Roberto Saviano's Blog, page 3
July 13, 2016
La verità sulla morte di Riccardo Magherini: una sentenza storica
Riccardo Magherini è morto il 3 marzo 2014, braccia dietro le spalle, ammanettato, steso al suolo mentre i carabinieri che lo avevano fermato e immobilizzato facevano pressione sul suo addome impedendogli di respirare e causandone la morte.
Questa è la verità processuale sul decesso di Magherini. Morto perché i carabinieri che lo hanno fermato non hanno rispettato regole fondamentali: un uomo ammanettato non è più pericoloso e non deve essere tenuto fermo al suolo. Un uomo sotto effetto di sostanze stupefacenti non deve avere l’addome compresso perché il rischio di insufficienza respiratoria potrebbe causarne la morte.
Tre dei quattro carabinieri che hanno proceduto al fermo di Magherini, la sera del 3 marzo 2014, sono stati condannati per omicidio colposo. Un carabiniere e le due volontarie del 118 sono stati, invece, assolti.
Quella di oggi è una sentenza storica perché individua i responsabili e li individua nelle forze dell’ordine.
Quella di oggi è una sentenza storica perché dice chiaramente alle forze dell’ordine che il loro compito è salvaguardare l’incolumità dei cittadini e mai, mai, mai causarne la morte.
Quella di oggi è una sentenza storica perché è in ballo la credibilità dello Stato e dello stato di Diritto.
Quella di oggi è una sentenza storica arrivata dopo un processo che sembrava essere un processo alla vittima, alla sua stessa esistenza e alle sue abitudini più che un processo a chi lo aveva condotto alla morte.
La mafie ci tolgono tutto, anche l’umanità
Non c’è nulla di più pericoloso, per una democrazia, delle organizzazioni criminali. Non si tratta di sangue e omicidi, né è una questione meramente economica.
Le organizzazioni criminali mangiano le democrazie, le corrodono dall’interno, le rendono complici e alla fine addirittura disumane.
In Italia, nella cattolica Italia, in genere con la morte arriva al silenzio. La stessa pietas che si ha verso Dio, si applica anche ai morti, a tutti i morti.
E silenzio significa questo: non infierire su un corpo che ha smesso di respirare. Questa regola non scritta, ma sempre rispettata, per i mafiosi non vale.
“Per la nostra comunità – ha detto il sindaco di Corleone – la morte di Provenzano è come la liberazione da un cancro, da una malapianta che affliggeva i cittadini”.
Una liberazione che però lascia ferite profonde. Ferite per processi che non si sono conclusi, ferite in un paese che, da quando le condizioni di Provenzano sono andate aggravandosi, non ha potuto essere clemente. Per i medici le sue condizioni di salute erano incompatibili con il regime carcerario duro, ma Provenzano non era più un uomo – se mai lo è stato – ma un simbolo. Provenzano non era un boss, un capo, Provenzano era la mafia e con lui lo Stato non ha potuto avere alcuna clemenza.
Ecco il male peggiore che le organizzazioni criminali fanno al nostro Paese: oltre a sottrarre giustizia, oltre a compromettere economia e democrazia, oltre a toglierci tutti i diritti che diventano privilegi, ci tolgono l’umanità, l’unica cosa che a noi era rimasta.
July 8, 2016
“Anche se sono una persona sola, posso fare la differenza”
Rafael Caro Quintero è uno dei padri fondatori del narcotraffico messicano così come lo conosciamo oggi. Al fianco del Padrino Miguel Ángel Félix Gallardo vide la nascita dei cartelli messicani alla fine degli anni ’80. Lui trafficava droga ancora prima che il Messico conoscesse l’enorme valore commerciale della cocaina e ha contribuito a far diventare il Messico il centro del narcotraffico mondiale. E forse ne sarebbe diventato il re indiscusso se Kiki Camarena, agente speciale della DEA, non si fosse messo sulla sua strada.
Infiltrandosi nel cartello, Kiki era riuscito ad arrivare ai veri boss e a guadagnarsi la loro fiducia: con le sue indagini sotto copertura era riuscito a far sequestrare una delle piantagioni di marijuana più grandi al mondo che era proprio sotto il controllo del boss Rafael Caro Quintero, mandando in fumo in un solo sequestro otto miliardi di dollari. Ma soprattutto Kiki li aveva traditi, li aveva ingannati, era stato più furbo di loro, e questo i narcos non potevano tollerarlo.
La fiducia riposta in lui era stata massima e la punizione doveva essere esemplare, doveva restare nella storia a futura memoria. Kiki fu sequestrato, torturato per giorni e il suo cadavere martoriato fu scaricato ai lati di una strada di campagna del Michoacán, legato, imbavagliato e con gli occhi bendati.
Aver toccato Kiki, un’agente statunitense, si rivelò un passo falso per i narcos. La Dea diede vita alla più vasta indagine su un omicidio che fosse mai stata intrapresa dagli Stati Uniti sino ad allora, l’Operazione Leyenda. Vennero arrestati cinque poliziotti che ammisero di aver partecipato allo smascheramento di Camarena: tutti indicarono come mandanti Rafael Caro Quintero ed Ernesto “Don Neto” Fonseca Carrillo. Caro Quintero riuscì a scappare corrompendo un comandante della Polizia giudiziaria messicana e fuggì in Costa Rica, ma fece l’errore di non recidere tutti i contatti con il passato: portò con sé la sua fidanzata Sara Cristina. Quando mesi dopo Sara Cristina, presa dalla nostalgia, chiamò sua madre in Messico, ad ascoltare la telefonata c’erano gli agenti della DEA, che in questo modo localizzarono il nascondiglio del boss. Rafael Caro Quintero, il Padrino Miguel Ángel Félix Gallardo ed Ernesto “Don Neto” Fonseca Carrillo finirono dietro le sbarre, accusati dell’omicidio dell’agente Camarena.
Ma queste storie sono destinate a non finire mai, come insegna Caro Quintero. La notte del 9 agosto 2013 il boss tornò a respirare aria di libertà: una corte federale di Guadalajara aveva riscontrato un’irregolarità “formale” nel processo intentato a Caro Quintero per il sequestro, la tortura e l’omicidio di Kiki Camarena: secondo la corte, il tribunale federale che giudicò Caro Quintero non era titolato a farlo perché l’agente della Dea non era un agente diplomatico o consolare e quindi il processo avrebbe dovuto tenersi in un tribunale comune. Cavilli sufficienti per far prendere il volo a uno dei più grandi boss messicani, che una volta messo piede fuori dal carcere fece subito perdere le sue tracce.
Su di lui negli Stati Uniti pendono ancora accuse per vari reati federali: per questo, il Dipartimento di Stato americano ha stanziato una ricompensa di 5 milioni di dollari per chiunque fornisca informazioni che possano portare alla sua cattura. Ma intanto, ovunque si trovi, Caro Quintero non ha smesso di seguire le sorti del narcotraffico messicano e ha visto nella cattura del Chapo Guzmán un varco in cui potersi inserire per tornare in sella: secondo nuove indagini della procura messicana, Caro Quintero starebbe organizzando il suo ritorno in grande stile. Il suo obiettivo è il regno di Sinaloa, che infatti nelle ultime settimane ha visto una escalation di violenza, forse per via di una nuova guerra per il controllo del territorio. Sul ritorno di Caro Quintero potete approfondire qui.
L’esultanza per l’arresto del Chapo è già finita e in Messico vecchi fantasmi vogliono riprendere il comando.
Cannabis legale, il momento è arrivato
Il ministro della Salute Beatrice Lorenzin non perde occasione per mostrarci quanto poco conosca le materie di cui si occupa. Il prossimo 25 luglio è stata calendarizzata la discussione alla Camera del testo sulla legalizzazione della cannabis proposta da un intergruppo di oltre 230 deputati. Intanto, quando ne parliamo, distinguiamo tra legalizzazione e liberalizzazione, perché sono due percorsi completamente diversi. La legalizzazione avrebbe effetti immediati sul ridimensionamento del mercato delle droghe gestito dalle organizzazioni criminali perché costituisce di fatto la depenalizzazione di una condotta ritenuta fino a un momento prima illegale e quindi perseguibile per legge.
Come è possibile che rendere legali le droghe leggere (iniziamo a ragionare su queste) equivalga a sottrarre il loro mercato al monopolio delle organizzazioni criminali? Perché di fatto entrerebbe sul mercato un competitor che legifera al riguardo, ovvero lo Stato. Un competitor che sarà monopolista: ecco perché no, non si parla di liberalizzazione. In caso di legalizzazione sarebbe lo Stato a gestire coltivazioni, produzione, distribuzione e vendita.
Così facendo potrà monitorare su qualità e quantità. Cosa che non può fare adesso e che sarebbe difficile fare in caso di liberalizzazione.
Ma il ministro Lorenzin tuona: «Tutto il tema della liberalizzazione della marijuana è un business perché il mercato della criminalità resti in piedi». In questa dichiarazione non smentita e apparsa sulle maggiori testate nazionali, Lorenzin parla di liberalizzazione, ignorando sicuramente che in Parlamento si discuterà invece di legalizzazione. Poi continua: «Oggi queste sostanze si assumono a 11 anni, quando sei un bambino. Un ragazzo giovane non ha la concezione della salute».
Esatto. Oggi si assumono a 11 anni perché si possono acquistare ovunque, nelle quantità desiderate, basta avere soldi. La qualità di ciò che i ragazzi fumano è pessima e fa danni incalcolabili ai loro organismi. Oltretutto, se e quando le droghe leggere saranno legali, seppure il mercato nero non dovesse finire, sarebbe costretto ad aumentare la qualità.
Se questo non bastasse – e non basterà – a convincere gli scettici, potrebbero venire in aiuto un po’ di cifre che però chi è pregiudizialmente contrario alla legalizzazione (a qualunque tipo di legalizzazione) non si prende mai nemmeno il disturbo di leggere. Però forse il ministro Lorenzin, dato che è appunto un ministro, le cifre contenute nel VII Libro Bianco sulle droghe dovrebbe conoscerle.
Il VII Libro Bianco sulle droghe è un lavoro presentato alla Camera dei deputati e promosso da Società della Ragione Onlus , Forum Droghe, Antigone e Cnca e con l’adesione di Cgil, Comunità di San Benedetto al Porto, Gruppo Abele, Itaca, Itardd LegaCoopSociali, Lila, Associazione Luca Coscioni. Andrebbe letto perché mostra come la lotta alle droghe perde completamente scopo quando a essere colpiti e puniti, come accade, sono prevalentemente piccoli spacciatori e consumatori di droghe leggere. Le organizzazioni criminali sono appena lambite dalle operazioni di polizia, dal lavoro della magistratura e dagli arresti. Delle 19 mila operazioni di polizia in materia di stupefacenti, il 56 per cento hanno per oggetto cannabinoidi. Su 27.718 segnalazioni, 2.286 contestano l’associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, nel 91,75 per cento dei casi si ha a che fare con «detentori di sostanze di cui non è neanche sospettata l’appartenenza a organizzazioni criminali dedite al traffico di sostanze stupefacenti».
Ecco invece un dato che dovrebbe preoccupare noi e il ministro Lorenzin: tra il campione di ragazzi tra i 15 e i 19 anni presi in considerazione da uno studio realizzato dall’Istituto di Fisiologia Clinica del Cnr, risulta che una percentuale piuttosto alta non sappia quali droghe consuma. È chiaro che proibire non è mai stato il miglior modo per informare, creare consapevolezza e arginare un fenomeno.
E ora sì, nonostante la crisi economica, nonostante la disoccupazione, nonostante tutto il ben altro che si vorrà trovare, è tempo che il governo prenda posizione a favore di questa legge e lo faccia con fermezza. Ne ha la possibilità tra meno di un mese.
July 6, 2016
In Italia a decidere del nostro destino sono cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta
Ennesimo scandalo ed ennesimi arresti a Milano. Tutto prevedibile, tutto previsto.
Sono trascorsi cinque anni da quando, nel 2011, il procuratore aggiunto Ilda Boccassini disse che a Milano “non si denuncia per convenienza. Ci sono imprenditori consapevoli e interessati”.
Ma naturalmente chiunque racconti diffama, e questo accade a qualsiasi latitudine, che sia Napoli o Milano lo storytelling deve essere positivo e così facendo l’attenzione diminuisce e tutto è esposto agli appetiti delle mafie.
Quando mi si dice “Saviano vedi le mafie ovunque, parla d’altro, parla di crisi e disoccupazione, qui c’è gente che non arriva a fine mese”, mi domando ancora come sia possibile non capire quanto tutto sia connesso. Quanto la forza delle mafie sia la nostra debolezza. Quanto i loro affari rendano più drammatica la nostra crisi.
Lombardia e Sicilia sono due regioni idealmente agli antipodi del nostro Paese, ma legate indissolubilmente e vicinissime in questa inchiesta della Dda di Milano che ha portato all’arresto di undici persone tra cui Giuseppe Nastasi “imprenditore che si occupa di allestimenti fieristici e che, insieme ad altri soggetti che fungono da prestanome, commette una serie di reati tributari per importi assai rilevanti” e Liborio Pace (con cui Nastasi intratteneva “rapporti molto stretti”), che avrebbe funto da collegamento tra Nastasi e la famiglia mafiosa di Pietraperzia, in provincia di Enna, “partecipando all’attività di riciclaggio del denaro provento dei reati tributari”.
Nastasi e Pace, amministratori di fatto del consorzio di cooperative Dominus scarl, sono accusati di associazione per delinquere finalizzata a fatture false e altri reati tributari, di appropriazione indebita e riciclaggio con l’aggravante di aver agito per favorire il clan di Pietraperzia.
La Dominus scarl allestì per conto della controllata Nolostand i padiglioni di Palazzo Congressi, Auditorium, Francia, Qatar e Guinea per Expo. C’è chi non riesce a credere che le organizzazioni criminali abbiano messo le mani sulle partecipate pubbliche. Eppure tutto questo al Sud (e adesso scopriamo anche al Nord) è prassi già da molti anni. Quelle partecipate in cui nessuna amministrazione comunale riesce mai mettere ordine senza scontrarsi con chi davvero decide del destino di interi territori: cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta.
Ilda Boccassini parla della “incredibile quantità di denaro sottratto al fisco da parte di imprenditori lombardi e siciliani. Un fiume di denaro contante, prodotto e transitato in nero, che parte da Milano e arrivava in Sicilia”.
Nel 2015 Pace mette in salvo da una perquisizione in una cooperativa 295.000 euro in contanti che consegna all’avvocato di Caltanissetta Danilo Tipo (arrestato con l’accusa di riciclaggio aggravata dalla finalità di favorire Cosa Nostra). L’avvocato Tipo fa una cosa che se la vedessimo in un film o in una serie televisiva crederemmo frutto di invenzione: infila quei soldi in 25 buste bianche di plastica, li stiva nel bagagliaio della sua automobile e parte dalla Lombardia alla vostra della Sicilia. Ma durante il tragitto viene fermato da un posto di blocco niente affatto casuale e perquisito.
Ebbene, si giustifica dicendo che quel denaro non era altro che le parcelle ricevute in nero da alcuni suoi clienti. Ma non è l’unico viaggio, ce n’era stato anche un altro qualche mese prima sempre sulla direttrice Lombardia Sicilia, questa volta i 413.000 euro erano nascosti a bordo di un camion dentro un valigia nell’involucro di una piscina gonfiabile.
Il gip Maria Cristina Mannocci fa una dichiarazione rivoluzionaria, che cambia completamente la geografia delle mafie in Italia: ci sono logiche e condotte “che si presentano in territorio lombardo con le stesse modalità con cui, da oltre un secolo, si manifestano in territorio siciliano”.
L'articolo In Italia a decidere del nostro destino sono cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta sembra essere il primo su Roberto Saviano Online.
July 5, 2016
“Mamma, non devo più tornare lì, vero?”
Lara è una ragazza con difficoltà motorie e cognitive iscritta a un istituto a indirizzo professionale. Al termine del terzo anno, qualche giorno fa, la mamma di Lara va a scuola e si accorge che sua figlia nella foto di classe non c’è.
A quel punto decide di scrivere una lettera all’Alto Adige, è possibile leggerla qui, per denunciare come sua figlia sia stata trattata nei tre anni di studio e come, quando non era presente l’insegnante di sostegno, parole come integrazione e accoglienza erano del tutto estranee a quel contesto.
La scuola non è niente e non ha ragione di esistere se prima ancora di trasferire nozioni e ragionamenti, non insegna volontà, passione, curiosità ed empatia necessarie per capire mondi che sembrano distanti dai nostri.
L'articolo “Mamma, non devo più tornare lì, vero?” sembra essere il primo su Roberto Saviano Online.
L’Unicef: Abbiamo fermato l’esperimento perché faceva soffrire Anano.
Guardate questo video:
Anano è una bambina di 6 anni, una bambina attrice che ha fatto con l’Unicef un esperimento.
Anano è una bambina di 6 anni che vestita bene è stata lasciata sola in strada. I passanti le si sono avvicinati, preoccupati per lei. Le hanno accarezzato i capelli e chiesto se si fosse persa.
Anano è una bambina di 6 anni che vestita male e con il volto sporco viene lasciata sola in strada. Nessuno le si avvicina. Nessuno le chiede se per caso si sia persa. Nessuno le fa una carezza. Nessuno.
Anano è una bambina di 6 anni che vestita bene entra in un ristorante. Gli avventori le accarezzano il volto, i capelli, quasi divertiti per questa piccolina che da sola gira per i tavoli. Qualcuno magari si preoccupa per lei, pensando che abbia perso i suoi genitori.
Anano è una bambina di 6 anni che vestita male, faccia sporca, entra in un ristorante. Questa volta il meglio che possa succederle è essere ignorata. Viene più spesso allontanata e le borse “messe in salvo”.
Questo esperimento atroce, atroce perché svela l’atrocità dell’essere umano, è stato interrotto perché Anano ha iniziato a soffrire per come veniva trattata quando non aveva indosso abiti puliti.
Quando aveva il volto truccato di nero. Anano è un’attrice, una bimba attrice di 6 anni. Anano avrebbe avuto bisogno di una carezza proprio quando era vestita con abiti vecchi e sporchi e con il volto annerito, perché questo le avrebbe insegnato che anche nella vita reale le persone sono aperte e disponibili e che sono pronte ad aiutare.
Anano è una bambina di 6 anni, sempre.
L'articolo L’Unicef: Abbiamo fermato l’esperimento perché faceva soffrire Anano. sembra essere il primo su Roberto Saviano Online.
July 1, 2016
Diritti negati alle donne Trapani come il Brasile
A Barcellona, il 5 luglio 1982, allo Stadio di Sarriá si è disputata la storica partita Italia-Brasile 3-2. Erano i Mondiali di Spagna e il Brasile fu eliminato. Si tratta di un’associazione di idee, nulla di più. Sarà perché siamo immersi negli Europei di calcio proprio mentre l’Europa sembra cadere a pezzi, o sarà per una notizia che parla di Brasile, di aborto illegale, del virus Zika e che riguarda, in ultima istanza, anche l’Italia.
In Brasile e in altri paesi dell’America Latina, da quando si è diffuso il virus Zika, le richieste di aborto sono aumentate vertiginosamente. Gli aborti non vengono praticati in ospedali pubblici tranne in rarissimi casi e le donne si rivolgono per lo più a siti web per acquistare pillole a base di mifepristone e misoprostolo che producono aborti farmacologici.
Il “Guardian” indica come sito di riferimento “Women on Web”, che ha una storia molto particolare. “Women on Web” era originariamente una barca ormeggiata a largo dei paesi in cui l’aborto era illegale; le donne, per abortire, dovevano arrivarci in gommone. Ora è un sito che offre consulenza medica online, indica dove poter acquistare le pillole o le spedisce direttamente: è il male minore perché chi non ha accesso al web si sottopone a interventi invasivi, in strutture clandestine.
In confronto, l’aborto farmacologico appare quasi una passeggiata, ma il presupposto è che la donna che decidesse di praticarlo, sia a conoscenza del proprio stato di salute, sia incinta di non oltre 10 settimane e sia pronta a raggiungere un ospedale attrezzato in tempi brevi in caso di effetti collaterali. In Italia, per essere chiari, non è consentito fuori da strutture ospedaliere. Un’altra clausola di “Women on Web” è questa: nel paese di chi chiede il consulto, l’accesso all’aborto deve essere limitato. E qui ho pensato all’Italia e a una notizia di qualche giorno fa.
«A Trapani non è più garantito il diritto all’interruzione di gravidanza» questa è la dolorosa denuncia dei coordinamenti donne di Cgil e Uil cittadini. È andato in pensione l’unico medico non obiettore di coscienza dell’unico ospedale pubblico della città. Ogni anno sono circa 600 le donne che a Trapani fanno richiesta di interruzione volontaria di gravidanza, quasi 2 al giorno.
Inutile e fuorviante parlare di aborto come omicidio; non si abortisce per fare carriera, non si abortisce perché si ritiene che il momento non sia quello giusto per avere un figlio. Si abortisce invece perché troppo giovani, perché non si ha un lavoro, perché non si è in salute per portare a termine una gravidanza. Non si abortisce con leggerezza: è una strada sofferta, che si sceglie per necessità e non perché si è stati disinvolti nel sesso. Quello che vi diranno è «dovevano pensarci prima», «dovevano stare più attente». Non fatevi confondere: si può concepire anche quando si crede di aver preso precauzioni.
L’esortazione che ricevono in questi giorni le donne che a Trapani volessero interrompere la loro gravidanza è di andare all’ospedale pubblico più vicino che pratica aborti (Castelvetrano a 80 chilometri) o di rivolgersi a strutture private. Quello che accadrà, invece, come accade altrove, come accade in Brasile, è che aumentino gli aborti clandestini (inclusi quelli indotti da farmaci): un incubo che la legge 194 aveva provato a scongiurare.
È incredibile come, a quasi quarant’anni dal riconoscimento del diritto ad abortire, ancora non si sia riusciti a renderlo effettivo su tutto il territorio nazionale.
A chi la incalzi sullo stato della 194, il ministro della Salute Beatrice Lorenzin (Ncd) minimizza; dice che i dati cui si fa riferimento sono superati e che fotografano una situazione che non è più attuale.
Intanto è notizia recente (aprile 2016) che il Consiglio d’Europa abbia richiamato l’Italia per l’attitudine discriminatoria verso medici e infermieri non obiettori ed è altrettanto evidente che l’obiezione di coscienza raggiunge percentuali altissime e intollerabili al Sud: Molise (93,3%), Basilicata (90,2%), Sicilia (87,6%), Puglia (86,1%), Campania (81,8%).
Se questi dati non allarmano il ministro, un pensiero forse banale suggerirebbe che possa avere in spregio le sorti di un Sud sempre più negletto e dimenticato e che il suo sia in fondo un atteggiamento discriminatorio.
Un’ultima cosa: lo Stadio di Sarriá, quello dell’impresa italiana sul Brasile, nel 1997 è stato demolito.
L'articolo Diritti negati alle donne Trapani come il Brasile sembra essere il primo su Roberto Saviano Online.
June 30, 2016
“Il calcio è una cosa troppo seria”
Lo sport non è mai stato soltanto sport e così il 27 giugno, quando l’Islanda ha vinto agli ottavi di finale eliminando la nazionale inglese da Euro 2016, chi ama fare dietrologia, l’ha creduta naturale conseguenza per aver scelto il “leave”.
Lo sport non è mai stato soltanto sport e lo sa benissimo Maradona, che ai mondiali del 1986 non ha solo segnato il gol del secolo (il secondo contro l’Inghilterra) ma ha anche segnato di pugno (la Mano de Dios), il gol del riscatto per la sconfitta alle Falkland.
Lo sport non è mai stato soltanto sport, lo sa bene Faruk Hadžibegić, capitano dell’ultima nazionale della Jogoslavia, che il 30 giugno del 1990 a Firenze durante i mondiali di calcio, sbaglia il rigore contro l’Argentina.
La Jugoslavia fuori da Italia 90 e quel rigore sbagliato, hanno significato a lungo (e per chi lo ricorda, ancora significano) presagio della fine di una nazione.
“L’ultimo rigore di Faruk. Una storia di calcio e di guerra” di Gigi Riva racconta con delicatezza l’eterno rapporto tra sport e politica. Cosa sarebbe accaduto all’ex Jugoslavia se quel pallone fosse entrato in rete? Quella vittoria sarebbe stata utilizzata come propaganda? È probabile che la storia sarebbe andata diversamente (chi sa quanto diversamente) nel paese in cui le prove generali della guerra si sono svolte proprio in uno stadio (negli scontri tra i tifosi della Dinamo Zagabria e della Stella Rossa di Belgrado), nel paese in cui il reclutamento dei miliziani è avvenuto spesso proprio nelle curve.
E allora, dopo aver letto questo libro, fa sorridere tornare all’esergo, una frase che Maradona disse a Gigi Riva per rifiutare un’intervista: “Occupati di politica internazionale, il calcio è una cosa troppo seria”. Ecco, con questo libro che consiglio di leggere, Riva si è occupato di entrambi e lo ha fatto molto bene.
L'articolo “Il calcio è una cosa troppo seria” sembra essere il primo su Roberto Saviano Online.
“Occupati di politica internazionale, il calcio è una cosa troppo seria”
Lo sport non è mai stato soltanto sport e così il 27 giugno, quando l’Islanda ha vinto agli ottavi di finale eliminando la nazionale inglese da Euro 2016, chi ama fare dietrologia, l’ha creduta naturale conseguenza per aver scelto il “leave”.
Lo sport non è mai stato soltanto sport e lo sa benissimo Maradona, che ai mondiali del 1986 non ha solo segnato il gol del secolo (il secondo contro l’Inghilterra) ma ha anche segnato di pugno (la Mano de Dios), il gol del riscatto per la sconfitta alle Falkland.
Lo sport non è mai stato soltanto sport, lo sa bene Faruk Hadžibegić, capitano dell’ultima nazionale della Jogoslavia, che il 30 giugno del 1990 a Firenze durante i mondiali di calcio, sbaglia il rigore contro l’Argentina.
La Jugoslavia fuori da Italia 90 e quel rigore sbagliato, hanno significato a lungo (e per chi lo ricorda, ancora significano) presagio della fine di una nazione.
“L’ultimo rigore di Faruk. Una storia di calcio e di guerra” di Gigi Riva racconta con delicatezza l’eterno rapporto tra sport e politica. Cosa sarebbe accaduto all’ex Jugoslavia se quel pallone fosse entrato in rete? Quella vittoria sarebbe stata utilizzata come propaganda? È probabile che la storia sarebbe andata diversamente (chi sa quanto diversamente) nel paese in cui le prove generali della guerra si sono svolte proprio in uno stadio (negli scontri tra i tifosi della Dinamo Zagabria e della Stella Rossa di Belgrado), nel paese in cui il reclutamento dei miliziani è avvenuto spesso proprio nelle curve.
E allora, dopo aver letto questo libro, fa sorridere tornare all’esergo, una frase che Maradona disse a Gigi Riva per rifiutare un’intervista: “Occupati di politica internazionale, il calcio è una cosa troppo seria”. Ecco, con questo libro che consiglio di leggere, Riva si è occupato di entrambi e lo ha fatto molto bene.
L'articolo “Occupati di politica internazionale, il calcio è una cosa troppo seria” sembra essere il primo su Roberto Saviano Online.
Roberto Saviano's Blog
- Roberto Saviano's profile
- 1304 followers
