Roberto Saviano's Blog, page 7
March 18, 2016
Scuola significa tempo libero
L’educazione, a partire dalle scuole dell’infanzia, dovrebbe essere argomento di interesse condiviso, scambio di idee, discussioni continue e invece concorsi e graduatorie ne fanno un ammortizzatore sociale, una macchina per catalizzare consenso, spostando l’attenzione dai suoi protagonisti a regole che nulla hanno a che vedere con le esigenze di chi a scuola va per crescere come individuo. A scuola, sin da piccolissimi, si trascorre una parte importante della giornata, quindi le responsabilità vanno divise in proporzione tra gli istituti che accolgono bambini e ragazzi e le famiglie.
La scuola è supporto fondamentale ai genitori perché il suo personale è formato proprio per avere a che fare con ragazzi di ogni età. E se madre e padre in un certo senso ci si improvvisa, insegnanti no, quindi è da loro che è lecito aspettarsi sensibilità e competenza. E come la scuola dovrebbe avere al centro del proprio interesse il percorso didattico e umano degli studenti, così la società nel suo complesso dovrebbe prestare attenzione costante alla scuola. Ma è evidente che, tranne in casi rarissimi, tutto questo non accade, se non per seguire e alimentare polemiche.
Eppure oggi la scuola ha potenzialità immense perché il personale è più qualificato rispetto ai decenni scorsi, perché le strutture sono migliori: in molti casi io e i miei coetanei abbiamo frequentato scuole fatiscenti e senza palestre. Però fare tabula rasa di esperienze virtuose del passato costituisce una perdita enorme.
In questi giorni il tema scuola è tornato di attualità per le divergenze tra gli insegnanti delle scuole Longhena di Bologna e la preside dell’istituto, per la polemica che ne è seguita, alimentata da articoli di giornale e interviste in televisione. Polemica che sarà sterile se non stimolerà un serio dibattito sul tema.
Al centro le attività didattiche e soprattutto la ricreazione che, alle scuole Longhena, essendo un complesso scolastico sorto nel parco del Pellegrino, vengono svolte all’aperto. Il corpo docenti sostiene che si apprende anche al di fuori delle aule e che l’assenza di confini fisici insegna ai bambini a crescere autogestendo gli spazi e quindi anche la propria libertà. Al contrario c’è chi oppone regole che devono valere per ogni contesto scolastico e che sembrano rispondere più a questioni di sicurezza che a effettive esigenze di didattica.
Preside contro insegnanti, sindacati che stabiliscono cosa sarebbe opportuno e cosa no, e chi legge, non essendo abituato a un dibattito costante sulla scuola, spesso si trova impreparato. Si fa fatica a comprendere che le regole, anche quelle che si applicano alla scuola, esistono non per essere infrante, ma per essere interpretate e soprattutto adattate. Pensare che per contesti diversi possano valere le stesse regole è folle. Pensare che una scuola a Palermo possa essere gestita come una scuola a Torino, vuol dire non tenere conto delle diversità territoriali e non avere alcun rispetto per il contesto che circonda studenti di ogni età.
Non è solo questione di clima: nelle scuole di Faenza si andranno a visitare i laboratori di ceramica, nelle scuole di Solofra si visiteranno le concerie, in quelle di Caserta i caseifici. Il tessuto industriale deve entrare nelle scuole da protagonista perché gli studenti, dai più piccoli (come osservatori) ai più grandi, possano sentirsi attori consapevoli, parte della comunità e non ai suoi margini solo perché non votano o perché non possono fare pressione sui contesti familiari. È ovvio che occorre dare fiducia agli insegnanti e alle loro proposte, fiducia che non devono solo ricevere dalle famiglie, ma anche dalle istituzioni scolastiche. Ed è ovvio che gli insegnanti devono assumersi responsabilità che vanno oltre l’insegnamento. Aiutare un bambino a sbucciare una mela, aiutarne venti, non è una perdita di tempo e non esula dalle competenze di un insegnante, non mortifica la sua formazione ma al contrario la esalta. Per comprendere tutto questo, può essere utile rileggere “Il mondo” di Mario Lodi. Cinque volumetti editi a fine anni Settanta da Laterza, in cui il maestro segue una classe dalla prima alla quinta elementare descrivendo gite, laboratori, escursioni, lavori manuali, letture ed esperienze personali. Sarà evidente, anche a chi lo ha dimenticato, che la scuola, come luogo d’incontro, conserverà sempre un legame fortissimo con il suo etimo. Scholèion in greco antico significa questo: “tempo libero”.
Fonte: L’Antitaliano.
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March 15, 2016
La mia vita con Picasso
È stato ristampato un libro che ho amato molto: “La mia vita con Picasso” (Donzelli Editore), scritto da Françoise Gilot, un’artista francese che di Picasso fu moglie per dieci anni.
Lo comprai a metà prezzo a Napoli, in una bancarella di Port’Alba. A colpirmi fu la foto in copertina: una donna sorridente, bellissima, Françoise Gilot, seguita sulla spiaggia da un uomo più vecchio di lei, Pablo Picasso, che le reggeva un ombrellone sulla testa. Un’immagine tenera, quasi divertente, catturata in Costa Azzurra da Robert Capa.
Tra Françoise Gilot e Picasso c’erano 40 anni di differenza, ma l’età non contava, le donne per Picasso impazzivano. Eppure con Françoise Gilot, madre di due dei suoi figli, fu tutto diverso. Gilot non è stata per Picasso una donna facile, gli ha anzi complicato l’esistenza, almeno quanto lui aveva fatto con le compagne precedenti.
Lui non voleva affatto che “La mia vita con Picasso” fosse pubblicato; fece causa a Gilot tre volte e per tre volte perse: “Hai vinto e sai che a me piacciono i vincitori”, disse infine sconfitto all’ex moglie.
Françoise Gilot sopravvisse a Picasso e non era scontato che accadesse, nonostante la differenza d’età, se pensiamo che Jacqueline Roque e Marie Thérèse Walter dopo la separazione da lui si tolsero la vita. Françoise Gilot sopravvisse a un uomo che succhiava linfa vitale delle sue giovani compagne. Ma lei fu più forte del mito, e lasciò quell’uomo geniale e pericoloso. Dopo la separazione, in questo libro straordinario che non è gossip ma letteratura, ha raccontato tutta la loro storia, tutta la loro passione.
Leggi le recensioni di libri precedenti.
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Françoise Gilot, l’unica donna che ha lasciato Picasso
È stato ristampato un libro che ho amato molto: “La mia vita con Picasso” (Donzelli Editore), scritto da Françoise Gilot, un’artista francese che di Picasso fu moglie per dieci anni.
Lo comprai a metà prezzo a Napoli, in una bancarella di Port’Alba. A colpirmi fu la foto in copertina: una donna sorridente, bellissima, Françoise Gilot, seguita sulla spiaggia da un uomo più vecchio di lei, Pablo Picasso, che le reggeva un ombrellone sulla testa. Un’immagine tenera, quasi divertente, catturata in Costa Azzurra da Robert Capa.
Tra Françoise Gilot e Picasso c’erano 40 anni di differenza, ma l’età non contava, le donne per Picasso impazzivano. Eppure con Françoise Gilot, madre di due dei suoi figli, fu tutto diverso. Gilot non è stata per Picasso una donna facile, gli ha anzi complicato l’esistenza, almeno quanto lui aveva fatto con le compagne precedenti.
Lui non voleva affatto che “La mia vita con Picasso” fosse pubblicato; fece causa a Gilot tre volte e per tre volte perse: “Hai vinto e sai che a me piacciono i vincitori”, disse infine sconfitto all’ex moglie.
Françoise Gilot sopravvisse a Picasso e non era scontato che accadesse, nonostante la differenza d’età, se pensiamo che Jacqueline Roque e Marie Thérèse Walter dopo la separazione da lui si tolsero la vita. Françoise Gilot sopravvisse a un uomo che succhiava linfa vitale delle sue giovani compagne. Ma lei fu più forte del mito, e lasciò quell’uomo geniale e pericoloso. Dopo la separazione, in questo libro straordinario che non è gossip ma letteratura, ha raccontato tutta la loro storia, tutta la loro passione.
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March 11, 2016
C’è un innamorato alla Reggia di Caserta
Mauro Felicori è da quasi sei mesi il nuovo direttore della Reggia di Caserta. È assurto agli onori della cronaca perché l’organizzazione del lavoro che ha portato alla Reggia sembra essere entrata in collisione con abitudini precedenti. Va da sé che l’inutile polemica sugli orari di lavoro abbia poi finito per costituire terreno di scontro tra sindacati (o come dice qualcuno, sindacalisti) e la solita propaganda governativa che si ascrive i meriti di chiunque, anche quando non gli appartengono.
Ma Felicori dimostra di essere uomo di spessore e il 5 marzo, a conclusione dell’ennesimo battibecco sindacati-Renzi, sul suo profilo Facebook scrive: «E allora, visto che mi state seguendo in tanti, cinicamente approfitto per fare il bene dell’azienda e vi ricordo che la Reggia ha un profilo Instagram».
Ecco, di Mauro Felicori mi interessa il modo che ha di comunicare, perché è una comunicazione concreta e quindi è una comunicazione vincente. Non promette cambiamenti, ma cambia le cose in tempi record e poi ne comunica i risultati. A febbraio 2016 i visitatori registrati alla Reggia di Caserta sono stati 24.680, contro i 14.468 dell’anno precedente. Gli incassi sono passati da 70 mila a oltre 155 mila euro, e poi gli abbonamenti annuali per la visita al Parco Reale: 8.337 a fronte dei 2.876 nell’anno precedente. #fiduciacaserta è l’hashtag che Felicori utilizza per fare queste comunicazioni e #neidintornidellareggia è quello che invece usa per raccontare cosa vede durante i fine settimana quando visita la Campania per capire il contesto in cui il monumento che dirige è inserito.
«Continua poco alla volta la mia esplorazione del Casertano»: così apre un lungo post narrativo sul parco del Matese, luogo meraviglioso dove le aziende chiudono perché non esistono percorsi di valorizzazione del territorio, perché non esiste una rete che faccia da volano. E continua: «C’è il Molise di là dallo spartiacque, fra vento e nuvole che sembra di essere più nel Galles che nel Meridione d’Italia». E poi ancora: «La piana del Volturno che mi ha fatto ricordare l’aggettivo del liceo, ubertosa, e sarebbe da farci la pubblicità del Mulino Bianco, ecco giusto per ricordare che qui da noi abbiamo insieme beni culturali e naturali, basta dirigersi a Est».
Un bolognese che si rivolge alla Campania dicendo «qui da noi», ha fatto venire le lacrime agli occhi a molti. «Qui da noi» detto con amore tale da far arrossire chiunque dica che della nostra terra bisogna solo parlar bene, ché a parlarne male le facciamo cattiva pubblicità.
E poi c’è la visita a Benevento del 29 febbraio, che porta alla luce, strappandole alla coltre di cenere, le potenzialità di una città per anni soggiogata dalla peggiore politica. A un certo punto la sensazione era stata che offuscatosi il dominio di Mastella, Benevento dovesse autodistruggersi in una sorta di simbiosi con il potere. E invece Felicori da Bologna arriva e racconta di «una città così bella che mi pongo subito due domande, la prima: perché le agenzie italiane non offrono un pacchetto week-end Reggia + Benevento? La seconda: ma un ufficio turistico che regali una mappa e venda una guida, no?». Ecco il deserto in cui sono incastonati gioielli dal valore inestimabile. «Emozioni tante, ma forse questa la più grande, nell’antico giardino del convento di San Domenico, un interstizio fra le case e i vicoli del centro storico, i segni di un sannita che vuole bene alla sua terra, Mimmo Paladino». Inutile dire che le sue opere sono spesso chiuse ai visitatori e continua: «Mentre passeggi per il corso, cento metri più in basso vedi un arco romano spettacolare, integro, che poi è l’inizio della via che Traiano volle per collegare meglio le Puglie; e insieme, nel vicino convento/chiesa di Sant’Ilario, una installazione che dovrebbe stare nei manuali di museologia per come spiega in modo semplice tutti i fregi del monumento».
Questo è Mauro Felicori, almeno così l’ho inteso io: un uomo che ama la terra, ma non solo la sua; un uomo che ama anche e soprattutto la nostra terra, perché è terra sfortunata che ha bisogno di percorsi di fiducia. E quindi #fiduciacaserta e buon lavoro al nuovo direttore della Reggia di Caserta i cui successi saranno solo suoi e di una città che non aspettava altro che questo: essere amata.
Fonte: L’Antitaliano.
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March 10, 2016
Modesta proposta per salvare il Sud
Mi accusano di non essere propositivo per Napoli: è vero, lo ammetto. Ci ho riflettuto a lungo e ho un consiglio. Un consiglio da dare ai napoletani e ai cittadini di altre realtà del Mezzogiorno. Organizzate un’inaugurazione.
Direi quasi: inventate un’inaugurazione. Il cantiere di una nuova stazione della metropolitana, una strada, un ponte, una mostra. Qualcosa che possa provare l’usurato assunto secondo cui l’Italia è ripartita. Fatelo anche se non è vero, magari allestite un palco, chiamate un cantautore a suonare, qualcuno che possa veicolare un messaggio positivo. Che non sia uno di quei rapper che raccontano di periferie desolate e straccione, no. Le note devono arrivare in alto ed essere melodiose. E poi invitate il presidente del Consiglio, nonché segretario del Partito democratico: vedrete che verrà, a lui piacciono le inaugurazioni, a lui piace tutto ciò che sa di ripartenza, di nuovo inizio. Lui ha sempre forbici in tasca pronte a tagliare nastri. Sono i problemi che lo turbano, che lo spingono sistematicamente a cambiare strada. È davanti ai problemi che tace e smarrisce la sua nota parlantina.
Ma non tendetegli tranelli, non parlate con lui di ciò che nel suo partito sta accadendo a Napoli: anzi, sta accadendo ovunque solo che a Napoli è più evidente che altrove. Lui che quel partito lo ha ereditato, lui che ne voleva rottamare i dirigenti, se ne laverà le mani. Meglio tagliare nastri e tenersi lontano dai disastri, anche quando si consumano in casa propria.
E così intervistato a Genova da Ezio Mauro nel 2015, dopo la sconfitta del Pd alle regionali liguri, non una parola sugli immigrati a cui era stato distribuito l’euro, ma una frase chiara sulle primarie: “Il Pd deve avere il coraggio di dire se le primarie sono lo strumento che va ancora bene o no”. Un anno dopo la risposta non è ancora arrivata. Il Pd non è un’entità astratta, mi verrebbe di dire a Renzi, ma ha un segretario, ed è lui a doverci dire, una volta per tutte, se un istituto non prescritto da nessuno, che volontariamente è stato introdotto per scegliere democraticamente e dal basso i candidati, può ancora andare bene dopo i brogli di Napoli nel 2011, dopo i ricorsi di Genova nel 2015 e dopo gli “euro per le donazioni” a Napoli di domenica scorsa.
In questo momento è lui il Pd e non altri. È da lui che aspettiamo questa risposta. Lui, che ha conquistato il Pd proprio grazie alle primarie, non dovrebbe accettare che il suo partito le riduca a quella farsa di democrazia che abbiamo visto a Napoli.
Un euro. Un euro per la donazione. Si difenderanno dicendo: “Figuriamoci se possiamo comprare un voto con un euro!”. Vero, non se ne fanno niente. Quell’euro serviva ad accedere al diritto di votare. A Napoli con un euro ci compri una pizzetta, una graffa (come chiamiamo le krapfen), dolce di cui i napoletani (ed io per primo) vanno pazzi. Ci compri mezza zeppola di san Giuseppe. Ma un voto no. Un voto lo compri facendo promesse. Promettendo una casa, un posto di lavoro, un posto auto. Promettendo ciò che non puoi dare perché non è in vendita. Un euro non rappresenta ovviamente il costo di un voto alle primarie, ma è la prova dell’esistenza di un’organizzazione rodata, di un sistema di potere e di controllo del voto di cui Antonio Bassolino ora vittima, fu un tempo creatore.
Questo vale un euro, nulla e insieme la consapevolezza che esistono pacchetti di voti che da destra a sinistra si muovono per inquinare le acque, per falsare il normale svolgimento di ogni cosa, elezioni e persino primarie. A Napoli il Pd meriterà di perdere perché non ha più credibilità. E rischia di riconsegnare la città a De Magistris: un sindaco con il maggior numero di deleghe nella storia dei sindaci italiani. Un sindaco che si vanta di aver riempito la città di turisti, ma che avrebbe perso parte dei fondi stanziati dall’Unione Europea e dall’Unesco per la riqualificazione del centro storico per ritardi colossali nei lavori. Sito che rischia di perdere la tutela, nonostante la sua enorme bellezza, per lo stato di degrado in cui versa e che l’Unesco definisce oramai “sito a rischio”. Un sindaco che non è un buon amministratore, ma che è senza dubbio una persona onesta e per questo (e forse unico motivo) potrebbe essere rieletto. Un sindaco che, dopo lo scempio di queste primarie, potrà poi contare sui voti di chi, ora deluso, era pronto per votare per il Pd.
Le polemiche di queste ore, i trucchi di domenica e il silenzio di Renzi scavano ferite profonde, in una città che drammaticamente va avanti, che sopravvive a ogni nuovo giorno. L’altro ieri un vigile urbano è stato ucciso a Ponticelli con modalità mafiose. Centrato da tre colpi d’arma da fuoco in un quartiere che solo nell’ultimo mese ha contato tre omicidi. Qualche giorno prima è stata sventata una tragedia nel centro sportivo di Marianella-Piscinola, in un campetto di calcio sorto su un terreno comunale sequestrato qualche anno fa alla camorra. Un ordigno rudimentale, il secondo attentato alla struttura, azionato quando sul campo c’erano 15 bambini. Ne avete avuto notizia? Pochi, pochissimi ne hanno parlato. Silenzio.
Scampia, Piscinola, ecco dove sono stati girati i video da Fanpage che documentavano il pagamento di un euro per il voto a Valeria Valente. Dove la camorra ci mette un attimo ad arruolare ragazzi pronti a tutto, tanta è la miseria. Dove da anni chiedo ai giornali nazionali di spostare le loro sedi perché possano raccontare cosa accade davvero in una delle città più importanti d’Italia. Dove da anni imploro la politica locale di spostare i suoi uffici, perché vi sia luce e perché diventino il cuore della città. Affinché si possa voltar pagina.
Altrimenti Napoli rischia di diventare un’avanguardia del nostro Paese: quel che oggi accade qui, accadrà presto anche altrove. Per questo è impossibile accettare l’inerzia del segretario del Pd davanti a questo piccolo, grande, scandalo. Il silenzio di oggi genera la cattiva politica del futuro.
Fonte: Repubblica.
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March 8, 2016
Vendetta, onore e amore nell’Afghanistan di Elliot Ackerman, soldato e autore di “Prima che torni la pioggia”
Prima di diventare scrittore, Ackerman è stato un marine e ha combattuto in Afghanistan e in Iraq. Era un ragazzo colto, benestante, e non avrebbe avuto alcun bisogno di arruolarsi. Eppure, dopo l’11 settembre, ha sentito il dovere di partire.
Di libri sulle guerre in Medio Oriente, scritti da soldati occidentali, ce ne sono tantissimi, ma quel che rende unico “Prima che torni la pioggia” è che gli americani qui compaiono solo sullo sfondo.
Ackerman mette al centro del suo romanzo Aziz, un ragazzo afghano. È lui il protagonista della storia, è sua la voce narrante. Aziz, che decide di arruolarsi e combattere in una milizia afghana creata dalle forze militari statunitensi e lo fa solo per vendicare il fratello Ali, che è stato ferito, menomato da una bomba dei talebani.
Si tratta di Badal e Nang. Vendetta e onore. Sono due leggi del Pashtunwali, quel codice non scritto che regola la vita di tutti i giorni dei pashtun dell’Afghanistan e che Aziz ha imparato dal padre, anche lui, insieme alla madre dei due ragazzi, vittima di guerra.
Ma non c’è solo la tradizione, o l’ideologia, alla base della scelta di Aziz c’è anche il pragmatismo: se non si arruolasse in un esercito che lo paga per combattere, infatti, non potrebbe permettersi le cure per il fratello. La sua, quindi, è soprattutto una scelta d’amore che porterà ad altra sofferenza, ad altre inestricabili contraddizioni. E ad altra guerra.
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March 4, 2016
Essere disabili nella giungla italiana
Ci sono paesi come il nostro in cui è meglio nascere bianchi. Meglio poi al centro-nord, dove le opportunità di lavoro e di realizzazione sono maggiori. Meglio scoprirsi eterosessuali e decidere di sposarsi. E ancora non basta: oltre a essere eterosessuali bisogna anche essere fertili, perché se sciaguratamente capita di soffrire di sterilità, allora gli ostacoli da superare sono tanti. Economici, perché la fecondazione eterologa ormai legale non è praticata ovunque, spesso i tempi d’attesa sono lunghissimi e quindi si ricorre al privato. E morali, perché immagino non sia facile scegliere la fecondazione assistita in un Paese dove si continua a ripetere che chi non può avere figli non deve accanirsi perché quell’impossibilità è un veto divino.
Qui faccio un inciso che vale per ogni ambito della ricerca scientifica (lo denunciava la senatrice Elena Cattaneo a “Presa Diretta” parlando di oscurantismo) su cui pesano i ritardi italiani. Nell’innovazione, nella sperimentazione e soprattutto la pratica assurda di voler indirizzare sempre il lavoro dei ricercatori, di volerne stabilire perimetri e ambiti, nel voler applicare una morale paternalistica alla ricerca. Questo ci rende sempre ultimi sul versante scientifico, non per assenza di talenti, ma per mancanza di libertà. E questo ci rende ultimi anche sul versante dei diritti civili, ambito legato a doppio filo con quello della ricerca scientifica, che ha come fine ultimo migliorare le condizioni di vita dell’uomo.
E quando nasce un bambino, comunque sia stato concepito e sia venuto alla luce, in un Paese come il nostro, non resta che augurarsi più che altrove che sia sano. Eh sì, perché se l’Italia non è un Paese per bambini, sicuramente non lo è per bambini disabili: il sistema è talmente al collasso che l’unica speranza che resta alle famiglie in cui questi principi e queste principesse crescono, è l’empatia di chi sta attorno. Di un insegnante di sostegno che decida di fare bene il proprio lavoro, di un impiegato pubblico che prenda a cuore una pratica per l’ottenimento di una pensione di invalidità. E come sempre, una società che si basa solo sull’empatia dei singoli, è una società che ha fallito la sua missione.
In genere quando si parla di bambini, la solita frase: «Con tutti i problemi che abbiamo, dobbiamo pensare ai disabili» arriva strozzata, perché nel mantra disoccupazione e crisi economica, talvolta un po’ di lucidità giunge a far comprendere che welfare significa soprattutto prendersi cura di chi sta peggio, perché anche chi sta peggio paga le tasse. Secondo l’Istat si tratta di 3 milioni di persone in Italia, il 5% della popolazione; secondo il Censis sarebbero di più: 4,1 milioni, il 6,7% della popolazione. Dei 3 milioni di disabili stimati dall’Istat, un milione e mezzo convivono con due o tre disabilità. Circa 700 mila hanno problemi di movimento, oltre 200 mila hanno difficoltà sensoriali, quasi 400 mila hanno limitazioni che impediscono le normali funzioni della vita quotidiana. 3 milioni di persone coinvolgono tre milioni di famiglie, che sui 30 milioni di famiglie stimate in Italia significa il 10%.
Quello di cui questo governo – come del resto i precedenti – non si rende conto, è che ignorando i diritti delle minoranze, diritti di cui legittimamente i cittadini dovrebbero godere, sta gettando le basi per qualcosa di molto pericoloso. Tante minoranze fanno una moltitudine, una moltitudine che non si sente più politicamente rappresentata. Quando l’Inghilterra, stremata dalla Guerra dei sette anni, impose tasse alle tredici colonie americane, queste risposero ponendo un’alternativa: mandare tredici rappresentanti al parlamento di Londra o di essere esonerati. Il principio era: “No taxation without representation”.
Da qui nasce l’indipendenza degli Stati Uniti e da questo semplice concetto dovrebbe partire la politica per capire che si sta muovendo su un terreno minato: non rispettare le minoranze, non concedere diritti, non rispettare quelli esistenti, significa far sentire sempre più cittadini non rappresentati. Cittadini che si chiederanno che senso ha pagare le tasse, se non hanno alcun servizio. Cittadini che smetteranno definitivamente di partecipare alla vita politica del loro Paese. Che non avranno più fiducia. E più studio e osservo, meno riesco ad attribuire responsabilità a quei cittadini che dovrebbero trovare il tempo e la forza di monitorare chi amministra la cosa pubblica, mentre sopravvivono in questa giungla chiamata Italia.
Fonte: L’Antitaliano.
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March 3, 2016
Salvatore, ucciso per errore in terra di camorra
Salvatore Barbaro aveva la passione per la musica, gli piaceva cantare e si guadagnava da vivere anche così. Nel giro dei neomelodici era noto come “Salvio” ed è per questo che, all’indomani del suo assassinio, le indagini degli inquirenti da lì erano partite, dall’ambiente dei neomelodici e dai loro legami con la camorra.
Ma Salvatore Barbaro con la camorra non c’entrava niente e i suoi genitori lo avevano detto subito che Salvio era un ragazzo tranquillo, del tutto estraneo alla criminalità. Infatti, Salvatore è stato ucciso a 29 anni solo perché guidava una Suzuki Swift, un’auto uguale a quella guidata da un boss del clan Birra-Iacomino. Quegli undici colpi di pistola che lo hanno ammazzato vicino agli scavi di Ercolano sono stati sparati da un killer del clan Ascione-Papale, convinto di giustiziare un boss rivale. Era il 13 novembre 2009: la verità emerge solo ora, sette anni dopo.
Salvatore Barbaro, dunque, è stato ucciso per sbaglio. Uno scambio di persona, un errore, un effetto collaterale delle faide camorristiche. Ma dalle indagini, che hanno portato alla custodia cautelare per quattro persone, è emerso qualcosa di veramente assurdo: avendo sbagliato, il killer è stato pagato meno. Non fu colpa sua, ma dello “specchiettista”, e dunque l’assassino, che si era messo d’accordo per incassare 3mila euro, si è dovuto accontentare di una cifra inferiore, meno di un terzo: 800 euro.
Perché la vita di Salvio ‘o cantante, per i clan, non valeva niente.
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March 2, 2016
Se lo Stato non interviene ora, la ‘ndrangheta avrà vinto per sempre
La puzza di bruciato entra nelle narici e resta sulla pelle. Te la porti addosso per ore e capisci che Reggio Calabria è l’inferno, perché appena ti rialzi la mafia ti annienta.
L’ultimo incendio al deposito di un negozio, nella città in riva allo Stretto, è di tre giorni fa ed è una sconfitta dello Stato. Perché qui quando un imprenditore, testimone di giustizia, come Tiberio Bentivoglio, (il primo vent’anni fa a denunciare il racket), inizia a vedere un barlume di speranza ecco che la ’ndrangheta lo rade al suolo, di nuovo e ancora. Accade al Sud del Sud e sembra una storia come le altre, ma non lo è.
Tiberio Bentivoglio ha 63 anni, moglie e figli, vende biberon, ha una sanitaria di articoli per bambini e dei dipendenti. È un imprenditore piccolo che vive in un quartiere di Reggio Calabria, Condera. La prima volta che gli chiedono il pizzo dice no e si mette contro il clan della zona. Rubano nel suo negozio nel 1992, nel 1998 portano via la merce del deposito e sparano. Nel 2003 ancora fiamme nella sua attività per due volte e il tentativo, vano e osteggiato (nell’ottobre del 2004) di mettere su un’associazione, confidandosi con un prete, che dal pulpito della chiesa invece di aiutarlo cerca di dissuaderlo (nei confronti del prelato ci sarà un processo per falsa testimonianza e favoreggiamento alla criminalità organizzata, che terminerà con un’assoluzione).
Ed è ancora il fuoco a distruggere tutto nel 2005 e poi nel 2008. Tre anni dopo, nel 2011, gli sparano alle sei del mattino, mentre sta andando nel suo frutteto. Una raffica di proiettili, uno lo colpisce al polpaccio e ancora oggi ne porta i segni, l’altro invece alla spalla, ma non entra nella carne, non lo uccide, solo per puro caso: è un marsupio di cuoio a proteggerlo. I suoi attentatori restano ignoti e la sua gamba è sfregiata, per sempre.
In questi anni Tiberio Bentivoglio è diventato il simbolo dell’antiracket. Ha messo insieme un’associazione, ha trovato il fortissimo sostegno di “Libera”, ha avuto spazio nei convegni, ma il fatturato della sua azienda è crollato del 75 percento. Ha ipotecato la sua casa per far fronte ai debiti e quando non ha potuto onorarli si è ritrovato contro le banche che gli chiedevano soldi ed Equitalia, che ha messo in vendita l’immobile.
Ha alzato la testa Tiberio Bentivoglio, pur vivendo con una gamba che si trascina e una scorta di terzo livello (ad alto rischio). Ha ricevuto, in questo ventennio, gli indennizzi per le vittime della mafia (legge 44 del 1999), solo che se sulla carta sono 60 i giorni per l’erogazione dei fondi, in realtà passano anni per le pratiche e intanto l’impresa non decolla. Anzi. Perché, dopo che denunci a Reggio Calabria, la gente non vuole affittarti neanche un buco e non vale a nulla che diventi un testimone di giustizia, anzi è peggio, neanche entrano nel tuo negozio a comprare. Hanno paura di farsi vedere. Di schierarsi.
Un barlume di speranza lo aveva intravisto in questi mesi, perché è lui il primo privato a vedersi assegnato un immobile strappato alla mafia, in via Marina, il salotto buono della città, grazie all’Agenzia dei beni confiscati e al Comune. Una struttura portata via al re dei videopoker Gioacchino Campolo, struttura che avrebbe, di qui a poco, ospitato la sua attività.
La merce appena acquistata e da trasferire sabato prossimo era in un magazzino, ma nella notte tra il 28 e il 29 febbraio qualcuno gli ha dato fuoco. Un solo grande falò. Un boato e poi le fiamme. Non per rispondere ad una mancata richiesta di pizzo, perché chi denuncia non viene più disturbato, specie se è uno che persevera come Bentivoglio, quell’incendio è di più è un messaggio nitido per dilaniare la speranza, per indicare a tutti che la ’ndrangheta vince.
Per dimostrare che non si può lavorare, con leggerezza, negli immobili confiscati. Le parole del ministro dell’Interno Angelino Alfano, che appena lo scorso 11 febbraio proprio a Reggio Calabria, annunciava che la ’ndrangheta è più debole, sono suonate stonate in una notte di fiamme di fine febbraio. Poi da un social network il sindaco della città, subito dopo l’attentato, ha organizzato un sit-in e una colletta per sostenere l’imprenditore (servono circa 60mila euro, ne sono stati raccolti tremila, per adesso). Tra la folla, usando un megafono ha urlato “Ci avete rotto le palle”, il primo cittadino, Giuseppe Falcomatà, rivolgendosi ai mafiosi.
“Libera”, che in questi anni è stata sempre accanto all’imprenditore, ha fatto da collante. In piazza l’altra sera erano un centinaio, tra senatori di destra, ex ministri di sinistra, associazioni, forse pochi per ricominciare, ma almeno hanno dimostrato che c’è chi non si volta dall’altra parte.
La puzza di bruciato però si è incollata addosso alla città e l’immobile, confiscato e assegnato all’imprenditore, simbolo delle vessazioni, sarà sorvegliato dall’esercito. Immaginate un negozio di prodotti per neonati dai colori pastello con al suo esterno uomini in tuta mimetica e mitra. È questa la sconfitta dello Stato. Tiberio Bentivoglio è in ginocchio. Vivere sotto scorta per anni è durissimo. Perdere, pezzo dopo pezzo la propria casa, vedersi sottrarre la credibilità dai fornitori, trovarsi isolati nel quartiere dove si è cresciuti è come morire, sotto tortura.
È per questo che, se lo Stato non vuole che quest’uomo sia una sorta di don Chisciotte, deve fare in modo che, entro il 15 marzo, quel negozio nuovo di zecca, riapra nell’immobile sottratto al boss e la Reggio, che non vuole la puzza addosso della plastica bruciata, deve acquistare corredini e biberon. Se così non sarà si può urlare che la mafia ha vinto e nell’inferno di Reggio si muore bruciati se si alza la testa.
Andreana Illiano
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February 26, 2016
Napoli senza futuro: per il PD è un buco nero. E De Magistris ha fallito
“Lo sa il Pd nazionale come tratta i posti difficili del sud? Come buchi neri. E difatti tende a lavarsene continuamente le mani”. Roberto Saviano non ha smesso di scagliare le sue analisi indigeste. “Quello che accade a Napoli e in Campania è esemplare, basta osservare l’offerta politica, l’assenza di un autentico rinnovamento, proprio quando si decide il destino di una capitale del Mezzogiorno sempre più povera, e più preda del crimine”. Ma ne ha anche per gli altri. “I Cinque Stelle sono un’estensione della volontà di Casaleggio. E il sindaco de Magistris ha fallito l’unica missione che aveva”. Uno sguardo non addomesticato né dalla fama, né dalla (periodica) lontananza. Lo scrittore guarda dall’America al Mezzogiorno e alla sua Napoli, una delle metropoli che a giugno va al voto amministrativo in una sfida che non si annuncia semplice per il Pd di Matteo Renzi.
Saviano, cos’è cambiato cinque anni dopo la svolta arancione che accomunò Napoli a Milano, Genova e Cagliari? Con quale animo andrebbe a votare, se fosse rimasto in città?
“Io non voto a Napoli perché da dieci anni vivo sotto scorta. Forse bisognerebbe chiederlo a chi vive in una città dove si spara quotidianamente, dove è quasi impossibile trovare lavoro, dove non si investe più. Purtroppo, ciò che opprime la vita di tanti cittadini, o li costringe ad andare via, non è cambiato”.
De Magistris si ricandida: si è paragonato al Che, poi a Zapata. Cosa salva e cosa boccia della sua “rivoluzione”?
“Il sindaco aveva una missione e l’ha fallita. A fine mandato non è importante isolare cosa va salvato e cosa no, ma quale città si è ereditata e quale città si lascia. L’evoluzione delle organizzazioni criminali a Napoli non ha vita propria, ma si innesta nel tessuto cittadino e in quello politico e imprenditoriale. Se fino a qualche anno fa era quasi solo la periferia a essere dilaniata da continui agguati di camorra, ora si spara in pieno centro. E si spara per le piazze di spaccio. Non una parola sulla genesi di agguati e ferimenti. Non una parola sul mercato della droga che in città muove capitali immensi. Fare politica a Napoli e in Campania dovrebbe voler dire essere l’avanguardia della politica in Italia, avere idee, proposte, e tenersi lontani il più possibile dalle logiche delle consorterie”.
Sul Pd ha detto, a Ballaró, che la “più credibile è la vecchia generazione, che con Bassolino ha clientele”. Ma lui, osteggiato dai renziani, può raccontarsi come nuovo.
“Lo ripeto. Io vedo che il Pd nazionale si lava continuamente le mani della Campania e di Napoli. Buchi neri, così percepisce le realtà tanto difficili da gestire. Ecco perché non c’è nessuna proposta nuova, nessun percorso alternativo, ma tutto è lasciato ad assetti già esistenti. Cosa c’è da spiegare? È tutto evidente”.
Il Movimento 5 Stelle appare ancora segnato dal caso Quarto: da 20 giorni non riesce a indicare il candidato sindaco di Napoli e a sedare malumori.
“Il Movimento 5 Stelle, che sul Sud poteva fare la differenza, sconta un vizio di forma: essere sempre meno un partito e sempre più un’estensione della volontà di Casaleggio. Così il codice d’onore, la multe e – vedi Quarto – le espulsioni assumono un profilo pericoloso perché antidemocratico: quello della cessione di sovranità attraverso la negoziazione privata. Per logica dovrebbe essere: se vengo eletto, credo di poter amministrare secondo le specificità del territorio. Ma nel M5S non è così, perché basta invece prendere una decisione in disaccordo col direttorio per essere cacciato via. Mi domando se gli iscritti al Movimento questa cosa l’abbiano compresa, se la ritengano giusta o la subiscano. La mia sensazione è che anche per loro la politica ormai sia solo comunicazione”.
Cosa serve di più al futuro sindaco di Napoli?
“Attenzione costante. E progetti veri: da Roma, dall’Europa. Nessun politico, nessun partito può farcela senza un progetto nazionale e internazionale che sostenga la riforma della città. Chiunque creda di potercela fare inganna sé e gli elettori”.
Nella città dove i killer sono sempre più “bambini”, gli intellettuali si dividono sulla temporanea esposizione a Roma d’una splendida opera del Caravaggio. Ha vinto il no. Lo chiedo a lei che ha fondato una corrente narrativa: ma Gomorra si può esportare e i capolavori d’arte no?
“Capisco la provocazione: un Caravaggio esposto a Roma avrebbe agito ottimamente da marketing per il turismo. Se poi è vero quanto ho letto, e cioè che il prestito avrebbe garantito fondi per una casa rifugio al rione Sanità per donne e bambini, allora credo che certe polemiche non solo siano sterili, ma anche dannose. Il Il Pio Monte della Misericordia, dove si trova il Caravaggio, è in via dei Tribunali, a due passi da Forcella, dove a Capodanno è stato ucciso un innocente. Mi viene da sorridere quando oltre al vincolo di inamovibilità si fa appello alla comprensione dell’opera solo nel contesto che in cui è inserito. Perché quel contesto è terribile e difficile per chi ci vive e per chi resiste”.
di Conchita Sannino (fonte: La Repubblica)
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