Roberto Saviano's Blog, page 8

February 26, 2016

Quei novanta egiziani spariti come Giulio

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Partendo dall’analisi dell’omicidio del ricercatore italiano in Egitto Giulio Regeni, proposta dal direttore de “l’Espresso” sullo scorso numero, partendo dall’imbarazzo dei governi democratici nel dover ammettere di aver aperto (anzi spalancato) le porte ad al-Sisi perché «in una guerra mondiale non dichiarata si è collocato dalla parte conveniente della barricata», mi domando: quanto costerà agli egiziani la nostra indignazione per la morte di Giulio Regeni?


E poi quanto costerà a noi stessi e al mondo intero? E cosa significa, esattamente, la nostra indignazione? Quello che è successo in Egitto è chiaro a tutti, mancano dei tasselli, ma non sono fondamentali per comprendere il quadro d’insieme. Giulio Regeni, ricercatore italiano al Cairo, nel corso dei suoi studi sui movimenti sindacali egiziani, decide di partecipare direttamente alla vita delle organizzazioni che sta studiando. Il 25 gennaio 2016, la sera del quinto anniversario della rivoluzione di piazza Tahrir, Giulio scompare nel nulla. Chi lo conosce si preoccupa immediatamente. Il suo corpo martoriato verrà ritrovato nove giorni dopo, il 3 febbraio, su un cavalcavia dell’autostrada tra Il Cairo e Alessandria d’Egitto.


Giulio è stato rapito, torturato e ucciso dal Mukhabarat, i servizi segreti egiziani. Il motivo? Gli uomini della sicurezza egiziana sarebbero ossessionati dalle informazioni che circolano negli atenei: è questa l’opinione condivisa di chiunque faccia ricerca in Egitto. Non regge nemmeno per un momento la teoria dell’omicidio passionale, né l’ipotesi che Giulio in realtà fosse una spia. Non regge perché quello che è accaduto a Giulio Regeni non è una terribile eccezione, ma in Egitto è la dannatissima regola. Non regge perché per un agente straniero sotto copertura, le autorità egiziane avrebbero avuto maggiori precauzioni.


Sulla sorte di Giulio Regeni chi conosce l’Egitto non ha dubbi. Chi gli arresti, le sparizioni, i pestaggi e le torture ha smesso di contarli sa che questo è ciò che accade a chiunque osi mostrare dissidenza sotto qualsiasi forma. Dal colpo di Stato del luglio 2013, il governo di al-Sisi ha arrestato circa 40 mila persone. Dal 2011 a oggi (soprattutto tra aprile e maggio 2015) sono scomparse almeno 90 persone. E, a riprova del fatto che la linea del governo è di strenua difesa delle forze dell’ordine, la Corte d’Appello annulla la sentenza di condanna dell’agente di polizia che l’anno scorso al Cairo ha ucciso l’attivista di sinistra Shaimaa el-Sabbagh, durante il corteo pacifico per il quarto anniversario della rivoluzione di piazza Tahrir. Infine, la sera in cui è scomparso Giulio Regeni, altre settantacinque persone sono state arrestate.


Settantacinque persone di cui in Italia non si parla, per le cui sorti in Italia non ci si indigna e di cui non si sa nulla. Ecco perché la nostra indignazione è pericolosa: perché giunge a conclusioni sbagliate. Ci si indigna perché è stato rapito e barbaramente ucciso un ragazzo brillante e italiano, un cervello in fuga, ma italiano. E il governo egiziano farà tesoro della nostra indignazione, eccome se lo farà, e delle nostre richieste di chiarimento. Il governo egiziano, da oggi in poi, starà molto attento a far sparire, a torturare e a uccidere solo studenti, ricercatori, giornalisti, blogger e attivisti egiziani, dei quali nessun governo straniero chiederà conto, per le cui sorti nessuna diplomazia e nessun accordo economico verranno messi in discussione.


Quindi o smettiamo di indignarci, o capiamo quanto esponenzialmente più grande deve essere la nostra indignazione. Ora che sappiamo che Giulio è morto, pretendiamo di sapere che fine hanno fatto le altre 75 persone arrestate il 25 gennaio scorso. È nostro dovere e ci riguarda. In caso contrario, con la nostra indignazione e senza la nostra comprensione, avremo solo indicato ai torturatori, a quel governo che dovrebbe arginare la deriva fondamentalista, quali potranno essere le prossime vittime.


Non conoscevo Giulio Regeni personalmente, ma sono certo che vorrebbe siano queste ora le domande da porre insistentemente alle autorità internazionali perché arrivino, dall’Egitto, risposte chiare: dove sono le 75 persone arrestate il 25 gennaio 2016, ovvero la notte in cui Giulio è stato ammazzato? E le 40 mila persone arrestate? E i 90 desaparecidos? Pretendere risposte è l’unico modo per fare giustizia a Giulio, non un italiano che amava il mondo, ma un uomo che amava il mondo.


Fonte: L’Antitaliano.




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Published on February 26, 2016 01:22

February 18, 2016

La notte di Colonia e quella dei media

Colonia_capodanno_615x340A due mesi di distanza dal terribile Capodanno di Colonia, che ricorderemo come la triste notte delle violenze sulle donne, forse possiamo fare qualche considerazione sul ruolo dei media e su come la politica abbia strumentalizzato la vicenda nel modo peggiore.


Parto da uno studio condotto dalla polizia criminale di Braunschweig: in Germania il numero di profughi che violano la legge è, in proporzione, lo stesso di quello dei cittadini tedeschi che commettono crimini. Questo significa che a condizioni assai diverse in termini di integrazione, di possibilità di occupazione, di vivibilità, di condizioni economiche, di vita familiare, corrisponde una medesima propensione al crimine.


Mi spiego meglio. La nostra percezione (anche italiana) del numero di stranieri sul suolo nazionale è esponenzialmente maggiore rispetto alla loro effettiva presenza. Allo stesso modo, siamo convinti che uno straniero abbia una propensione al crimine esponenzialmente maggiore rispetto a un cittadino italiano o europeo. Forse ci siamo fatti questa idea perché li immaginiamo disperati senza nulla più da perdere. Eppure da perdere hanno moltissimo, perché per venire qui hanno rischiato tutto e ora la loro vita ha un valore inestimabile, da preservare a ogni costo. Per smentire questo luogo comune, lo studio condotto dalla polizia tedesca è di fondamentale importanza: ci dice che, nonostante le loro condizioni di vita siano assai peggiori, gli stranieri presenti in Germania commettono crimini esattamente come i cittadini tedeschi.


Questo vuol dire che l’obiettivo primario di chi arriva in Europa non è delinquere ma integrarsi e ricostruire una vita sociale che nelle terre di origine è venuta meno a causa di guerre e persecuzioni. A questo proposito consiglio di cercare on line e di vedere due reportage fondamentali sulle “jungle” di Calais e di Dunkerque girati da Diego Bianchi (Zoro) e trasmessi su Raitre a Gazebo lo scorso gennaio. Stupirà scoprire quanta dignità riusciamo a mantenere noi uomini pur trattati come bestie.


Quindi, nonostante sia estremamente difficile farsi un’idea libera da preconcetti su quanto accaduto a Colonia, dobbiamo sforzarci di mettere assieme tutti i dati per arrivare a una conclusione che forse potrà sembrare banale, ma che è l’unica possibile: a commettere violenze di gruppo non sono stati stranieri, ma persone. Non è indicativo il colore della loro pelle, non lo è la loro lingua o la loro cultura. Non è fondamentale nemmeno capire quale sia la loro religione, ma sapere come vivono e analizzare il loro grado di integrazione. Sì, perché la stragrande maggioranza degli stranieri accusati di violenze e di stupro vive in Germania da anni, e alla stregua dei “foreign fighters” arruolati dall’Is, sono individui marginalizzati o per i quali non è mai avvenuto alcun processo di integrazione. Quindi noi non siamo vittime incolpevoli o semplici spettatori, ma artefici della marginalizzazione.


Nel giorni scorsi, contravvenendo a una regola non scritta che in Germania è generalmente osservata e che impone ai giudici un profilo basso durante i processi, Ulrich Bremer, il magistrato che si occupa dei fatti di Colonia, ha concesso un’intervista al quotidiano “Die Welt”. Credo l’abbia fatto con l’intento di orientare il dibattito verso posizioni di buon senso. Secondo Bremer sarebbero solo tre gli stranieri recentemente giunti in Europa tra quelli denunciati. E le denunce sarebbero arrivate solo dopo che i media hanno iniziato a parlare di stupri e violenze. Se da un lato le denunce sui giornali hanno avuto il merito di dare coraggio a chi non aveva osato parlare fino a quel momento, dall’altro hanno dato la stura a un’ondata di razzismo difficile da arginare.


Dopo i fatti di Colonia non c’è dubbio che l’Europa ha visto rafforzate posizioni contrarie all’accoglienza. La Svezia minaccia di respingere 80 mila profughi tradendo la sua storia, la Danimarca tratterrà beni e denaro in cambio di accoglienza. Le voci sulla sospensione di Schengen si fanno sempre più pressanti senza comprendere che se il timore sono crimini come quelli commessi a Colonia, il problema non si risolve mandando via chi arriva o chiudendo le frontiere, ma avviando un serio lavoro di integrazione. E se il timore sono gli attacchi terroristici, invece di alzare muri bisognerebbe fermare i capitali che armano senza alcun ostacolo il braccio di chi, terrorizzandoci, ci rende tutti nemici.


Fonte: L’Antitaliano.




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Published on February 18, 2016 23:30

February 17, 2016

La casa blu

governi_casa_blu_615x340Ho letto un libro intimo, sussurrato. Eppure, leggerlo è stato come ingoiare una lametta. Si intitola “La casa blu” e l’ha scritto Massimiliano Governi.


Affronta il più difficile dei temi: il suicidio assistito, la morte dolce, il fine-vita. E lo narra come un viaggio, come un canto da ascoltare senza pregiudizi. Una prospettiva attraverso cui guardare il mondo con gli occhi di chi parte per non tornare e con gli occhi di chi resta per vivere e comprendere.


Il libro nasce da ore trascorse a indagare i pensieri degli uomini e delle donne che vanno in Svizzera, in Olanda o in Belgio per morire dolcemente.


Persone che non sono sole e non scelgono la morte per disperazione, ma per vivere dignitosamente fino all’ultimo respiro. Persone che accanto hanno familiari con tanta voglia di essere presenti e di comprendere. Persone che accanto hanno l’esperienza piena di empatia dei militanti del Partito Radicale e dell’Associazione Luca Coscioni.


E al termine del viaggio la consapevolezza che quella scelta è l’unica possibile per chi la compie. “La casa blu” è una preghiera e un inno alla vita.


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Published on February 17, 2016 04:10

Un viaggio verso la morte che è un inno alla vita

governi_casa_blu_615x340Ho letto un libro intimo, sussurrato. Eppure, leggerlo è stato come ingoiare una lametta. Si intitola “La casa blu” e l’ha scritto Massimiliano Governi.


Affronta il più difficile dei temi: il suicidio assistito, la morte dolce, il fine-vita. E lo narra come un viaggio, come un canto da ascoltare senza pregiudizi. Una prospettiva attraverso cui guardare il mondo con gli occhi di chi parte per non tornare e con gli occhi di chi resta per vivere e comprendere.


Il libro nasce da ore trascorse a indagare i pensieri degli uomini e delle donne che vanno in Svizzera, in Olanda o in Belgio per morire dolcemente.


Persone che non sono sole e non scelgono la morte per disperazione, ma per vivere dignitosamente fino all’ultimo respiro. Persone che accanto hanno familiari con tanta voglia di essere presenti e di comprendere. Persone che accanto hanno l’esperienza piena di empatia dei militanti del Partito Radicale e dell’Associazione Luca Coscioni.


E al termine del viaggio la consapevolezza che quella scelta è l’unica possibile per chi la compie. “La casa blu” è una preghiera e un inno alla vita.


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Published on February 17, 2016 04:10

February 16, 2016

Matteo Salvini scopre la mafia al Nord

salvini_rixi_615x340Quando ho letto questa dichiarazione di Matteo Salvini non potevo credere ai miei occhi: “Se so che qualcuno, nella Lega, sbaglia sono il primo a prenderlo a calci nel culo e a sbatterlo fuori. Ma Rixi è un fratello e lo difenderò fino all’ultimo da quella schifezza che è la magistratura italiana. Si preoccupi piuttosto della mafia e della camorra, che sono arrivate fino al Nord”.


Tralasciamo il tono, sorvoliamo per un attimo sulla difesa strenua di un assessore della Lega Nord indagato per le “spese pazze” in Regione Liguria, e arriviamo alle ultime parole in cui Salvini invita la magistratura a preoccuparsi “piuttosto della mafia e della camorra, che sono arrivate fino al Nord”.


Dopo cinque anni, era la fine del 2010 quando Maroni, al tempo ministro degli Interni e ora Presidente della sfortunata Regione Lombardia, pretese di venire in televisione a Vieni via con me, per dire che no, della mafia al Nord nemmeno l’ombra e che tutto era frutto di (mia) invenzione. Sono passati 5 anni da quando fu fatta una racconta firme appoggiata dalla Lega Nord contro di me che davo del mafioso al Nord e ora Matteo Salvini invita la magistratura a non indagare politici ma a occuparsi della mafia al Nord?


Bene che la Lega abbia finalmente capito che nelle regioni in cui per decenni è stata il partito di riferimento, le organizzazioni criminali sono penetrate in modo capillare nel tessuto economico, peccato non abbia invece ancora compreso che per i politici leghisti valgono le stesse regole che valgono per tutti gli italiani. Su di loro si possono fare indagini e se risultano colpevoli verranno condannati. Superomismo e populismo davanti alla legge non valgono.




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Published on February 16, 2016 05:26

Il grande futuro

catozzella_grande_futuro_615x340Il grande futuro” di Giuseppe Catozzella è un libro che non somiglia a nulla di quello che ho letto sino ad ora. È un romanzo scritto come leggenda, come una fiaba, ma ha la potenza che soltanto le storie vere possiedono.


Racconta di Amal, un bambino nato e cresciuto in un villaggio africano. Amal conosce gli orrori della guerra, li vive sulla sua pelle, ma anche dentro il suo corpo, perché quando era piccolo una mina gli ha strappato il cuore. Così, lui esiste grazie a un cuore che non è suo.


Passa il tempo e la guerra, una ad una, porta via le persone cui è più legato; rimasto solo, trova conforto nella preghiera, nell’Islam. È sempre più difficile per lui resistere all’apparente offerta di giustizia della guerra santa, quindi cede alla tentazione e diventa uomo con il corano in una mano e il fucile nell’altra.


È pronto al martirio. Ma ben presto comprende che la sofferenza si è già presa fin troppo e la giustizia che cerca, non può essere la distruzione del nemico. No, la luce di cui ha bisogno è tutta nel suo stesso nome, Amal, che significa speranza. La speranza di un grande futuro, quella di affrancare la propria vita da un destino che sembra già scritto. E la consapevolezza, finalmente, che la felicità è un diritto di tutti.


Ispirato alla storia vera di un ex guerriero fondamentalista, questo romanzo cerca e racconta l’umanità che ci fa tutti uguali: noi e il nostro “nemico”. È questo il potere immenso della letteratura: rendere comprensibile la complessità del mondo in cui viviamo.


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Published on February 16, 2016 03:42

Immigrati, no a facili demonizzazioni

Colonia_capodanno_615x340Dai primi di gennaio, da quando cioè sono iniziate le denunce per le violenze sessuali a Colonia, abbiamo assistito a una crescente ondata di paura e di pregiudizi verso i profughi che raggiungono l’Europa per sfuggire a guerre e persecuzioni.


Da quel momento, le forze politiche più populiste, strumentalizzando quanto accaduto, hanno presentato la sospensione di Schengen come una necessità, come l’unico modo per poter vivere sicuri. Era ufficialmente aperta la demonizzazione dell’immigrato, senza dati concreti, senza analisi oggettive. Oggi, invece, sappiamo che su 59 indagati per le denunce di Colonia, solo 3 sono i profughi arrivati recentemente in Europa. Gli altri sono immigrati che vivono in Germania da tanti anni: lo ha dichiarato il giudice che sta seguendo le indagini.


Inoltre, secondo uno studio condotto dalla polizia criminale di Braunschweig, in Germania il numero di profughi che violano la legge è, in proporzione, lo stesso di quello dei cittadini tedeschi. Questi dati mostrano come, nonostante le condizioni disperate di chi arriva in Europa, non ci sia alcuna propensione a delinquere.


Questi dati ci dicono quello che sapevamo già: non diventiamo il canale attraverso cui far passare idee razziste, non facciamoci strumentalizzare, non diamo a nessuno la possibilità di utilizzare le nostre paure per rendere il mondo in cui viviamo un posto peggiore.




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Published on February 16, 2016 01:45

February 15, 2016

Il fuoco a mare

bottalico_fuoco_a_mare_615x340Andrea Bottalico lo conosco da quando era bambino. Ho seguito i suoi primi esperimenti musicali, le sue prime letture, la sua formazione di ricercatore universitario tra studi sul campo e infinite bibliografie.
Quando ho saputo che aveva scritto il suo primo libro mi sono commosso, orgoglioso per questo suo traguardo: “Il fuoco a mare”  è infatti un piccolo gioiello di letteratura non-fiction, un mix perfetto di romanzo e reportage.
Andrea Bottalico racconta quella che una volta era la “Stalingrado del Sud”: Castellammare di Stabia, con i 650 lavoratori del suo cantiere navale nato nel XVIII secolo, ai tempi di Ferdinando IV di Borbone.
In un mondo dove la trasformazione del lavoro travolge i mestieri tradizionali, in una città che soffre come e forse più di tante altre la disoccupazione giovanile, Andrea dà voce agli operai del mare, tanti di loro figli e nipoti di uomini che lavoravano proprio nello stesso cantiere. Il libro diventa una narrazione di ciò che l’Italia ha smarrito senza nemmeno accorgersene, dell’operosità e tenacia di un Sud che si è dimenticando di averne e questo giovane autore riscopre e dimostra.


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Published on February 15, 2016 10:01

Basta muri, sono castelli che scatenano nuovi assedi

hungary_fence_615x340Mentre i ministri delle Finanze dell’Unione si riunivano venerdì scorso a Bruxelles nelle stanze del Justus Lipsius, decretando con una firma la messa in mora sui profughi della povera Grecia, e dando praticamente il via al restringimento dell’Europa di Schengen, dall’altra parte del mondo – nell’ufficio lussuossimo di un grattacielo di Dubai, in un ranch blindatissimo del Nord Est messicano – il contabile di turno avrà stancamente cliccato sul tasto “send” di un personal computer, di un laptop, forse anche di un semplice smartphone: e per l’ennesima volta la marea di denaro più o meno sporco avrà investito, senza incontrare resistenza, le coste del continente.


Ma sì, diciamolo subito. Davvero in Europa c’è ancora qualcuno che pensa di fermare le stragi dei migranti e l’orrore della jihad alzando l’ennesimo muro? Davvero c’è chi pensa di fermare gli esseri umani decretando la morte di Schengen? No, pretendere di proteggersi innalzando di nuovo i confini è un errore. Un madornale errore. Innanzitutto perché è dimostrato che le strutture militari, terroristiche non hanno bisogno di utilizzare canali clandestini.


Riescono a strutturarsi e a essere operative in ogni Paese indipendentemente dai flussi migratori attuali. È ormai accertato che ad agire in queste strutture – l’abbiamo purtroppo visto nel caso del Bataclan e di Charlie Hebdo – sono uomini e donne di seconda generazione. E se in alcuni casi, è vero, ci siamo trovati di fronte a persone che avevano chiesto l’asilo politico e si sono poi trasformate in miliziani, si è trattato di una “evoluzione” indipendente dalla struttura madre.


È questa la premessa fondamentale per capire che fermare Schengen significherebbe soltanto distruggere l’integrazione europea. E non semplicemente nella declinazione dei diritti ma nella stessa formazione della struttura sociale. Fermare Schengen vorrebbe dire uccidere il grande progetto iniziale; cioè la costruzione degli “stati uniti d’Europa”. Fermare Schengen sarebbe la vittoria di una visione che credevamo ormai superata: quella secondo la quale ci si possa difendere costruendo castelli e barriere. Noi italiani lo sappiamo bene. Non lo diceva già il Principe di Machiavelli? Costruire nuovi castelli genera solo nuovi assedi.


Non basta. Il paradosso è ancora più grave. Perché questa è la politica che pretende di fermare i corpi ma non i flussi illegali e finanziari ormai senza più alcun controllo. Che cosa ha reso possibile la creazione di un vero e proprio potere terroristico in Belgio? I finanziamenti che da Dubai, dall’Arabia Saudita, dal Medio Oriente più in generale sono arrivati attraverso i vari canali finanziari più scoperti.


La Francia ha il Lussemburgo. La Germania ha il Liechtenstein. La Spagna ha Andorra. L’Italia ha San Marino. Tutto il mondo ha la Svizzera. Stiamo parlando di isole finanziarie che non solo attraggono – nella migliori delle ipotesi – evasori fiscali. Stiamo parlando di centri che attraggono nel cuore d’Europa strategie criminali e finanziarie: basti pensare alla vicenda recente del Chapo, il re dei trafficanti di droga che faceva riciclare in Svizzera montagne di narcodollari che poi finivano in una banca di Vaduz, nel Liechtenstein.


E allora smettiamola di credere a chi vuole convincerci che l’Europa paga il prezzo che paga – le immigrazioni senza controllo, il terrore senza limiti – perché è troppo esposta. Non è vero: l’Europa paga un prezzo altissimo per la sua incapacità di gestire i flussi finanziari e il riciclaggio. La riflessione da fare è tutta qua: il problema sono i capitali, non gli esseri umani. Sono i capitali che circolano senza controllo a compromettere la sicurezza dell’economia pulita e la tenuta sociale. È il risiko della finanza a rendere sempre meno sicura l’Europa. Riusciranno mai a capirlo lì nelle stanze del Justus Lipsius?


© LENA, Leading European Newspaper Alliance




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Published on February 15, 2016 02:01

February 12, 2016

Cannabis legale, i nonni all’avanguardia

615x340_2Non è la prima volta che invito chi mi legge ad ascoltare il notiziario antiproibizionista di Roberto Spagnoli su “Radio Radicale”. Perché lo faccio? Perché tratta argomenti ignorati altrove, e i giornalisti che se ne occupano lavorano senza alcun pregiudizio ideologico, senza alcun preconcetto o condizionamento dettato da religioni o committenti. La libertà con cui Roberto Spagnoli affronta da anni il tema della legalizzazione delle droghe è immediatamente comprensibile a chiunque lo ascolti per un motivo molto semplice: Spagnoli cita fonti autorevolissime, spesso istituzionali. Questo cosa significa? Significa che una parte del Paese, quella che commissiona studi e prova a fare divulgazione, si pone realmente dei problemi e cerca davvero di trovare le soluzioni migliori, ad esempio sulla coltivazione della cannabis e sul suo uso terapeutico.


Un esempio su tutti. Secondo una ricerca commissionata dalla Coldiretti, 2 italiani su 3 sono d’accordo alla coltivazione per uso terapeutico della cannabis. Si potrebbero destinare – ne parla Spagnoli su “Radio Radicale” – immediatamente 1000 ettari ricavabili da serre in disuso alla coltivazione di cannabis; un’opportunità che potrebbegenerare un giro di affari da un miliardo e mezzo di euro e produrre 10 mila posti di lavoro. Ovviamente questo per iniziare, perché poi si potrebbero trovare altri terreni e l’Italia potrebbe non rispondere solo alla domanda interna, ma esportare cannabis per uso terapeutico. Coldiretti ricorda che negli anni ’40 l’Italia era il secondo produttore mondiale di cannabis sativa che veniva utilizzata soprattutto per uso tessile, edile e per la produzione della carta. Perché allora oggi c’è tanta difficoltà a comprendere che un mercato non solo non è eticamente sbagliato, ma porta anche crescita economica? Cosa ci è successo? Perché siamo meno aperti alla crescita e al cambiamento di quanto non lo fossero i nostri nonni e i loro genitori?


Il Ministro Lorenzin, senza consultare le associazioni dei malati, ha fatto una cosa di una gravità inaudita: ha firmato un decreto che limita l’uso di farmaci cannabinoidi. Segno questo che le patologie di cui la cannabis terapeutica allevia i sintomi le sono totalmente sconosciute. Roberto Spagnoli ironizza sul fatto che Lorenzin pronunci “cannàbis” con l’accento sulla seconda “a”, io potrei aggiungere che dopo il mio “Antitaliano” di due settimane fa sulla difficoltà di interrompere una gravidanza, questo settimanale ha ricevuto una lettera da parte del Ministero della Salute indirizzata al direttore de “l’Espresso” Dr. Giorgio Mulè (il direttore di “Panorama”, ndr.). Tutto questo potrebbe, ma non fa ridere: non conoscere la cannabis e pretendere di poter legiferare, non conoscere la stampa e pretendere di dare risposte negando l’evidenza, danno la cifra di quanto, credenti o non, tocchi a noi cittadini trovare le strade per avere informazioni corrette. Perché l’esito dello studio commissionato da Coldiretti non ha fatto discutere il Governo? Si tratta di cannabis per uso terapeutico e non ricreativo; si tratta di posti di lavoro, niente di eticamente contrario ad alcuna religione conosciuta, eppure siamo sempre lì, fermi al terrore che la politica ha di perdere consenso, di inimicarsi quella parte di elettorato che permette alla propria spiritualità di plasmare anche la direzione del Paese, che dovrebbe essere laica. Proverò a spiegare perché opporre questioni morali o religiose alla legalizzazione di tutte le droghe in Italia oltre a essere anacronistico, oltre a essere frutto di disinformazione, è anche drammaticamente irresponsabile e pericoloso.


Fonte: L’Antitaliano.




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Published on February 12, 2016 09:18

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