Roberto Saviano's Blog, page 4
June 30, 2016
A Napoli case popolari gestite dai clan
Questa inchiesta di Antonio Crispino è una bomba. Una bomba passata inosservata. Una bomba che è esplosa, ma di cui a Napoli e in Italia nessuno pare essersi accorto.
Giuseppe Borrelli, procuratore aggiunto della DDA di Napoli dice: «Diverse inchieste hanno accertato che soprattutto nella zona orientale della città i clan gestiscono l’ingresso e l’uscita dalle case popolari. Dopodiché, però, nulla è cambiato».
Crispino scrive:
«Basta guardare la mappa criminale disegnata dalla Direzione Investigativa Antimafia per accorgersi che ogni clan controlla una porzione di alloggi popolari, sia per una questione di potere ma soprattutto perché il territorio da comandare deve essere sicuro» denuncia Domenico Lopresto, segretario cittadino dell’Unione Inquilini. Il riferimento è a qualche anno fa quando centinaia di nuclei familiari, dalla sera alla mattina, furono deportati da via Comunale limitone d’Arzano. «Lo prevedeva la faida di camorra – continua Lopresto -, chi non era allineato al clan non poteva risiedere nello stesso quartiere, men che meno nello stesso palazzo del boss».
Lopresto aggiunge:
“Se c’è un condannato in via definitiva per un reato gravissimo che è quello dell’appartenenza ad associazioni di stampo camorristico, c’è l’obbligo della decadenza del titolo di assegnatario. Noi quantifichiamo in cinquemila, seimila persone che dovrebbero andare in decadenza, che dovrebbero essere cacciate dalle case popolari. Il Comune cosa ha fatto?
E allora Antonio Crispino al Comune di Napoli ci va e parla prima con un dirigente e poi con Alessandro Fucito, assessore al Patrimonio.
Il primo, alla domanda “come mai queste persone non decadono nonostante si sappia che sono camorristi?” risponde:
“La legge prevede questo senza dubbio, ma questa è una manovra di guerra. Il Prefetto ha segnalazioni precise di compravendite di alloggi con nomi e cognomi di soggetti, ma la Prefettura non ci ha mai convocati.
Ecco cosa dice invece Fucito quando crede che i microfoni siano spenti:
“Noi abbiamo proposto di fare gli sgomberi, siamo andati dal Prefetto Musolino e lui ha risposo: ‘Eh ma noi che ci mettiamo a fare che ci mettiamo a dire’.
Li ho chiamati tante volte per le basi di droga nel Rione Traiano, questi sono dei cialtroni non si attivano”.
In tutto questo le persone che denunciano l’occupazione delle case popolari da parte della camorra vengono minacciate, picchiate, lasciate sole.
E a quanto pare, nessuna risposta a questa inchiesta tranne qualche lamentela per il “furto” di dichiarazioni in Comune. E nessuna smentita da parte di nessuna delle autorità coinvolte.
Autorità che a quando pare hanno scelto di non dichiarare guerra alla camorra, che hanno scelto la pace. Ma a quale costo?
Qui potete leggere l’intera inchiesta.
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June 29, 2016
Da condividere con ogni genitore
Capita che arrivi una email allarmata allo scrittore Claudio Rossi Marcelli.
A scrivere è Ettore, un giovane padre: “È normale che mio figlio Gigio di otto anni preferisca creare vestiti per le bambole invece che fare giochi più consoni al suo sesso?” La risposta di Rossi Marcelli, che su Internazionale tiene una rubrica che bisognerebbe leggere ogni settimana, è un manifesto di educazione e amorevole empatia da condividere con ogni genitore.
Eccola: “A otto anni, Gigio sta già preparandosi a diventare la persona che sarà, e tu hai due alternative: lasciarlo libero di essere e fare ciò che desidera, oppure impedirglielo. Fossi in te, me ne fregherei di cosa è consono al suo sesso e mi metterei seduto a creare vestiti per le bambole insieme a lui… Perché, che poi si riveli il nuovo Valentino o che invece la sua passione per le bambole sia spazzata via da quella per i videogiochi, quello che gli resterà dentro sarà la sensazione dolcissima di sapere che il suo papà gli vuole bene così com’è, e che, nonostante quello che dicono gli altri, lui è dalla sua parte.
E questa è l’unica cosa normale che deve fare un genitore per il suo bambino.”
Qui potete leggere l’articolo completo.
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June 27, 2016
A tavola il pane della camorra

Al Sud il pane non si butta mai. Quando resta e si indurisce lo si usa ammorbidito in acqua per fare polpette (che a Napoli sono più pane che carne). Lo si usa, passato nel frullatore e poi tostato in forno, per impanare cotolette. O lo si bagna nel latte e lo si mette in forno cosparso di uova battute e parmigiano, condito infine con pomodoro e con i pezzetti di formaggio avanzati in frigo: una pizza dei poveri, ma ipercalorica.
Quando è troppo duro per poterci fare qualunque cosa, prima buttarlo nella spazzatura il pane viene baciato. Sì, perché al Sud buttare il pane – il corpo di Cristo – è peccato. Sì perché al Sud con la fame che c’è sempre stata, buttare il pane non è cosa accettabile.
Eppure per anni a Napoli si è mangiato pane prodotto e imposto dal clan Polverino. Tutti sapevamo chi producesse quel pane, molto spesso anche chi continuava ad acquistarlo. Poi sono arrivate le inchieste, la certezza. Ma il settore era florido e non poteva, la camorra, lasciarselo sfuggire. Ora sono i Lo Russo ad avere il monopolio nella distribuzione del pane in vaste aree di Napoli. E a supermercati, botteghe e ambulanti non imponevano semplicemente di venderlo, ma hanno potuto anche deciderne il prezzo.
È così che la camorra mette le sue mani su tutto, anche su ciò che per definizione è considerato buono e puro.
Questa mattina l’inchiesta coordinata dai pm Henry John Woodcock ed Enrica Parascandolo ha portato all’emissione di 24 ordinanze di custodia cautelare nei confronti di affiliati ritenuti vicini al clan camorristico Lo Russo.
Nell’ordinanza c’è la ricostruzione dell’organigramma del clan e delle sue attività che non si limitano alla gestione delle piazze di spaccio, ma che arrivavano fino al monopolio nella distribuzione del pane, attraverso l’imposizione del prezzo di vendita a supermercati, botteghe e ambulanti.
Supermercati, botteghe e ambulanti significa comandare su un territorio, comandare senza freni e senza controllo, comandare davvero. Non solo la grande distribuzione, ma anche i piccoli negozi di alimentari fino ad arrivare agli ambulanti, che spesso hanno quei pochi clienti affezionati e con molta fatica tirano su quanto a stento basta per andare avanti.
Nel 2011 a Napoli si ebbe la certezza (documentata da inchieste) che il clan Polverino – come i Lo Russo attivi nell’area Nord della città – imponevano il pane omonimo a un numero impressionante di servizi commerciali. “Il pane dei Polverino è sulle tavole di Napoli dal 1980” dimostrazione di quanto le persone comuni, le persone perbene, siano esposte e possano alimentare le casse dei clan, spesso inconsapevolmente: finanziatori di una guerra che ci vede vittime, tutti.
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La guerriera dagli occhi verdi
Il 12 settembre 2014, in un villaggio vicino a Makhmour nel nord dell’Iraq Avesta Harun viene uccisa da un proiettile che le attraversa il collo, sparato da un miliziano di Daesh. I suoi compagni la trasportano d’urgenza all’ospedale di Erbil, capitale del Kurdistan, ma Avesta muore durante il tragitto. I suoi occhi verdi non si aprono più.
La ragazza – che ha solo 24 anni – si chiama Filiz. Avesta è il nome della guerriera partigiana, un nome di battaglia derivato dai testi zoroastriani, la religione originaria del Kurdistan, praticata liberamente fino alla conquista turca e alla conseguente conversione forzata all’Islam. Filiz è una giovane come tante, ma la parte di mondo in cui vive non è altrettanto comune. Avesta è la donna-comandante che Filiz diventa dopo la tragica morte del fratello. Filiz è nata in Kurdistan, è cresciuta in un campo di battaglia perenne, in quanto curda e in quanto donna. Avesta è una guerriera giovane ma capace, che riesce a emanciparsi da una società patriarcale e non paga si trova ad affrontare un nemico storico del suo Popolo, la Turchia, ma allo stesso tempo un antagonista nuovo, diverso e condiviso con l’Occidente: lo Stato Islamico.
“La guerriera dagli occhi verdi” è la storia di Filiz e di Avesta, il racconto della breve vita di una donna e della immortale lotta per la difesa degli ideali di libertà e indipendenza. Marco Rovelli riesce a dare voce a entrambe in un lavoro necessario di narrazione biografica, calibrando racconti personali e fatti storici, in equilibrio perfetto tra la le vicende di Filiz e le sciagure del suo popolo, incarnate dalla scelta di diventare Avesta. L’emancipazione da una società patriarcale fa da specchio alla lotta per l’indipendenza curda.
Rovelli è musicista, scrittore, poeta e studioso capace di sviscerare i fatti per rendere un affresco fedele al suo tempo, ma anche e soprattutto capace di trascenderlo, di superarlo. E quando la realtà si trasforma in letteratura, quando la vicenda di una donna diventa materia per un romanzo, la sua storia e la sua lotta si fissano indelebili nella nostra attualità, anche se i giornali non ne parlano più, anche se le televisioni trasmettono altri, anche se dei curdi sentiremo parlare solo quando il PKK rivendicherà nuovi attentati. Rovelli ha dato voce a una storia e così facendo l’ha destinata a diventare parte della Storia.
Questo è lo straordinario potere della “non-fiction novel” il cui fine non è solo letterario ma anche e soprattutto sociale.
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Saviano: “In fuga dalle bugie”
Renzo Piano le definisce “le città del futuro“, ma le periferie sembrano essere, oggi, gli spazi meno compresi dal governo e, visto il risultato del referendum sulla Brexit, non solo dal nostro.
Non più solo quartieri ai margini della grande città, oggi sono definibili periferia interi paesi che si sviluppano ai margini delle città. Intere province diventano periferia dei capoluoghi, delle metropoli. Questa evoluzione postmoderna rende assai più complesso identificarle, parlarne, comprenderne le dinamiche. “Il governo perde in periferia”: questa è stata l’analisi finale dell’ultimo voto amministrativo in Italia (e non solo dell’ultimo). E si può dire lo stesso valutando i risultati del referendum sulla Brexit, dal momento che a votare Leave sono state soprattutto città e paesi che spesso si considerano decentrati rispetto a quelli che vengono percepiti come centri nevralgici. L’Europa ha perso nelle periferie e le periferie sono di gran lunga più vaste dei centri.
Questo corto circuito è la naturale conseguenza di un errore che i governi spesso commettono senza nemmeno rendersene conto: credere che uno storytelling positivo possa essere di per sé sufficiente al mantenimento del potere e delle posizioni acquisite, quello stesso racconto di sé che ormai viene percepito come menzognero, niente altro è che insopportabile propaganda. Può sembrare strano che in un momento così complesso si stia qui a ragionare di parole e narrazione, ma il gravissimo errore del governo Renzi è stato proprio quello di ignorare le province, di ignorarle al punto tale da non comprendere che proprio da lì sarebbe arrivato il fallimento. Hannah Arendt diceva che la democrazia è il luogo dove è la parola che convince: non è più la lama a costringere o la punizione a obbligare, lo strumento di decisione è la parola. E, in un certo senso, la narrazione di un’Italia che si era ripresa, di miracolosi sforzi che in tempi brevissimi avevano già portato a miglioramenti epocali, ha costituito per le periferie un inganno insopportabile.
La mia generazione era costretta a spostarsi dalle periferie al centro, da sud a nord per studiare e per lavorare. Era un centro, quello, inteso anche come centro della vita. Oggi questo centro si è spostato e l’unico tentativo possibile per migliorare la propria vita è andare all’estero, mentre il nostro governo canta vittorie effimere a fronte di questa emorragia, e non spende una parola su quanto sia impossibile trovare lavoro in periferia, sugli sforzi titanici per portare a casa uno stipendio da fame e sullo sfruttamento cui spesso chi lavora è soggetto. Questo contrasto narrativo è aggravato dal fatto che le periferie sono consapevoli di essere la parte attiva del territorio. Da qui la rabbia e la rivolta. Sanno di essere il luogo di raccolta del denaro, pompato dalle periferie al centro. La periferia napoletana e quella romana pompano lavoro e denaro criminale al centro della città. Anche la periferia torinese pompa forza lavoro al centro della città.
Ma la contrapposizione centro-periferia genera conflittualità che non possono essere considerate solo di ordine culturale. Il disagio sociale vero e proprio trae linfa dalla frustrazione creata dall’alto tasso di disoccupazione e da un cambiamento irreversibile del mercato del lavoro che a fronte di una flessibilità crescente non è riuscito ad assorbirne forza lavoro. La conseguenza più dolorosa è che il bacino di forza lavoro offerto dai migranti viene visto come uno spazio sottratto al lavoratore italiano destinato a restare disoccupato. Il corto circuito nasce proprio da questa contraddizione: la periferia ha la ricchezza del lavoro, dei figli, degli spazi, ma questo capitale non resta lì, non è lì che viene investito, viene calamitato dalla forza centripeta delle città. E così le periferie, da “città del futuro”, sono di fatto diventati aborti.
Le periferie sono orrende, si dirà, eppure la bruttezza dei luoghi può diventar fascino attraverso la partecipazione e la cura. Ecco perché il progetto di Renzo Piano sulle periferie (da lui chiamato G124 dal numero della stanza che occupa in Senato) è fondamentale per il nostro paese e lo sarebbe per l’Europa tutta. Il progetto ha l’obiettivo di rendere i luoghi “deboli” spazi di sperimentazione e interesse. Ripartire dalla gradevolezza, da nuove ipotesi di bellezza. Provare a respingere la schifezza abitativa. È prassi reale come lo sono i sogni nutriti dall’ossessione della trasformazione. Ma non bisogna lasciare che sia solo un esperimento bello, un tentativo di rammendo. Deve diventare affare di stato. Centralità ossessiva delle pratica della poltica. Sino a ora invece al disastro delle periferie italiane si fa fronte con grandi operazioni di carità sociale, con il sostegno massiccio ad associazioni di vario genere, con roboanti operazioni di immagine (una su tutte la fallimentare idea di tenere le scuole aperte anche pomeriggio e sera: uno spazio fatiscente al mattino lo è anche nel resto della giornata).
Ma l’aspetto forse più allarmante di questo racconto forzatamente positivo è che innesca un meccanismo populista. Con “populista” — aggettivo abusatissimo che andrebbe utilizzato con immensa cautela — intendo tutte quelle soluzioni proposte con leggerezza pur sapendo che non si realizzeranno mai. È stata la forza, per esempio, di tutta la politica di Luigi de Magistris. In centro a Napoli si spara, è un dato di fatto, il controllo da parte delle organizzazioni criminali sul centro storico è ormai totale. Eppure soltanto la bellezza della città è da attribuire ai suoi amministratori, mentre le morti, la paura, la mancanza totale di sicurezza sono da imputare al sistema capitalista e alla miseria.
Come possa la politica sottrarsi a queste responsabilità è solo questione di comunicazione, di storytelling appunto, una narrazione alimentata da chi, cinicamente, ritenendo che nulla possa davvero cambiare sale sul carro del vincitore. Questo meccanismo si basa su una furbizia uguale e contraria a quella del governo: il racconto rovesciato nel quale la negatività viene mostrata, la contraddizione viene svelata, ma ci si sente perennemente non responsabili. Sindaci incaricati delle città si discolpano come se fossero capi rivoluzionari in balìa di poteri a loro esterni e loro nemici.
Il governo avrebbe dovuto evitare la grancassa del miglioramento e tematizzare i disastri e le difficoltà per affrontarli. La periferia non può essere luogo di approccio romantico: se hai talento, sarai più bravo del ragazzo o della ragazza privilegiata nati in centro perché avrai voglia di riscatto e quindi ce la farai. Fesserie. Queste sono le favole à la Saranno Famosi che non sono più sostenibili in un’Italia in cui la mobilità sociale è pressoché immobile, in cui la meritocrazia rimane utopia, in cui non esiste riciclo di potere.
Ecco perché la narrazione politica del “daremo l’università gratuita per tutti”, del “distruggeremo i poteri forti”, è in fondo il risultato di approcci sempre identici e ormai plurisecolari che non fanno i conti col principio di realtà. Risuona in loro il sempiterno contrasto tra massimalismo — idee meravigliose con realizzazioni impossibili e spesso derive autoritarie — e riformismo, ossia un modello di trasformazione graduale, senza romanticismo e fiammate di riscatto universale ma sostanzialmente inattuabile. Per questo motivo Turati è la lettura che consiglierei ai dirigenti del Partito democratico e del Movimento 5 Stelle che si riconoscono in una tradizione riformista. Turati diceva di non confondere il gradualismo con l’eccessiva prudenza, ma che gradualmente le cose vengono davvero cambiate: non prudentemente, per non pestare i piedi a opinione pubblica e aziende, ma con criterio e realismo.
In periferia il Pd muore perché ha utilizzato questi territori come luoghi di facile estrazione di voto di scambio. Un voto un favore. Eppure, i dati lo mostrano, i giovani sono sfuggiti a questa logica e hanno votato candidati che non avrebbero potuto (per ora) prometter loro nessun favore e non avevano alcuna clientela. Su questo M5S e de Magistris hanno puntato.
La centralità delle periferie non è nelle promesse né nelle opere “sociali”, ma in una sfida che è vitale: rendere le periferie luoghi in cui si vuole rimanere, comprare casa, investire. Certo, il cambiamento, quello vero, richiede tempo, impegno, dedizione, pazienza e costanza. Ma è esattamente dalle periferie che può arrivare l’unica rinascita possibile del nostro paese.
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June 24, 2016
Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto.
Brexit: ha vinto il Popolo.
Me lo ricordo il Popolo, nel 1938, acclamare Hitler e Mussolini a Roma affacciati insieme al balcone di Piazza Venezia. Me lo ricordo il Popolo inebriato, esaltato, per la dichiarazione di guerra. Me lo ricordo il Popolo asservito, quasi isterico, al cospetto di ogni malfattore che abbia condotto l’Europa sull’orlo baratro.
Me lo ricordo poi il Popolo che plaudiva quando al confino nel 1941 veniva mandato Altiero Spinelli, perché antifascista. A Ventotene, Spinelli, detenuto insieme a Ernesto Rossi e a Eugenio Colorni scrisse “Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto”. Quindi, a ben vedere, siamo sicuri che oggi il Popolo abbia vinto davvero?
Io sono europeista, genuinamente europeista.
L’Unione europea è prima di tutto un progetto politico, nato per scongiurare conflitti, poi culturale. Poi ancora è un progetto necessario perché vengano create leggi condivise su materie sensibili, quali la criminalità organizzata, l’immigrazione, la sicurezza. L’unione economica viene per ultima.
Gli euroscettici accusano l’Europa di vivere unicamente come unione economica nella protezione dei privilegi di classi agiate e dei paesi più ricchi. Questa è in parte una semplificazione, ma evidentemente le istituzioni europee poco hanno fatto perché l’euroscetticismo perdesse le sue argomentazioni più forti e più populiste.
All’esito del voto sulla Brexit ha contribuito in maniera drammatica la gestione europea fallimentare dei flussi migratori. Fallimentare non perché le frontiere fossero “un colabrodo” e non perché gli immigrati fossero “liberti di scegliere dove vivere”, ma fallimentare perché ha tradito il principio cardine su cui si basa l’idea stessa di Europa, ovvero integrazione culturale e accoglienza.
L’Europa ha fallito e il Regno Unito ha assecondato la pancia e un cuore avvelenato, più che interesse reale. Mi augurerei un moto di orgoglio da parte delle istituzioni europee, ma sono fatte di uomini, di uomini con i loro miseri e privatissimi interessi. Quindi nessun orgoglio per risollevare l’Europa, ovvero l’unica garanzia di pace che abbiamo, ma solo il timore che, sull’esempio del Regno Unito, altri paesi possano scegliere di abbandonare la nave. Una nave imperfetta, ma che pure ci ha protetti. Una nave che deve essere migliorata, ma che innegabilmente ci ha reso cittadini più consapevoli.
Io resto fedele alla dichiarazione di Ventotene del 1941, resto fedele a un’idea di Europa che, con la buona volontà, potrebbe ancora compiersi.
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Quella danza meravigliosa contro i pregiudizi
Che meraviglia quando accade. Accade che nello schifo che ci circonda, fatto spesso di violenze e improperi, di idiozie condivise e distribuite, riusciamo a prenderci un minuto e mezzo da dedicare alla cura della nostra anima.
Sabato scorso 18 giugno ho fatto un post su Facebook che non avrei mai immaginato di poter fare. Volevo scrivere sul ballottaggio, mi è ronzata per tutto il giorno nella mente quella frase apocalittica (e oggi più vera che mai) di Rino Formica: «La politica è sangue e merda». Continuavo a ripetermi che era così, che nel nostro paese tra sgambetti, dossier, mezze parole, culti della personalità, alleanze improbabili, chi ancora ci crede è un ingenuo.
Poi mi sono ricordato delle ultime parole dette a “Gazebo”, parlando dei comuni commissariati che non vanno al voto: «Attenzione, di quel vostro voto hanno paura tutti», allora ho pensato che se avessi scritto che la politica è sangue e merda, qualcuno avrebbe potuto prenderlo per un invito a disertare le urne.
Astenersi è tra i diritti più sacri in una democrazia, da ragazzino mi affascinava la scritta “non votare” che gli anarchici spammavano sulle mura di periferia. Eppure è proprio quel voto che deve tornare a non esser venduto per poco, a non esser scambiato per qualche favore. Ti sembra di guadagnarci un buono benzina, una sistemazione precaria, e invece vendendolo hai perso tutto quanto la democrazia può dare e pretendere da te.
Alla fine ho deciso di lasciar stare Formica e di condividere sui social un momento di pace e bellezza: c’è un violinista che in un angolo sta suonando “Comptine d’un Autre Été: l’Après Midi” di Yann Tiersen. Una ragazza araba, turista a Trieste, ascolta. Il padre la invita a ballare: «Yalla yalla Rima». Lei prima ha un moto di timidezza, poi non resiste e, come travolta dalla musica, improvvisa dei passi di danza. Bellissimi. Miracoli che ancora accadono nel mondo in cui viviamo.
Questo post, a ora, ha avuto 13 milioni di visualizzazioni, oltre 100mila condivisioni, quasi 200mila like e un numero incredibile di persone che hanno sentito il bisogno di commentare (quasi 7mila).
Questi numeri ci dicono molte cose. La prima valutazione la farei sul numero di commenti e sul loro tenore. In genere commenta chi ha critiche da muovere. È difficile che quando si legge un post che condividiamo ci si fermi a scrivere «sono d’accordo». Più spesso interagiamo quando abbiamo critiche da muovere, puntualizzazioni da fare. E invece questo post lo hanno commentato migliaia di persone le cui uniche parole sono state di riconoscenza verso la ballerina palestinese Rima Baransi, verso il padre che l’ha esortata a ballare e verso gli artisti di strada che negli angoli più nascosti del mondo donano emozioni in cambio di qualche euro.
Una ragazza ha scritto: «Sono l’unica che continua a farlo ripartire e guardarlo, riguardarlo, e ancora e ancora?». Non sei l’unica, anche io prima di postarlo l’ho riguardato decine di volte, soffermandomi soprattutto sul momento iniziale, quello in cui la ragazza da semplice passante si trasforma. Una ragazza sottile che si espande fino a riempire la strada, tutta, senza lasciare libero un centimetro d’asfalto.
E poi c’è un commento che risponde a chi non è riuscito a farsi trasportare dalla musica e dal movimento, ma che soprattutto dubitando ormai di ogni cosa ha parcellizzato il video, lo ha virtualmente smembrato, ne ha scandagliato attimo per attimo per osservare le gambe «troppo esposte» della danzatrice, il suo aspetto «poco arabo», la difficoltà nel comprendere che non tutte le arabe indossano il velo e non tutti gli uomini arabi sono come i seguaci di Daesh.
Un mondo appiattito dall’informazione prêt-à-porter, quella informazione che deve essere semplice per essere efficace. Questo video commuove perché offre grazia e la grazia oggi è cosa rarissima. Stravolge tutto con la sua spontaneità. Un padre che conosce l’abilità di sua figlia, la sua passione e la esorta a ballare, l’umanità di un mondo che noi riteniamo distante ma che ci somiglia ed è vicinissimo. Il commento di questa ragazza lo sintetizzo in una frase: «Io non vedo una ragazza araba, una ragazza troppo scoperta, non penso a suo padre… io vedo solo una meravigliosa danzatrice».
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June 23, 2016
Una storia d’amore
Vi racconto una storia, una storia d’amore.
Due donne, entrambe romane, vivono insieme dal 2003.
Nel 2009, dopo sei anni – possiamo supporre che dopo sei anni una relazione sia stabile? Direi di sì – decidono di avere un figlio e fanno ricorso alla procreazione eterologa in Spagna. Nasce una bambina che una delle due donne porta in grembo ma di cui immagino tutte e due si sentano madri, perché frutto di una scelta condivisa, di una scelta d’amore.
Nel 2014 la compagna della madre naturale, fa richiesta di adozione e il Tribunale dei minori di Roma dà parere positivo. L’anno dopo la Corte d’Appello conferma la pronuncia. Ben due giudici stabiliscono che vi siano le condizioni per poter considerare quell’unione di tre persone, due donne e una bimba, famiglia.
Contro la sentenza fa ricorso per Cassazione la Procura Generale di Roma, ma la prima Sezione Civile della Corte di Cassazione respinge il ricorso e conferma la sentenza della Corte d’Appello. Fine.
La stepchild adoption in Italia non sarà legge ma ormai è prassi, come afferma la Corte, per “il preminente interesse del minore“.
Potete approfondire qui http://www.repubblica.it/cronaca/2016/06/22/news/cassazione_si_a_stapchild_adoption-142563271/?ref=HREA-1
Ma non sarebbe stato infinitamente meglio non stralciare la stepchild adoption dal ddl Cirinnà? Per una volta avremmo potuto essere avanguardia nel riconoscimento dei diritti civili. E invece la politica, per timore di perdere consenso, non prende posizione e il cittadino per veder riconosciuto un diritto legittimo deve aspettare anni, ricorsi e vari gradi di giudizio. Non è evidente anche a voi quanto tutto questo sia triste e dispendioso? E come la politica e il legislatore, sempre pronti a lamentare le ingerenze della magistratura, abbiano abdicato al proprio ruolo, lasciando che siano altri poteri a riconoscere e disciplinare i diritti dei cittadini.
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June 22, 2016
A Trapani si gioca la laicità dell’Italia
“A Trapani non è più garantito il diritto all’interruzione di gravidanza” questa è la dolorosa denuncia dei coordinamenti donne di Cgil e Uil cittadini. È andato in pensione l’unico medico non obiettore di coscienza dell’unico ospedale pubblico della città. Ogni anno sono circa 600 le donne che a Trapani fanno richiesta di interruzione volontaria di gravidanza (Ivg), quasi 2 al giorno.
Vorrei fosse chiaro che chi ne fa una questione religiosa non centra l’obiettivo. Non si abortisce per fare carriera, non si abortisce perché si ritiene che il momento non sia quello giusto per avere un figlio, meglio spettare qualche altro mese. No. Si abortisce perché non si ha un lavoro, si abortisce perché fisicamente non si è in salute per portare a termine una gravidanza, si abortisce perché non si hanno le possibilità economiche di crescere più di un figlio, o più di due.
Non si abortisce con leggerezza. Chi lo crede non ha mai conosciuto o parlato con una donna che abbia scelto l’aborto, non ha mai provato empatia verso un dolore che non è semplice affrontare e metabolizzare. È una strada sofferta, difficile da intraprendere che si imbocca per necessità e non per gioco, non perché si è stati disinvolti nel sesso. Quello che vi diranno è: dovevano pensarci prima, dovevano stare più attente. Non fatevi confondere: si può concepire anche quando si crede di essere protetti da contraccettivi, si può concepire anche quando si crede di aver preso precauzioni.
L’esortazione che ricevono in questi giorni le donne che a Trapani volessero interrompere la loro gravidanza è: andate all’ospedale pubblico più vicino che pratica aborti (Castelvetrano a 80 chilometri) o rivolgetevi a strutture private. Quello che accadrà, invece, come accade altrove, è che aumentino gli aborti clandestini: un incubo che la legge 194 aveva provato a scongiurare.
È incredibile notare come, a quasi quarant’anni dal riconoscimento del diritto ad abortire, ancora non si sia riusciti a renderlo effettivo su tutto il territorio nazionale.
A chi la incalzi sullo stato della 194, il ministro della Salute Beatrice Lorenzin (Ncd) minimizza; in genere dice che i dati cui si fa riferimento sono superati e che fotografano una situazione che non è più attuale. Intanto è notizia recente (aprile 2016) che il Consiglio d’Europa abbia richiamato l’Italia per l’attitudine discriminatoria verso medici e infermieri non obiettori ed è altrettanto evidente che l’obiezione di coscienza raggiunge percentuali altissime e intollerabili al Sud: Molise (93,3%), Basilicata (90,2%), Sicilia (87,6%), Puglia (86,1%), Campania (81,8%). Se questi dati non allarmano il ministro, un pensiero forse banale suggerirebbe che possa avere in spregio le sorti di un Sud sempre più negletto e dimenticato e che il suo sia in fondo un atteggiamento discriminatorio.
Non comprendo come sia possibile che un ministro donna, non si renda conto fino a che punto in Italia si calpestino i diritti delle donne.
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June 21, 2016
Quei boss della ‘ndrangheta che tifano Juventus
Se vivete a Torino vi invito a fare un esperimento: un sondaggio sulla percezione della presenza in città della criminalità organizzata. Nulla di più semplice, una domanda banale agli amici, ai propri genitori, ai loro amici, ai colleghi di lavoro: “Possibile che a Torino ci sia la ‘ndrangheta?”. Ci sarà chi potrà giurare che a Torino della ‘ndrangheta non c’è nemmeno l’ombra, e lo farà non perché negazionista rispetto a un fenomeno evidente, ma perché a Torino non si sparge sangue, non si muore per errore, per scambio di persona.
A Torino le cosche fanno – o cercano di fare – solo affari. Solo affari e niente morti, sono la garanzia per “lavorare” indisturbati e per godere, altrettanto indisturbati, dei privilegi che il proprio “status” garantisce. A Torino la criminalità organizzata mostra il volto che spaventa meno e che è quasi impossibile da riconoscere. Eppure, a soli 16 chilometri da Torino, nel comune di Volpiano, il Reparto Operativo dei Carabinieri registra con microspie summit e incontri di ’ndrangheta che avevano luogo nel bar San Michele, dove si riunivano gli affiliati della potente locale di Volpiano. L’operazione si chiamerà proprio “San Michele” e darà luogo a un processo che si è concluso lo scorso dicembre con undici condanne per un totale di quasi quarant’anni di carcere. Incredibile no? Come potevate saperle queste cose, come potevate esserne a conoscenza se non appartenete alle forze dell’ordine, dove queste notizie girano, se non siete magistrati o avvocati? Se non vi ha incuriosito quella brevissima in cronaca il cui titolo diceva poco o nulla.
Un paese insospettabile del Piemonte, una locale di ‘ndrangheta che si riunisce per tentare la scalata ai lavori della Tav (non riuscendoci) e per architettare estorsioni ai danni della Setup Live, una società torinese che organizza concerti e gestisce la vendita dei biglietti (U2, Elisa, Emma, Rihanna) e che ha clienti importanti (Expo, Comitato Italia 150, Comune di Torino, il pastificio Garofalo, Juventus football club, L’Oreal, Mibact, Thanet, Philip Morris International, Slow Food). Da questo articolo apparso sull’Inchiesta, è possibile ricostruire il ruolo della Setup Live che è stata vittima di estorsione e a cui veniva imposto con minacce di consegnare a esponenti della ‘ndrangheta biglietti di eventi da rivendere al bagarinaggio, i cui proventi “erano destinati al mantenimento delle famiglie dei sodali detenuti”. Ma non è solo questione di affari, no. Perché i boss sono anche appassionati di calcio e tifano Juve.
Nelle pagine della sentenza San Michele c’è un episodio riportato da un pentito che il giudice Maria Francesca Abenavoli ritiene affidabile: alcuni boss della ‘ndrangheta sarebbero partiti in aereo dalla Calabria alla volta di Torino per assistere gratis, allo stadio, il 5 aprile 2006 a Juventus-Arsenal. Come riporta Repubblica (qui articolo): «In quell’occasione un gruppo arrivato in volo dalla Calabria si presentò in un bar gestito da Giacomo Lo Surdo, capo del gruppo ‘Arditi’ (che ha patteggiato la pena per un episodio emerso a margine dell’inchiesta San Michele). “Fummo accolti – è il racconto – da un ragazzo che ci consegnò i biglietti in una busta. Non pagammo”». Ovviamente la Juventus Football Club non è responsabile di nulla e non era al corrente di nulla. Sento l’obbligo di sottolinearlo.
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