Roberto Saviano's Blog, page 9
February 12, 2016
OGGI CON IL GIOVANE GIULIO SI VUOLE SEPPELLIRE ANCHE IL “CASO REGENI”
Nei percorsi di elaborazione del lutto, il funerale rappresenta la prima porta da varcare per chiudersi alle spalle la fase del dolore più acuto, quello viscerale, che toglie il fiato e consuma le lacrime. Chiusa quella porta si può cominciare a razionalizzare, a capire quanto accaduto.
I funerali che si celebrano oggi a Fiumicello non hanno questo significato. Non per buona parte delle istituzioni e dei media che sembrano attendere questo momento, non tanto per cominciare a capire, ma piuttosto per seppellire con il giovane Giulio Regeni anche il “caso Regeni”.
La morte del ricercatore italiano, la circostanza del sequestro e della tortura in un paese che mantiene rapporti commerciali forti con l’Italia, è quanto di più rilevante sia mai accaduto ad un cittadino italiano libero nella cronaca internazionale degli ultimi anni. L’uccisione di Giulio Regeni ha l’impatto diplomatico degli 81 morti della strage di Ustica. Eppure non ha lo stesso impatto mediatico. Prima ancora, non ha lo stesso impatto istituzionale. E’ quasi banale far notare l’assenza di dichiarazioni da parte del premier Matteo Renzi, quello che si definisce “un silenzio assordante”.
Già ieri mattina, fatta eccezione per le testate locali, i principali quotidiani ed agenzie nazionali avevano derubricato il caso alla nona o decima posizione nella “scaletta” delle notizie.
Il calo di attenzione ha avuto uno spartiacque netto. E’ l’8 febbraio. Lunedì in conferenza stampa il ministro degli Interni egiziano, Magdy Abdel Ghaffar ha negato categoricamente il coinvolgimento della polizia nell’uccisione del ricercatore italiano. Fine della storia. Qui non se ne parla più. Bussate altrove.
Un bieco tentativo di avvicinare la vita privata di Giulio a “sottofondi omosessuali” (suggerendo peraltro criminosamente che all’omosessualità debba attribuirsi sic et simpliciter l’etichetta di “fonte di pericolo”) è emersa sulla stampa e quasi subito svanita. Unico atto di pudore in questa brutta e triste storia.
Il rischio che i funerali di oggi seppelliscano tutto è altissimo. Il desiderio di chiudere velocemente una vicenda così oscura, spinosa e complessa non si era mai visto prima. Nemmeno l’assassinio della giornalista del Corriere della Sera Maria Grazia Cutuli, uccisa in Afghanistan nel 2001, o l’esecuzione nel 2004 in Iraq del reporter Enzo Baldoni o della guardia privata Fabrizio Quattrocchi sono state spinte verso il silenzio in così pochi giorni.
Ma c’è un brusio crescente tra le persone, che potrebbe diventare un grido di protesta. Alle istituzioni, soprattutto a quelle che non si sono fatte sentire o che hanno a stento promosso delle iniziative di solidarietà, è sfuggito il grado di immedesimazione collettiva che le famiglie italiane possono esprimere nei confronti di questa vicenda. Secondo la Fondazione Migrantes nel 2014 sono partiti per l’estero 101.297 italiani, con una crescita del 7,6% rispetto al 2013. Ad andarsene sono stati i giovani tra i 18 e i 34 anni, circa il 35,8% e sono partiti soprattutto dal Nord Italia. Credo che almeno una famiglia su tre abbia un figlio laureato, brillante, colto trasferitosi all’estero e non certo partito con la valigia di cartone. Siamo tutti sorelle, madri o padri di Giulio. Non è un caso che ad aderire per primi al lutto, con maggiore sensibilità personale, ancor prima che istituzionale, siano stati i sindaci delle nostre città e paesi. I più vicini alle persone, alle famiglie. Saranno le famiglie dei nostri figli all’estero a ribellarsi al silenzio. Perché nessuna famiglia italiana può accettare che il proprio Giulio finisca nelle pagine buie della storia del nostro Paese.
Redazione Silvia Savi
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February 10, 2016
La maternità surrogata è mercimonio solo se resta illegale e clandestina.

Dicono che la donna diventa “oggetto di mercimonio” e poi ancora Renzi: “In italia tutto ciò è vietato, ma altrove è consentito: rilanciare questa sfida culturale è una battaglia politica che non solo le donne hanno il dovere di fare”.
Qual è la battaglia culturale cui fa riferimento? Influenzare le leggi americane e canadesi dove la maternità surrogata non rende affatto la donna oggetto di mercimonio? Dove per poter mettere a disposizione il proprio utero bisogna avere una famiglia, stabilità economica, stabilità psicologica e voler fare un regalo a una coppia gay o etero che non può procreare?
Questa sarebbe la sfida culturale da raccogliere e la battaglia politica che si ha il dovere di fare?
Rimborso delle spese non vuol dire pagare il bambino, che come è facile intuire non avrebbe prezzo, ma è in relazione ai costi della fecondazione assistita, riguarda il periodo di malattia che la madre surrogata deve prendersi dal lavoro, ma non è un compenso. Le donne che intraprendono questo percorso nei paesi in cui è legale, non lo fanno per denaro, ma per altruismo, perché hanno una famiglia e ritengono di voler aiutare altri a costruirsene una. Perché sanno quanta felicità viene dall’amore filiale.
È assurdo ascoltare il Primo Ministro e il Ministro della Salute parlare di mercimonio del corpo femminile nel paese in cui ci sono regioni come il Molise dove in nessuna struttura pubblica si pratica l’aborto. Possibile che chi ci governa ignori che strada percorrono le donne che vogliono o devono abortire e non posso farlo in strutture pubbliche? Possibile che non sappiano dell’esistenza, ancora, di ambulatori clandestini dove si pratica l’aborto come accadeva prima del ’78? E questo come lo chiamano? Non è forse mercimonio del corpo femminile?
Assurdo come chi ci governa abbia informazioni sommarie e basandosi su quelle pretenda si influenzare il parlamento e gli italiani. Che il Presidente del Consiglio e il Ministro della Salute non sappiamo come funziona la maternità surrogata negli Stati Uniti e in Canada, che non sappiano che rendere legale la maternità surrogata significa sottrarre la pratica alla clandestinità e quindi all’assenza di tutele per donne e bambini non è solo assurdo, ma è anche gravissimo.
Queste persone ci governano e le loro dichiarazioni somigliano alle peggiori chiacchiere da bar.
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February 8, 2016
Napoli, le pistole dei ragazzi invisibili e quelle vittime senza colpa
Napoli è tornata a sparare? No, non ha mai smesso: si è solo spenta l’attenzione nazionale. Napoli, 31 dicembre 2015, piazza Calenda, pieno centro storico. Fai due passi e sei da Michele Condurro, la storica pizzeria di Forcella, quella con i tavolacci, sempre affollata di turisti fino a esaurimento pizze. Alle 19.30 entrano in un bar e iniziano a sparare. Muore Maikol Giuseppe Rossi, 27 anni, pregiudicato. Fine. Pregiudicato: non serve aggiungere altro. Questa definizione, purtroppo, ci tranquillizza: “Ah, era uno di loro….”.
E invece no. Rossi aveva precedenti per scippo, resistenza a pubblico ufficiale e lesioni, ma non era lui nel mirino dei killer che forse quella sera non avevano nemmeno un obiettivo preciso. Rossi è stato colpito per sbaglio. E per sbaglio è morto, la sera di San Silvestro, nel centro storico di Napoli. In una zona che in genere è piena di turisti (motivo di vanto per il sindaco De Magistris), ma dove quella sera non c’era nessuno, non una telecamera né forze dell’ordine (promesse dimenticate del presidente della Regione De Luca). Dopo l’omicidio pare che il proprietario del bar non abbia chiamato i carabinieri, ma semplicemente abbassato la saracinesca.
Questa è Napoli. Sapevo di quest’omicidio prima che ne scrivessero i giornali, perché un amico, passando nella zona del Trianon in macchina, voleva fermarsi a prendere una bottiglia d’acqua per il figlio, ma la polizia aveva già transennato la piazza, e il bar era irraggiungibile. Mi ha scritto dicendomi che non era sorpreso, che queste cose possono capitare. Aveva visto un omicidio di camorra nel parco di fronte casa qualche anno prima, un sabato a mezzanotte. Poi la morte di un camorrista che aveva deciso di stabilirsi nel quartiere, uno di quelli che falsificavano assicurazioni, pianto come persona per bene: ” Non ha mai accis’a’ nisciun’, era una persona per bene “.
A Napoli si fanno gli scongiuri, si spera sempre di non trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato. Mi chiedo come faccia la città ad accettare tutto questo. Il 30 gennaio viene ucciso a Ponticelli Mario Volpicelli, l’uomo che gestiva un negozio “tutto a 50 centesimi”. La sua morte è quanto di più simile possa accadere a chiunque viva in un territorio in guerra. Finiti i Sarno, a Ponticelli ci si spartisce il regno a colpi di tatuaggi che segnano l’appartenenza a due clan avversi: i D’Amico e i De Micco. Volpicelli era cognato dei Sarno e parente dei De Micco, questo è bastato per essere condannato a morte. Questo basta per essere nella lista nera della faida: ogni faida ne ha una, vi sono scritti i nomi di parenti anche lontani, l’obiettivo è sfidare l’avversario colpendo chi è indifeso; decimare il nemico partendo da chi non si sente in pericolo. Conoscete voi un vostro cugino di secondo grado? Il nipote del fidanzato del cugino di vostra moglie? In tempo di faida si è ucciso per questo. I cadaveri sono lettere che vengono spedite.
L’obiettivo è terrorizzare. Tra la fine di gennaio e gli inizi di febbraio, azioni dimostrative in tutta la città, dalla zona di Cavalleggeri d’Aosta a due passi dallo stadio San Paolo alla centralissima Materdei: bottiglie incendiarie e sventagliate di kalashnikov per avvertire, intimidire, annunciare rappresaglie. Il primo febbraio, una “paranza” di dieci ragazzi legati al clan D’Amico, armati fino ai denti sugli scooter, ha invaso e terrorizzato San Giovani a Teduccio: l’obiettivo era Raffaele Oliviero, vicino al clan Rinaldi- Reale.
Se guardiamo le azioni di rappresaglia degli ultimi sei mesi, noteremo come la città sia coinvolta tutta, come nessuno possa dirsi al sicuro, e come arresti, processi e condanne, da soli, non abbiano alcun potere di fermare una guerra che va combattuta anche e soprattutto con altri strumenti. Non è possibile leggere questi dati e non comprendere quanto la politica, quella locale e soprattutto quella nazionale, abbia tragicamente fallito.
Maggio 2015, Ponticelli: Ciro Rivieccio, 43 anni, pregiudicato, è ferito con tre colpi d’arma da fuoco. Nella stessa notte di giugno, un 23enne con precedenti penali è colpito alla coscia da un proiettile in via Pallonetto a Santa Lucia, luogo di spaccio, e un altro di 32 anni, neanche lui incensurato, è ferito alla gamba destra durante una sparatoria in via Sant’Anna di Palazzo (dove abitavo quando ancora ero a Napoli).
E poi un 15enne ferito alle gambe nei Quartieri Spagnoli; era incensurato, ma era con un cugino con piccoli precedenti. E ancora, Soccavo: 46enne con precedenti penali raggiunto da proiettili mentre cammina per strada. Via Costa, quartiere San Lorenzo: feriti in una sparatoria tre minorenni a bordo di uno scooter. Il giorno dopo, e siamo a luglio, nella stessa strada colpi d’arma da fuoco contro un’abitazione al piano terra: è la risposta.
A sparare, due ragazzi su un motorino. E poi le “stese” – le chiamano così – di luglio: baby camorristi che mirano a finestre e ad antenne paraboliche trasformando il centro storico in un poligono a cielo aperto. A Fuorigrotta un ragazzo di 21 anni viene raggiunto da un proiettile a una spalla. Si tratta forse di un episodio connesso alla guerra tra ex affiliati ai D’Ausilio, clan di Bagnoli in auge ai tempi della Nuova Mafia Flegrea. In centro, in via Salvator Rosa, un 24enne in scooter viene affiancato da altri ragazzi, anche loro in scooter, che gli sparano.
Nella stessa notte, in vico Nocelle, un 25enne viene ferito da colpi di pistola. A Ponticelli, due ragazzi di 19 e 15 anni restano feriti in una sparatoria.
Ad Afragola, un uomo di 50 anni con precedenti per estorsione e ricettazione viene colpito a una coscia da un proiettile. Ad agosto muore Luigi Galletta, il meccanico vittima della faida di Forcella, un ragazzo per bene, ucciso perché non voleva truccare i motorini della “paranza”. E poi Roberto Rizzo, un ragazzo con piccoli precedenti penali, ferito da colpi di arma da fuoco mentre di notte era in strada con amici.
Agli inizi di settembre un uomo con precedenti per droga viene ferito alla gamba da un colpo di arma da fuoco. Ha detto nell’immediato di avere solo avvertito un bruciore, di non essersi accorto dello sparo. E poi Gennaro Cesarano, il 17enne ucciso in piazza San Vincenzo alla Sanità: i killer in sella a due moto sparano ovunque, il loro obiettivo è fare morti. Segue un raid agghiacciante al Rione Traiano: un numero imprecisato di ragazzi, armati fino ai denti, sparano ininterrottamente facendo esplodere anche una bomba carta. Sul selciato restano circa 60 bossoli di arma da fuoco tra cui quelli di un kalashnikov.
E poi, di nuovo a Fuorigrotta, viene ferito Nicola Barbato, poliziotto impegnato nell’operazione antiracket. A ottobre la prima vittima eccellente è Annunziata D’Amico, detta Nunzia la Passilona, reggente dei D’Amico, condannata a morte dal clan nemico di Ponticelli. Poi Ciro Rosano, pregiudicato, ferito nel quartiere San Pietro a Patierno, mentre a Giugliano due persone in sella a una moto esplodono colpi d’arma da fuoco: nel mirino il figlio di un affiliato al clan Mallardo.
A novembre a Capodimonte quattro uomini armati di pistole e a bordo di due moto seminano il terrore esplodendo colpi in aria. Un ragazzo di 22 anni viene gambizzato ad Acerra e due persone ferite a Miano.
A dicembre, un uomo resta ferito in un agguato a Pianura, un altro ad Afragola. Il 25 gennaio in un agguato a Fuorigrotta viene ferito un 16enne. Poi c’è Giuseppe Calise, 24 anni, ucciso al rione don Guanella mentre il ministro Alfano era in prefettura a parlare della necessità di “far tacere le pistole”. E nella notte ammazzano Pasquale Zito, 24 anni: suo zio era stato ucciso nel 2007. Dopo quest’omicidio, a Bagnoli diversi cittadini hanno dichiarato che “non usciremo di casa” rispettando una sorta di coprifuoco imposto dalla faida.
Ecco: il catalogo della violenza è questo. E probabilmente è incompleto. Sulla stampa nazionale se ne parla solo quando a morire sono minorenni o incensurati. Gli altri agguati sono cancellati, derubricati a normale amministrazione. Qui la normale amministrazione è una guerra quotidiana legata alla droga e nutrita di omertà, combattuta da centauri non ancora maggiorenni. Ho parlato a lungo con il capo della squadra mobile di Napoli: Fausto Lamparelli conferma che si tratta di ragazzi “giovanissimi, disposti a tutto. Sanno di poter ottenere nel breve periodo potere e soldi pagati poi con la vita o l’ergastolo. Qui non si può procedere solo con l’attività di polizia giudiziaria, noi facciamo la nostra parte, ma la camorra va combattuta con lavoro, impegno, investimento. Cose facili a dirsi, ma difficilissime a realizzarsi”.
Certo, se ammettessimo che si tratta di un territorio in guerra, capiremmo come non basta affatto avere ex magistrati alla presidenza del Senato, a capo dell’Autorità anticorruzione, alla guida della città per pensare che tutto quello che si più fare lo si sta già facendo. Non basta. Dobbiamo smettere di trattare Napoli come una città normale. Non lo è: i napoletani vivono sotto i proiettili e abbassano la testa, quindi non sono paragonabili agli abitanti di nessun’altra città italiana. La politica locale sta mostrando il volto peggiore nell’imminenza del voto. E il territorio è abbandonato, nelle mani dei nuovi capi, ragazzini che contano molto più dei rappresentanti politici. Intere aree della Campania sono nelle loro mani, le abbiamo irrimediabilmente perse, e ancora la politica nazionale pretende di fare campagna elettorale fingendo di non vedere.
Mi chiedo perché la città non si ribelli: non si è stancata di valere qualcosa solo sotto elezioni e meno di niente a giochi fatti? Dovremmo pretendere che la nostra città torni a noi. Smettiamo di pensare che l’unico modo che abbiamo per viverci è farlo con un ideologico amore struggente: “Napoli è meravigliosa, chi parla di faide la sta insultando. Questa è romantica omertà che ha come unica conseguenza la rassegnazione.
Fonte: la Repubblica.
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February 5, 2016
Quegli atti d’amore dietro i diritti negati
Ci sono diritti universalmente riconosciuti e altri che invece ci mettono più tempo a entrare nella consuetudine, a essere percepiti come normali e quindi come “naturali”.
Questo ci fa comprendere che si parla di naturalità con troppa leggerezza, e spesso viene percepito come naturale ciò che non lo è affatto, ma che è entrato a far parte delle nostre vite tanto da sembrare un “prodotto di natura”.
E poi naturale viene contrapposto ad artificiale, come se tutto ciò che è artificiale fosse una costruzione che, non esistendo in natura, non ha motivo d’essere. Io mi limito a fare due osservazioni. La prima: essendo l’uomo un prodotto di natura, tutto ciò che crea è a sua volta naturale. La seconda: qualcuno percepisce come innaturale e quindi artificiale la fecondazione assistita, l’eterologa o la pratica della maternità surrogata, ma non le cure che dovessero rendersi necessarie per portare a termine una gravidanza difficile.
Questa mia non è una provocazione, intendo solo dire che avere un figlio diventa un diritto solo in presenza di un divieto espresso, di una oggettiva difficoltà che può sperimentare chiunque. Avere un figlio non è un dovere, ma un piacere che nessuno può vedersi negato. Tantomeno se a vietarlo sono preconcetti e disinformazione.
Qui faccio un salto logico: spesso chi è contrario alla fecondazione assistita, all’eterologa e poi alla maternità surrogata con l’argomentazione che avere un figlio non è un diritto, poi magari è assolutamente favorevole alla vita sostenuta da macchine e contrario a qualunque forma di eutanasia anche quando non si tratta di suicidio assistito, ma come nel caso di Piero Welby, di una “naturale” conseguenza della malattia.
Queste contraddizioni risultano tanto evidenti da azzerare ogni possibilità di dibattito reale. Ci troviamo al cospetto di chi crede in Dio, e in uno Stato laico vorrebbe che la vita fosse calibrata su un testo di letteratura sacra e chi ci governa, per non perdere una manciata di voti (Papa Francesco non ha in alcun modo appoggiato il Family Day), lascia al Parlamento libertà di coscienza, ovvero la libertà di limitare la libertà altrui.
In tutto questo si scende in piazza per difendere la famiglia tradizionale, per difendere i diritti dei bambini che devono poter avere una mamma e un papà e per difendere i diritti delle donne che non devono essere sfruttate nella loro capacità di procreare. Ma l’unica cosa davvero evidente è la disinformazione subita dai più e inflitta da chi contribuisce ad alimentare le più assurde delle paure.
A nessuno è venuto in mente che la famiglia non è né tradizionale né moderna, ma è semplicemente composta da persone che si amano. Che esistono paesi in cui le unioni di fatto omo ed etero sono regolamentate per legge: in Italia ci si appella al buon senso e alle consuetudini per le coppie etero. Che esistono paesi in cui le coppie omosessuali possono contrarre regolarmente matrimonio, possono adottare figli interni alla coppia (stepchild adoption), esterni, o possono ricorrere alla pratica della maternità surrogata. Che esistono paesi in cui la pratica della maternità surrogata non solo è legale, ma è anche riconosciuta per quello che è: un atto incredibile di altruismo e di amore.
In alcuni casi la maternità surrogata è consentita solo in forma altruistica (come in Canada), in altri prevede un compenso per la donna che si sottopone a inseminazione artificiale, che deve interrompere il proprio lavoro per il tempo della maternità. Si tratta di un rimborso spese perché come è chiaro, soprattutto a quanti sentono di dover difendere i diritti dei bambini, non ci sarebbe prezzo giusto per un dono tanto grande. Un dono che a volerlo comprare non basterebbe tutto l’oro del mondo.
Ci sono paesi in cui questa pratica è consentita solo a coppie etero e sposate, altri in cui possono avere accesso anche coppie di fatto, coppie omosessuali e single. Ma una cosa deve essere chiara, più di ogni altra: ovunque ci sia una regolamentazione ci sono anche diritti per tutti, per le donne che come atto d’amore offrono un riparo temporaneo al figlio di chi non può “naturalmente” averne, e per i bambini che nascono da questi atti d’amore. Eh sì, perché non si tratta di sfruttamento e di infelicità, ma di struggenti atti d’amore e di incredibile altruismo che tolgono il fiato e riempiono gli occhi di lacrime.
Quanto amore c’è in tutto questo non è mai tardi per comprenderlo.
Fonte: L’Antitaliano.
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February 3, 2016
Isis
Ho letto “Isis. I terroristi più fortunati del mondo e tutto quello che è stato fatto per favorirli” di Alessandro Orsini.
C’è un passaggio che mi ha fatto molto riflettere, perché raccontando i terroristi jihadisti nel loro essere persone prima che assassini, Orsini li rende estremamente comprensibili agli occhi di chi, come noi, ignora il loro passato e i motivi dell’odio.
“Uno dei fatti più rilevanti – scrive Orsini – che ho scoperto studiando le vite dei jihadisti “cresciuti in casa” è che la comunità jihadista, di al-Qaeda o dell’Isis, dona una quantità immensa di amore ai propri membri, per quanto tale comunità, come ho spiegato parlando della “trappola jihadista”, finisca poi con l’esigere ciò che dona, ovvero la vita.”
Nel libro sono raccontate le vite tristi e vuote dei due fratelli, Saïd e Chérif Kouachi, i killer di Charlie Hebdo, che persero il padre all’età di 4 e 6 anni e, poco dopo, anche la madre, suicida. Poveri e senza reti di solidarietà, finirono in un orfanotrofio e, una volta divenuti adolescenti, iniziarono a condurre una vita ai margini della società.
Si sentirono amati, apprezzati e protetti, per la prima volta, quando diventarono membri di un gruppo di jihadisti. Chérif, il più giovane dei due, fu arrestato il 25 gennaio 2005, mentre cercava di salire su un volo dell’Alitalia verso la Siria, da cui avrebbe dovuto raggiungere al-Qaeda in Iraq per combattere contro gli americani che avevano invaso il Paese nel 2003.
Condotto nel carcere Fleury-Mérogis, conobbe Amedy Coulibaly – il terzo complice, che era in quel carcere dal 2004 per rapina in banca – e il predicatore jihadista Djamel Beghal che diventò uno dei suoi punti di riferimento.Uscito dal carcere, continuò a frequentare Djamel Beghal, da cui si sentiva profondamente stimato e apprezzato. La microcellula jihadista che costituì con il fratello e con Amedy Coulibaly rappresentava la “società perduta” ovvero un luogo in cui potersi sentire amato, stimato e apprezzato.
Altrettanto significativa è la storia di quattro immigrati clandestini dalla Tunisia che crearono una cellula jihadista a Milano e diventarono membri di al-Qaeda. Orsini descrive l’abbraccio pieno d’amore che uno dei quattro, sconvolto dal dolore per la morte della sorella, ricevette dall’Imam della moschea di viale Jenner, a Milano, che reclutava per al-Qaeda.
La tesi di Orsini è che la microcellula jihadista accoglie coloro che sono respinti, loda coloro che sono disprezzati ed esalta coloro che sono emarginati. I nemici di oggi sono esattamente come noi: le loro debolezze diventano la forza dell’Isis e di al-Qaeda.
Leggi le recensioni di libri precedenti.
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January 29, 2016
Gli italiani secondo Scola e Flaiano
La morte di Ettore Scola è stata motivo di grande tristezza perché con lui abbiamo perso una parte consistente della nostra anima lieve. Sapere che i padri calpestano ancora questa terra è rassicurante. Avere la consapevolezza che resta di loro ciò che hanno fatto – che poi per la stragrande maggioranza delle persone è la cosa più importante – appesantisce, invece, il passo: non possiamo più fare domande, tutto resta alla nostra interpretazione e alla nostra capacità di leggere e attualizzare ciò che non è stato creato ora.
Non c’entra direttamente, ma leggendo sui social le risposte violente ai miei post sullo stato della legge 194 – legge disattesa, prova di un diritto negato – non sono riuscito a trattenermi dal pensare che le nonne di molti ragazzi contrari all’aborto oggi, devono essere scese in piazza per manifestare affinché abortire diventasse un diritto e legale. È dovuto accadere per forza dati i numeri e il consenso che la 194 ha avuto alla fine degli anni Settanta. Non ho potuto fare a meno di immaginare alcune di quelle nonne nelle sale d’attesa fredde e fatiscenti di ambulatori clandestini per la necessità (che comunque implica una scelta) di interrompere una gravidanza. Cosa c’entra con Ettore Scola? L’incapacità di contestualizzare ciò che accade e quindi l’incapacità di riconoscere cosa per noi è davvero importante conservare, implica una perdita maggiore della morte stessa. Scola è stato, come gli attori che con lui hanno lavorato e come moltissimi suoi colleghi, la parte più divertente della tragedia, quella malinconica e irrinunciabile. O magari potremmo dire la parte più italiana. Ennio Flaiano, lo stesso che diceva che la situazione era grave ma non seria, scrisse sul “Corriere della Sera”: «L’italiano, nella sua qualità di personaggio comico è un tentativo della natura di smitizzare se stessa».
Quindi ecco che anche quando lo struggimento è il sentimento più adatto a descrivere ciò che si muove dentro, anche in quel momento la comicità è lì che strizza l’occhio, mai discreta. Una comicità che nasce da ottimismo, dalla spinta vitale che genera uno scampato pericolo. Una comicità che il secolo scorso ha vissuto in ogni sua gradazione (da Totò a “Drive In” passando per Scola e Sordi), abbandonandosi senza pentimenti; una comicità che noi oggi proviamo sempre a riempire d’altro per giustificare il tempo speso a goderne. Ora che il tempo può essere sempre impiegato in modo migliore. E anche criticare era più costruttivo quando potevi farlo con ironia e non con sarcasmo. Quando si arrivava prima e meglio generando un sorriso che calpestando dignità.
«Questi stracci e questi cessi ci diffamano di fronte al mondo» sono parole che porto con me da sempre, da quando so che scrivere vuol dire occuparsi di stracci e di cessi. Ricordate in “C’eravamo tanto amati” la scena della proiezione di “Ladri di biciclette”? Siamo ancora tutti lì, in quel cineforum di Nocera Inferiore, dove il professor Caprigno, disgustato dopo aver visto il film di De Sica, si alza e dichiara: «Opere siffatte offendono la grazia, la poesia, il bello. Questi stracci e questi cessi ci diffamano di fronte al mondo. Di questi filmacci bene ha detto un giovane cattolico di grande avvenire, vicino a De Gasperi (ovvero Andreotti): i panni sporchi si lavano in famiglia».
Di professor Caprigno il nostro paese è pieno. Di intellettuali e politici che considerano il racconto delle contraddizioni, dei dolori, dei conflitti un modo per diffamare l’Italia. Ora che a parlar di ciò che accade si viene chiamati gufi, ora che il sorriso deve essere stampato sulle labbra a prescindere, anche se non c’è nessun pericolo cui siamo scampati, ma una valanga di contraddizioni che non trovano risposta.
E penso a Flaiano che sempre sul “Corriere” scriveva: «Quando due italiani si incontrano per caso all’estero la loro reazione è un gran ridere». E rivedo quelle pacche sulle spalle e quelle strette di mano dei nostri politici all’estero raramente seri in volto, ma sempre abbastanza giullari, perché il sorriso porta consenso e il consenso si tramuta in voti.
Ettore Scola ci ha lasciati, eppure noi siamo ancora tutti lì, dentro quel piccolo cinema di paese, rafforzati nell’idea che se si vuol scrivere non si può prescindere da “questi stracci e questi cessi”. E se la nostra cifra è l’ironia, non facciamola diventare un ghigno.
Fonte: L’Antitaliano.
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January 28, 2016
D’accordo con il Presidente della Cassazione Giovanni Canzio sul reato di clandestinità “inutile e dannoso”
Cosa succede quando un Paese è in balia di una classe politica che ha come unica missione l’autoconservazione? Succede che si faccia leva sulle paure, paura dell’altro, paura del cambiamento. Succede che ciascuno di noi si senta responsabilizzato e che ogni occasione diventi quella giusta per ribadire concetti fondamentali ma che spesso vengono colpevolmente distorti
È il caso della relazione per l’apertura dell’anno giudiziario che ha tenuto il Presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio. Canzio ha affrontato tre temi di grande attualità. L’importanza di depotenziare l’istituto della prescrizione che, a conti fatti, è un indulto mascherato. Il danno che arrecherebbe il reato di clandestinità ai sistemi giudiziario e carcerario senza riuscire in alcun modo a risolvere il problema, né a fungere da deterrente per nuove ondate di rifugiati.
L’assurdità di votare aumenti di pena carceraria per una serie di reati contro il patrimonio, per assecondare ondate di populismo penale indotte e non reali, a fronte di dati che ci dicono che questo genere di reati sono addirittura in diminuzione. Incredibile come chi ci governa sia pronto a mettere mano al Codice penale o alla Costituzione per cassare un diritto e mai – come è evidente dalla discussione intorno al matrimonio per le coppie omosessuali – per introdurre uno nuovo e necessario.
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Il rapporto Eurispes 2016 sull’evasione fiscale dovrebbe leggerlo chi ci governa per capire quanto ha fallito
L’Eurispes parla di evasione fiscale in Italia come di fenomeno di massa, come fenomeno che coinvolge tutti. Con un Pil ufficiale di 1.500 miliardi di euro, si stima che il sommerso sia almeno pari a 500 miliardi di euro, ovvero un terzo dell’ufficiale. Senza tener conto dei 200 miliardi di euro provenienti dall’economia criminale. Con queste cifre, l’evasione fiscale corrisponderebbe a 250 miliardi.
Cos’è che non funziona nel contrasto? Molti aspetti, ma soprattutto questo: l’evasione coinvolge la stragrande maggioranza della popolazione. Un impiegato pubblico che voglia svolgere un secondo lavoro, un professionista a partita iva che non riesce a far fronte a tutte le spese, chi ha una colf che aiuti in casa, una babysitter che stia anche saltuariamente con i bambini o una badante che si occupi di un anziano. Un infermiere o un medico che presti cure a domicilio.
Se il quadro è questo – e il quadro è questo – evidentemente chi ci governa continua a considerare l’evasione fiscale come “fisiologica” e continua a speculare rispetto al mantenimento di livelli di spesa pubblica ingiustificabili a fronte del progressivo decadimento dello stato sociale. O meglio giustificabili, ma solo sul piano dello spreco di risorse.
Il rispetto delle norme deve prima di tutto convenire o quanto meno risultare accettabile, poiché è inutile e controproducente farne una questione morale o di etica. Una tassazione è accettabile se il cittadino sente di essere adeguatamente rappresentato in Parlamento e se è messo in condizione di influire direttamente sulle decisioni che riguardano la vita sua, dei suoi cari e del territorio nel quale vive.
Un governo che che non tenga conto di queste regole elementari non solo è dannoso, ma per durare deve elaborare meccanismi che gli consentano di prolungare il proprio potere anche contro il consenso della maggioranza degli elettori. Un governo che non si pone il problema della progressiva erosione dello stato sociale e del suo stato comatoso nel Mezzogiorno d’Italia non ha altra scelta che avallare l’evasione fiscale, poiché incapace di eliminare privilegi e sprechi.
Se l’Italia funzionasse, pagare le tasse verrebbe percepito come il giusto contributo a un paese vivibile. Il rapporto Eurispes 2016 sull’evasione fiscale dovrebbe leggerlo chi ci governa per capire quanto, aldilà della stucchevole retorica, non è stato fatto e neanche programmato.
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January 26, 2016
Per Wuz sono lo scrittore con più “amici” su Facebook
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L’Italia sigla accordi con l’Iran ma si distrae sui diritti negati
La persona che vedete in questa foto, accanto al Primo Ministro Matteo Renzi è Hassan Rouhani, Presidente della Repubblica Islamica Iraniana. Durante gli incontri con il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e con il Primo Ministro Matteo Renzi, non c’è stato alcun accenno alla mancanza di democrazia che vige in Iran, come spiega Nessuno tocchi Caino in questo documento.
Rouhani è presentato come un presidente moderato e riformista, mentre ogni giorno in Iran vengono condannate a morte tre persone.
Come ricorda Emma Bonino, dialogare con l’Iran è fondamentale, ma i problemi devono essere affrontati e non nascosti. È cruciale coinvolgere l’Iran nella risoluzione di problemi che contribuisce a creare perché non ci troviamo di fronte a uno stato pacificatore, ma a uno stato in cui i diritti umani e civili vengono sistematicamente violati dal governo.
Nessuno dei punti che elenco di seguito è stato discusso con Rouhani né dal Presidente Mattarella, né dal Primo Ministro Matteo Renzi. Non si possono siglare rapporti economici con paesi in cui l’essere umano non gode di nessuna tutela, dove si ricorre sistematicamente alla tortura, dove le donne sono discriminate, dove non c’è libertà di culto. Non lo si può fare senza pretendere un cambiamento di rotta. Ecco qualche dato:
1) Da quando è salito al potere Hassan Rouhani nel giugno 2013, l’Iran ha conosciuto un record di ben 2.277 impiccagioni;
2) Le impiccagioni avvengono dalle gru e sono pubbliche. Sotto Rouhani, si pratica però spesso anche l’impiccagione “lenta” che consiste nel lasciare che la morte sopravvenga dopo almeno dieci minuti di agonia;
3) Nell’Iran del Presidente Rouhani esiste ancora la tortura: viene frustato chi viola le regole sul pudore (come baciarsi in pubblico); vengono amputati gli arti come punizione per chi ruba e si applica anche il principio (letterale) dell’occhio per occhio (come nel caso di un uomo al quale è stato cavato un occhio perché aveva accecato un altro uomo con l’acido);
4) Non c’è alcuna libertà per le minoranze religiose o etniche;
5) Esiste la discriminazione legale delle donne;
6) Vige la persecuzione sistematica degli omosessuali;
7) Si contano almeno 19 giornalisti imprigionati.
Renzi dice: “Anche nei settori su cui sono più marcate le nostre distanze, come sui diritti umani, abbiamo dimostrato di saper dialogare e discutere” e l’incontro si pone come obiettivo con solo accordi economici, ma anche un impegno comune nella lotta a Isis. Eppure è proprio la mancanza di diritti civili e di democrazia che determina l’avvicinamento al fondamentalismo islamico.
Gli attentati degli ultimi mesi e la tragedia umanitaria dei migranti sono diretta conseguenza dell’assenza di democrazia, non è quindi accettabile che i vertici del nostro paese parlino con superficialità di “distanza” sui diritti umani.
Tutto questo sa di colpevole complicità.
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