Roberto Saviano's Blog, page 2

July 25, 2016

Legalizzazione cannabis, così può indebolire mafie e terrorismo

legalizzazione_cannabis_italia_2_615x340Parlare di legalizzazione delle droghe leggere (lo faccio da anni) non è affatto semplice. E sapete perché? Perché legalizzare viene percepito come “fate pure”, anzi “fatevi pure”. Anche adesso che in Parlamento finalmente comincia la discussione sul disegno di legge, la confusione tra legalizazione e incentivo a fare uso di droghe è il grande equivoco su cui discutere.


Legalizzazione è esattamente il contrario della promozione al consumo. Legalizzare significa portare alla luce ciò che fino ad ora è stato avvolto dall’oscurità più cupa del mercato nero. Legalizzare le dorghe leggere farà estinguere le mafie? Nemmeno a parlarne.


Legalizzare le droghe leggere farà scomparire completamente il mercato illegale? Ovviamente no. E allora perché legalizzare? Perché legalizzarle indebolirà le mafie sottraendo loro capitali e allo stesso tempo ridimensionerà il mercato illegale. Chi vorrà fumare uno spinello preferirà di certo sostanze controllate che si possono acquistare regolarmente, senza incorrere in sanzioni, e non andrà a cercare un pusher giù in strada, non chiamerà lo spacciatore che si “leva” il fumo in casa, inventando parole in codice al telefono per capire se è un momento buono per andare a prenderlo o no.


Eppure è così difficile fare breccia nei ragionamenti di chi è contrario senza appello. Di chi non vuole sentire ragioni perché – dice – “non si può scendere a patti con le mafie”, “non si può accettare il male minore”, “si devono debellare le droghe, non renderle legali”. Chi potrebbe dirsi contrario, teoricamente, a questi principi? Il genitore che teme per i propri figli? Il fratello che ha scoperto che il piccolo di casa fuma spinelli di nascosto?


Non scherziamo: a nessuno verrebbe in mente di mettere in discussione questi principi generali. Ma dobbiamo fare i conti con il mondo reale. E il mondo reale è quello in cui chi fuma due pacchetti di sigarette al giorno (ma anche uno) rischia di ammalarsi di cancro. Il mondo reale è quello in cui quando bevi tre cocktail sei pericoloso per te stesso e per chi trovi sulla tua strada se poi ti metti al volante. In Italia le vittime del tabacco sono stimate sulle 80mila all’anno. Le vittime dell’alcol 40mila. E invece non c’è una sola vittima causata da droghe leggere. Nemmeno una.


Non convincerò gli scettici dicendo che applicando alla cannabis la stessa imposta del tabacco lo Stato incasserebbe in tasse tra i 6 e gli 8 miliardi di euro. Ma forse potrei richiamarli alla responsabilità ricordando che le droghe leggere sono merce di scambio tra organizzazioni criminali e organizzazioni terroristiche.


Sapete come è stato finanziato l’attentato in Spagna del 2004? Con l’hashish che i gruppi vicini ad Al Qaeda hanno venduto anche alla camorra napoletana. Lazarat, in Albania, la capitale mondiale della marjiuana, è finita sotto il controllo di gruppi criminali che sostengono Daesh. L’Is controlla ormai una produzione da oltre 5 miliardi di dollari. Sì, l’erba e l’hashish sono diventati gli strumenti primi di finanziamento delle organizzazioni fondamentaliste. E legalizzare sarebbe adesso un modo per sottrarre alle organizzazioni criminali tra gli 8 e gli 11 miliardi di euro l’anno.


Dove voglio arrivare? Esattamente qui: se il mondo che viviamo non ci piace, abbiamo davanti a noi due possibilità. La prima è pensare al mondo ideale che vorremmo e quindi percepire come compromissorie tutte le misure intermedie, quelle che intervengono riformando gradualmente, e che siccome non riescono a risolvere il problema immediatamente e nella sua totalità vengono avvertite come inutili. L’idealità sarà salva: ma la realtà va in rovina sempre più, allontanandosi dunque irrimediabilmente da quel mondo tanto ideale quanto irraggiungibile.


La seconda possibilità che abbiamo è quella di provare a “riformare” la realtà che viviamo: procedendo per tentativi, ragionando, misurandosi con la complessità dei problemi reali. Esempio. Le mafie esistono, fanno affari con il traffico di droga, ma anche con edilizia, appalti, servizi, gioco d’azzardo, ovunque c’è una falla nel sistema, o meglio, ovunque c’è una “domanda” a cui fare corrispondere un'”offerta”.


Ma di tutti questi ambiti il più redditizio resta il mercato degli stupefacenti. Perché è il più rischioso: ma è anche quello che procura i capitali per poter poi occuparsi di tutto il resto. Dove credete infatti che le organizzazioni trovino la liquidità per corrompere amministratori pubblici e politici? Dove credete che trovino le risorse per poter creare dal nulla aziende competitive sul mercato, che anzi con il mercato a volte non devono nemmeno confrontarsi perché guadagnano altrove e lì ripuliscono solo?


La risposta a tutte queste domande non può essere il solito mantra: “Anche Paolo Borsellino era contro la legalizzazione”. E non solo perché Borsellino diceva innanzitutto una cosa diversa: “Non bisogna stabilire una equazione assoluta tra mafia e traffico di stupefacenti, la mafia esisteva ancora prima e probabilmente, se mai dovesse scomparire il traffico di stupefacenti, la mafia esisterà anche dopo. È da dilettanti di criminologia pensare che legalizzando il traffico di droga, sparirebbe del tutto il traffico clandestino”.


Giustissimo: infatti la mafia non scomparirà. Ma dovrà leccarsi le ferite: perché uno Stato che legalizza le droghe leggere è uno Stato forte che non ha paura di combattere. Guardiamo poi i dati. Il Portogallo nel 2001 depenalizza la cannabis e lì in 15 anni diminuisce il consumo. L’Uruguay nel 2013 e il Colorado nel 2014 ne legalizzano il commercio a scopo ricreativo: e anche lì il consumo diminuisce invece di aumentare.


Ma non basta. Chi continua a opporsi alla legalizzazione ragiona più o meno così: se le droghe leggere venissero legalizzate si incrementerebbe il mercato di droghe più pericolose che lo Stato non potrebbe affatto legalizzare (droghe chimiche, cocaina, eroina). Ma perché mai? Se le droghe leggere divenissero legali, chi ne faceva uso prima potrebbe continuare a farlo senza rischiare sanzioni. Il mercato delle droghe, come ogni altro mercato, è fatto di domanda e offerta. E oggi le organizzazioni criminali rispondono perfettamente alla domanda di droghe diverse da quelle leggere, essendo un ambito nel quale le mafie hanno maniacale attenzione.


È evidente come su questo fronte non cambierebbe nulla e chi oggi fa uso di droghe leggere non inizierebbe certo a fare uso di cocaina, eroina o metanfetamina solo perché quelle leggere sono diventate legali. Sembra una barzelletta: Tizio fino a ieri fumava solo spinelli, ma da quando lo spinello è legale, per il gusto di trasgredire, ha deciso di sniffare cocaina. A me sembra un ragionamento assolutamente privo di buon senso. E a voi?


Ecco perché il fatto che il Parlamento oggi discuta una legge moderna sulla legalizzazione è già un atto rivoluzionario. Certo la speranza è che non diventi, come è successo con il ddl Cirinnà sulle unioni civili, bersaglio della politica più retrograda. Non permettiamo che la discussione si concentri unicamente sulla coltivazione della canapa a uso terapeutico ma pretendiamo invece responsabilità: è della legalizzazione della cannabis a uso ricreativo che si deve discutere, unico strumento che abbiamo per arginare lo strapotere delle organizzazioni criminali e per far diminuire il consumo. La repressione ha fallito. È tempo che Parlamento e politici italiani prendano posizione a favore di questa legge e lo facciano con fermezza.


Basta con le questioni di principio: è con i dati alla mano che bisogna lavorare per indebolire le mafie. I 1.300 emendamenti presentati da Area popolare e il silenzio, su questo, del presidente del consiglio dimostrano, ancora una volta, come la politica non riesca a liberarsi da quella zavorra che ha un nome preciso: e si chiama ricerca del consenso. Nel senso più semplicistico di voti – e potere. Invece le nuove energie sociali e lo sviluppo si sprigionano proprio dal coraggio in tema di diritti, come accaduto per la legge sulle unioni civili: sbilenca, ma almeno esistente.


Per questo il mio appello è rivolto soprattutto a chi non ha mai pensato minimamente di fare uso di droghe leggere né di volerne un uso di massa. Le parole d’ordine, insomma, sono “non voglio drogarmi, odio il consumo. E per questo legalizzo”.

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Published on July 25, 2016 00:41

July 22, 2016

La politica abbia coraggio #fuorilepalle #legalizecannabis

spinello_615x340Chi oggi si oppone alla legalizzazione delle droghe leggere utilizza queste argomentazioni:


1) se le droghe leggere venissero legalizzate il mercato illegale potrebbe ancora rivolgersi ai minorenni;
2) se le droghe leggere venissero legalizzate si incrementerebbe il mercato di droghe più pericolose che lo Stato non potrebbe affatto legalizzare (droghe chimiche, cocaina, eroina).


Partiamo dai minorenni: oggi i minorenni che fanno uso di droghe leggere non hanno alcuna protezione. Legalizzare, da questo punto di vista, non significa peggiorare una situazione (che peggio non potrebbe andare), ma educare. Una diciassettenne o un diciassettenne che volesse fumare uno spinello ora può solo rivolgersi al mercato illegale. Se invece si legalizzassero le droghe leggere potrebbe chiedere a un amico maggiorenne di andarla ad acquistare legalmente (sarebbero sostanze controllate in quantitativi limitati) o potrebbe aspettare di compiere 18 anni, età in cui gli sarebbe consentito.


Questa idea di Stato paternalista che tutto sa, tutto prevede e tutto punisce, convinto che le persone provino gusto nel trasgredire, che il cittadino sia per definizione irresponsabile, la aborro più di ogni altra cosa.


Sul secondo punto: se le droghe leggere divenissero legali, chi ne faceva uso prima, potrebbe continuare e farne uso senza rischiare sanzioni. Il mercato delle droghe, come ogni altro mercato, è fatto di domanda e offerta e oggi le organizzazioni criminali rispondono perfettamente alla domanda di droghe diverse da quelle leggere essendo un ambito verso il quale le mafie hanno maniacale attenzione.


È evidente come su questo fronte non cambierebbe nulla e chi oggi fa uso di droghe leggere non inizierebbe certo a fare uso di cocaina, eroina o metanfetamina solo perché quelle leggere sono diventate legali.


Sembra una barzelletta: ieri Antonio fumava spinelli, ma da quando lo spinello è legale, per il gusto di trasgredire ha deciso di sniffare cocaina. A me sembra un ragionamento idiota assolutamente privo di buon senso. A voi?


Paolo Borsellino, negli anni Ottanta, quando gli veniva chiesto se con la legalizzazione delle droghe leggere la mafia si sarebbe estinta, rispondeva così:


“Non bisogna stabilire una equazione assoluta tra mafia e traffico di stupefacenti, la mafia esisteva ancora prima e probabilmente, se mai dovesse scomparire il traffico di stupefacenti, la mafia esisterà anche dopo. […] È da dilettanti di criminologia pensare che legalizzando il traffico di droga, sparirebbe del tutto il traffico clandestino”.


 


Ecco, ma questo non lo pensa nessuno, tranne Giovanardi, forse Lupi e chi in questi giorni cita Borsellino senza aver mai capito una parola di quello che ha detto quando era in vita.


L’obiettivo, in questa fase, non è far sparire le mafie (sarebbe meraviglioso, una pia illusione) attraverso la legalizzazione delle droghe leggere. E nemmeno eliminare il traffico di stupefacenti tout court. L’obiettivo è minare quella parte di mercato che le mafie controllano in totale autonomia attraverso produzione, importazione (traffico), vendita e spaccio.


Significa sottrarre capitali alle mafie, significa depenalizzarne il consumo, la detenzione e la produzione di modiche quantità per uso personale. La legge che porta anche il nome di Giovanardi ha fatto danni incommensurabili al nostro sistema giudiziario e al sistema carcerario, rendendo la giustizia per tutti meno efficiente. E questo, nella migliore delle ipotesi, solo per ignoranza. Ecco, nella migliore delle ipotesi!


Quando mai l’illegalità è stata la risposta a un problema? Regolamentare è l’unico modo per sottrarre terreno all’illegalità, è l’unico modo per proteggere davvero le fasce più deboli, soprattutto attraverso un percorso lento fatto di informazione e consapevolezza.

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Published on July 22, 2016 06:01

“Non sono un esperto” è solo un alibi ipocrita

nizza_attentato_2_615x340Il 17 luglio altri tre poliziotti vengono uccisi in un agguato a Baton Rouge, in Louisiana. Tre poliziotti di cui uno di colore. L’omicida, poi freddato, era un ex marine di 29 anni, un afroamericano di Kansas City.


La sera dell’agguato sui social sono state pubblicate foto di Montrell Jackson, il poliziotto nero trentaduenne ucciso – un uomo di colore, ucciso da un altro uomo di colore, che spara per vendicare la morte di altri fratelli di colore – ed è stato diffuso un suo post pubblicato su Facebook il 7 luglio scorso, quindi successivo di due giorni all’omicidio di Alton Sterling sempre a Baton Rouge per mano di due poliziotti bianchi, colleghi di Montrell Jackson.


Leggere quel post è straziante. Dopo l’omicidio di Sterling, la comunità evidentemente mette in discussione l’integrità di chiunque faccia parte del corpo di polizia, e Montrell Jackson vive una contraddizione: risulta odioso quando è in divisa e appare un pericolo quando non la indossa perché è un poliziotto ed è nero. Ma lui dice che a parlare non deve essere né il colore della sua pelle, né la sua uniforme, ma le sue azioni, ciò che fino a quel momento ha fatto.


Ovviamente l’odio e la rabbia sono sentimenti che accecano ogni possibilità di ragionamento, e quindi, domenica 17 a parlare è stata solo la sua divisa, una divisa che lo ha reso bersaglio. Se non l’avesse indossata, avrebbe potuto essere un bersaglio opposto, un uomo nero da temere e neutralizzare.


Quanto è difficile ragionare su tutto questo e quanto è necessario allo stesso tempo farlo! Non possiamo dire: non me ne intendo di armi, non so nulla degli Stati Uniti, non mi interessa la questione razziale; abbiamo il dovere di informarci, di farci un’opinione al riguardo, dobbiamo soppesare le ragioni di una parte e dell’altra per non essere preda di strumentalizzazioni, di semplificazioni e populismi.


Ora Montrell Jackson è morto e per rispetto verso di lui, e per rispetto verso le persone di colore freddate dalla polizia, su questi episodi di violenza bisogna spendere ragionamenti. Bisogna soffermarsi e provare a capire. «Non conosco bene questo argomento e quindi non ne parlo» non è atteggiamento coerente, ma atteggiamento codardo. Non conosco questo argomento, quindi mi informo e poi ne parlo. Mi faccio un’idea che sia mia, non del mio gruppo politico di riferimento, non delle persone che mi stanno accanto. No, una idea che sia proprio mia e che, attraverso il dialogo e il confronto, potrei voler cambiare.


Negli ultimissimi giorni sono successe cose tremende che hanno messo alla prova il mondo. Anzi, forse sarebbe più giusto dire il nostro mondo, perché altri luoghi e altri popoli, nemmeno tanto lontani, luoghi e popoli cui raramente prestiamo attenzione, vivono da tempo prove assai più dure di queste.


La tragedia ferroviaria in Puglia, la strage di Nizza, il colpo di Stato in Turchia, gli omicidi negli Stati Uniti, poliziotti che ammazzano neri e neri che ammazzano poliziotti. E su questo, per alcuni, non dovrei esprimere una opinione. Per alcuni dovrei occuparmi di cosa? Forse di mafie e basta.


Rispondo a loro e dico: tutti dovrebbero intervenire su tutto, tutti dovrebbero avere una idea su ciò che accade, giusta o sbagliata che sia. Ciascuno di voi dovrebbe farlo e tanto più deve farlo chi ha un ruolo pubblico, chi è in qualche modo riconoscibile. Professori, giornalisti, uomini di chiesa, scrittori, ma anche magistrati, avvocati, appartenenti alle forze dell’ordine, bancari, commessi.


Noi tutti dobbiamo necessariamente avere un’idea su ciò che ci circonda, su ciò che di importante accade. Noi tutti dobbiamo avere opinioni su ciò di cui la politica discute, non importa quanto complesso sia e quanto lontano tutto appaia dal nostro mondo. Non aspettiamo che il pensiero unico ci tolga la possibilità di ragionare, ci tolga la curiosità di informarci e approfondire per poter dire la nostra. Proporre interpretazioni non significa imporre la propria idea, ma aggiungere tasselli che possano stimolare dibattiti. Esporsi: ecco, intervenire significa esporsi e per esporsi ci vuole coraggio. Troppo facile tacere. Troppo facile dire non ne so nulla e quindi non ne parlo. Leggi, informati, capisci ed esprimi la tua opinione.


Perché mai, poi, sarebbe meglio tacere? Per rispettare le vittime? Ma siamo davvero sicuri che le vittime preferirebbero il silenzio? E se tacciamo noi chi sarà titolato a parlare?

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Published on July 22, 2016 04:02

July 21, 2016

Ricevo e pubblico questa mail, è di una mamma di Napoli

roghi_terra_fuochi_615x340Ciao Roberto, vivo a Napoli, vicinissimo in linea d’aria all’aeroporto di Capodichino. Lunedì all’improvviso ho visto la casa invasa da fumo e da una puzza fortissima di plastica bruciata. Faceva caldo e avevo lasciato balconi e finestre aperti. Mi sono spaventata e ho ispezionato tutta la casa per capire se avesse preso fuoco qualcosa.


Poi mi sono affacciata alla finestra e ho visto una colonna di fumo: è un rogo tossico, ho pensato. Oppure, ma meno probabile, è qualcuno che ha buttato nella spazzatura una cicca di sigaretta spenta male ed è andato a fuoco l’appartamento.


Qualcuno che magari ha figli piccoli come i miei. Ho fatto un pensiero assurdo: speriamo sia un rogo tossico. Assurdo no? Ecco cosa ho pensato e mi si è accapponata la pelle.


Effettivamente un rogo c’è stato, al campo rom di Casalnuovo, dove di bambini ce n’erano tanti, almeno una cinquantina. Un rogo, come riferisce Fanpage, che sarebbe di origine dolosa.


Un rogo che testimonia come razzismo, violenza, disastro ambientale e camorra siano fattori di una equazione che la politica non riesce a risolvere. Di fronte alla quale c’è un territorio senza speranza.


Una colonna di fumo visibile dalle zone collinari della città, esplosioni di bombole e pneumatici andati in fiamme: anche questa è Napoli. Napoli che nonostante le sfilate e i proclami resta uguale a se stessa. Uguale anche se molti giurerebbero di vederla diversa.


Ciro Pellegrino via Fanpage.it

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Published on July 21, 2016 03:00

July 20, 2016

Il reato di tortura: quel reato che in Italia non deve esistere

antigone_tortura_615x340 Tra poco saranno trascorsi 15 anni dai fatti della Diaz e l’Italia non ha ancora – vergognosamente – una legge sul reato di tortura.


E alla fine, paradossalmente, dovremo ringraziare questa sospensione del lavori al Senato che non faranno tornare indietro il il ddl in Commissione per ulteriori verifiche. La meno peggio delle decisioni possibili, ma non, come sempre accade nel nostro Paese, la migliore. E se il testo, come avverte Luigi Manconi è mediocre e comunque “meglio di niente”, per vederlo approvato dovremo aspettare ancora chi sa quanto tempo: data da destinarsi.


Pensate un po’, il problema è tutto in un participio passato: reiterate.


Cioè le torture, per il nostro ministro dell’Interno Angelino Alfano, per essere tali da parte delle forze dell’ordine devono essere reiterate. Ma ve la immaginate una Diaz bis? O un secondo pestaggio a Federico Aldrovandi? O a Stefano Cucchi? O a Riccardo Magherini? Impossibile, perché le vittime sono morte e non avrebbe potuto il reato reiterarsi sulla loro pelle.


Ma il ministro dell’Interno si sa, è al vertice delle forze di polizia, eppure opponendosi all’approvazione di un testo che di per sé è già blando e compromissorio, non sta facendo affatto l’interesse della polizia, ma dei violenti, di quei poliziotti che non fanno il loro dovere come dovrebbero, di chi abusa nel proprio ruolo.


Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone: “Sulla tortura è Alfano il capo del governo”.


Ha vinto Alfano. Il Senato ha rinviato poco fa la discussione del disegno di legge per l’introduzione del reato di tortura a data da destinarsi. Evidentemente nel giro di una notte il ministro dell’Interno è riuscito a convincere il presidente del Consiglio Matteo Renzi a non tenere fede all’impegno assunto nell’aprile dello scorso anno quando disse che la risposta di chi governa un paese era di rispondere alla condanna di Strasburgo, per le torture nella scuola Diaz, approvando una legge che le punisse quelle torture.  


Ora il rischio tangibile è che per l’ennesima volta, come nei 28 anni passati, l’Italia resti senza una legge che consenta di perseguire chi si macchia di questo crimine contro l’umanità.  


Ancora una volta i cittadini vittime di tortura nel nostro Paese saranno costretti a rimanere senza giustizia in Italia e rivolgersi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per vedersela riconoscere. Cosa accaduta nel caso Diaz e che accadrà già nei prossimi mesi per le torture al carcere di Asti e per quelle alla caserma di Bolzaneto durante il G8 di Genova.  


“L’esito della seduta di oggi è vergognoso per questo ci appelliamo al presidente del Consiglio Renzi e al ministro della Giustizia Orlando affinché si assumano in prima persona l’impegno di far approvare questa legge”.
“Dopo il tweet dell’aprile 2015 Renzi non si è mai pronunciato apertamente sul percorso parlamentare del ddl. Dato che lo ha fatto ieri così nettamente un esponente del suo Governo (Angelino Alfano ndr) è bene che lo faccia anche il presidente del Consiglio per dimostrare che quella di Alfano non è la posizione dell’attuale esecutivo”.
“Ad ogni modo chiediamo che si vada in aula e si voti, così che ognuno si possa assumere le responsabilità politiche e morali delle proprie posizioni, risparmiandoci questa insopportabile melina”.  


Sui social network Antigone lanciò l’hashtag #SubitoLaLegge per spingere il Parlamento all’approvazione. Ora viene cambiato in #SenzaGiustizia per denunciare quanto sta avvenendo.  


Qui potete leggere l’articolo completo.


 

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Published on July 20, 2016 06:08

Se questa non è tortura

hipocritas_615x340Vi racconto la storia di un diritto che esiste ormai solo sulla carta.
Vi racconto la storia di una coppia di Viareggio (Paola e Iuri) che ha dovuto interrompere la prima e desiderata gravidanza per gravi patologie cardiache del feto.
Vi racconto una storia straziante, ma poi vi invito a leggere l’articolo che Donatella Francesconi ha scritto per il Tirreno: leggetelo perché nelle parole di Paola e Iuri potrete riconoscere l’ipocrisia di un paese in cui ciò che capita agli altri non potrà mai capitare a noi.


Tutto ha inizio con una ecografia morfologica che evidenzia nel feto patologie al cuore. Servono accertamenti. La diagnosi: cuore sinistro ipoplasico con possibilità di interventi chirurgici ma solo di tipo palliativo, nel caso remoto in cui il bambino fosse nato vivo.


Paola e Iuri decidono di voler abortire e qui inizia un calvario insospettabile. Il ginecologo – uno dei due medici non obiettori dell’Asl – informa la coppia che con quella patologia del feto non sarebbe stato facile accedere all’aborto terapeutico superata la dodicesima settimana. Così l’unica psichiatra non obiettrice (in via di pensionamento) dà parere positivo certificando Paola “psichicamente non in grado di affrontare la gravidanza”.


Ma non finisce qua, perché prima dell’intervento vanno in scena le solite pasionarie che invitano le donne che tra mille dubbi e sofferenze decidono di abortire, a ripensarci. Quanto sadismo in questo invito e che mancanza di empatia. In quel momento, qualunque sia il motivo che porta ad abortire, una carezza, una mano sulla spazza e solo parole di incoraggiamento, questo servirebbe.


Un’ultima cosa. Il medico abortista ha spiegato a Paola e Iuri che se il bambino fosse stato affetto da sindrome di Down non sarebbe stato un problema poter predisporre un aborto terapeutico immediato. Mi hanno colpito al cuore le parole di Paola:


“Se si fosse trattato della sindrome di Down io e quel medico non ci saremmo mai incontrati. Perché il bambino sarebbe nato”.


Qui trovate l’articolo.

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Published on July 20, 2016 05:52

July 19, 2016

Le mani della ‘ndrangheta sull’Italia. Su tutta l’Italia

tav_ndrangheta_615x615Oggi su Repubblica, Alessia Candito apre così un suo interessantissimo articolo sugli ultimi arresti per ‘ndrangheta:


Quaranta persone, tutte affiliate o vicine ai clan della Piana di Gioia Tauro, ma radicate anche in Liguria, sono finite in manette per ordine della Dda di Reggio Calabria. Un’indagine monumentale, che ha visto lavorare gomito a gomito le squadre mobili di Reggio Calabria e Genova, coordinate dallo Sco di Roma, come i centri Dia delle stesse città. Il risultato è una fotografia dinamica di quasi dieci anni di radicamento mafioso, scritta di proprio pugno dai clan Gullace-Raso-Albanese e Parrello Gagliostro tra Cittanova, in provincia di Reggio Calabria, e la Liguria. Sotto la lente degli investigatori dello Sco e della Squadra Mobile della polizia e dei reparti della Dia sono finiti affari e attività dei clan di ndrangheta Raso-Gullace-Albanese e Parrello-Gagliostro, che dalla provincia reggina sono riusciti ad infettare anche l’economia del Ponente ligure, mettendo le mani anche sugli appalti del Terzo Valico, la linea ad alta velocità Genova-Milano, opera da 6,2 miliardi attualmente in fase di realizzazione: tanto da arrivare a sovvenzionare, secondo la Dda, i comitati per il “Sì Tav”. Una storia in cui tanto l’imprenditoria, come la politica hanno un ruolo da protagonista. In negativo.


E riguardo al senatore Gal, Antonio Caridi, anche lui nel registro degli indagati:


Caridi – spiega il giudice – è uno strumento della direzione strategica della ‘ndrangheta tutta, che unitariamente sa che deve rivolgersi a lui in caso di bisogno. E in cambio sa che deve fornire appoggio alle elezioni. “Nel caso delle regionali del 2010 – spiega il procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria, Gaetano Paci – gli uomini del clan hanno usato metodi da manuale dello scambio elettorale politico mafioso, arrivando a minacciare i dipendenti delle loro imprese di licenziamento se loro e le loro famiglie non avessero votato Caridi. E lui lo sapeva”.


Candito continua citando il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho secondo cui


“La ‘ndrangheta ha ormai ramificazioni stabili sul territorio nazionale. Non è solo criminalità spiccia. Dall’indagine sono emersi gli interessi dei clan in decine di imprese, attive non solo nel classico settore del movimento terra, ma anche in quelli ad alta tecnologia e specializzazione, come quello della produzione delle lampade a Led”. Sul fronte del Terzo Valico, spiega il procuratore “abbiamo importanti riscontri riguardo gli appalti che dimostrano come i clan fossero attivi sul fronte del Sì Tav”. I comitati a favore della grande opera sono stati sovvenzionati dal clan, interessati ai cantieri che sarebbero stati aperti anche in Liguria. Tutte attività coordinate dalle Calabria, dove è rimasta la direzione strategica del clan, in grado anche di comprare funzionari dell’Agenzia delle Entrate e della Commissione Tributaria della medesima provincia.


Ricordo quando scrissi che prima ancora di essere pro o contro la Tav, bisognava capire le organizzazioni criminali da qualche parte stavano, non per schierarsi semplicemente contro, ma per capire dove dirigevano i loro affari.


E per evitare di essere utili strumenti per ignobili fini.
 
Qui potete leggere l’intero articolo.

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Published on July 19, 2016 07:56

July 18, 2016

Perché pisciamo su luoghi simbolici, che dovrebbero essere luoghi della memoria

murale_siani_615x340“Abbiamo bisogno di una mano, il luogo dove Giancarlo Siani fu ammazzato adesso è un angolo sporco dove ci pisciano i cani”.


Ricevo da Paolo Siani, fratello di Giancarlo Siani, il giornalista del Mattino ucciso dalla camorra il 23 settembre 1985, questo messaggio scritto da una amica di Giancarlo.


Il messaggio continua con l’invito a visitare questo sito  che raccoglie fondi per un murale che raffiguri Giancarlo sorridente proprio nel luogo in cui è stato ammazzato.


Spero il progetto si realizzi, soprattutto perché non è possibile leggere frasi come questa: “Il luogo dove Giancarlo Siani fu ammazzato adesso è un angolo sporco dove ci pisciano i cani” senza pensare che lo Stato abbia definitivamente perso la sua battaglia culturale contro la camorra.


Indagini, arresti, operazioni, sequestri sono gocce se la rivoluzione non è prima di tutto culturale.


Si potranno vincere piccole battaglie, ma la guerra sarà inesorabilmente perduta fino a che le strade e le piazze dove hanno perso la vita vittime della camorra non saranno luoghi della memoria, fino a che le istituzioni (sindaci, governatori e ministri) non si impegneranno in prima persona a rendere queste piazze e queste strade luoghi simbolo di una città che senza dimenticare vuole voltare pagina, fino a che i blindati dell’esercito con militari che impugnano armi, faranno la loro comparsa solo dopo che il sangue è stato versato.


E abituiamoci a non fare più distinzioni tra sangue innocente e sangue colpevole, il sangue è sangue e la morte è morte, che a perdere la vita sia un camorrista o una persona perbene a fare le spese è la democrazia.

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Published on July 18, 2016 03:25

July 15, 2016

In un video la prova: nessuno nasce razzista

Brenda_Rose_Edwards_615x340Una fascia rossa in testa, al braccio, al collo, così in chiesa durante i funerali di Emmanuel Chidi Namdi, il nigeriano di 36 anni ucciso a Fermo, chi lo conosceva ha voluto dire, senza usare parole, quanta sofferenza quel sangue ha provocato. Quale frattura potrebbe simboleggiare, una frattura tra esseri umani, tra persone che invece di tendersi la mano, anche dove non c’è guerra si ammazzano. Emmanuel e sua moglie con grandi, enormi sofferenze erano scampati alle persecuzioni di Boko Haram, ma hanno vissuto una tragedia ancora più amara in Italia, nel nostro Paese, in un paese in cui vige la pace peggiore che possa esserci: una pace alimenta da odio.


Vittime tutti, chi muore e chi resta in vita. Vittime anche i carnefici. Vittime dell’uomo, della sua brama di qualunque cosa, di potere, di denaro, di terre, di spazio. Vittime di un racconto della realtà che non è quello reale, di un racconto che esiste perché deve legittimare poteri e scelte, decisioni e fallimenti.


Quella dei migranti era una questione e non un’emergenza. L’incapacità della politica l’ha resa un’emergenza e ce l’ha raccontata come un’invasione. L’incapacità di chi, in politica, ha bisogno di spostare altrove il cortocircuito, lontano da ogni ambito che lo riguardi. E così non sono i fondi a essere mal gestiti, ma i migranti a essere troppi. Così vengono stretti accordi con dittatori prima (Gheddafi) e con un governo antidemocratico poi (quello guidato da Erdogan) per dare l’impressione di star facendo qualcosa. Briciole e accordi razzisti e che di umanitario e umano non hanno nulla.


E così: vittima colui che muore e vittima il carnefice che ammazza per follia, ma anche per paura. Per follia e perché il clima gronda odio, rancore, voglia di riscatto, necessità di prendersela con qualcuno.


Individuare i mandanti morali dell’odio che ha portato alla morte di Emmanuel Chidi Namdi è esercizio inutile, inutile perché considero ciascuno responsabile in merito alla propria condotta. Ma possiamo dire che chi sottovaluta il grado di permeabilità alle bestialità dette per rendersi politicamente riconoscibili e per affermare la propria inutile esistenza politica deve fare seriamente i conti con le proprie parole?


Parole come macigni, parole che, al di là di qualunque censura, il buon senso dovrebbe suggerirgli di non pronunciare più. Dire che gli extracomunitari non possono frequentare stabilimenti termali o che non possono prendere sussidi pure avendone diritto, significa fomentare irresponsabilmente un clima d’odio al solo scopo di compattare un elettorato che è tanto esiguo quanto razzista. E allora se non vogliamo indicare i Salvini che infestano la politica italiana come corresponsabili di un clima d’odio che non ha motivo di esistere, possiamo almeno invitarli a una maggiore responsabilità? A smettere di svilire la politica all’arte di chi urla più forte e dice la stronzata più grossa per farsi riprendere da Dagospia?


Si ammazza a mani nude in Italia. Si picchia a morte. Si spara negli Stati Uniti. Bianchi sparano su neri, poliziotti su cittadini. Sparano per follia e sparano per paura. Sono folli convinti di essere in pericolo al punto da diventare aggressori. Negli Stati Uniti l’uso delle armi è talmente sdoganato che nulla più sembra fungere da freno alla folle idea di potersi (e doversi) fare giustizia da sé, qui e ora.


 



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Mentre vedo le immagini dei funerali di Emmanuel Chidi Namdi e mentre leggo che la sua compagna, in chiesa è svenuta proprio nel momento simbolico della stretta delle mani in segno di pace, mentre leggo i numeri delle persone uccise dalle forze dell’ordine in Usa (509 nel 2016 e 990 nel 2015), dati impressionanti che non capisco come sia possibile non facciano scandalo, mentre cerco di capire quanto sia dovuto a motivi razziali e quanto piuttosto alla paura di essere uccisi, di non estrarre per primi la pistola, di sparare quando ormai è troppo tardi, mi imbatto in un video incredibile.


Un video postato su Facebook in cui una bimba di colore e uno più piccolo bianco e biondo biondo, tra le risate degli adulti e qualcuno che continua a ripetere “ok, ora dobbiamo andare”, si abbracciano forte. Un abbraccio che per loro, in quel momento, è la cosa più necessaria del mondo. Più del gioco, più del cibo. Più della mamma. Sarà un pensiero banale, ma vedendo quel video ho pensato che nessuno nasce razzista.
 

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Published on July 15, 2016 05:15

July 14, 2016

Perché hanno dimenticato il Sud


Piove, governo ladro. Se piove e tracimano le fogne, se piove e si sciolgono le strade come fossero di sale, se piove e rovinano i palazzi come castelli di sabbia, se piove e tutto questo accade, allora sì: piove, governo ladro.


La tragedia ferroviaria sulla tratta Corato-Andria non è una tragedia casuale, parlare di responsabilità umane è una risposta parziale che alleggerisce le istituzioni.


Istituzioni che in questo paese, e nel nostro Sud, sono terribilmente, drammaticamente inadeguate. Ci sono responsabilità tecniche, responsabilità politiche locali e responsabilità nazionali: non è sciacallaggio evidenziarle, ma irresponsabilità tacerle. Sciacallo è il silenzio che si appropria di un concetto semplice: è stata una sventura. Proprio per rispetto delle vittime è un dovere puntare il dito su un sistema inefficiente che spera – spera! – che la tragedia non avvenga, senza fare nulla per evitarla.


Le parole che oggi si pronunciano saranno le sole a essere ascoltate: domani, sepolti i corpi delle povere vittime, la tragedia sarà presto dimenticata, fino a quando non ne arriverà un ‘altra. Chi sa parli: racconti dell’esodo di ogni pendolare, dell’impossibilità di raggiungere località meravigliose, di ritardi infiniti, di treni vecchissimi che si fermano d’improvviso su binari sperduti di campagna. Racconti dei treni a gasolio che ancora girano per il Sud.


Questa tragedia ci racconta il sud Italia esattamente come chi ci abita lo vive. Questa tragedia ci parla di investimenti non fatti, di una totale assenza di visione e prospettiva che riguarda questo governo e i suoi precedenti. Al Sud non si investe sui trasporti perché non porta vantaggio politico, perché si tratta di aree da cui l’emorragia di giovani è tale che lavorare sulle infrastrutture significherebbe fare una scommessa senza un immediato riscontro di consenso.


Si è scelto di dare impulso al Nord, dove un tessuto imprenditoriale esiste, in sofferenza certo, ma esiste. Il Sud si deve accontentare di qualche comunicato a effetto, due parole sulle organizzazioni criminali, mali da debellare sì, ma di cui sarebbe meglio non parlare troppo per non creare un clima di sfiducia, null’altro. Al Sud si resta in superficie, si annunciano in pompa magna corsi di formazione che sono solo realtà virtuali, esistono solo sui siti internet.


Ho vissuto a Napoli tanto a lungo da riconoscere un teatrino quando lo vedo. Ho vissuto altrove tanto a lungo da indignarmi quando il teatrino è orchestrato ai danni di terre che meritano investimenti veri e non elemosine. In Campania, in Calabria, in Puglia, in Basilicata, in Molise, in Sicilia investire su trasporti e infrastrutture significherebbe dare inizio allo sviluppo di quei territori. Non impulso, non una spintarella, no: sarebbe un vero e proprio inizio.


La tragedia ferroviaria in Puglia ci racconta una parte di Paese che se ancora esiste è solo per la strenua volontà di chi ci vive. Se e dove le cose funzionano al Sud è perché ci sono persone che non ci stanno a lasciare andare in malora la terra in cui sono nati, cresciuti e dove, da eroi, hanno deciso di vivere. Ciò che va bene al Sud lo si deve alle individualità. Ma lo sforzo che si richiede a queste persone è sovrumano.


“Ho visto il collega piangere, ma è troppo facile dire che la colpa è sua: l’unica responsabilità è di chi non doveva permettere che uno sbaglio, uno solo, potesse portare a questa tragedia”.


Ecco le parole di un macchinista di Andria. Parole come pietre. L’uomo che ha commesso l’errore umano pagherà a vita responsabilità che non sono sue, non soltanto sue.


Omicidio colposo plurimo e disastro ferroviario, una mattinata di ritardi e confusione nel gestire quei 17 chilometri che collegano Andria a Corato, in cui il binario è unico.


Non è il solo caso in Italia di tratta a binario unico, ma è uno dei pochissimi in tutta Italia in cui non è attivo il sistema automatico di controllo e dove si richiedono ai macchinisti tempi di reazione da supereroe per evitare tragedie. Il sistema automatico di controllo è un servizio fondamentale che consente di ricevere la segnalazione che il binario è occupato da un’altra vettura ed evitare lo scontro. Sistema che sulle vetture era stato montato, ma che non poteva funzionare perché il binario è vecchio.


Doveva essere messo a norma quel tratto di ferrovia, il binario raddoppiato, ma il termine del primo luglio fissato per le offerte relative alla gara d’appalto è stato da poco prorogato al 19 luglio.
E così tra Corato e Andria, per gestire quel tratto a binario unico, la comunicazione avviene oggi come avveniva 50 anni fa: attraverso fonogrammi e una macchina che, come riferiscono testimoni, sembra obsoleta ed è collegata a una vecchia stampante.


Allora non cerchiamo capri espiatori, ma capiamo soprattutto perché sulla Bari-Nord, una tratta che i pugliesi considerano il fiore all’occhiello dei trasporti regionali, la sicurezza di migliaia di viaggiatori, ogni giorno, era nelle mani di due macchinisti e due capistazione.


Questo governo, come i precedenti, è in ritardo al Sud, non ha una visione né ha saputo provare a modificare la classe dirigente. Al Sud avrebbe potuto cambiare e non l’ha fatto, e proprio al Sud rischia di collassare. Ma il Mezzogiorno ha ormai da tempo smesso di mantenersi dentro i suoi confini meridionali (come non considerare Roma Mezzogiorno italiano?) e, come la linea della palma, si sta alzando.


Ricordate la metafora di Sciascia?



“A me è venuta una fantasia, leggendo sui giornali gli scandali di quel governo regionale: gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il Nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno… La linea della palma… E sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma… degli scandali: su su per l’Italia, ed è già oltre Roma…”.


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Published on July 14, 2016 02:21

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