Roberto Saviano's Blog, page 5

June 20, 2016

La rivoluzione di Ashley Graham

La foto in bicicletta che Ashley Graham, modella curvy, ha pubblicato su Twitter, nel mondo americano è esplosa come una provocazione: mostrare la cellulite è sembrato un inno alla libertà.
La foto era accompagnata da questo testo:


«A little cellulite never hurt nobody… Stop judging yourself, embrace the things that society has called “ugly”».
«Un po’ di cellulite non ha mai fatto male a nessuno… Smetti di giudicarti, accogli ciò che la società definisce “brutto”».


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In una frase semplice, una rivoluzione epocale. E mi domando: ma quand’è che abbiamo iniziato a misurare e a disciplinare la bellezza? Quando abbiamo deciso quale bellezza è riproducibile e quale non lo è?


Bisognerebbe diseducare alla bellezza, a questa bellezza dai fianchi scarni, dalle pance piatte, dal seno alto, perfetto.


Nella bellezza bisognerebbe essere scostumati. Bisognerebbe capirla, cercarla, ammirarla, d’istinto confondersi e non rispondere più ai parametri.


In fondo l’arte (osservate i due dipinti di Courbet accanto alla foto di Ashley Graham) ci educa a una bellezza reale, quella delle madri e di tutte le donne, una bellezza che non presuppone, per esistere, la mortificazione del corpo e il disagio costante di non essere come un canone (disumano) impone.




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Published on June 20, 2016 04:06

June 17, 2016

Nel posto sbagliato al momento sbagliato

2iro_colonna_fiaccolata_615x340Ciro Colonna, 19 anni, ucciso nel quartiere di Ponticelli a Napoli. Vittima innocente, caduto sotto i colpi destinati a Raffaele Cepparulo, pregiudicato di 25 anni, considerato il boss dei “barbudos”.


Potrei riempire lo spazio di questa rubrica solo scrivendo nomi, cognomi, età e provenienza delle persone uccise a Napoli perché intercettate da proiettili che non erano destinati a loro.


Se lo facessi cosa cambierebbe? Sono anni che continuo a ripetere (e non da solo) che a Napoli si combatte una guerra in cui la stragrande maggioranza delle persone è inerme, esposta, carne da macello. Mi sono sentito dare dell’esagerato e mentre si attaccava me si toglieva attenzione a un territorio che di disattenzione muore. Ciro Colonna si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato? No, non possiamo continuare a dire simili atrocità senza sentirci corresponsabili di ciò che è accaduto. Ciro Colonna abitava al Lotto Zero a Ponticelli, un quartiere reso ghetto dalla ricostruzione postbellica, quindi si trovava a casa sua quando è morto.


Era esattamente dove ci si aspettava che sarebbe stato, quindi era al posto giusto. Assodato questo, di sbagliato deve esserci evidentemente qualcos’altro. Di certo l’attitudine a pensare che le periferie di Napoli siano ingestibili e quindi l’assenza di qualsiasi iniziativa per renderle attivamente parti della città. Di sbagliato deve esserci la mancanza totale di consapevolezza da parte di chi parla di politica, fa politica, partecipa alla vita sociale della città, che spesso parla come se stesse in fondo commentando una débâcle sportiva.


Nessuno chiede miracoli a chi amministra Napoli, ma sentirsi dire che il centro storico è migliorato è una enormità che non so come si possa far digerire a un genitore che ha perso un figlio, a ragazzi e ragazze che hanno perso un amico: le morti inspiegabili, in periferia, di vittime sacrificate all’altare del decoro urbano del centro storico. Non è ben chiaro un passaggio: a Napoli si muore non solo perché c’è qualcuno che spara, ma soprattutto perché ce ne sono molti che non fanno nulla per innescare un cambiamento radicale.


Le persone vicine alle vittime, quando intervistate, dicono questo: «Ci uccidono due volte, prima con le armi, poi con le bugie». Perché le prime indiscrezioni che girano, a corpi ancora caldi, è che non si tratta mai di vittime innocenti, ma sempre di ragazzi con precedenti penali. Come se avere precedenti penali equivalga in qualche modo a meritare la morte, a essere naturalmente predisposti a intercettare colpi letali.


E invece poi si scopre che si tratta di bravi ragazzi, che non hanno nulla, se non quel circoletto da frequentare, in quartieri che sono il deserto. Che la loro vicinanza fisica a boss presunti o reali è un dato di fatto, è cosa naturale che non si cerca per amore del rischio, ma che si subisce senza potersi ribellare.


Napoli non ne può più della camorra e non perché si senta diffamata o ghettizzata, no. Queste sono solo dissertazioni per chi deve occupare tempo e spazio. Napoli non ne può più della camorra perché è stremata, perché ha paura. Ma anche qui vale la pena ascoltare chi vive dove si muore, quando dice che la disoccupazione giovanile non dà scelta: delinquere non è un’alternativa, ma a volte l’unica opzione. L’unica.


E allora, da dove cominciare? Più telecamere? Più controllo sul territorio? Più forze dell’ordine in strada? Siamo certi che questo fungerà da deterrente? Siamo certi che chi è cresciuto non temendo galera e morte, ma anzi mettendole in conto, sia fermato dalle “armi” che pensiamo di avere a disposizione? E perché non riusciamo a vedere quale sia la più efficace di tutte?


Il Presidente del Consiglio dice che la legalizzazione della marijuana non è all’ordine del giorno, io spero – e il progetto di legge dell’intergruppo parlamentare “cannabis legale”, all’esame delle commissioni Giustizia e Affari sociali della Camera dovrà compiere un suo iter autonomo in Parlamento – che cambi idea e che la ponga come una priorità.


A Napoli si spara e si muore unicamente per il predominio sulle piazze di spaccio, immaginate che colpo sarebbe per le organizzazioni perdere la fonte primaria di ingresso di capitali? E indebolito il principale degli ammortizzatori sociali, bisognerà davvero capire come far ripartire l’economia. Perché diciamolo chiaramente: in tempo di crisi, quando la ripresa economica stenta a partire, le mafie sono le migliori alleate, le più preziose.




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Published on June 17, 2016 05:05

June 16, 2016

Torino, una città del sud che la ’ndrangheta considera un suo territorio

torino_mole_1_615x340Quando ero piccolo, Torino era il posto più lontano che potessi immaginarmi. Per me era più lontano di Parigi, più lontano di Berlino, più lontano di New York.


Torino era così lontana perché era la città per la quale erano partite le persone intorno a me (il posto della Fiat); perché era la casa del nemico calcistico (il posto della Juventus); e poi era la culla dei Carabinieri. Dei Carabinieri? Che c’entrano i carabinieri proprio con Torino. O meglio c’entrano come in qualsiasi altra città. Invece sì, dei Carabinieri.


Io non sono nato a inizio Novecento, non sono nato nel dopoguerra, sono nato nel ’79 eppure sono cresciuto sentendo ancora i vecchi del paese chiamare i Carabinieri “i Piemontesi”. «Posti di blocco di piemontesi dappertutto» oppure «hai pagato la multa ai piemontesi?» E mentre per me New York erano i Knicks che vedevo nei VHS e Berlino era il muro che cadeva, tutto molto vicino a me, Torino era lontana. Perché Torino portava via le persone dal Sud.


Quando ero piccolo la rivalità con Torino era totalizzante. Una rivalità impersonificata anche – e soprattutto – dalla Juventus. L’insopportabile Juventus, la magnifica Juventus. Squadra di meridionali: ci sono più tifosi juventini al sud che non a Torino, questo è certo. Quando nella propria terra non esiste una squadra forte autoctona, allora si tifa Juventus. Quando nella propria terra non esiste lavoro si pensa a Torino, persino tra le nuove generazioni che sanno bene che oggi non se la passano bene nemmeno a Torino.


C’era una canzone che si chiama Briganti – che canto ancora oggi quando riesco a raggiungere un momento di ubriacatura d’allegria, visto che ho la condanna di essere (quasi) astemio – che recita così: «o vero lupo ca magna ’e creature è ’o piemontese c’avimma caccià» – il vero lupo che mangia i bambini è il piemontese che dobbiamo cacciare. Ho ancora vivo un ricordo: una testa che spunta da una porta semichiusa prima del sonno mentre ero nel lettone della casa dei nonni, un amico o uno zio, che mi diceva: «Robertì, qual è o vero lupo ca magna ’e creature?» e io dovevo rispondere «il piemontese che dobbiamo cacciare!».


Io vengo da una famiglia mista: il mio lato materno è ligure e mazziniano, con una tradizione repubblicana, libertaria, unitaria; mentre il mio lato paterno, dell’entroterra campano ha antenati contadini di stirpe tradizionalista. Dentro di me quindi scorrono le due anime e i due mondi, anche se sono nato e cresciuto a sud. Ma chi nasce a Torino ormai non può più dire di nascere a nord: è meridionale senza saperlo, anche se il suo dialetto lo tradisce.


Il Politecnico avrebbe dovuto aprire la sua succursale a Reggio Calabria; La Stampa avrebbe dovuto essere il primo giornale di Calabria; Torino e Napoli, Torino e Bari, Torino e Palermo, avrebbero dovuto essere legate dalla storia. Torino ha visto l’omicidio di un giudice, Caccia che la ’ndrangheta commissiona e nel fare questo include Torino nel territorio di sua competenza, la sottintende parte della terra che obbedisce alle regole. 


Le mafie difficilmente ammazzano al di fuori delle proprie zone d’influenza militare, perché i significati di quella morte sarebbero diversi, eppure a Torino, come a Duisburg, hanno colpito, perché nella sostanza quella terra è loro. Torino, la più grande città della Calabria. Chissà se i dati possono confermare che sia davvero la più grande città meridionale. Forse Milano oggi la batte? Londra la più grande città del sud Italia? Torino di certo è la più antica città neomeridionale.


So che Torino ha dimenticato di essere meridionale, ha dimenticato di essere lontana. Torino e i piemontesi: sono cresciuto con una grande diffidenza nei loro confronti, per poi finire ad avere proprio con alcuni piemontesi i legami più solidi della mia vita. La protezione più cara. L’abbraccio tutt’altro che falsamente cortese. Torino che ancora oggi, a fine pranzo, la domenica, è il metro di paragone del racconto che si fa a sud o almeno nei pranzi che mi capita di fare.


Nord e Sud, paragoni, storie, aneddoti. I Savoia che non sapevano una parola d’Italiano e parlavano il francese, i Borbone che prima o poi qualcuno a tavola dice essere l’unica dinastia veramente italiana che parlavano italiano e napoletano; poi l’aneddoto che avrò ascoltato dall’intero arco dei miei conoscenti e che io stesso ho contribuito a diffondere. In fondo è storia non leggenda: i torinesi quando arrivarono alla Reggia di Caserta non riconobbero il bidet, definendolo nei loro archivi «oggetto non identificato a forma di chitarra». E da qui le infinite riflessioni su chi è più pulito di chi.


Torino in fondo viene vista da sempre come un altro popolo, un altro pezzo di nazione, il mio sud sente relativamente più vicine Genova e Venezia, ma Torino proprio no. Ancora oggi c’è quella memoria nascosta nelle pietre di paese, nei vicoli, nel rancore dei nonni, nelle tifoserie degli stadi che sventolano i vessilli borbonici. C’è ancora il ricordo dei 120.000 soldati piemontesi mandati al sud a reprimere e conquistare.


E poi l’emigrazione: ero adolescente quando si partiva per andare a fare l’avvocato a Torino. Torino era più lontana di Milano, perché da Milano si poteva tornare, mentre da Torino no. Torino, un’immagine di efficienza e liberalità. Rigore certo ma un rigore avanzato, progressista. Torino era il contrario delle cose che vivevo. Se giù c’era il disordine, su regnava l’ordine; se al sud c’era disoccupazione, a nord c’erano garanzie di lavoro; se da noi per fare l’amore bisognava fidanzarsi, le torinesi invece potevano concedersi prima.


Stereotipi, certo, ma questa è stata Torino per me e ancora lo è nel nostro immaginario. Torino, una città nella quale è difficile scovare torinesi nativi; una città che i meridionali hanno conquistato con il lavoro, l’hanno presidiata con i sogni di vita normale, l’hanno espansa con la realizzazione di una sicurezza civile, una casa, due figli, la casa per la figlia. Insomma questa è la mia Torino, la città più a Sud d’Italia.




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Published on June 16, 2016 03:14

June 15, 2016

Simonetta Lamberti, Giuseppe Di Matteo e Cocò Campolongo e i bambini uccisi dalle mafie

bimbi_615x340Ieri leggevo i vostri commenti durante Gomorra: molti hanno scritto che le mafie non uccidono i bambini, che non li minacciano, che non li usano.
Ascoltate questa intercettazione, risale al maggio scorso.



 È una telefonata tra il boss Antonio Genidoni e l’affiliato Emanuele Esposito che al telefono è disperato perché gli hanno appena ammazzato padre e fratello in un agguato di camorra, per vendicare un omicidio avvenuto qualche giorno prima.


Aiutatevi nella comprensione con la trascrizione:



Genidoni: «Mo è schiattamm acap pur a lor, mo e pigliamm a tutti quanti, uomini creature, femmine».
Esposito: «Mo piglio le bombe è gliele butto nelle case sull’anima di Ciro… devo andare solo in galera mo! Mo prendo le bombe è gli uccido le creature. Sull’anima di Ciro… è inutile che piango… non ci sta niente da fare».
Genidoni: «Mo scendo pure io».
Esposito: «Mo amma accirer. Dobbiamo sterminare tutta la famiglia….le bombe… devo buttare le bombe mo’! le bombe …non …incomp… le pistole ora!».



 


“Mo prendo le bombe è gli uccido le creature” è dialetto napoletano, ma immagino che il senso di questa frase lo abbiate compreso tutti.


Dire che le mafie non tocchino i bambini, che la loro etica e il loro codice morale glielo impediscano, significa attribuir loro valori che non sono mai appartenuti alla criminalità organizzata di ogni latitudine.


Simonetta Lamberti, Giuseppe Di Matteo, Cocò Campolongo e le decine di bambini uccisi dalle mafie, ne sono la tristissima, insopportabile testimonianza.




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Published on June 15, 2016 05:16

June 13, 2016

Un libro per comprendere le stragi

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È come se la storia attuale, quella che stiamo contribuendo a scrivere, ci stia abituando a dare un senso alle stragi. Parliamo di divergenze culturali, religiose, più di rado comprendiamo che è un  problema di predominio, soprattutto economico. E se si fa fatica a capirlo è perché il male non si presenta in purezza, ma mediato da un’altra lingua, volti solo apparentemente diversi dai nostri e una distanza che avvertiamo come siderale.


Esiste un libro il cui titolo sembra quasi un coro da stadio, “Uno di noi”, che ci spiega esattamente cosa sia una strage, cosa abbia nel suo DNA, come si prepari e quali effetti produca.


La sua autrice, Åsne Seierstad, è una giornalista norvegese che si è fatta le ossa come corrispondente di guerra. Lei ha deciso di indagare, capire e poi spiegare il motivo della strage di Utoya, convinta che fosse il modo giusto, forse l’unico, per capire cosa accade in ogni strage anche quelle cui cerchiamo di dare spiegazioni razionali che ci consentano di metabolizzare il lutto, di sentirci al sicuro o meglio, di avere meno paura.


“Uno di noi” è opera titanica che ha passato al vaglio deposizioni, testimonianze raccolte ovunque, che ha indagato le vite di tutte le persone coinvolte, le vittime, i loro familiari, il carnefice, la sua storia, il contesto che ha forgiato la sua sete di tragedia.


Dinanzi alle nuove stragi consiglio questo libro su Anders Breivik. Un libro portentoso per ricerca e stile. Parole come schegge di granata, parole che mettono radici nello stomaco.


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Published on June 13, 2016 08:56

Così muore la democrazia in Italia

elezioni-comunali-2-2_615x340Un uomo un voto, ma non a certe latitudini d’Italia dove evidentemente le regole sono diverse e c’è chi può votare più di una volta.


Manca una settimana al ballottaggio ma a Crotone ancora non si conoscono i dettagli sulle preferenze raccolte dai singoli partiti. I sospetti di brogli sono altissimi.
Il sito del Comune aveva pubblicato i voti ottenuti dalle 25 liste, ma solo per poco, perché quei numeri, ancora incerti, sono stati immediatamente rimossi.


Come avverte La Stampa “il numero di preferenze espresse superava quello dei votanti” e la commissione elettorale del Tribunale ha evidenziato come “dai plichi sigillati sarebbero spuntate fuori schede vidimate superiori al numero dei votanti”. 


Qui l’articolo.


Crotone (Calabria) conta poco più di sessantamila abitanti, quello che è accaduto è inammissibile. Tutto normale, invece, direte voi: è il Sud che funziona così, anzi, che non funziona affatto. È la periferia dell’impero, una periferia dimenticata. Ma Roma, che dell’impero è il cuore, la Capitale, pare non se la passi meglio.


“I dati non sono ufficiali, in quanto a cura dall’Ufficio Centrale Elettorale presso il Tribunale Ordinario di Roma. Essi hanno valore puramente indicativo e chiunque ne faccia uso per fini diversi da quelli unicamente informativi cui sono destinati è direttamente responsabile”, questo è quanto potrà leggere chi andasse sul sito di Roma Capitale nella pagina dedicata alle Amministrative 2016. Sembra infatti che anche nella Capitale manchino in alcuni casi i risultati definitivi dei singoli municipi.
Potete approfondire qui.


Così muore la democrazia in Italia.




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Published on June 13, 2016 07:00

June 11, 2016

Vivere e morire per un campo di canapa

Medical potSilvio Mirarchi, maresciallo dei Carabinieri di Marsala, è morto qualche giorno fa in seguito a una sparatoria. A colpirlo probabilmente sarebbero state persone a guardia di una piantagione di marijuana. Qualche tempo prima era toccato a due romeni che si erano trovati sotto una raffica di fuoco nelle campagne tra Mazara del Vallo e Marsala. Uno è riuscito a fuggire, seppur ferito, dell’altro si sono perse invece le tracce. Poi, però, a un chilometro di distanza, si sarebbe trovato un cadavere carbonizzato su cui i Carabinieri stanno svolgendo indagini. Mirarchi era impegnato in un’operazione antidroga e può darsi sia stato scambiato per un ladro di piante di marijuana, questa l’ipotesi più verosimile.


Qualche quotidiano locale, per attirare l’attenzione nazionale, ha titolato: “La Gomorra di Marsala”. Strano come, invece, a me venga in mente “Breaking bad”. Tutto mi ricorda il Messico e quei luoghi di confine tra Stati Uniti e Messico in cui per difendere una piantagione di marijuana si spara, si ammazzano uomini come fossero animali, si carbonizzano cadaveri perché siano irriconoscibili e non identificabili. E dove, soprattutto, è guerra di tutti contro tutti. La mafia è in difficoltà per arresti e processi e ce lo dice chiaro un dato: il ritorno alle coltivazioni. Coltivazioni che sono difficili da gestire e da occultare, ma che rendono moltissimo e soprattutto, nel bel mezzo di niente, dove chi fa il proprio lavoro come minimo rischia la vita, sono protette da armi e paura. A fronte di una produzione che si stima tra le 1.500 e le 3.000 tonnellate annue, i sequestri sono poca cosa e si mantengono sulle percentuali irrisorie del 5 o 10 per cento.


Quando leggo notizie come questa, non posso fare a meno di collegarle ad altre. Non posso fare a meno di pensare a come si sta provando a risanare la striscia di terra contaminata che circonda l’Ilva di Taranto, appunto con la canapa. Canapa che in Italia è tradizione e innovazione al tempo stesso. “Panis vita, canabis protectio, vinum laetitia“: questa scritta si trova a Bologna, sotto le volte del portico di Via Indipendenza e indica non una protezione generica, ma la riconoscenza di Bologna verso un prodotto il cui commercio, tra gli altri, aveva reso la città ricca. Canapa è protezione perché con le sue fibre si potevano fabbricare tessuti che riparavano dal freddo e dal caldo.


Oggi, come scrive “Vice” in un ottimo reportage di Luigi Mastrodonato «Intorno all’Ilva di Taranto stanno coltivando la cannabis per bonificare i terreni» reperibile online, nasce un movimento che è innanzitutto culturale (e a me sono venute in mente le parole di Paolo Borsellino, che parlava di lotta alla mafia come “movimento culturale”) che ha «Principalmente l’obiettivo di ripulire i terreni, ma anche creare una filiera ad hoc che si occupi della trasformazione della canapa offrendo peraltro nuovi posto di lavoro».


Il passo è breve, come si può non collegare la morte del maresciallo di Marsala, il corpo carbonizzato, la bonifica che si sta tentando di fare dei terreni che circondano l’Ilva utilizzando piantagioni di canapa con i dati diffusi qualche tempo fa (e di cui ho già dato conto) da Coldiretti? Coldiretti individuava proprio nella coltivazione della cannabis a uso terapeutico una fonte di guadagno immediato per la nostra asfittica economia per un giro d’affari di almeno un miliardo e 400 milioni di euro e una filiera produttiva che, messa in moto, renderebbe almeno 10mila posti di lavoro. Utilizzando le serre che al momento giacciono abbandonate. Questi dati erano accompagnati da un sondaggio secondo cui 2 italiani su 3 sarebbero favorevoli alla coltivazione di marijuana per uso terapeutico.


Io spingo l’asticella oltre sottolineando il fallimento delle politiche proibizioniste e spiegando ancora una volta come le mafie tendano ad appropriarsi e a difendere con tutte le armi che hanno a disposizione, quelle porzioni di mercato di cui l’opinione pubblica e la politica per vari motivi non vogliono occuparsi. Per le coltivazioni di marijuana si spara, si combatte e si muore: riusciamo a capire che danno stiamo facendo alla società in termini economici e di dolore non affrontando il problema nella maniera più giusta? Legalizzare, sperimentare e capire sono le uniche soluzioni.




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Published on June 11, 2016 03:09

June 10, 2016

Lei è Sandra Ávila Beltrán, La Reina del Pacífico

reina_615x340Lei è Sandra Ávila Beltrán, La Reina del Pacífico, racconto la sua storia in ZeroZeroZero.
È una storia incredibile, che tutti dovremmo conoscere per capire come funziona non il mondo del narcotraffico, ma il nostro mondo, quello nel quale viviamo, lavoriamo, amiamo. Il mondo nel quale ci sentiamo al sicuro.


Sandra Ávila Beltrán è stata ai vertici dei cartelli del narcotraffico in Messico, eppure è stata arrestata per evasione fiscale. Questo la dice lunga sull’importanza di monitorare i flussi economici, un allarme che in tempo di crisi nessun governo è incline ad accogliere.


Sandra Ávila Beltrán è nata ricca, e molto. Suo padre, Alfonso Ávila Quintero è stato tra i fondatori del Cartello di Guadalajara. Lezioni private, pianoforte, danza e continui viaggi all’estero. L’università e il sogno di diventare una giornalista. Eppure le radici non le dimentichi: non dimentichi quel primo omicidio di cui a 13 anni sei stata testimone.


È tutto qui, in questo articolo pubblicato sul Guardian.


Ed è tutto nell’intervista che la Reina del Pacífico concede.


Parla per ore senza ammettere nulla. Parla come un capo.



– Non mi pento perché non ho fatto nulla di male.
– E dolore?
– Quello sì, perché ho perso molti amici.





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Published on June 10, 2016 06:05

Il boss Luigi Cimmino in carcere per la gelosia di una donna

luigi_cimmino_615x340Dieci anni fa, quando in Gomorra parlai dei “sottomarini”, coloro che portavano danaro – gli stipendi, le “mesate” – alle famiglie dei camorristi in carcere, latitanti o uccisi, mi dissero che esageravo perché avevo parlato, per la prima volta, del welfare della camorra.


Ecco ora le prove. “A zi’, vir si so’ giusti” dice Raffaele, cassiere del clan Cimmino di Napoli (quartiere Vomero) mentre consegna la mesata di 500 euro alla moglie di un detenuto. L’intercettazione (potete ascoltarla qui al minuto 13′ 38”) trasmessa in esclusiva stamattina dal GR1 in un servizio di Arcangelo Ferri, ha fornito agli inquirenti le prove che cercavano: il clan Cimmino è una struttura radicata sul territorio e gestisce l’affiliazione anche occupandosi delle famiglie di chi è in carcere.


Uno stato sociale alternativo, prova schiacciante dell’esistenza e dell’operatività di un gruppo criminale. E come sempre si cade per un dettaglio.


La compagna del cassiere gli impone per gelosia di tenere il telefono in tasca, lei è muta all’altro capo che ascolta la consegna dei soldi, voleva essere certa che il suo compagno non la tradisse. Ma non c’è solo lei ad ascoltare la telefonata, la ascoltano anche i Carabinieri che hanno il numero sotto controllo e che grazie a questa prova potranno arrestare Luigi Cimmino, reggente del clan.


Fa quasi ridere, un clan decimato per la gelosia della compagna di un affiliato. Così come sembra folcloristica l’intercettazione. Toni pacati, quasi familiari. Il cassiere che a un certo punto, verso la fine, si preoccupa anche di un imminente matrimonio. Anche quello interessa perché il clan sarà presente, aiuterà economicamente e consoliderà così la sua presenza sul territorio, farà proselitismo.


Dove lo Stato manca, dove servono soldi e assistenza c’è la camorra, il sistema. Un servizio di pochi minuti spiega un mondo, spiega perché in alcuni territori non ci sia scelta: spiega gli effetti devastanti della disoccupazione giovanile al 50%.




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Published on June 10, 2016 05:50

June 9, 2016

Quando invitai l’Osce a monitorare le elezioni

fanpage_video_elezioni_comunali2016_ildesk_615x340Nel 2010 sembrò una provocazione la mia: un appello ai Caschi Blu, perché inviassero in Italia, nei territori più difficili, osservatori per garantire la regolarità di tutte le fasi del voto.


Scrissi:



Non voglio vivere in un paese che dovrebbe chiedere all’ Osce, all’Onu, alla Comunità Europea di inviare osservatori nei territori più difficili, durante le fasi ultime della campagna elettorale per garantire la regolarità di tutte le fasi del voto. Ci vorrebbe un controllo che qui non si riesce più a esercitare. Ciò che riusciamo a valutare, a occhio nudo, sono i ribaltoni, i voltafaccia, i casi eclatanti in cui per ridare dignità alla cosa pubblica un politico, magari, si dovrebbe fare da parte anche se per legge può rimanere dov’ è. Ma non riusciamo a esercitare un controllo che costringa la politica italiana a guardarsi allo specchio veramente, perché lo specchio che usiamo riesce a riflettere solo gli strati più superficiali della realtà.



 


E ancora:



Sarebbe triste che i cittadini, gli elettori italiani, dovessero rivolgersi all’Onu, all’Unione Europea, all’Osce per vedere garantito un diritto che ogni democrazia occidentale deve considerare normale: la pulizia e la regolarità delle elezioni. Dovrebbe essere normale sapere, in questo Paese, che votare non è inutile, che il voto non si regala per 50 euro, per un corso di formazione o per delle bollette pagate. Che la politica non è solo uno scambio di favori, una strada furba per ottenere qualcosa che senza pagare il potere sarebbe impossibile raggiungere. Che restare in Italia, vivere e partecipare è necessario. Che la felicità non è un sogno da bambini ma un orizzonte di diritto.



 


Qui l’articolo completo.


Sono passati sei anni da questo articolo e la situazione è peggiorata.
Domenica scorsa Fanpage.it ha monitorato per 12 ore diversi seggi elettorali di Napoli (tra gli altri quelli del Pallonetto di Santa Lucia, del rione Sanità e di via Carbonara). Ecco il video che mostra attività sospette:



E ancora su Fanpage:



Così nella prima serie il voto inquinato di Giugliano, gestito da Genny Savastano come un mercato delle vacche si ripropone, tale e quale, nella realtà documentata dal nostro giornale alle primarie del Pd il 6 marzo e ora, alle elezioni Comunali vere e proprie, di domenica 5 giugno scorso.



 


Qui l’articolo completo.


Il dibattito su Gomorra – La serie, alla luce di tutto questo, assume una luce grottesca. Si continua a ripetere che è opera fantasia perché l’attenzione possa spostarsi costantemente altrove. E si continua a chiedere una maggiore presenza delle forze dell’ordine sullo schermo per esorcizzare la loro impotenza nella realtà.




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Published on June 09, 2016 03:05

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Roberto Saviano
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