Roberto Saviano's Blog, page 14
October 30, 2015
Perché in Italia non si parla di eutanasia e fine vita
In Italia non si parla di eutanasia e fine vita. Troppo complicato in un paese in cui tutto, ma proprio tutto, viene percepito come appannaggio di una spiritualità individuale tanto vaga da poter essere applicata quando e dove fa comodo. Troppo complicato parlare di fine vita in un paese in cui permettere a ciascuno di scegliere come vivere e come morire viene considerato limitazione alla libertà di chi, invece, vuole imporre il proprio pensiero agli altri.
Julianna Snow è una bambina di 5 anni che ha una malattia genetica chiamata malattia di Charcot-Marie-Tooth e vive in Oregon, dove dal 1997 esiste una legge sull’eutanasia, il Death and Dignity Act. Julianna, a causa della sua malattia, non può camminare, non può parlare e non può mangiare né deglutire autonomamente.
Julianna ha espresso il desiderio di morire. Ha solo 5 anni, è vero, ma io credo che sappia cosa significhi vivere e cosa significherebbe morire. Ora tocca a noi comprendere che non sempre il dolore rende la vita degna di essere vissuta, ma spesso le toglie ogni senso. Ho letto qui questo articolo su Julianna Snow che vi segnalo.
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Ecco la prova: se leggi sei più felice
Ero bambino e ho questo ricordo di mia madre che leggeva. Per lei leggere era qualcosa di estremamente vitale. Non si trattava solo di un piacere o di informarsi. Coincideva proprio con la sua possibilità di riuscire a fare tutto il resto. È questa dimensione di necessità che ha accompagnato la mia esperienza di lettore da sempre. Da quando le mie mani ancora esili si indolenzivano nel reggere per qualche ora quei libroni cartonati che spesso si regalano ai più piccoli. Copertine colorate, fogli più pesanti e lettere più grandi perché l’ingresso in quel mondo d’immaginazione potesse avvenire nella maniera più semplice.
E così, quando da piccolissimo ti abitui a quei silenziosi dialoghi, poi difficilmente riesci a farne a meno crescendo. Diventa un confronto necessario nel suo essere quotidiano e costante. Quando per qualche motivo si smarrisce il tempo da dedicare alla lettura, la giornata sarà passata senza aver pienamente avuto il suo senso. E resterà l’impressione di aver perso qualcosa di irrecuperabile. Il tempo per la lettura si è smarrito. La drammatica crisi dell’editoria non è generata dall’ebook o dalle edizioni supereconomiche. Nient’affatto. È data dall’assenza di tempo divorato dalla frenesia del web. In treno, in aereo, a letto, tra le mani non ci sono più pagine ma smartphone. La mia è nostalgia del passato? Un po’. Luddismo antiweb: mi piacerebbe, ma non sono così stolto. Preferisco lavorare su queste piattaforme per dare spazio ai libri. Per restituirgli il tempo perduto.
Odio i traslochi perché ne faccio troppi, ma c’è una sola cosa che mi dà piacevolezza di questa meccanica fatica: riprendere in mano i libri che hanno convissuto con me e condiviso quei luoghi per qualche mese.
Mi capita di citare questa frase di Umberto Eco: «Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria! Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito… perché la lettura è una immortalità all’indietro». E quindi chi legge avrà strumenti aggiunti alla propria vita; strumenti che vengono da esperienze che per noi hanno vissuto altri.
Sono grato a mia madre e a mio nonno per la costante iniziazione al libro. È un percorso che dovrebbe essere considerato fondamentale; nessun bambino leggerà se non vede i genitori leggere, nessun bambino leggerà se casa sua è senza libri.
Fin qui sulla lettura, sull’importanza dell’esempio, dell’imitazione. Sarà più facile che mi venga voglia di leggere se vedo persone che leggono attorno a me. Se chi mi sta accanto mi invita alla lettura. Se chi mi sta accanto mi insegna a trovare tempo da dedicare ai libri.
Ma poi ho letto di un sondaggio che mi ha molto incuriosito. Si parla di mercato editoriale, di quali libri si vendono, di classifiche e gradimento. Di come l’Italia sia un paese di lettori deboli (secondo l’Istat, nel 2014, il 58,6% degli italiani non ha letto un solo libro nei precedenti 12 mesi), ma non si parla mai davvero di come vive chi legge e di come vive chi non legge. O meglio, siamo convinti che chi legge abbia più strumenti, sia meno inconsapevole e forse anche meno influenzabile di chi non legge. Non solo, a quanto pare è anche più felice.
“La felicità di leggere” si chiama una ricerca commissionata da GeMS (Gruppo editoriale Mauri Spagnol) in occasione del proprio decimo compleanno e affidata a Cesmer, Centro di studi su mercati e relazioni industriali dell’Università di Roma Tre.
La ricerca ha utilizzato diversi parametri mutuati dalla letteratura scientifica. Le differenze nelle vite dei lettori e dei non lettori sono state riportate su tre scale differenti (scala di Veenhoven, scala di Cantril e scala di Diener e Biswas-Diener) e i risultati coincidono: chi legge è più felice, prova una gamma maggiore di sensazioni positive e una minore di sensazioni negative e riesce a contenere la rabbia.
Che sia stato un editore a commissionare questo studio la dice lunga su un aspetto che trovo centrale: non è importante solo valutare cosa si legge più spesso e soprattutto cosa si compra, ma sapere che chi pubblica libri, di qualunque genere e livello, sta lavorando per rendere un po’ più felici gli altri. Non c’è niente di più bello che sapere che il proprio lavoro possa contribuire alla felicità altrui.
Fonte: L’Antitaliano.
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Tramonto Libico
Le stime ufficiali parlano di 856mila ebrei che hanno abbandonato le proprie case, le proprie città, i propri paesi. Ebrei che si sentivano e si definivano «ebrei arabi» perché l’arabo era la loro lingua, perché da secoli le loro radici erano piantate in quelle terre di sole, deserto e mare che vanno dal Medioriente fino al Maghreb, Iraq, Siria, Iran, Libano, Tunisia, Marocco, Egitto, Algeria, Yemen, Tunisia, Aden, Libia: paesi che avevano grandi comunità ebraiche vive e fiorenti, formate da commercianti, artigiani, rabbini, studiosi, medici, amministratori, comunità di 30mila o di 150mila ebrei che oggi non esistono quasi più, frantumatesi nell’esilio seguito alle persecuzioni e alle discriminazioni montate dopo il 1948, dopo la nascita dello Stato d’Israele.
Il libro “Tramonto libico” è legato a una di queste storie, alle vicende degli ebrei di Libia. Ebrei che vivevano in quelle terre prima ancora che venissero chiamate Libia proprio da noi, colonizzatori italiani. Si presume che i primi ebrei siano giunti in quel territorio allora chiamato Barberìa e abitato dai «barbaros», «balbuzienti» (i greci così chiamavano tutte le popolazioni che non parlavano la loro lingua), dopo la distruzione del primo tempio di Gerusalemme nel 586 a.C. Da allora e fino al 1967, anno in cui iniziano le vicende di questo libro, gli ebrei hanno testimoniato ogni nuovo conquistatore, hanno combattuto insieme ai berberi contro gli eserciti di Maometto, hanno contribuito alla crescita della regione durante l’impero ottomano e poi nel periodo di colonizzazione italiana, si sono talvolta mescolati con la popolazione locale con matrimoni e conversioni, ma hanno sempre mantenuto le proprie tradizioni e il legame saldo con la propria fede perseverando nell’osservanza dei precetti religiosi.
Un esempio drammatico di quanto l’osservanza fosse radicata tra gli ebrei della Libia è rappresentato dall’episodio della pubblica fustigazione di tre ebrei che si erano rifiutati di tenere aperti i propri negozi di Shabbàt obbedendo al provvedimento fascista che ne vietava l’apertura.
All’inizio del Novecento solo a Tripoli si contano ben 44 sinagoghe, indice di vita ebraica fervente di una comunità profondamente religiosa. Il periodo fascista portò con sé anche l’onta delle leggi razziali. Nonostante che il 18 marzo del 1937 Mussolini sbarcato a Tripoli dichiarasse: «L’Italia considera gli ebrei sotto la sua tutela, nessuna discriminazione razziale o religiosa è nella mia mente, restando fedele alla politica di eguaglianza di fronte alla legge e di libertà di culto», nel luglio dell’anno seguente veniva pubblicato il «Manifesto della razza», che sanciva le discriminazioni degli ebrei ponendoli in una situazione di inferiorità anche rispetto alla popolazione musulmana . Con lo scoppio della guerra, circa tremila ebrei verranno reclusi in un campo di prigionia e tre uomini, accusati di collaborare con gli inglesi, saranno fucilati. La situazione di discriminazione durerà fino allo sbarco degli Alleati e della brigata ebraica che libereranno la Libia dagli italiani.
Ma per gli ebrei libici la liberazione non significherà un nuovo periodo di pace. L’ascesa del sionismo e il rafforzamento del panislamismo sprigioneranno le energie latenti e distruttive che covano nei recessi delle masse arabe e sfoceranno in ripetuti pogrom e attacchi ai quartieri ebraici. Poi, la fondazione dello Stato d’Israele e in seguito la Guerra dei Sei Giorni faranno scoppiare la rabbia araba che porterà a nuovi episodi di sangue e alla cacciata degli ebrei libici dal proprio paese, alla fine di una storia durata più di duemila anni.
Il libro di Raphael Luzon è un libro sincero e pacato. Egli sceglie alcuni ricordi, ma è consapevole che la memoria è ingannevole e che quindi non può essere una prova per affermare delle verità assolute, né uno strumento al servizio di pulsioni ideologiche. Mi sembra che Luzon abbia aperto il grande vaso della memoria prima di tutto per fini terapeutici, per lenire le ferite personali dell’esilio, per dare sollievo alla nostalgia per la sua terra madre, una nostalgia che vive tra le righe di tutte le pagine del libro.
Un’altra motivazione di “Tramonto libico” è poi la ricerca della giustizia. Apprendiamo dell’assassinio delle famiglie Luzon e Raccah a Tripoli, un crimine a cui non è mai seguito un processo né una condanna; né un funerale per le vittime innocenti. Senza rabbia, senza desiderio di vendetta, Raphael Luzon vuole raggiungere proprio questi obiettivi: un processo, una condanna, dei funerali; in altre parole, la giustizia. Questa aspirazione, frustrante e dolorosa perché di difficile realizzazione, accompagna tutte le parole del libro perché è come un macigno nell’anima di chi stava scrivendo.
Oltre ai ricordi, in forma onirica, di squarci di vita ebraica a Bengasi, oltre alle vicende intime di Raphael e al suo impegno politico per riallacciare i rapporti tra l’ebraismo libico e lo stato libico, mi ha colpito il modo costruttivo e aperto di Luzon nell’affrontare l’altro, l’opinione diversa e il suo desiderio profondo di riconciliazione, di dialogo tra i popoli e tra le religioni; un dialogo che non passa attraverso le rinuncie sui valori e sulle identità, ma sull’accettazione dell’altro e sulla disponibilità a guardare chiunque negli occhi, a discutere con tutti da pari a pari.
Ho poi scoperto che l’attività politica di Luzon per la conservazione della memoria dell’ebraismo libico e per il mantenimento del legame degli ebrei libici con la propria patria prosegue da anni in un fervido confronto tra ebrei, musulmani e cristiani che non vogliono arrendersi all’estremismo. E pensando all’amore e all’impegno di Luzon per la Libia non si può fare a meno di pensare alle condizioni in cui versa oggi il paese e alle parole dolenti verso la fine del libro: «Forse, se non aveste cacciato i vostri fratelli ebrei tanto tempo fa, forse oggi la Libia non sarebbe il cumulo di sofferenze che sta diventando, forse…».
“Tramonto libico” è un libro breve, scritto in modo scorrevole, e dunque si legge molto in fretta. Consiglio al lettore di soffermarsi, tenerlo un po’ più a lungo tra le mani, risfogliarlo e rileggere alcuni passi, perché nelle parole di Luzon possiamo talvolta trovare l’ispirazione per intraprendere un cammino di pace e di memoria.
Fonte: L’Espresso.
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October 29, 2015
Il carcere impossibile, quello che non è rieducazione ma tortura
L’Associazione Antigone (attraverso il suo rappresentante Pino Apprendi, qui è possibile leggere il resoconto) ha deciso di andare a controllare nel carcere Pagliarelli di Palermo la condizione di alcuni detenuti che “per motivi precauzionali (tendenze al suicidio) sarebbero stati tenuti nudi, in isolamento e senza coperte“.
Ecco cosa ha riportato Apprendi dopo la visita:
“4 celle occupate da 4 persone; due di queste non avevano in dotazione alcuna coperta“.
E ancora
“un ragazzo tossicodipendente viveva in una cella priva di letto, tavolo e sgabello“.
In un’altra cella un detenuto giovanissimo
“riferiva che da tre giorni aveva perdite di sangue interno ed aveva ricevuto solo cure da infermieri“.
Ecco cosa sono la maggior parte delle carceri in Italia: luoghi in cui rinchiudere i reietti, i colpevoli. Per dimenticarsi di loro.
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“Lui è tornato” ci mostra come sarebbe la Germania se tornasse Hitler
“Er ist wieder da – Lui è tornato” è un film, tra fiction e candid camera, tratto dall’omonimo bestseller di Timur Vermes.
In Germania è diventato un caso, soprattutto perché il protagonista, un Hitler spaesato e catapultato avanti nel tempo, con i suoi discorsi, sembra ancora in grado di catalizzare attenzione e consenso.
Interessante leggere le parole del regista David Wnendt (qui su Repubblica):
“In periodi di crisi economica lo straniero è sempre il capro espiatorio. Ma non è questa l’unica ragione. Si cerca un leader. La Merkel lo è, ma a suo modo, manca di quel carisma che molte persone pensano debba avere chi è alla guida di una nazione”.
Il piano Merkel, per fronteggiare l’emergenza rifugiati le ha alienato simpatie in Germania e in Europa. La Cancelliera sa che i flussi non si possono fermare e a differenza di molti suoi colleghi, che sperano nel calo di attenzione pubblica e dei media per poter dire conclusa l’emergenza immigrazione, crede che una soluzione vada trovata e subito. Ma non a tutti l’apertura ai rifugiati siriani è sembrata quella più giusta.
“Lui è tornato” non pretende certo di spiegare cosa sta succedendo in Germania e in Europa, ma fa capire come, se ci fosse un partito di estrema destra credibile, forse una parte non trascurabile dei tedeschi lo voterebbe.
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Diritti civili, stavamo meglio quando credevamo di stare peggio
Sulla decisione del Consiglio di Stato, che ha annullato i matrimoni tra coppie gay contratti all’estero e trascritti al comune di Roma, è intervenuto il ministro della Giustizia.
“La Corte di Strasburgo – dice Orlando – ci impone di tutelare i diritti di una parte dei cittadini e di farlo in fretta“.
Liana Milella, che lo intervista per Repubblica, gli chiede conto del peso di Ncd e di Alfano nel rallentamento del ddl Cirinnà.
Orlando dà una risposta sulla quale vorrei soffermarmi: “Indubbiamente pesa perché è chiaro che Ncd è un alleato fondamentale all’interno della coalizione. Tuttavia vorrei ricordare che nella storia del riconoscimento dei diritti civili nel nostro Paese le maggioranze parlamentari su provvedimenti come divorzio e aborto sono sempre state diverse da quelle che sostenevano i governi dell’epoca. È fisiologico che si possa sostenere un programma di governo, senza per questo avere le stesse opinioni su questioni eticamente sensibili“.
Non sono un nostalgico dei tempi andati, ma mi viene da pensare che in fondo stavamo meglio quando credevamo di stare peggio. Oggi il Parlamento considera i diritti civili alla stregua di diritti accessori, al più occasione per fare una effimera compagna elettorale. I diritti civili, oggi, per chi governa l’Italia, sono diritti di cui i cittadini possono tranquillamente fare a meno.
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October 28, 2015
Siamo tutti Charlie. Solidarietà ai colleghi delle tv turche occupate
Siamo tutti Charlie vale anche per le due emittenti televisive turche occupate dalla polizia e “commissariate” perché accusate di fare “propaganda terroristica”.
Per dare dei numeri: “Negli ultimi 25 giorni 12 canali TV hanno dato spazio a Erdoğan per 138 ore e per 6 al partito filocurdo HDP“. Che la campagna elettorale si faccia in televisione e che così si guadagni consenso è ormai un dato acquisito.
Mi domando spesso, però, quanto diversa sarebbe la cronaca di questi eventi se l’Unione Europea (la cui linea è dettata dall’asse franco-tedesco) avesse mostrato apertura verso l’ingresso della Turchia nella Comunità.
Il timore di aprire le porte a una nazione popolosissima, che di certo rimetterebbe in discussione equilibri già fragili, sta ora presentando il conto in termini di minaccia terroristica da un lato e di autoritarismo dall’altro.
Tutto ciò che sta accadendo in Turchia ci riguarda non solo perché dobbiamo temerne le conseguenze, ma anche perché ne siamo direttamente responsabili.
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Siamo tutti Charlie. Solidarietà ai colleghi delle tv occupate in Turchia
Siamo tutti Charlie vale anche per le due emittenti televisive turche occupate dalla polizia e “commissariate” perché accusate di fare “propaganda terroristica”.
Per dare dei numeri: “Negli ultimi 25 giorni 12 canali TV hanno dato spazio a Erdoğan per 138 ore e per 6 al partito filocurdo HDP“. Che la campagna elettorale si faccia in televisione e che così si guadagni consenso è ormai un dato acquisito.
Mi domando spesso, però, quanto diversa sarebbe la cronaca di questi eventi se l’Unione Europea (la cui linea è dettata dall’asse franco-tedesco) avesse mostrato apertura verso l’ingresso della Turchia nella Comunità.
Il timore di aprire le porte a una nazione popolosissima, che di certo rimetterebbe in discussione equilibri già fragili, sta ora presentando il conto in termini di minaccia terroristica da un lato e di autoritarismo dall’altro.
Tutto ciò che sta accadendo in Turchia ci riguarda non solo perché dobbiamo temerne le conseguenze, ma anche perché ne siamo direttamente responsabili.
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Unioni civili, stiamo sbagliando bersaglio
Fino a oggi i sindaci che hanno registrato al comune le unioni civili contratte all’estero e che hanno registrato all’anagrafe i figli delle coppie gay; i magistrati che hanno riconosciuto per queste famiglie le stepchild adoption, sono stati, nel nostro paese, avanguardia.
Ieri il Consiglio di Stato, con una sentenza che fa discutere, annulla le trascrizioni dei matrimoni gay al comune di Roma ed è polemica. Comprendo l’amarezza e chi mi segue sa quanto su questo tema mi spenda ricevendo anche tanti (immotivati!) insulti, ma non sono d’accordo con chi attribuisce responsabilità al solo giudice del Consiglio di Stato relatore della sentenza.
Da lui (anche se la sentenza è collegiale) si pretendeva un atto di coraggio: da lui (o meglio da un collegio) che ha scritto una sentenza “in punta di diritto”.
Eppure noi abbiamo un governo, fatto di parlamentari: sono loro a doversi occupare dei diritti civili. Sono loro a dover legiferare in modo che non vi siano dubbi, in modo che non si debba interpretare alcuna legge in maniera progressista o conservatrice. In modo che tutti i cittadini, a prescindere dall’orientamento politico, sessuale ed eventualmente religioso abbiano gli stessi doveri e possano godere degli stessi diritti.
Ciò che voglio dire è che stiamo sbagliando il bersaglio: non dobbiamo chiedere a un giudice di stabilire se il matrimonio contratto da due persone dello stesso sesso sia legittimo, ma dobbiamo pretendere che chi ci governa lo renda finalmente tale.
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October 23, 2015
Unioni civili, società pronta politica in ritardo
Le polemiche degli ultimi giorni sul disegno di legge che dovrà regolarizzare le unioni civili (etero e gay), noto come ddl Cirinnà (dal nome della sua relatrice, la senatrice del Pd Monica Cirinnà), sono polemiche inutili, superate e sterili. Breve premessa, il ddl Cirinnà è composto da 19 articoli divisi in due titoli: il primo si occupa dei legami tra due soggetti dello stesso sesso, il secondo disciplina la convivenza di coppie eterosessuali e gay.
Inutile dire quanto necessario questo dibattito sia in Parlamento e fuori, dal momento che finalmente regolarizzerebbe la situazione delle centinaia di migliaia di persone che hanno deciso di non voler, o non possono nel nostro paese, contrarre matrimonio religioso né civile. Verso di loro e verso la loro legittima scelta, lo Stato italiano è colpevolmente carente, nonostante i continui richiami della Commissione europea. Le polemiche di cui leggiamo, e che riguardano quasi esclusivamente la stepchild adoption , non avranno alcun seguito, posto che il ddl Cirinnà riesca a diventare legge. E sarà evidente, tra qualche tempo, come le posizioni di chi è contrario oggi, sono solo l’estremo tentativo di rallentare un processo che è ormai inarrestabile.
La stepchild adoption è la possibilità da parte di uno dei componenti della coppia gay di adottare il figlio biologico dell’altro. Su questo punto, destra, cattolici e strenui difensori della famiglia cosiddetta tradizionale faranno fronte comune, ignorando che non c’è nulla, ma proprio nulla, che possano fare ormai per impedire la nascita di nuove forme di convivenza e di amore, che per semplicità chiameremo famiglia. Che porre a queste forme di amore limitazioni, sarebbe non solo contrario al buon senso ma anche sanzionabile da qualsiasi tribunale che abbia come obiettivo la giustizia e la difesa dei diritti fondamentali dell’individuo.
E mentre la politica nazionale litiga con il pittoresco intervento di qualche rappresentante della chiesa, che assicura di non voler interferire con il lavoro del Parlamento italiano, il comune di Napoli crea un precedente importante. Eh sì, perché ci sono degli atti che potremmo definire semplicemente “di civiltà”. Potremmo definirli tali se gli atti di civiltà fossero all’ordine del giorno, se non suscitassero scalpore, se ad essi facesse seguito non solo una presa di coscienza collettiva, ma prima ancora una presa di coscienza politica nazionale, univoca e trasversale. E invece gli atti di civiltà nel nostro paese diventano veri e propri atti di coraggio.
Lo scorso 30 settembre il sindaco di Napoli Luigi De Magistris ha registrato all’anagrafe l’atto di nascita di un bimbo figlio di due donne italiane, sposate in Spagna. È il primo caso in Italia, è una decisione complessa e giuridicamente importantissima e si pone come pietra miliare. È stata una decisione presa nell’interesse del bambino che, in assenza di registrazione all’anagrafe non avrebbe potuto avere nell’immediato, carta d’identità, passaporto, iscrizione all’Asl e poi avrebbe avuto, crescendo, difficoltà sempre maggiori.
Sono d’accordo con De Magistris quando dice: «Abbiamo scritto una bella pagina di civiltà giuridica». E mentre a livello nazionale si discute in maniera ormai inutile sull’opportunità di consentire le stepchild adoption , a Napoli una coppia gay è di fatto famiglia per il figlio naturale di una delle due donne.
Allora mi domando, che senso hanno tante inutili parole se non quello di rallentare decisioni e creare confusione? Quando si dice che la società è pronta e la politica è in ritardo, si sta dicendo una mezza verità. Spesso la società recepisce e accetta molto meglio ciò che la politica ha regolamentato. Quindi continuare a impedire che esistano coppie di fatto con gli stessi diritti delle coppie che abbiano contratto matrimoni religiosi o civili, continuare a impedire alle coppie gay di adottare figli, non fa altro che alimentare diffidenze e divisioni.
In questo la politica ha il dovere di guardare oltre, di forzare la mano, di fare più di quanto le venga talvolta chiesto. Molti hanno chiamato questo il “governo dei sindaci” dando alla definizione un’accezione negativa. Io, al contrario, ritengo che essere stato sindaco possa aiutare Renzi a comprendere meglio quali siano le esigenze dei cittadini. Perché le sollecitazioni che arrivano dal basso sono fondamentali per poter governare ad altezze da capogiro.
Fonte: L’Antitaliano.
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