tante con quegli attoretti di medio livello che di solito fanno da spalla a Vince Vaughn. A posteriori penso che avrei sopportato molto meglio i 201 minuti di Jodhaa Akbar.
Published on February 25, 2016 00:00
February 20, 2016
Candidature al Premio Italia 2016
Se siete di quelli che bazzicano il sottobosco della fantascienza italiana (e se non lo siete, che ci fate qui?), probailmente sapete che sono aperte in queste giorni le candidature per il
Premio Italia 2016
. Il Premio Italia è il riconoscimento assegnato annualmente dalla sezione italiana della WorldSF, riservato a tutti gli operatori del settore (autori, curatori, illustratori, e così via), la cui premiazione avviene nel corso dell'
Italcon
(o comunque si chiami ora). Il Premio prevede numerose categorie, dal romanzo all'antologia, dalla collana alla serie tv, dalla fanzine al saggio. Le votazioni si svolgono in due fasi, con un primo round di segnalazioni e una successiva votazione sui finalisti che hanno ricevuto più nomination.
Viste le mie attività, è da qualche anno che da un verso o dall'altro rientro tra i candidabili, e anche nel 2015 ho segnato qualche punto. Dato che la fase di segnalazione è iniziata pochi giorni fa, mi permetto di indicare le categorie nelle quali ritengo di essere nominabile.
Naturalmente, il 2015 è stato l'anno in cui è uscito Dimenticami Trovami Sognami , il mio primo romanzo pubblicato da Zona42, che ha riscontrato un discreto successo, almeno a giudicare dalla recension comparse negli ultimi mesi. DTS è candidabile come miglior romanzo italiano di fantascienza. Di DTS, volendo, potete anche votare la copertina come migliore illustrazione.
Se interpreto bene il regolamento, ci sono anche alcuni racconti usciti nel corso dell'anno che rispettano i criteri di candidabilità. Miriferisco a:
Pixel
, pubblicato sul numero 5 della rivista Futuri
La muta
, pubblicato su Parallàxis n. 4
Placebo
uscito per Delos DigitalLamarckia, incluso nella raccolta Aspettando Mondi Incantati 2015 (RiLL)
Tutti questi dovrebbero rientrare nella categoria miglior racconto su pubblicazione professionale. Dico dovrebbero perché non sono del tutto sicuro che queste pubblicazioni siano tutte considerabili professionali. A mio avviso sì, e in ogni caso il regolamento ha una certa fluidità. In alternativa si può comunque optare anche per la categoria miglior racconto su pubblicazione amatariole.
Infine, probabilmente potreste segnalare anche Unknown to Millions , cioè questo stesso blog, nella sezione sito web amatoriale. Presumo che un blog sia a pieno titolo considerabile un sito web, per cui se ritenete che la fantascienza sia ben argomentata qui dentro, fatelo presente.
Le votazioni del Premio Italia sono aperte a tutti gli iscritta della WorldSF Italia e a chi ha partecipato ad almeno una Italcon negli ultimi anni. Ma la novità di quest'anno è che il voto è esteso anche a tutti coloro che hanno partecipato al festival Stranimondi ad ottobre, e visto che di gente ce n'era, questo dovrebbe ampliare la base di voto.
Facendo un ragionamento terra-terra e obiettivo, mi aspetto che DTS rientri per lo meno tra i candidati finali, perché si è trattato sicuramente di uno dei titoli di cui si è parlato di più nell'ultimo anno. Purtroppo l'equivalenza tra lettori e abilitati al voto per il Premio Italia non è perfetta, per cui è possibile che molti di quanti hanno letto e apprezzato il libro, non sappiano, non possano o non vogliano votare.
Certo ogni contributo sarà gradito, quindi se avete ricevuto la mail per la richiesta di voto, ricordatevi che le nomination sono inviabili fino al 15 marzo. Grazie per l'attenzione, e a buon rendere!
Viste le mie attività, è da qualche anno che da un verso o dall'altro rientro tra i candidabili, e anche nel 2015 ho segnato qualche punto. Dato che la fase di segnalazione è iniziata pochi giorni fa, mi permetto di indicare le categorie nelle quali ritengo di essere nominabile.
Naturalmente, il 2015 è stato l'anno in cui è uscito Dimenticami Trovami Sognami , il mio primo romanzo pubblicato da Zona42, che ha riscontrato un discreto successo, almeno a giudicare dalla recension comparse negli ultimi mesi. DTS è candidabile come miglior romanzo italiano di fantascienza. Di DTS, volendo, potete anche votare la copertina come migliore illustrazione.
Se interpreto bene il regolamento, ci sono anche alcuni racconti usciti nel corso dell'anno che rispettano i criteri di candidabilità. Miriferisco a:
Pixel
, pubblicato sul numero 5 della rivista Futuri
La muta
, pubblicato su Parallàxis n. 4
Placebo
uscito per Delos DigitalLamarckia, incluso nella raccolta Aspettando Mondi Incantati 2015 (RiLL)
Tutti questi dovrebbero rientrare nella categoria miglior racconto su pubblicazione professionale. Dico dovrebbero perché non sono del tutto sicuro che queste pubblicazioni siano tutte considerabili professionali. A mio avviso sì, e in ogni caso il regolamento ha una certa fluidità. In alternativa si può comunque optare anche per la categoria miglior racconto su pubblicazione amatariole.Infine, probabilmente potreste segnalare anche Unknown to Millions , cioè questo stesso blog, nella sezione sito web amatoriale. Presumo che un blog sia a pieno titolo considerabile un sito web, per cui se ritenete che la fantascienza sia ben argomentata qui dentro, fatelo presente.
Le votazioni del Premio Italia sono aperte a tutti gli iscritta della WorldSF Italia e a chi ha partecipato ad almeno una Italcon negli ultimi anni. Ma la novità di quest'anno è che il voto è esteso anche a tutti coloro che hanno partecipato al festival Stranimondi ad ottobre, e visto che di gente ce n'era, questo dovrebbe ampliare la base di voto.Facendo un ragionamento terra-terra e obiettivo, mi aspetto che DTS rientri per lo meno tra i candidati finali, perché si è trattato sicuramente di uno dei titoli di cui si è parlato di più nell'ultimo anno. Purtroppo l'equivalenza tra lettori e abilitati al voto per il Premio Italia non è perfetta, per cui è possibile che molti di quanti hanno letto e apprezzato il libro, non sappiano, non possano o non vogliano votare.
Certo ogni contributo sarà gradito, quindi se avete ricevuto la mail per la richiesta di voto, ricordatevi che le nomination sono inviabili fino al 15 marzo. Grazie per l'attenzione, e a buon rendere!
Published on February 20, 2016 02:23
February 17, 2016
Zooerastia for dummies
Se siete ancora su questo post dopo averne letto il titolo significa forse che siete aperti al dialogo su questo tema, o forse che non conoscete il termine. La zooerastia è la pratica del sesso con animali, definibile anche zoofilia, anche se questo termine ha un'accezione più ampia e non sempre include l'aspetto erotico. In questo post parleremo specificamente del sesso tra uomini e animali, considerando i due termini sinonimi per comodità. Pertanto, se non conoscevate la parola zooerastia, siete ancora in tempo ad andarvene.
Il motivo che mi spinge ad affrontare questo tema è che lo reputo molto interessante come punto di partenza per inquadrare il paradigma specista in cui la società umana (pressoché di qualunque epoca e regione) è immersa. E dopo la recensione di Mort(e) e della serie Zoo , mi sembra appropriato inserire a completamenteo questo post, per un'interessante rubrica dei rapporti uomo/animali. Quindi se anche l'idea vi repelle, seguitemi per qualche minuto, perché affronteremo il discorso da un punto di vista squisitamente accademico. Mi rendo conto che è un argomento delicato, che può urtare la sensibilità di molti, quindi cercherò di mantenere un tono neutrale e abbonderò di disclaimer.
La zoofilia è un fenomeno storicamente diffuso e documentato, e non serve andare a pescare ai primordi della civiltà, quando eravamo bruti con la clava, basta pensare alle nobili radici elleniche dell'Occidente, e ai numerosi miti di ibridazione tra uomini, dèi, e bestie. Ma ci sono anche testimonianze più antiche, come il bassorilievo di un tempio indiano che ricordo distintamente da un libro di storia che avevo alle medie. Anche nella Bibbia se ne parla, certo non in termini entusiastici; e tutti sappiamo come passano le giorante i pastori sardi, no? Questo non per fornire un quadro storico completo, che è sicuramente più complesso, ma solo per notare che il sesso con animali è un fatto da sempre esistente e noto. Qualcosa che, come specie, ci portiamo dietro da sempre (il che non vuol dire che sia una cosa giusta e auspicabile, sia chiaro: anche l'omicidio fa da sempre parte della natura umana).
Ora, quello che mi pare interessante, è notare che tecnicamente la zoofilia non è illegale, almeno nella maggior parte delle legislature moderne. Certo rimane una pratica antisociale, uno dei pochi taboo davvero feroci e radicati che in genere mettono d'accordo tutti, come possono essere la pedofilia e la coprofagia (ancora: non sto dando giudizi di merito su queste pratiche, sto solo esponendo aspetti oggettivi). Ma sono poche le Nazioni ad avere leggi specifiche che vietano il sesso tra uomini e animali. La ragione si può comprendere facilmente: a pensarci bene, la copula con un animale di per sé non reca danno a nessuno. Lo stesso discorso che vale ad esempio per il bondage o appunto la coprofagia, se praticate volontariamente.
Ecco però il punto: praticato volontariamente. Infatti, se anche la pratica non è illegale di suo, in tempi recenti episodi di zooerastia sono stati condannati in quanto equiparati a violenza sugli animali. Il cavillo dietro questi giudizi sta proprio nella volontarietà dell'atto. Oggigiorno, il limite di ciò che è sessualmente consentito è dato in pratica dall'unico parametro del consenso: due persone adulte e consenzienti possono fare ciò che vogliono tra di loro. Si considera quindi che l'animale sottoposto ad atti di zoofilia non sia consenziente, ma obbligato a subire una violenza. Pertanto, lo zoofilico non ha compiuto un reato per il fatto specifico di aver penetrato (o essersi fatto penetrare) dalla bestia, ma perché l'ha obbligata a farlo contro la sua volontà, in questo senso usandole violenza, al pari di una bastonata.
Qui però si pongono un paio di problemi. Innanzitutto, rimane tutto da stabilire se è vero che l'animale non sia consenziente all'atto. La zooerastia si esprime in genere con mammiferi, se non altro per la pratica similarità degli apparati riproduttivi. Gli animali "preferiti" sono in genere quelli più vicini all'uomo, domestici o da fattoria: cani, gatti, equini, suini, ovini, bovini e così via. Difficilmente si può praticare sesso con una lucertola o una poiana, per evidenti limiti tecnici. Ne consegue quindi che a subire l'atto sono animali con cui le persone hanno un rapporto di qualche tipo. Siamo davvero sicuri quindi che le bestie siano contrarie al rapporto? D'altra parte la masturbazione è praticata da molti di questi animali, e il cagnolino che si aggrappa alla gamba è così comune da diventare protagonista di tante barzellette. Nel momento in cui il cane, a tutti gli effetti, sta cercando di accoppiarsi con l'umani, si può ancora affermare che da parte sua non ci sia quel consenso che è il requisito essenziale per un rapporto sessuale legale?
Certo, si può obiettare che questi comportamenti siano sfoghi sessuali che niente hanno a che vedere con la reale volontà dell'animale di fare sesso. Ma in questo caso, l'argomentazione stessa del consenso decade, perché non si può pretendere che il cane (o qualunque altro) manifesti il consenso al sesso in un certo modo, ma al tempo stesso non lo stia esprimendo quando è lui a proporlo. In realtà, la definizione stessa di consenso al rapporto perde di chiarezza quando si parla di una creatura che utilizza schemi mentali differenti, e che si presume essere priva di quella malizia che contraddistingue invece la specie (e la civiltà) umana. Per una capra, venire penetrata da un umano può essere qualcosa di totalmente irrilevante, o può rappresentare un efficace metodo di consolidamento del rapporto con il padrone, o addirittura può essere fisicamente piacevole. Non voglio invitarvi a cercare pornogrfia con animali, ma, se esiste, bisogna che il meccanismo funzioni da entrambe le parti...
Quindi, l'idea che l'atto sessuale sia forzato e violento per l'animale è difficilmente dimostrabile. Ma anche se questo fosse accertato, c'è un'altra questione che si pone, più subdola ma decisamente più rilevante. Infatti, se il nodo da sciogliere è quello della coercizione, allora è necessario mettere in discussione praticamente tutti i rapporti esistenti tra uomo e animale. Si può infatti dubitare che un maiale abbia espresso il suo consenso a diventare mortadella, che una vacca sia favorevole ad essere munta, che un cane non muova obiezioni a essere castrato. È facile riconoscere la violenza del mattatoio o della pellicceria, ed è vero che ultimamente si sono fatti tanti progressi per rendere anche questi luoghi "più umani", ma anche se si parla degli animali d'affezione il discorso non è tanto migliore. Se il trattamento amorevole riservato a un gatto d'appartamento fosse riproposto a una persona, il "padrone" sarebbe indubbiamente condannato per aver recluso l'altro contro la sua volontà. In che altro modo si potrebbe giudicare il fatto che l'"ospite" sia obbligato a rimanere in casa, forse addirittura all'oscuro dell'esistenza di un mondo oltre le mura? Quando si è manifestato il consenso del gatto a questo tipo di vita? Eppure diamo per scontato che sia un trattamento degno e apprezzato dall'animale. E forse lo è davvero, ma non abbiamo modo di saperlo con certezza. Pertanto lo stesso ragionamento andrebbe applicato anche agli atti sessuali, e la presunzione di innocenza dovrebe risolvere la questione.
Il paradosso sta nel fatto che è proprio con la recente crescita della sensibilità nei confronti degli animali che il problema è emerso con maggiore forza, perché siamo portati a ritenere che la violenza subìta dalla creatura sia ingiusta e vada punita. Ma in realtà, è nel definire questa violenza che stiamo praticando un atto di insensibilità verso la creatura non umana, antropomorfizzandone sensazioni e pensieri. Quarant'anni fa era socialmente accettabile dire di aver affogato i gattini non voluti trovati davanti casa, oggi è un reato; allo stesso modo, in passato probabilmente qualche scappatella con la pecora non era degna di nota, oggi è imperdonabile. Ma questo cambio nella percezione comune non è realmente motivato da una maggiore considerazione delle bestie, quanto, a ben vedere, da una errata equiparazione tra queste e l'uomo.
Alla fine dei conti, ciò che fa della zooerastia un taboo non è né l'atto in sé né la presunta violenza perpetrata sull'animale. Si tratta di uno strascico di quel paradigma specista che ci porta a ritenere l'uomo il culmine dell' evoluzione (o della creazione, a seconda delle interpretazioni), per cui il mescolamento agli altri animali in una pratica così intima (e generatrice di vita) è reputato degradante per l'uomo, non per l'animale. Ovviamente le religioni e i codici morali sono interventi nel corso della storia, acuendo questa idea. E così anche oggi, quando pensiamo di mostrare un maggior riguardo verso le altre specie, stiamo in effetti continuando ad affermare che siamo loro superiori.
Con tutto questo non voglio incitare alla zoofilia, né sto invocando l'utopia dell'amore libero interspecifico. Ma se mi trovassi di fronte a uno zooerasta convinto (che io sappia non mi è mai capitato), probabilmente nonostante una certa diffidenza iniziale, mi sentirei in difficoltà a condannarlo come un mostro quale comunemente sarebbe considerato. Naturalmente l'argomento è aperto alla discussione, e per quanto ci siano benaltri problemi, lo reputo un punto di partenza interessante per una riflessione sul ruolo dell'uomo su questo pianeta.
Il motivo che mi spinge ad affrontare questo tema è che lo reputo molto interessante come punto di partenza per inquadrare il paradigma specista in cui la società umana (pressoché di qualunque epoca e regione) è immersa. E dopo la recensione di Mort(e) e della serie Zoo , mi sembra appropriato inserire a completamenteo questo post, per un'interessante rubrica dei rapporti uomo/animali. Quindi se anche l'idea vi repelle, seguitemi per qualche minuto, perché affronteremo il discorso da un punto di vista squisitamente accademico. Mi rendo conto che è un argomento delicato, che può urtare la sensibilità di molti, quindi cercherò di mantenere un tono neutrale e abbonderò di disclaimer.
La zoofilia è un fenomeno storicamente diffuso e documentato, e non serve andare a pescare ai primordi della civiltà, quando eravamo bruti con la clava, basta pensare alle nobili radici elleniche dell'Occidente, e ai numerosi miti di ibridazione tra uomini, dèi, e bestie. Ma ci sono anche testimonianze più antiche, come il bassorilievo di un tempio indiano che ricordo distintamente da un libro di storia che avevo alle medie. Anche nella Bibbia se ne parla, certo non in termini entusiastici; e tutti sappiamo come passano le giorante i pastori sardi, no? Questo non per fornire un quadro storico completo, che è sicuramente più complesso, ma solo per notare che il sesso con animali è un fatto da sempre esistente e noto. Qualcosa che, come specie, ci portiamo dietro da sempre (il che non vuol dire che sia una cosa giusta e auspicabile, sia chiaro: anche l'omicidio fa da sempre parte della natura umana).Ora, quello che mi pare interessante, è notare che tecnicamente la zoofilia non è illegale, almeno nella maggior parte delle legislature moderne. Certo rimane una pratica antisociale, uno dei pochi taboo davvero feroci e radicati che in genere mettono d'accordo tutti, come possono essere la pedofilia e la coprofagia (ancora: non sto dando giudizi di merito su queste pratiche, sto solo esponendo aspetti oggettivi). Ma sono poche le Nazioni ad avere leggi specifiche che vietano il sesso tra uomini e animali. La ragione si può comprendere facilmente: a pensarci bene, la copula con un animale di per sé non reca danno a nessuno. Lo stesso discorso che vale ad esempio per il bondage o appunto la coprofagia, se praticate volontariamente.
Ecco però il punto: praticato volontariamente. Infatti, se anche la pratica non è illegale di suo, in tempi recenti episodi di zooerastia sono stati condannati in quanto equiparati a violenza sugli animali. Il cavillo dietro questi giudizi sta proprio nella volontarietà dell'atto. Oggigiorno, il limite di ciò che è sessualmente consentito è dato in pratica dall'unico parametro del consenso: due persone adulte e consenzienti possono fare ciò che vogliono tra di loro. Si considera quindi che l'animale sottoposto ad atti di zoofilia non sia consenziente, ma obbligato a subire una violenza. Pertanto, lo zoofilico non ha compiuto un reato per il fatto specifico di aver penetrato (o essersi fatto penetrare) dalla bestia, ma perché l'ha obbligata a farlo contro la sua volontà, in questo senso usandole violenza, al pari di una bastonata.
Qui però si pongono un paio di problemi. Innanzitutto, rimane tutto da stabilire se è vero che l'animale non sia consenziente all'atto. La zooerastia si esprime in genere con mammiferi, se non altro per la pratica similarità degli apparati riproduttivi. Gli animali "preferiti" sono in genere quelli più vicini all'uomo, domestici o da fattoria: cani, gatti, equini, suini, ovini, bovini e così via. Difficilmente si può praticare sesso con una lucertola o una poiana, per evidenti limiti tecnici. Ne consegue quindi che a subire l'atto sono animali con cui le persone hanno un rapporto di qualche tipo. Siamo davvero sicuri quindi che le bestie siano contrarie al rapporto? D'altra parte la masturbazione è praticata da molti di questi animali, e il cagnolino che si aggrappa alla gamba è così comune da diventare protagonista di tante barzellette. Nel momento in cui il cane, a tutti gli effetti, sta cercando di accoppiarsi con l'umani, si può ancora affermare che da parte sua non ci sia quel consenso che è il requisito essenziale per un rapporto sessuale legale?
Certo, si può obiettare che questi comportamenti siano sfoghi sessuali che niente hanno a che vedere con la reale volontà dell'animale di fare sesso. Ma in questo caso, l'argomentazione stessa del consenso decade, perché non si può pretendere che il cane (o qualunque altro) manifesti il consenso al sesso in un certo modo, ma al tempo stesso non lo stia esprimendo quando è lui a proporlo. In realtà, la definizione stessa di consenso al rapporto perde di chiarezza quando si parla di una creatura che utilizza schemi mentali differenti, e che si presume essere priva di quella malizia che contraddistingue invece la specie (e la civiltà) umana. Per una capra, venire penetrata da un umano può essere qualcosa di totalmente irrilevante, o può rappresentare un efficace metodo di consolidamento del rapporto con il padrone, o addirittura può essere fisicamente piacevole. Non voglio invitarvi a cercare pornogrfia con animali, ma, se esiste, bisogna che il meccanismo funzioni da entrambe le parti...
Quindi, l'idea che l'atto sessuale sia forzato e violento per l'animale è difficilmente dimostrabile. Ma anche se questo fosse accertato, c'è un'altra questione che si pone, più subdola ma decisamente più rilevante. Infatti, se il nodo da sciogliere è quello della coercizione, allora è necessario mettere in discussione praticamente tutti i rapporti esistenti tra uomo e animale. Si può infatti dubitare che un maiale abbia espresso il suo consenso a diventare mortadella, che una vacca sia favorevole ad essere munta, che un cane non muova obiezioni a essere castrato. È facile riconoscere la violenza del mattatoio o della pellicceria, ed è vero che ultimamente si sono fatti tanti progressi per rendere anche questi luoghi "più umani", ma anche se si parla degli animali d'affezione il discorso non è tanto migliore. Se il trattamento amorevole riservato a un gatto d'appartamento fosse riproposto a una persona, il "padrone" sarebbe indubbiamente condannato per aver recluso l'altro contro la sua volontà. In che altro modo si potrebbe giudicare il fatto che l'"ospite" sia obbligato a rimanere in casa, forse addirittura all'oscuro dell'esistenza di un mondo oltre le mura? Quando si è manifestato il consenso del gatto a questo tipo di vita? Eppure diamo per scontato che sia un trattamento degno e apprezzato dall'animale. E forse lo è davvero, ma non abbiamo modo di saperlo con certezza. Pertanto lo stesso ragionamento andrebbe applicato anche agli atti sessuali, e la presunzione di innocenza dovrebe risolvere la questione.
Il paradosso sta nel fatto che è proprio con la recente crescita della sensibilità nei confronti degli animali che il problema è emerso con maggiore forza, perché siamo portati a ritenere che la violenza subìta dalla creatura sia ingiusta e vada punita. Ma in realtà, è nel definire questa violenza che stiamo praticando un atto di insensibilità verso la creatura non umana, antropomorfizzandone sensazioni e pensieri. Quarant'anni fa era socialmente accettabile dire di aver affogato i gattini non voluti trovati davanti casa, oggi è un reato; allo stesso modo, in passato probabilmente qualche scappatella con la pecora non era degna di nota, oggi è imperdonabile. Ma questo cambio nella percezione comune non è realmente motivato da una maggiore considerazione delle bestie, quanto, a ben vedere, da una errata equiparazione tra queste e l'uomo.
Alla fine dei conti, ciò che fa della zooerastia un taboo non è né l'atto in sé né la presunta violenza perpetrata sull'animale. Si tratta di uno strascico di quel paradigma specista che ci porta a ritenere l'uomo il culmine dell' evoluzione (o della creazione, a seconda delle interpretazioni), per cui il mescolamento agli altri animali in una pratica così intima (e generatrice di vita) è reputato degradante per l'uomo, non per l'animale. Ovviamente le religioni e i codici morali sono interventi nel corso della storia, acuendo questa idea. E così anche oggi, quando pensiamo di mostrare un maggior riguardo verso le altre specie, stiamo in effetti continuando ad affermare che siamo loro superiori.
Con tutto questo non voglio incitare alla zoofilia, né sto invocando l'utopia dell'amore libero interspecifico. Ma se mi trovassi di fronte a uno zooerasta convinto (che io sappia non mi è mai capitato), probabilmente nonostante una certa diffidenza iniziale, mi sentirei in difficoltà a condannarlo come un mostro quale comunemente sarebbe considerato. Naturalmente l'argomento è aperto alla discussione, e per quanto ci siano benaltri problemi, lo reputo un punto di partenza interessante per una riflessione sul ruolo dell'uomo su questo pianeta.
Published on February 17, 2016 10:54
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