Roberto Saviano's Blog, page 11
December 30, 2015
KALASHNIKOV E ICONOGRAFIA DELL’ISIS
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December 19, 2015
RADIO ISLAM, IL RAZZISMO E LE LISTE DI PROSCRIZIONE
Può un’associazione che si definisce apolitica e che indica nelle proprie finalità la promozione “di maggiori e migliori relazioni tra l’occidente e il mondo arabo e islamico” e la libertà d’espressione pubblicare sul proprio sito una lista di proscrizione contro gli ebrei?
È quel che appare nella home page di Radio Islam, dove l’attributo “ebreo” viene usato come un’offesa. Come se dicendo islamico, buddista o cristiano si intendesse offendere o indicare persone da cui tenersi alla larga o, addirittura, da eliminare.
I nomi di giornalisti e di esponenti del mondo della cultura di origine ebraica sono apparsi sul sito di Radio Islam, accusati di detenere il “monopolio ebraico nei mass media in Italia”. Una vecchia litania, paragonabile al timore per le scie chimiche o alle riunioni del gruppo Bilderberg.
In quel lungo elenco c’è anche il mio nome “Roberto Saviano, scrittore di Gomorra (di madre sefardita)”. La Procura di Roma ha aperto un fascicolo contro ignoti per i reati di minaccia e diffamazione, con l’aggravante dell’odio razziale.
Il fondatore del sito, come spiega questo interessante articolo di Lettera43 è Ahmed Rami, militare e politico marocchino. Nel 1972 partecipò ad un tentativo di colpo di Stato in Marocco, poi fallito. Vive in Svezia come rifugiato politico, ma le sue trasmissioni hanno suscitato diversi scandali, anche per le affermazioni pubbliche con cui Rami ha negato l’Olocausto.
Non so cosa abbia a che fare con la libertà di espressione l’incitamento all’odio razziale contro gli ebrei. Come nel caso del sito neonazista Stormfront, finito sotto inchiesta per aver più volte preso di mira extracomunitari, la comunità ebraica e chiunque avesse origini ebraiche o fosse favorevole a politiche di accoglienza, anche in questa circostanza le parole di odio accendono un fuoco pericolosissimo.
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December 18, 2015
CASO CUCCHI, I RESPONSABILI NON SARANNO PROTETTI
Caso Cucchi. Caso aperto. Di nuovo. Grazie alle persone coinvolte, alla loro tenacia e al loro senso della giustizia. Ilaria Cucchi e Fabio Anselmo, rispettivamente sorella di Stefano e avvocato della famiglia Cucchi.
Da quando Stefano è stato arrestato per detenzione e spaccio di stupefacenti, da quando Stefano è morto, non hanno mai smesso di avere fiducia nella possibilità di trovare un percorso di verità. Non hanno mai smesso di dialogare con le istituzioni. Non hanno smesso di spiegare le loro ragioni. Non hanno mai smesso di coinvolgere l’opinione pubblica perché prendesse coscienza che non si può morire quando ci si trova in custodia dello Stato.
Il Procuratore della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone, uomo di Stato, che ha saputo ascoltare e tradurre in azioni le promesse fatte, avviando un’inchiesta bis per appurare cosa sia accaduto a Stefano Cucchi dopo l’arresto nella stazione Appia dei Carabinieri di Roma.
E poi l’Arma dei Carabinieri che ha diffuso un comunicato stampa che è un documento rivoluzionario. Notizia epocale percepita troppo in superficie sino ad oggi come la volontà di difendersi in extremis da una valanga indiscriminata di accuse. Non credo sia cosi, io ci leggo altro.
«È una vicenda estremamente grave. Grave il fatto che alcuni Carabinieri abbiano potuto perdere il controllo e picchiare una persona arrestata secondo legge per aver commesso un reato, che non l’abbiano poi riferito, che altri abbiano saputo e non abbiano sentito il dovere di segnalarlo subito, che questo non sia stato appurato da chi ha fatto a suo tempo le dovute verifiche, se tutto questo sarà accertato. Grave il fatto che queste cose possano emergere soltanto a partire da oltre sei anni dopo, nonostante un processo penale celebrato in tutti i suoi gradi».
Con queste parole, il Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri Tullio De Sette, non esprime un pensiero alieno agli appartenenti all’Arma – io vivo sotto scorta dei carabinieri da quasi dieci anni e so cosa provano quando atti di violenza commessi da loro colleghi gettano discredito sul loro intero lavoro – ma mette tutto per iscritto, fornendo un nuovo statuto che funge da spartiacque dentro la lunga e complessa storia dell’Arma. Non potrà più esistere sindacato o associazione che difenda chi ha sbagliato, perché l’Arma lo isolerà.
Questo documento non prova a nascondere le responsabilità dietro i soliti argomenti, ossia le condizioni difficili in cui operano le forze dell’ordine, i pochi soldi, le pressioni, il contesto. Argomentazioni spese spesso per cercare una sorta di comprensione verso gesti criminali che, benché vietati e sanzionati, poi in fondo sono giustificati dalla situazione particolare del singolo uomo in divisa. In questo documento invece non si cerca né di giustificare né di difendere comportamenti sbagliati. Ecco le parole esatte dei Carabinieri:
«Siamo rattristati e commossi dalla triste vicenda umana di Stefano Cucchi, prima e dopo quel 15 ottobre 2009, addolorati delle sue sofferenze, della sua morte, quali che siano le cause che abbiano concorso a determinarla, vicini ai suoi familiari».
Perché Stefano Cucchi da soggetto penalmente perseguibile è diventato vittima, e su questo non può esserci alcun dubbio. Che nessuno si azzardi più a chiamarlo tossico, drogato, spacciatore. Che nessuno metta più in relazione la sua morte ai motivi dell’arresto. Tra l’arresto e la morte non doveva esserci alcuna relazione, alcun rapporto di causa ed effetto. Nel nostro Paese non vige la pena di morte. E ancora:
«Rispetto, perciò, per tutto questo e determinazione nel ricercare la verità, nel perseguire quelli che potranno risultare responsabili di reati, di condotte censurabili sotto ogni profilo».
Rispetto, determinazione nel cercare la verità e nel perseguire chi avrà commesso reati: parole importanti che marcano una direzione che non è nuova in passato anche si è agito così in situazioni simili, ma che ora non può essere più equivocata o elusa. Ma che con la vicenda Cucchi è importante ribadire.
Se la nuova perizia medico-legale chiesta dalla Procura di Roma dovesse accertare che Cucchi nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009 ha subito violenza, le parole del Comandante Del Sette e questo documento ci danno sin da ora la certezza che le mele marce saranno allontanate senza tentativi di protezione, rompendo l’istinto corporativo. A tutela della dignità di un Corpo che è spesso unico Stato dove lo Stato non c’è.
Fonte: L’Antitaliano.
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December 16, 2015
I MEDIA CHIEDONO, I PREMIER RISPONDONO
Ricordo un’intervista a Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, sull’Huffington Post . Era del 2013 e riguardava una bufera piccola perché periferica, piccola perché marginale rispetto a ciò che riguarda il governo centrale. Il sindaco di Napoli Luigi De Magistris voleva che suo fratello Claudio, che aveva costruito la campagna elettorale (è attribuibile a lui lo slogan “scassiamo tutto”, versione napoletana della rottamazione renziana) e gli aveva fatto da consulente praticamente gratis, avesse un incarico retribuito e lo voleva alla direzione del Forum delle culture. Si levarono scudi contro questa candidatura e a Cantone fu chiesto se si trattava di sciacallaggio o di legittima critica. Rispose che “(gli sciacalli ndr) ci sono, ma non mi permetto assolutamente di annoverare tra questi i media, che registrano fatti e opinioni, favorendo così l’indispensabile controllo da parte dell’opinione pubblica”.
Perché ho ricordato questa vicenda? L’ho fatto perché il potere, sempre, deve sottostare a delle regole auree e una di queste, in democrazie avanzate, è costituita dalla accettazione della funzione di controllo svolta dai media. Non è sciacallaggio, non è remare contro, ma è svolgere un’azione fondamentale e doverosa di controllo sulla cosa pubblica; per fare ciò bisogna porre delle domande, magari trovare le risposte per offrirle ai cittadini, perché possano giudicare il governo in maniera consapevole. Non era sciacallaggio parlare del fratello di De Magistris e non lo è chiedere chiarezza sul padre del ministro Boschi.
Lo sciacallaggio lo fa chi come Salvini dà dell’infame a Renzi e gli addossa la colpa del suicidio del pensionato che ha perso i suoi investimenti. Lo fa chi inquina la politica irresponsabilmente con una demagogia violenta e incivile. Lo fa chi crede che porre domande a un esecutivo equivalga a volerlo mandare a casa.
Ieri il premier Matteo Renzi è tornato ad attaccare i giornali. Sembra non capire che il confronto serve a crescere, a misurarsi, che è il sale della democrazia. Sembra non capire che non bastano i simulacri di confronto quali sono state le imbarazzanti domande concordate della Leopolda. Mentre ascoltavo il lungo discorso del premier che ha chiuso la manifestazione, la mia attenzione è stata catturata da una frase detta con leggerezza, quasi con disattenzione “Quindici mesi fa il mio babbo – ha detto Renzi – è stato indagato e gli è crollato il mondo addosso. La procura ha chiesto l’archiviazione del suo caso, ma lui passerà il suo secondo Natale da indagato. Io gli ho detto “zitto e aspetta”. Ma lui mi dice che dovremmo passare al contrattacco, io, però, non dirò mezza parola, perché ho fiducia nella giustizia”. Non so se ho capito bene – anche se è tutto piuttosto chiaro – ma il premier riferisce che suo padre, per una vicenda giudiziaria personale, avrebbe detto “dovremmo passare al contrattacco”. “Dovremmo” chi? Viene da chiedersi. Perché il premier si sente coinvolto nella strategia difensiva di suo padre? A che titolo dovrebbe eventualmente dire quella “mezza parola”? E a chi? Nel ruolo di figlio o di presidente del Consiglio? (Ma è poi possibile smettere di essere il presidente del Consiglio per occuparsi, in forma privata, di questioni giudiziarie che riguardano familiari?). E ancora, “passare al contrattacco”: contro chi? Non gli viene in mente che nel suo ruolo non può neanche permettersi di scegliere o meno se passare al contrattacco, in risposta a una vicenda privata?
Che cosa può significare questa frase? Che la linea del governo in materia di giustizia la detterebbe Renzi padre? Cos’è questo: un avvertimento o semplici parole in libertà? Sembra che il presidente del Consiglio, desideroso di rispondere con il sorriso, non sia stato in grado di misurare le proprie parole. Oggi, a bocce ferme, ha il dovere di chiarire cosa intendesse e quanto le vicende familiari influiscono sull’azione del suo governo.
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December 11, 2015
La moglie di Cesare e il padre di Maria Elena Boschi
Molti si sono preoccupati di dare ampia pubblicità agli impegni del Ministro Boschi nella giornata in cui il Consiglio dei Ministri ha varato il decreto che ha salvato dal fallimento anche la Banca della quale il padre è vicepresidente. Molti hanno sentito la necessità di dare ampio spazio all’alibi del Ministro che, salvata la forma, ritiene di aver risolto la questione sul piano politico. Ma non è così.
Perché la Banca sia fallita – dopo essere stata oggetto nei mesi scorsi di sospette speculazioni – è compito degli organi competenti accertarlo (sempre che non si applichino al caso moratorie altrove felicemente utilizzate). Ma il conflitto di interessi del Ministro Boschi è un problema politico enorme, dal quale un esponente di primissimo piano del governo del cambiamento non può sfuggire. In epoca passata abbiamo assistito a crociate sui media per molto meno, contro esponenti di terza fila del sottobosco politico di centrodestra: oggi invece pare che di certe cose non si debba o addirittura non si possa parlare. È probabile che il Ministro Boschi non risponda come se il silenzio fosse la soluzione del problema. Ma questo è un comportamento autoritario di chi si sente sicuro nel proprio ruolo poiché (per ora) le alternative non lo impensieriscono. E se il Ministro resterà al suo posto, senza chiarire, la colpa sarà principalmente nostra e di chi, temendo di dare munizioni a Grillo o a Salvini, sta tacendo o avallando scelte politiche inaccettabili.
Quando è iniziata la paura di aprire un serio dibattito su questo governo? Quando è accaduto che a un primo ministro fosse consentito di prendere un impegno serio sul Sud ad agosto per dimenticarlo del tutto il mese successivo?
Proviamo a immaginare per un attimo che la tragedia che ha colpito Luigino D’Angelo, il pensionato che si è suicidato dopo aver perso tutti i risparmi depositati alla Banca Etruria, fosse accaduta sotto il governo Berlusconi. Tutto questo avrebbe avuto un effetto deflagrante. Quelli che ora gridano allo scandalo, gli organi di stampa vicini a Berlusconi forse avrebbero taciuto, ma per tutti gli altri non ci sarebbe stato dubbio: si sarebbero invocate le dimissioni. Dunque, cosa è successo? Come siamo passati dai politici tutti marci ai politici tutti intoccabili? Cosa ci sta accadendo?
All’alba della Terza Repubblica un ministro del governo Letta, la campionessa Josefa Idem, sfiorata da una vicenda senza alcuna rilevanza penale (aveva indicato come abitazione principale ai fini della tassazione un immobile che non lo era), decise di dimettersi. Era iniziato un nuovo corso e alle elezioni politiche il Movimento 5 Stelle, con la carica moralizzatrice che gli è propria, aveva ottenuto un risultato impensabile: c’era la necessità di marcare la differenza con il passato. Il passato era la Seconda Repubblica e la sua impostazione liberale, non nel senso classico, ma in quello icasticamente definito da Corrado Guzzanti per il quale la Casa della Libertà era solo un luogo dove ognuno – e i potenti ancor di più – facevano quello che volevano, contro la legge o con l’ausilio di leggi ad hoc.
Si torna sempre a Berlusconi, ma del resto non è vero che senza conoscere il passato non può comprendersi il presente? O si tratta di una massima di portata generale e mai particolare? I nemici di Berlusconi, tra i quali mi onoro di essere annoverato, sono una folta, foltissima schiera di scrittori, giornalisti, intellettuali, privati cittadini che nel tempo si sono sentiti investiti del compito di monitorare cosa stesse accadendo alla politica italiana, alla sua economia. Di comprendere e se possibile rendere pubblici certi meccanismi. I tentativi di censurare, di impedire il racconto della realtà e infine di diffamare chi osasse farlo, sono stati innumerevoli. Ma l’Italia non è mai diventata la Turchia di Erdoğan o la Russia di Putin – amici dichiarati del nostro ex Presidente – perché non eravamo soli. Ognuno di noi sapeva di poter contare sul supporto di altri che come noi spendevano tempo, energie e intelligenza per raccontare quanto succedeva ogni giorno, tra cronaca parlamentare e giudiziaria.
Sulle pagine del quotidiano Repubblica un maestro indimenticabile del giornalismo di inchiesta, Peppe D’Avanzo, inchiodò il berlusconismo a dieci domande che non hanno mai ricevuto risposta, poiché è bene ricordare che il compito del giornalista è chiedere, il dovere del potere è rispondere. Quel potere era legittimo e democratico e quei governi frutto di libere elezioni: i media facevano il proprio dovere, tutelando quelle regole democratiche alle quali il signore di Arcore e il suo codazzo si richiamavano costantemente per fare quello che gli pareva e conveniva. Cosa è successo da allora? Cosa è cambiato nel nostro modo di leggere ciò che accade? Cosa è cambiato nella nostra capacità di indignarci? Cosa ne è di quel fronte unito contro un metodo di governo?
Perché era giusto sotto Berlusconi chiedere le dimissioni, urlare allo scandalo e all’indecenza ogni volta che qualcosa, a ragione, ci sembrava andare nel verso sbagliato e tracimare nell’autoritarismo? Perché sotto Berlusconi non ci si limitava a distinguere tra responsabilità giuridica e opportunità politica, ma si era giustizialisti sempre? E perché invece oggi noi stessi ieri zelanti siamo indulgenti anche dinanzi a una contraddizione cosi importante e oggettiva?
Se Berlusconi, che per anni abbiamo considerato causa dei mali dell’Italia, era in realtà la logica conseguenza della ingloriosa bancarotta della Prima Repubblica, così la stagione politica che stiamo vivendo adesso non ha nessuna caratteristica peculiare, nessun pregio o difetto autonomo, ma nasce dalle ceneri di quella esperienza. Il che non vuole dire in continuità, ma neanche ci si può ingannare (o ingannare gli altri) raccontandoci l’incredibile approdo sul suolo italico di una nuova generazione di politici senza passato. Banalmente – questa la narrazione dei media di centrodestra – potremmo dire che quando al potere ci sono le sinistre, si è più indulgenti. L’opinione pubblica è più indulgente. I media sono più indulgenti. È come se, a prescindere, si fidassero. Anche se ho seri dubbi che al governo ci sia la sinistra, o anche solo il centro-sinistra, e nemmeno, a dire il vero, una politica moderna: dato il ridicolo (per non dire peggio) ritardo sul tema dei diritti civili.
O forse le ragioni dell’attuale timidezza risiedono nell’iperattivismo del Renzi I (dato che tutti prevedono un nuovo ventennio per mancanza di alternative, forse dobbiamo prepararci alle numerazioni di epoca andreottiana) che lascia spiazzati, poiché il timore è di sembrare conservatori (con un uso improprio degli hashtag) o peggio nostalgici.
Del resto come si comunica contro gli hashtag del premier Matteo Renzi senza passare per gufi o nemici del travolgente cambiamento? Ormai si è giunti ad un passo dall’accusa di disfattismo. Imporre la furba dicotomia che criticare il governo o mostrare le sue forti mancanze sia un modo per fermare le riforme, che invece vogliamo, e per armare il populismo, verso cui nutriamo sempiterna diffidenza, è un modo per anestetizzare tutto, per portare all’autocensura.
Ma non cadiamo nella trappola: la felicità di Stato non esiste, è argomento che riguarda gli individui, non si impone, si raggiunge e noi ne siamo lontani. E la critica non è insoddisfazione malinconica, non è mal di vivere, non è spleen: e considerarla tale è quanto di peggio possa fare un capo di governo. Che il ministro Boschi risponda e subito della contraddizione che ha visto il governo salvare la banca di suo padre con un’operazione veloce e ambigua. Lo chiederò fino a quando non avrò risposta.
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LE CARCERI NON RIEDUCANO, MA PUNISCONO E RENDONO PEGGIORI
Male non fare, paura non avere”. Non esiste proverbio più fuorviante di questo. Eppure non esiste summa migliore di come vorremmo fosse la vita: una corrispondenza lineare di cause ed effetti. E in questa visione inesistente, ma semplice e rassicurante, non accettiamo in cattedra maestri che non vestano i panni canonici del titolato a dare lezioni.
Invece lezione è qualunque esperienza aggiunga elementi di conoscenza, e maestro chiunque sia latore di quel messaggio.
Luigi Manconi, presidente della Commissione Diritti Umani del Senato, nei giorni scorsi ci ha raccontato la storia di un uomo che non accetteremmo mai di chiamare maestro. Ma è un uomo che ha creato una rottura, che ha trasmesso parole fuori dal carcere, dove lui è detenuto, frasi, teorie, affermazioni e prassi che invece sarebbero dovute rimanere lì, per non valicare mai quei confini.
Rachid Assarag è un uomo marocchino di 40 anni. Condannato per violenza sessuale alla pena di 9 anni e 4 mesi di reclusione, che sta scontando nelle carceri italiane. È stato trasferito molte volte e in diverse circostanze è riuscito a registrare sue conversazioni con rappresentanti della polizia penitenziaria e a ottenere prova delle percosse e dei maltrattamenti subiti. On line è possibile ascoltare queste conversazioni. C’è chi le mette in dubbio per il tono pacifico. Come è possibile – dicono – che non ci sia concitazione quando si parla di percosse? Come è possibile – questo non lo dicono – che un brigadiere della polizia penitenziaria dia tante spiegazioni a un detenuto?
Eppure, metterle in discussione a priori è il servizio peggiore che si possa fare a un Paese che sconta tassi di criminalità altissimi, che ha un sistema giudiziario al collasso e quello carcerario praticamente fallito. Peraltro le registrazioni e, ancor più, quel racconto dei fatti è considerato credibile da due procure, quelle di Firenze e Parma, che hanno aperto fascicoli.
Quindi Rachid Assarag, detenuto per violenza sessuale, è la persona grazie alla quale oggi sappiamo, dalla voce di un brigadiere di polizia penitenziaria, che nel carcere non si applica la Costituzione, che se la Costituzione ci fosse entrata, quel carcere (nel caso specifico quello di Prato) sarebbe chiuso da tempo. Che le percosse sono un canale di comunicazione con i detenuti i quali comprenderebbero solo con la violenza le regole da seguire. Che le carceri non rieducano, al più puniscono (male non fare, paura non avere), e comunque rendono peggiori.
So che queste mie parole saranno poco frequentate, leggere di carceri piace davvero a pochi. So che chi le frequenterà, in larghissima percentuale, non sarà d’accordo con me. So che molti vorrebbero sentirsi dire nulla ti sarà fatto se non commetterai errori. Ma non me la sento di rassicurare. Fabio Anselmo, avvocato di Assarag, chiede attenzione alle condizioni di salute del suo assistito che sta portando avanti uno sciopero della fame per denunciare le violenze subite. Anselmo dice che stiamo assistendo alla «cronaca di una morte annunciata che equivale a dire che nel nostro Paese vige la pena di morte».
Sono d’accordo con Anselmo e invito chi mi legge in questo momento a fare uno sforzo, so di chiederne uno significativo. Lo sforzo di pensare che un uomo che sta in carcere per violenza sessuale, un uomo marocchino – mi si perdonerà la precisazione, ma in questo triste momento è facile indulgere a sentimenti di razzismo – abbia diritto, nonostante la condanna e la detenzione, ma proprio in ragione della condanna e della detenzione, a una esecuzione della pena secondo Costituzione, finalizzata alla riabilitazione e al reinserimento nella società.
Il carcere si può osservare da molte prospettive. Chi ci lavora dirà cose semplici e convincenti perché in larga parte vere: i detenuti hanno poche regole e non le rispettano. I detenuti dicono tutti di essere innocenti. Ma poi ci sono le statistiche, e quelle dobbiamo usare per capire la direzione da prendere. Il tasso di suicidi di detenuti e guardie penitenziarie è altissimo, tanto alto da farci comprendere che il carcere così come è non funziona per nessuno. Il tasso di recidiva per i detenuti che lavorano è bassissimo. Quindi in carcere i detenuti devono essere occupati. Cosa manca perché si possa prendere questa direzione? Risorse? No, manca una autentica cultura del diritto. Se l’avessimo, sapremmo che anche chi ha sbagliato ha qualcosa da dire. Se l’avessimo sapremmo ascoltare.
Fonte: L’Antitaliano.
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December 4, 2015
LA TURCHIA E IL SEGNO DELL’EUROPA CHE FALLISCE
Dopo gli attentati di Parigi, il presidente francese ha reagito come se la Francia solo incidentalmente facesse parte di una unione di Stati che dovrebbero, insieme, decidere la direzione da prendere soprattutto in situazioni di crisi.
François Hollande ha annunciato che avrebbe contattato i suoi omologhi di altri paesi per capire come avrebbero dato alla Francia il loro appoggio. La comunicazione è stata inequivocabile: la Francia è stata attaccata in quanto Francia e ora la Francia dichiara guerra allo Stato islamico.
Ed ecco, ancora una volta, l’Europa che fallisce. L’Europa che, disunita, non è solo un’entità svuotata di ogni significato, ma addirittura dannosa perché rende deboli ed espone gli Stati che la compongono. Un’Europa unita non solo sotto il profilo monetario, sarebbe un’entità territoriale attenta, per prima cosa, ai propri confini. Capirebbe e analizzerebbe i conflitti, studierebbe strategie e modalità per renderle operative.
Che nessuno abbia fatto riferimento all’Europa è la conseguenza di un irrimediabile fallimento sul versante della politica estera, poiché ogni Paese gioca in autonomia le proprie partite, spesso seguendo linee politiche tracciate in epoca coloniale o interessi economici condizionati da esigenze energetiche, se non dal commercio di armi. Il frutto avvelenato di tutto ciò sta nel non aver posto alcuna attenzione alle frontiere del Continente e, quindi, nel dovere sempre gestire i conflitti quando ormai sfuggono a ogni pacifica risoluzione.
Secondo Emma Bonino è inutile dichiarare guerra a Daesh (ha fatto molta attenzione a non legittimare i terroristi dandogli dignità di Stato) e iniziare bombardamenti aerei, se prima non ci si affida, in Europa, a un lavoro di intelligence condiviso. Del resto, tutte le notizie che i media si sono affannati a mettere in ordine dopo gli attentati, puntavano tutte il dito sulla colpevole incapacità dell’Europa a fare fronte comune.
Da quando vivo sotto scorta e viaggio all’estero, i ministeri degli Interni dei Paesi che mi ospitano si fanno carico della mia sicurezza. In Francia, in Germania, in Spagna e in Portogallo mi è capitato di conoscere agenti che parlavano italiano e che nei loro paesi avevano a lungo indagato sulle mafie italiane. Lo scenario che mi hanno descritto è desolante. Indagini inviate in Italia in attesa di riscontri e informazioni che tornavano indietro dopo anni, quando ormai erano datate se non inutili. Chi studia la criminalità organizzata, da sempre lamenta questa assoluta mancanza di comunicazioni tra Paesi che fanno parte della stessa entità sovranazionale. E chi si occupa di contrastare i segmenti criminali internazionali sa che ciò che conta sono i rapporti personali, sono le singole volontà, il magistrato lungimirante, il poliziotto che fa indagini con dedizione, persone che fanno coincidere le loro vite con il loro lavoro. Con il terrorismo accade lo stesso. Nessuna comunicazione reale, nessun lavoro condiviso. Disuniti come siamo, abbiamo lasciato che la Turchia, fuori dall’Europa, gestisse la situazione siriana nel peggiore dei modi possibili.
Intanto l’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza è l’italiana Federica Mogherini; nonostante le sue personali capacità e dunque a prescindere da queste, il suo ruolo nei fatti che freneticamente si stanno susseguendo è del tutto impercettibile: è proprio questo il sintomo più evidente della inesistenza di una politica estera comune europea. In questo contesto, arriva la lettera appello di Can Dündar e Erdem Gül, giornalisti di “Cumhuriyet”, il maggiore quotidiano turco. Dündar e Gül sono in galera per aver rivelato informazioni sulla vendita di armi ai gruppi islamisti in Siria da parte dei servizi segreti turchi.
I due giornalisti hanno chiesto ai leader europei di assumersi responsabilità sulla deriva del regime turco. Non posso che sottoscrivere il loro appello. Non possiamo che prendere atto del fatto che un’Europa realmente conscia della propria identità politica avrebbe favorito, e da tempo, l’ingresso della Turchia nella Comunità, facendosi carico anche di ciò che accade lungo i suoi confini. Oggi, invece, ai limiti del nostro continente c’è una polveriera dominata in maniera autoritaria da una oligarchia che sta segnando ormai non solo il destino di turchi e curdi, ma anche il nostro.
Fonte: L’Antitaliano.
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December 2, 2015
DONNE DISCRIMINATE IN VITA E NELLA MORTE
Ci sono paesi che spazzano via vite a sassate. Niente amore, nessuna dignità. Nessuna umanità e nessun Dio.
Sono tanti i diritti negati con una condanna di lapidazione per adulterio, e si riassumono nel diritto a esistere. Cancellare l’esistenza di una persona, spazzarla via a sassate.
È successo ancora, poco meno di un mese fa, in Afghanistan. Rokhsahana aveva tra i 19 e i 21 anni. L’età precisa non si conosce e non conta per chi ne ha decretato la condanna. Ciò che conta è che Rokhsahana era stata destinata in sposa ad un uomo molto più grande di lei, ma aveva preferito fuggire con il ragazzo che amava. Una fuga durata pochissimo. In meno di una settimana i talebani l’hanno raggiunta, punita e condannata. In mezzo al deserto. In una buca polverosa. Prima la pietra scagliata da un uomo, poi da un altro e altri ancora. Tutto viene ripreso da una videocamera. Trenta agghiaccianti secondi per annientare un’esistenza. Un video che viene caricato sui social network, perché sia dimostrazione di potenza e dia la cifra dell’ira spostata che si riversa contro chi trasgredisce le regole.
E poi c’è un’altra storia, quella di una donna sposata di 45 anni. Lavora come domestica a Riyad, in Arabia Saudita. È partita dallo Sri Lanka, come molti altri connazionali, per garantirsi un impiego. Qui si è innamorata di un connazionale, celibe. La loro storia clandestina è uno scempio sociale.
Secondo la Sharia sono entrambi colpevoli, ma non allo stesso modo. Per lei, la pena è la condanna a morte. Per lui cento frustate. La condanna non è ancora stata eseguita. Le autorità dello Sri Lanka si stanno attivando per fermare l’esecuzione e garantire la difesa dei diritti umani per i propri cittadini. Sono molte le donne e gli uomini stranieri che cercano fortuna in Arabia Saudita e si ritrovano in carcere per reati minori, talvolta per reati che non sono affatto reati. Sono considerati estranei alla società saudita e una volta dietro le sbarre, sono detenuti di terza classe. Dallo scorso agosto la domestica cingalese è in carcere. Attende di conoscere il proprio destino.
Rokhsahana, invece, non ha avuto il tempo di comprendere che essere una donna che vive e ama era già una colpa. Le donne: discriminate in vita e discriminate anche nella morte.
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November 27, 2015
DIFFERENZIALE NEGATIVO MOLTO AMPIO
Ogni volta che esce un rapporto statistico sull’economia italiana è una pugnalata al cuore per il Sud.
A luglio il rapporto Svimez sul Mezzogiorno ha restituito un quadro dell’Italia meridionale fermo al 1977 per tasso di occupazione, addirittura al 1860 per crescita demografica.
Qualche mese prima, la ferita era stata aperta dal rapporto nazionale Istat, impietoso, tanto da spingere lo stesso presidente dell’ente, Giorgio Alleva, a denunciare apertamente che il Sud è fuori dalle politiche del Paese da troppo tempo e serve un’assunzione di responsabilità a lungo termine.
Nei giorni scorsi è toccato di nuovo all’Istat e questa volta i dati vengono dai conti economici territoriali, dalle Regioni e dalle Province, dagli enti più prossimi ai cittadini. Non è un caso che la relazione sia tutta improntata al raffronto tra Nord e Sud. E’ il tema del Paese. Almeno dovrebbe esserlo.
L’Istat lo riassume in due brevi paragrafi iniziali: “Il Pil per abitante nel 2014 risulta pari a 32,5mila euro nel Nord-ovest, a 31,4mila euro nel Nord-est e a 29,4mila euro nel Centro. Il Mezzogiorno, con un livello di Pil pro capite di 17,6mila euro, presenta un differenziale negativo molto ampio, inferiore del 43,7% rispetto a quello del Centro-Nord (-43,2% nel 2013).”
Da un secolo e mezzo il lessico dell’economia italiana è costellato di frasi come “un Paese a due velocità” o “Il divario tra Nord e Sud” o “la crisi del Mezzogiorno”. Oggi si chiama “differenziale negativo molto ampio“.
La vecchia questione meridionale si misura in termini di persone più povere e più ricche ed oggi sappiamo anche di quanto: quasi la metà in meno di ricchezza per un cittadino residente al Sud.
Ma al Sud c’è anche “il calo più marcato del prodotto interno lordo (-1,1% a fronte di una media nazionale del -0,4%) e continua la flessione degli occupati (-0,9%)”
Delle uniche 7 regioni italiane che hanno un Pil in crescita sono solo due quelle meridionali: Basilicata e Calabria. Ma restano nella rosa delle regioni, con Sicilia, Puglia e Campania, con il Pil più basso e la minor spesa per consumi finali per ciascun abitante.
Non dovrebbero servire le statistiche per comprendere la necessità di invertire la rotta. Basterebbe fare un viaggio, entrare nelle case, parlare con gli studenti nelle Università. L’unica rotta possibile per loro è quella che li porta lontano da casa. Gli italiani che sono emigrati all’estero sono più che raddoppiati rispetto a cinque anni fa. Vanno in Gran Bretagna, in Germania, in Svizzera o in Francia. Sono perlopiù giovani con meno di trent’anni, molti di loro laureati.
Anche di questo c’è traccia nelle statistiche. Ma non basta cambiare lessico per sapere che il Sud sta ancora peggio.
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Una Procura Europea contro il terrorismo
Per tagliare i finanziamenti al terrorismo bisogna individuare i flussi economici, legali e illegali, che sostengono un’organizzazione complessa. E colpire quelli.
Finora tutto ciò è stato messo in secondo piano.
Il Belgio è un territorio centrale negli attentati di Parigi non perché, come si crede, è la culla europea dell’Islam, ma perché è la cassaforte della Francia. Negli ultimi anni ha visto l’arrivo dei capitali francesi, soprattutto derivanti dall’evasione fiscale. La presenza di questi capitali fa sì che il Belgio abbassi la soglia di attenzione e le difese immunitarie e che vi possa entrare denaro proveniente da ogni ambito.
L’unica soluzione è un lavoro di intelligence condiviso, una Procura Europea unita e che smetta di lavorare sul segmento militare e si concentri su quello economico.
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