Roberto Saviano's Blog, page 17
September 18, 2015
A Napoli c’è un teatro che lo Stato ignora
“Fare teatro” significa allenarsi alla vita, quella vera, non solo quella da palcoscenico. Il teatro insegna a rispettare ruoli e spazi, i propri e quelli di chi ti sta accanto. Su un palco non devi mai coprire chi si trova con te. Tutto dalla platea deve essere chiaro, tutti gli attori visibili. Nessuna voce sovrasta l’altra. Ci si fida dei colleghi e si rispettano i loro ruoli perché solo così il tuo avrà senso. Regole semplici, che chiunque abbia fatto anche il più banale dei corsi di teatro conosce. Regole che però non valgono solo a teatro ma diventano regole di vita. Il teatro andrebbe introdotto a scuola come materia d’insegnamento a partire dagli ultimi anni delle scuole materne. Perché il teatro è equilibrio e ascolto, e ciò che più manca spesso è proprio la capacità di ascoltare chi abbiamo accanto o anche il territorio in cui viviamo.
Il Nuovo Teatro Sanità è una realtà teatrale necessaria che ha sede in una bellissima chiesa sconsacrata, in uno dei quartieri più difficili di Napoli e si mantiene grazie al sostegno di chi crede che al Sud ciò che manca sia soprattutto ascolto, equilibrio e opportunità. Questo sostegno non arriva dallo Stato che ha deciso, tramite il giudizio insindacabile di una commissione di esperti, che la proposta del Teatro non meriti gli “aiuti” statali destinati alle compagnie under 35.
E così alla Sanità, mentre il governo risponde all’escalation di violenza con l’invio di 50 poliziotti, mentre Vincenzo De Luca promette più telecamere, mentre il sindaco di Napoli rilancia con i dati del turismo dicendo che Napoli non è Baghdad, succede che un luogo fondamentale come il Nuovo Teatro Sanità, che ospita decine di bambini e adolescenti, che da anni fa progetti fondamentali per quel territorio, non come opera di carità o di assistenza, ma proponendo percorsi validi che potrebbero competere con le migliori strutture europee, ebbene lì, dove più ci sarebbe bisogno, lo Stato chiude ogni porta. Il teatro alla Sanità non serve solo a togliere ragazzi dalla strada o non funge da “tempo pieno”, non serve a portare un po’ di trascendenza, non è soltanto una sorta di attività anticamorra. Alla Sanità il teatro si fa vita, una vita che va avanti senza alcun sostegno. E il motivo qual è? La qualità dell’offerta artistica, valutata su carta e considerata non all’altezza dei finanziamenti. E allora è inutile che la politica parli di progetti al Sud, di piani per rilanciare il Mezzogiorno. Il Mezzogiorno oggi più che mai è dalle stanze del potere escluso, è trattato come uno sconosciuto, con disarmante superficialità.
Ora, non mi si dia del campanilista perché non lo sono, e del resto le compagnie meridionali che hanno avuto accesso al fondo sono molte; è però naturale pensare che quella insufficienza nella qualità del progetto, attribuita al Nuovo Teatro Sanità, sia piuttosto insufficienza di legami politici e incapacità di influenzare la commissione. O forse la commissione ha valutato frettolosamente una realtà teatrale che deve essere sostenuta non come opera di beneficenza, ma perché è una eccellenza italiana da ripetere ovunque ci sia bisogno di riportare equilibrio e ascolto.
Istituti culturali e teatri sparsi per l’Italia e per il mondo spesso sono stati semplicemente delle tangenti che la politica pagava a un mondo intellettuale un tempo influente. Ma la crisi economica, che rende superfluo tutto ciò che non è pane, ha penalizzato di fatto solo le esperienze minori, quelle che nascono perché di loro si avvertiva la necessità e non per convogliare fondi, non come scatole vuote da riempire di denaro.
Esperienze da emulare, piuttosto, e non da far morire. Del resto proprio a questo dovrebbe servire la politica: a discriminare, a decidere cosa sostenere in tempo di crisi e cosa tagliare. Il Nuovo Teatro Sanità è la Sanità: è un luogo che si relaziona al quartiere e da questo viene migliorato. Non sottrae al quartiere giovani per promettere loro una vita migliore, ma dà al quartiere formazione e risorse, pagando ad esempio corsi di teatro e iscrizioni all’università. Il Nuovo Teatro Sanità è la speranza dove ormai tutti credono che non ce ne sia più, anche e soprattutto chi ci vive. E mentre io dovrei raccontare le bellezze della città, la politica e le sue commissioni ne fanno strame. In questo momento voglio dare voce e vicinanza a Mario Gelardi, direttore del Nuovo Teatro Sanità, e a tutte le persone che ne fanno parte. Voi siete il rinnovamento costante del quartiere Sanità, altro che invio di poliziotti e telecamere.
E questo, chi dice di amare Napoli, non l’ha ancora capito.
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September 16, 2015
Contro Gomorra 2 derive autoritarie di una politica miope
Nella prima stagione di Gomorra – La serie decidemmo di ambientare un episodio (quello che spiegava come funziona il meccanismo della scheda ballerina per falsare e vincere le elezioni) a Giugliano, un comune non distante da Napoli, con una densità abitativa elevata e grossi problemi di criminalità organizzata. Al tempo l’amministrazione cittadina era stata commissariata proprio per infiltrazioni camorristiche. Oggi, il sindaco di Giugliano nega l’autorizzazione a girare scene della seconda stagione di Gomorra in città.
Che la politica limiti la libertà di espressione artistica la dice lunga sulle sue derive autoritarie e soprattutto sulla convinzione, fallace, che sia sufficiente bloccarne il racconto perché la camorra smetta di esistere.
Il dibattito, come è facile comprendere, è molto più ampio e non c’entra più nulla ormai con l’autorizzazione a riprendere (posto che si può girare in Spagna e chiamare quel luogo Giugliano). Ma c’entra con l’atteggiamento di certi amministratori che scaricano le proprie responsabilità sull’industria culturale.
Se la criminalità dilaga, non è perché esistono serie televisive come Gomorra (anni fa era la Piovra, quando a Palermo si negava l’esistenza della mafia), ma a causa dell’incapacità della politica di creare opportunità.
La “paranza dei bambini” che sta terrorizzando Napoli (ne ho scritto qui) non è formata da giovani benestanti traviati dalla televisione, ma da ragazzi che hanno le famiglie in galera e ai quali il contesto in cui vivono – e qui la politica deve sentirsi chiamata in causa – non riesce a offrire nulla, nessuna alternativa, nessuna seconda via.
E magari, quei ragazzi, la televisione non la guardano nemmeno.
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September 14, 2015
Chi parla in nome dei bambini senza voce
Come per un triste destino, ogni volta che viene pronunciata la parola bambino seguono i più scontati dei discorsi. «I bambini sono la cosa più bella del mondo» l’avrò sentita pronunciata ovunque questa frase, sigillata con un sorriso. Eppure dei bambini ci si dimentica continuamente; non votano quindi non contano. La politica ritiene di doversi confrontare (quando lo fa) solo con chi è in possesso di una scheda elettorale, con i bambini no, con il loro mondo, le loro esigenze in quanto cittadini.
Sono cresciuto dove di figli se ne sono sempre fatti tanti, nonostante le cicliche crisi. Sono cresciuto dove esiste un patto tacito sancito tra cittadini e Stato, o meglio, tra cittadini e governi di ogni tempo e ogni colore: noi ci siamo, vi votiamo, vi sosteniamo, ma lasciate correre quel poco che ci consente di tirare a campare. Sono cresciuto dove da sempre si dice che tutto parte dalla scuola, che i bambini «sono una risorsa», che su di loro bisognerebbe puntare per cambiare rotta. Invece proprio da lì inizia poco, pochissimo, se non per merito di insegnanti appassionati e volenterosi. E difatti anche dove sarebbero cinghia di trasmissione di informazioni cruciali tra istituzioni e famiglie, i bambini li si dimentica.
Ma non è sempre così. Ci sono quartieri a Napoli, come nel resto d’Italia, dove ai cancelli e ai muri sono affissi dei fogli con scritte indicazioni su come gettare i rifiuti e come portare a spasso un cane, procurando di non lasciar sporco il marciapiede. Quelle frasi semplici, illustrate, sono firmate dai bimbi delle scuole elementari della zona. In classe si parla di rifiuti. In altre scuole si utilizza materiale di risulta per i lavori manuali. Non più solo foglie raccolte al parco o pietre e conchiglie portate dal mare, ma piatti e bicchieri di plastica usati, lattine, bottiglie. Ed ecco che differenziare porta ricchezza e la spazzatura diventa una risorsa. Imparano questo e sono in grado di insegnarlo ai loro genitori, che magari a casa ancora credono che sia una perdita di tempo differenziare perché poi altrove “mischiano tutto”.
Ai bambini la scuola può insegnare a essere aperti, a loro la scuola può insegnare ad accogliere. Poi a casa potranno spiegare ai propri genitori che una società giusta è una società che sempre prova ad abbandonare i propri panni e a vestire quelli di chi ha di fronte. I bambini a scuola leggono libri che li introducono alle diversità, mentre a casa i genitori sono convinti che se i loro figli non troveranno lavoro sarà a causa dei rifugiati che raggiungono le nostre coste. Ai bambini a scuola spesso viene insegnato a essere curiosi verso abitudini e culture diverse dalle loro. A scuola spesso con grande difficoltà, ma con molto tatto, ci sono insegnanti che provano a spiegare perché alcune persone lasciano il proprio paese e non per andare in vacanza. A scuola spesso si prova a raccontare ai bambini, proprio partendo dalle diverse nazionalità dei compagni di classe, storie di quei paesi lontani. Così facendo si accorciano le distanze e si permette loro di capire che le differenze riguardano la lingua, il colore della pelle, ma le cose che contano sono le stesse: il legame con i genitori, con la propria terra d’origine, il gioco, la serenità.
Di tutto questo non si parla. I bambini e la loro funzione sociale non ci riguardano fino a quando non ci imbattiamo nell’immagine di un bimbo morto. Di fronte alla foto del corpo senza vita di Aylan, anche gli imbecilli che urlavano all’invasione hanno taciuto; si saranno forse, per una volta, vergognati delle loro stesse parole, avranno forse trovato odiosa la loro stessa voce. Di fronte all’immagine di un bambino morto – uno, ma in realtà abbiamo perso il conto – cosa si può dire, quando poi ci si ricorda di aver taciuto al cospetto di bimbi vivi, che corrono, sorridono, imparano e sono in grado di insegnare? Di bimbi che sono una risorsa e possono fare la differenza, prima di essere testimoni di un orrore che non si vuole vedere. E se il silenzio è l’unica dimensione da esplorare per capire la tragedia, forse qualcosa sta accadendo. Ci stiamo assumendo noi la responsabilità e l’onere di parlare per chi non ha voce. Noi, adulti e votanti, questa politica opportunista forse ci ascolterà.
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September 11, 2015
Il produttore su Gomorra – La serie: “Una fiction dell’Italia moderna”
La quasi totalità del dibattito su “Gomorra – La serie” è di tipo sociologico: si parla di tutto tranne della serie in sé. Che invece ha un’identità autonoma, molto interessante: è infatti un’opera che si inserisce in una forma di linguaggio nuova, che va oltre il cinema e la fiction, e si chiama nuova serialità. È di questo che vorrei parlare, prescindendo per una volta dagli aspetti cronachistici e di costume.
Ricordando, con l’occasione, che le attività artistiche, come quelle religiose, politiche, scientifiche, godono nella nostra civiltà di una fondamentale propria autonomia. E anche che girare un film o una serie in un luogo è diritto garantito dalla Costituzione nel quadro della libertà d’espressione, per impedire possibili reincarnazioni di quella censura preventiva abolita col fascismo.
La nuova serialità è una forma di espressione a sé, generata da un mezzo di tipo nuovo: la televisione a pagamento. È, questo medium, un fortunato accidente della storia. Il suo pubblico, al contrario di quello della maggior parte del cinema e della fiction, non è locale, è globale. L’utente di pay-tv ha caratteristiche e gusti simili, a Shanghai come a Trapani, a Melbourne come a Düsseldorf. È il pubblico organico alla modernità. La missione della televisione a pagamento non è contare gli spettatori di un singolo spettacolo, ma offrire a questo pubblico racconti importanti, belli e capaci di coinvolgere profondamente: un unicum, un’occasione da cogliere e uno stimolo per tutto il sistema.
Con “Gomorra – La serie” l’Italia ha preso posizione nell’industria mondiale che produce immaginario per il pubblico all’avanguardia della modernità. Quali sono i segni di linguaggio che sanno raggiungere questo pubblico e lo individuano? Se si hanno in mente le serie internazionali che si sono imposte maggiormente negli anni più recenti si possono riscontrare delle costanti. Prevale il “genere” e cioé il racconto che si inquadra in codici, all’interno dei quali si è liberi di inventare, ma che non si possono infrangere. C’è quindi la destituzione dell’autore come demiurgo, ma anche della ReteTv come committente onnipotente. Il racconto risponde a leggi sottostanti.
Queste leggi sono riconducibili ad archetipi primari, come quelli del mito, della favola, della tragedia greca o del teatro scespiriano.
È questo che rende globale il racconto: è fatto “della stessa materia di cui son fatti i sogni”, che non è l’oro, ma l’inconscio. È questo che lo rende indispensabile, per fare i conti con quel che la civiltà rimuove, ma si agita nel profondo: l’aggressività, la paura, le pulsioni, ciò che definiamo il male, il cosiddetto male. Per questa sua natura, la nuova serialità non è realistica. Anzi, brucia il “realismo”, e fa percepire molti nostri film e molte nostre fiction, che sono fortemente ” realistiche”, come qualcosa di inadeguato. Ma questo non significa che la realtà ne sia esclusa, così come non è esclusa dal sogno. La realtà c’è, ma nelle sue radici profonde.
Da qualche tempo la Scandinavia è raccontata come luogo di assassini seriali, stupratori, gruppi neonazisti e capitalisti complici. Naturalmente sappiamo che è ancora il luogo dello stato sociale, della convivenza pacifica, dell’eguaglianza e del benessere diffuso. Ma è proprio il racconto di ciò che questa civiltà rimuove che ci appassiona (e fa della Scandinavia un luogo all’improvviso molto invitante), perché ci mette in contatto col rimosso e, cosa fondamentale, lo risolve catarticamente nella fantasia.
È l’esprimersi in questo linguaggio, che rende Gomorra universale: scova la gomorra che è nel fondo di ognuno di noi, ovunque. Come un esercizio di analisi, svolto attraverso i personaggi, la scrittura, la messa in scena.
Incide questo racconto sulla realtà effettuale, sulla fenomenologia? Forse no, certo non è suo compito: l’organizzazione sociale non dipende dalle attività artistiche, ma da quelle politiche. A Cesare quel che è di Cesare: i cineasti devono fare buoni film (o serie), i politici buone politiche, senza pararsi dietro patetiche scuse di “effetti imitativi”.
Ma forse l’immersione nel profondo antropologico che la serie opera, con il riconoscimento della gomorra che è in ciascuno, potrà produrre in chi la guarda una modifica anche piccola di atteggiamento individuale, un sentirsi più in causa e quindi una più forte motivazione personale al cambiamento.
Riccardo Tozzi, Presidente della società di produzione cinematografica Cattleya
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September 8, 2015
La paranza dei bambini nella guerra di Napoli
Se vuoi terrorizzare un territorio senza iniziare una lunga guerra tra famiglie criminali, devi fare molte stese. “Fare le stese” significa correre sui motorini e sparare a tutto e tutti. Tutti si buttano a terra, stesi, perché terrorizzati, pietrificati. Poi se qualcuno lo stendi davvero, se lo ammazzi, è danno collaterale. Possibilmente da evitare perché le stese riuscite meglio non dovrebbero provocare danni collaterali. Ma se accade, accade.
Ecco cosa sta succedendo a Napoli. Sparare su finestre, cancelli, vetri delle auto, con pistole semiautomatiche ma anche fucili d’assalto, l’Ak47, intramontabile e sempre amato dai clan napoletani. Le stese sono un modo per seminare terrore con un metodo da guerriglia psicologica, mettere paura e far abbassare la testa. Usano questa espressione, “fare la stesa” come stendere o far stendere una persona. “Stesa” come estendere il proprio dominio o come stendere un lenzuolo, una cappa, su un quartiere, vicolo per vicolo. Senza stese un gruppo dovrebbe intraprendere una faida in modo classico e faida significa investimenti, alti, in manovalanza: pali, pedinatori, sicari. Così viene gestito il centro storico di Napoli dai gruppi criminali: con il terrore. Che nessuno alzi la testa all’arrivo dei nuovi, che siate affiliati o piccoli pregiudicati per reati minori che con l’associazionismo criminale non hanno nulla a che fare.
Eppure dopo la morte di Gennaro Cesarano, che sia lui o meno l’obiettivo del commando di fuoco, l’unico discorso che ha trovato spazio è stato se a morire sia stato un colpevole o un innocente. Attributi che in quel territorio hanno perso senso, se mai ne hanno avuto uno. Come può un ragazzo di 17 anni se ritenuto colpevole generare quel senso di distanza e repellenza che si ha come quando si accumulano i cadaveri criminali di una nuova guerra di camorra. Se a quell’età muori in strada ucciso perché bersaglio di una paranza di fuoco vuol dire che il fallimento è andato ben oltre i proclami e le possibilità di riscatto di un territorio.
È inutile presentare Napoli come un progetto lungimirante, è senza risorse e finanche senza idee: la speranza alimentata dal governo della città e dal governo di Roma in questo caso si chiama inganno. In un contesto del genere non resta che parlare di colpevolezza e innocenza, perché colpevole il morto, assolti noi che ne leggiamo, ne parliamo, ne scriviamo. Colpevole il morto vale la regola più abusata e falsa del “si uccidono tra loro”. Sul morto per caso, sul morto innocente ancora esistono residuali moti di empatia: ci si sente costretti a prendere parte, a decidere. Ecco perché ogni volta è la stessa attesa: ma stava in mezzo o non c’entrava? La mia risposta ora è: 17. 17 anni!
E invece è per ogni colpevole che cade e si affilia si perde ogni possibilità di percorso altro e se il presunto colpevole è un diciassettenne, allora forse ci si soffermerà qualche attimo in più a considerare ciò che sta accadendo: il mezzogiorno italiano è nel pantano e solo una rivoluzione meridionale può sperare di modificare le cose. Uso l’espressione rivoluzione meridionale di Guido Dorso le cui pagine oggi sono persino più attuali di quando le scrisse su invito di Piero Gobetti nel 1925: “No, il Mezzogiorno non ha bisogno di carità, ma di giustizia; non chiede aiuto, ma libertà. Se il mezzogiorno non distruggerà le cause della sua inferiorità da se stesso, con la sua libera iniziativa e seguendo l’esempio dei suoi figli migliori, tutto sarà inutile…”.
Ma quale libertà oggi viene data? Luigi Galletta, 21 anni, meccanico di Forcella, questa estate è stato ucciso per essersi rifiutato di truccare dei motorini sapendo che avrebbero fatto parte delle paranze che giravano per uccidere. Non voleva stare in mezzo ai guai, un’etica scelta per istinto; la mattina lo hanno massacrato di botte e il pomeriggio lo hanno ucciso. Anche in quel caso tutti i discorsi furono sul suo essere innocente o colpevole: davvero si era rifiutato o lavorava invece per i nemici di chi l’ha ucciso? Nel dubbio se piangere un morto o sputarci sopra ci si è dimenticati della sua storia. Innocente o colpevole? Sputtani Napoli o ne canti lodi? Si esaurisce il discorso su Napoli e su intere aree in cui ormai c’è guerra.
Mi ha colpito il commento di Francesco Ebbasta, regista e anima dei Jackal, ragazzi che hanno fatto di Napoli, con la loro capacità di fare video online, un nuovo polo creativo. Loro che non si sono mai occupati di questi temi, hanno scritto che “bisogna accettare la realtà dei fatti per quella che è: siamo dei poveretti”. Poveretti perché a Napoli si preferisce ignorare la realtà, perché due ragazzi armati che ne mettono in fuga duecento in piazza Bellini, la piazza più frequentata della città, sono il peggior ufficio stampa possibile.
Il sindaco De Magistris invoca il governo che promette di inviare rinforzi armati, senza capire che militarizzare significa creare ulteriori tensioni. Alfano manderà 50 poliziotti. Ma davvero credete sia sufficiente? Ora l’unico lavoro di polizia che davvero avrebbe un senso sarebbe quello di intelligence per provare a capire che direzione sta prendendo questa guerra e poi mandare 50 progetti sociali veri, 50 idee nuove per sollevare da pressione fiscale e burocrazia le aziende del Sud. Con 50 poliziotti sapete cosa succederà? Che Napoli si riempirà di posti di blocco che verranno accusati di fermare chi non porta il casco mentre gli affiliati – si dirà – hanno sentinelle e sanno dove non passare e anzi riceveranno ancora una più allargata simpatia della gente.
Mentre va in scena l’ennesima pantomima tra politica cittadina e nazionale, ciò che resta è un dato di fatto sconcertante: questa nuova ondata di violenza ci dice che le organizzazioni criminali rimangono tra i pochi ambiti di crescita economica che la città offre. Ora la faida è tra le nuove generazioni: l’alleanza tra clan di Forcella e dei Quartieri Spagnoli è voluta da una parte della Sanità e osteggiata da un’altra e il campo si apre a tutti quei ragazzi che si sono addestrati sparando sui tetti contro le antenne paraboliche, quei minorenni che da un’inchiesta della Dda di Napoli vengono definiti “la paranza dei bambini”. Le loro famiglie spesso non sono neanche di camorra, non appartengono al Sistema, sono lavoratori talvolta con precedenti penali senza l’aggravante dell’associazionismo mafioso.
A questo proposito è interessante, per descrivere il contesto, ascoltare cosa dicono i familiari del ragazzo ucciso: aveva un precedente ma qui tutti chi per un motivo, chi per un altro, hanno avuto a che fare con la giustizia. Come se alla Sanità sia più normale che altrove commettere reati. E se non fossero gli abitanti stessi a dirlo potremmo essere accusati di voler diffamare il quartiere, eppure risulta evidente che dove non ci sono prospettive non c’è scelta. Del resto, la giovanissima età della nuova paranza ci dice chiaramente che c’è voglia e quindi necessità di fondare da zero una nuova generazione mafiosa. Una generazione che è figlia del suo tempo, che porta barbe lunghe da hipster e che comunica su Facebook, che si fa assolvere su Facebook da una platea di “amici” che è lontana dallo stigmatizzare finanche gli omicidi.
Sulla bacheca di Gianluca Ianuale, uno degli assassini dell’uomo ucraino, Anatolij Karol, ucciso a Castello di Cisterna per aver tentato di sventare una rapina in un supermercato, ci sono frasi di vicinanza, di comprensione, talvolta ramanzine come si farebbero a un amico che si è ubriacato la sera prima. Ma nessuno che abbia preso le distanze. Ebbene lui ha ammazzato una persona e gli si dà solidarietà. La vicinanza che si dà a una persona che ha compiuto un crimine efferato come un omicidio arriva da un territorio che mette in conto che possa accadere. Ecco perché quel territorio ha gli strumenti per riuscire a metabolizzare un omicidio e riesce a trovare le parole “giuste”, parole di circostanza. I più qualunquisti definiscono “sputtanapoli” chiunque osi raccontare ciò che accade in città, mentre loro, comodamente seduti nelle varie esaltazioni identitarie, lo sport, il mare, la pizza, la simpatia – galli sulla monnezza mi verrebbe da dire utilizzando un’espressione napoletana – ignorano ciò che accade a due passi.
Tutto questo succede mentre le organizzazioni puntano ormai sui giovani. Le famiglie del passato hanno optato per una strategia doppia, da un lato il pentimento dall’altro lasciar dominare le nuove leve. Quando prenderanno il potere si siederanno sulle spalle di questi nuovi principi. I nuovi combattenti di camorra ricevono dalle vecchie famiglie armi e una volta mostrato di saper sparare e di saper gestire avranno l’incoronazione ad essere i vicari dei soliti re. I clan storici investono fuori e risolvono i guai giudiziari collaborando con la giustizia e spesso in cambio riescono a salvaguardare il proprio patrimonio come è accaduto alla villa di Pasquale Galasso definito il castello della camorra a Miasino, vicino a Novara, confiscato ma ancora gestito dai parenti del boss.
Eppure è tutto ancora all’inizio; la morte di Ciro Esposito, figlio di Pierino il boss della Sanità, non è stata ancora vendicata, quindi la risposta della Sanità deve ancora venire (avevano provato ma la paranza partita per vendicarsi è stata arrestata). Napoli somiglia sempre di più a quella che era la città degli anni ’80 e questi ragazzini ne mostrano il fallimento. Di questo sud non si parlerà ancora per molto: non porta voti, non genera consenso internazionale.
Ma qui lo Stato, che dovrebbe amministrare, dare giustizia, organizzare l’educazione non è la politica o le forze dell’ordine. Lo Stato in questi posti è la Fondazione di Comunità San Gennaro voluta da don Antonio Loffredo il cui obiettivo è creare un’opportunità di lavoro attraverso la promozione della cultura, in alternativa alla strada. Lo stato è la Rete voluta da Alex Zanotelli, lo Stato è l’Orchestra Santainsamble dei bambini del Rione Sanità voluta dall’associazione l’Altra Napoli di Ernesto Albanese (suo padre fu ucciso mentre lo stavano derubando della pensione). Lo Stato è la Fondazione Pavesi che organizza corsi gratuiti di teatro per bambini. Lo Stato è il Nuovo Teatro Sanità di Mario Gelardi che offre uno spazio dove poter tentare di trascendere la propria quotidianità. Non pensare solo a soldi, sopravvivenza, e buffonerie. Ma provare a imparare, divertirsi, misurarsi.
Tutto questo sta facendo lo Stato senza armi e senza codice penale contro la paranza dei bambini, il peggior prodotto di una terra dimenticata contesa tra disperati e indifferenti. E le lacrime di dolore che tracimano da queste storie nascono dalla difficoltà di resistere e non dalla celebrazione del lamento. È questa la differenza tra il pianto e il piagnisteo che in molti dovrebbero imparare a capire per capire questo sud.
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September 4, 2015
In memoria di Anatolij Karol
E poi c’è la non notizia. La non notizia è la storia edificante. La non notizia è la buona novella, quella che tutto sommato non sposta niente perché il mondo in cui vogliamo vivere – fingendo invece di rifuggirlo, di volerlo diverso, di odiarlo – è un mondo fatto di sfiducia, di farabutti da temere, di lucchetti da chiudere e non di porte da aprire e di braccia da tendere. Camminiamo a spalle strette temendo di essere depredati, derubati, persino scacciati dal nostro stesso Paese.
Morto Gheddafi e seppellito l’infame accordo siglato con Silvio Berlusconi ad agosto del 2008, un accordo dal nome rassicurante, “Trattato di amicizia e cooperazione”, è divenuta di nuovo pressante la necessità di preservare, addirittura “difendere” le nostre coste e i nostri mari (nostri? come se una terra o un mare possano avere padroni) da chi fugge l’inferno e per anni ne ha trovato un altro, nei lager che l’Italia aveva commissionato alla Libia, dietro compenso (circa 5 miliardi di dollari in 20 anni, spacciati per risarcimento all’ex colonia). Luoghi in cui si infrangevano sogni, luoghi di tortura. In cui i detenuti non erano trattati da esseri umani, prova che la memoria dell’uomo è fin troppo labile e che l’unica vera leva che tutto muove è l’opportunismo.
Eppure la visione di Berlusconi è stata di fatto l’ultimo scampolo di decisionismo in materia di immigrazione. Da quel momento il vuoto. Meglio il vuoto, dirà qualcuno. Meglio il vuoto invece delle prigioni. Meglio morire in mare che essere torturati da aguzzini pagati bene, come era col governo libico.
Ma io mi permetto di non voler scegliere. Non mi sembrano due opzioni possibili, così come forse l’esistenza di quell’orribile patto dal nome rassicurante, vorrei la ricordasse il ministro britannico dell’Interno, Theresa May, secondo cui le morti in mare di questi ultimi anni «sono state esasperate dal sistema europeo della libera circolazione». Non è così.
Le morti in mare sono aumentate perché i migranti ora hanno il permesso di morire in mare e non vengono più torturati in prigioni di cui non vogliamo sapere nulla. A parlare sono i numeri. Ad agosto del 2008 viene firmato a Bengasi il trattato tra Italia e Libia e nel 2010 il numero di clandestini che raggiungono le coste italiane diminuisce sensibilmente. Secondo i dati forniti da Frontex, dal 2008 al 2009 gli sbarchi sono diminuiti del 74 per cento. Quindi c’entrano poco gli accordi di Schengen e la libera circolazione e c’entra invece molto la caduta di Gheddafi e la fine dell’amicizia e della cooperazione.
E come le storie edificanti non incontrano i favori dei grandi media, anche quelle che ci sbattono in faccia la nostra meschinità hanno scarsa attenzione: la capacità aberrante di dimenticare la storia e di reiterare sofferenze, finisce per diventare, in fondo, non notizia.
E invece io questa notizia voglio raccontarla e mi piacerebbe che venisse ripetuta ogni qual volta degli stranieri, di chi viene da Paesi che non appartengono alla comunità europea, si narrano gesta infami. È una notizia triste e in fondo non fa notizia perché racconta una verità fin troppo ovvia che conviene ignorare: non esistono persone buone o persone cattive, non esistono categorie di persone che agiscono nel bene e altre che non lo fanno.
Men che meno possiamo attribuire una qualche inclinazione alla violenza o una particolare predisposizione al crimine a seconda della razza o della nazionalità. Anatolij Karol, era ucraino ed è morto a 38 anni mentre in un supermercato di Castello di Cisterna, in provincia di Napoli, ha voluto sventare una rapina. Non è stato un caso, l’ha proprio voluto perché era con sua figlia di un anno e mezzo e aveva già finito di fare la spesa. Stava andando via quando si accorge che due uomini arrivati a bordo di una motocicletta avevano fatto irruzione. Anatolij ha messo in salvo sua figlia ed è tornato indietro. Ha immobilizzato un rapinatore ma l’altro gli ha sparato. Su di lui poi hanno infierito con diversi colpi alla nuca forse procurati non con un coltello ma addirittura con una penna, brandita con rabbia cieca.
Questo ha fatto notizia nei media tradizionali solo dopo che i social network ne avevano diffuso il racconto ma nessun commento importante da parte del governo. Anatolij era ucraino. Fosse stato italiano e il suo assassino uno straniero, oggi su questo caso avremmo avuto attenzione, raccolte di firme, cortei.
Fino a che i quotidiani sbatteranno in prima pagina il mostro straniero, magari sospettato e non ancora condannato, non ci sarà spazio per altro e saremo destinati a vivere nella paura del diverso, piuttosto che crederci arricchiti da quanti con noi creano ormai una comunità e più di noi muoiono per difenderla.
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September 1, 2015
La mia solidarietà ai giornalisti di Vice
Mi unisco agli appelli delle associazioni di difesa dei diritti umani e della libertà di informazione che in queste ore si moltiplicano sui social media e sul web in favore della liberazione dei due giornalisti di Vice News e dei due collaboratori della testata fermati in Turchia con l’accusa di essere terroristi.
Tutta la mia solidarietà a questi giornalisti che come tanti altri cercano di fare al meglio il proprio mestiere, esercitando il diritto fondamentale di raccontare ciò che accade, sfondando quel muro del silenzio comodo a molti governi anti democratici.
Oggi più che in passato le nostre “democrazie” sono quotidianamente messe a rischio dal tentativo di imbavagliare l’informazione e le minacce alla libertà di stampa non vanno ricercate nella storia dei totalitarismi del secolo scorso, né in luoghi o paesi lontani, ma qui ed ora.
Sto parlando non solo della mia vita, ma di quella di tantissimi colleghi scrittori e giornalisti che ogni giorno subiscono ogni sorta di repressione.
Jake Hanrahan e Philip Pendlebury sono due giornalisti inglesi con un lunghissimo curriculum di inchieste internazionali (bellissimo questo servizio sugli effetti della crisi dell’immigrazione sulla politica inglese).
Quando sono stati fermati giovedì si trovavano a Diyarbakir, in quel sud-est della Turchia a prevalenza curda dove da mesi si sta consumando una vera e propria guerra tra forze governative e oppositori del Pkk, il partito che rappresenta la minoranza curda. Stavano filmando gli ennesimi scontri tra la polizia e i giovani lavoratori aderenti al Pkk.
Quell’area è una zona cruciale di congiunzione e soprattutto di separazione tra Europa e Medio Oriente. Qui si erano concentrati anche i sostenitori del Partito dei Popoli, la rivelazione delle ultime elezioni politiche di primavera, che ha impedito al presidente Erdogan di ottenere la maggioranza assoluta.
In quest’area, al confine con la Siria, a pochi chilometri da Kobane, città simbolo della resistenza all’Isis, si consuma un doloroso tentativo di fermare il sogno di totalitarismo di Erdogan, che vuole riportare il paese alle urne il 1 novembre, non prima di aver messo a tacere tutte le opposizioni. Nei suoi progetti c’è l’istituzione di un canale all news sotto il controllo governativo, che accompagni fin da ora la campagna elettorale con una voce monocorde, quella dei suoi discorsi, dei suoi interventi, della sua politica. Non c’è spazio per il pluralismo.
I due giornalisti inglesi sono stati interrogati ieri. Arrestati con l’accusa di filmare senza autorizzazione (come se per riprendere degli avvenimenti pubblici fosse necessario ottenere un lasciapassare…), ora sono accusati addirittura di terrorismo, di essere sostenitori dell’autoproclamato Stato Islamico.
Per Amnesty International, che ha diffuso un comunicato su questa vicenda le accuse sono insostenibili, oltraggiose e bizzarre. Screditare e delegittimare: resta questo il principale mezzo per sbarazzarsi di chi è scomodo al potere.
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August 28, 2015
Erano rivoluzionari, ora vogliono la guerra
Diffidare è la parola d’ordine. Diffidare di chi restituisce spiegazioni “belle tonde e ragionevoli”. Diffidare di chi ha sempre soluzioni prêt-à-porter. Diffidare da chi rifiuta la complessità. Chi cerca chiarezza da risposta in pochi caratteri, da slogan. Chiunque fugge dalle letture complesse della realtà si sta accontentando di bugie, di posture. Diffidare!
La mia generazione ha avuto una scuola d’eccezione che quelle precedenti e quelle successive hanno perso, ignorato, talvolta demonizzato: gli “anime” giapponesi. Cartoni animati che spesso guardavamo di nascosto, contro la volontà dei nostri genitori, che li consideravano violenti, fuori dal mondo, troppo fantasiosi, ma che erano spesso un modo per metabolizzare, esorcizzare, superare le tragedie della Seconda guerra mondiale.
Mondi distrutti in cui bisognava ripartire da zero con sacrifici immensi. Personaggi mostruosi con un vissuto di sofferenza inconcepibile per un essere umano, dal cuore ormai duro e pronti a fare strame di ogni cosa. Paesaggi post nucleari che i giapponesi hanno vissuto e che sono popolati da ogni creatura possibile. Questo ci ha insegnato – mi ha insegnato! – che nulla di ciò che è male o sembra male lo è completamente. Spesso anzi, ciò che non ci piace meriterebbe un approfondimento. Spesso odiamo per mancanza di conoscenza, di comprensione e di empatia.
Conoscere l’altro vuol dire comprenderlo, ecco perché dobbiamo abituarci a pensare che esiste un estremismo opportunista, che non esita a trarre vantaggio dalle sacche di insoddisfazione, ed esiste un approccio moderato alla vita (politica, economica, religiosa) molto più difficile da seguire, finanche da individuare perché equivale a vivere in maniera empatica. Capire chi si ha davanti, come ha vissuto, cosa prova, a cosa aspira.
Ci si renderà conto così che gli estremismi sono tutti fratelli. Rosso, nero, islamista, cristiano: hanno un Dna simile, nelle differenze di facciata seguono poi prassi identiche. E ciò che stupisce è vedere come tutti i vecchi cascami di Potere Operaio e arcipelaghi gemelli dell’estremismo di sinistra di un tempo, smarrita la loro funzione, utilizzano gli strumenti di analisi che hanno fatto propri per decenni applicandoli a situazioni che sono invece completamente aliene al loro mondo.
Quindi, per quelli di loro che hanno trovato conforto nella religione cattolica con l’avanzare dell’età, non resta che ingaggiare, contro la presente invasione del suolo italico, una nuova guerra santa. Per gli altri, per chi è abituato a vedere qualcosa di positivo a prescindere nel sovvertimento dell’ordine (e nella lotta agli Usa) attraverso azioni di guerriglia, il radicalismo islamico va condannato con una sfilza di “ma”. Quindi una difesa strenua non dell’islamismo radicale, ma delle ragioni che lo portano a combattere. Sottraendo così responsabilità a chi commette violenza, restituendola a chi, di quella violenza, sarebbe artefice primo, ovvero ciò che loro chiamano l’imperialismo occidentale. In queste ore possiamo comprendere quanto pericoloso sia utilizzare ancora espressioni come “schiavo del sistema” o nella versione odierna non aggiornata “occidentalista”. Potrebbe sembrare una esagerazione, ma quell’armamentario semantico arriva a giustificare “i tagliagole”.
Quando leggo le idiozie dei neo-cinici che diventano crociati contro l’islam, quando osservo il nostro giornalismo ridotto a una perenne analisi dei costumi giustificando il più bieco guardone ed estorsivo gossip con l’espressione “retroscena” beh vorrei spaccar tutto, riempire di turpiloquio le bacheche di questi miserandi estensori di idiozie che credono di spessore perché violente, crudeli, irrispettose. In quel momento potrei diventare come questa marmaglia, urlare, sbraitare, usare il pettegolezzo come artiglieria, fare estorsioni alle persone con gli articoli. Diventare estremista anche io, disperato. Ecco, l’estremismo, che spesso nasce dalla disperazione, è affascinante soprattutto perché dà risposte immediate. La democrazia, invece, raramente da risposte, è lenta, è poco affascinante, noiosa, eppure ci si accorge di lei solo quando svanisce.
La risposta alla paura dell’invasione è sempre e solo la stessa: accoglienza, non generalizzazione, approfondimento, resistenza, difesa dei valori. Sarà difficile, falliremo, ma non lasceremo l’ultima parola a questi ex crociati delle rivolte di classe divenuti i nuovi cantori della fine dell’occidente.
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Con “Imbavagliati” Napoli accoglie la parola perseguitata
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August 26, 2015
Il villaggio in Kenya per sole donne

Due donne di etnia Samburu. Foto: Radu Sigheti
Nella regione centrale del Kenya c’è un villaggio per sole donne. Sono scappate da violenze sessuali, matrimoni forzati o mutilazioni genitali femminili, e hanno trovato rifugio in una comunità dove la presenza degli uomini è molto limitata. Si chiama Umoja, si trova nella provincia di Samburu, ed è stato fondato nel 1990 per dare supporto alle vittime di stupro da parte dei soldati britannici presenti nella zona. Oggi ospita 47 donne.
Jane è una di loro. Ha 38 anni ed è arrivata a Umoja in seguito all’attacco da parte di tre soldati, che l’hanno spinta al suolo mentre pascolava il gregge del marito. Le hanno fatto “cose terribili” che non poteva confessare nemmeno ai suoi familiari, perchè lo stupro è motivo di vergogna per la famiglia della vittima. “Quando [mia suocera] ha raccontato a mio marito dello stupro, lui mi ha picchiata con un bastone. Allora sono scappata e sono venuta qui insieme a mio figlio”. In genere si viene a conoscenza dell’esistenza di Umoja tramite il passaparola: tutti i membri dei villaggi vicini conoscono le norme che vigono a Umoja. Non ci sono uomini e per entrare bisogna pagare una tassa simbolica.
Jane porta ancora sulla gamba una ferita, quella della pietra con cui i soldati l’avevano colpita il giorno dello stupro. Oggi lavora insieme alle sue compagne Samburu, il popolo indigeno semi-nomade a cui appartengono le donne di Umoja e da cui prende il nome l’intera provincia. Indossano vestiti tipici della loro tribù, gonne piene di disegni, mantelle tradizionali (kanga) che avvolgono le spalle e collane fatte di perle coloratissime intorno al collo. Portano capelli corti e grandi orecchini, cantano e non stanno con le mani in mano.
La maggior parte di loro produce gioielli per i turisti, mentre le leader del villaggio gestiscono un campeggio vicino al fiume Uaso (a un chilometro da Umoja) dove dorme chi arriva per visitare il parco naturale di Samburu. Ma molti dei turisti si fermano anche a Umoja, pagano un piccolo biglietto e spesso comprano i gioielli nel piccolo negozio di artigianato. Solo attraverso queste entrate le donne possono guadagnare uno stipendio e essere indipendenti.
“Quando un turista compra le mie perline sono così orgogliosa”, dichiara al The Guardian Nagusti, una donna di mezza età con cinque bambini. “Qui ho imparato a fare cose che normalmente ci sono vietate”. La cultura Samburu proibisce alle donne di partecipare attivamente alle riunioni del villaggio. Di solito siedono al di fuori di un cerchio formato da soli uomini e raramente possono esprimere la loro opinione sulle questioni importanti.
A Umoja invece siedono tutte sotto “L’albero della parola” (“The tree of speech”), dove prendono decisioni e parlano apertamente delle violenze subite. “Loro lo mettono dentro di te, non è così?”, scherza Memusi parlando degli stupri perpetrati dai soldati britannici in seguito all’indipendenza del Kenya, quando la presenza dell’esercito inglese era ancora molto forte nel Paese per via degli accordi post-coloniali. Le donne venivano attaccate da più soldati anche durante il giorno, mentre raccoglievano la legna o l’acqua. Le loro vite erano letteralmente rovinate soprattutto se non erano sposate, perché dopo un episodio del genere nessuno le avrebbe più prese in moglie.
Nel 2003 un gruppo di donne ha denunciato gli stupri avvenuti nell’arco di 30 anni a uno studio legale inglese specializzato in diritti umani, il Leigh Day. Ma il Royal Military Police, l’istituzione dell’esercito britannico a cui sono state presentate le prove – report medici e della polizia raccolti dallo studio – ne ha sempre negato la veridicità, dichiarando inoltre che il Dna dei bambini di razza mista nati in seguito agli stupri non poteva essere verificato: in quel periodo tra i 65 e i 100mila soldati vivevano in Kenya.
La documentazione fu poi fatta sparire, e anche se il caso non si è ancora chiuso secondo uno degli avvocati dello studio, Martyn Dairy, sarà molto difficile rilanciarlo senza quella documentazione. Dopo 25 anni dalla fondazione del villaggio il ricordo delle violenze è ancora vivo tra i membri di Umoja, ma nonostante questo le donne non rinunciano ad avere rapporti sessuali. Avere un bambino rimane una priorità per la cultura Samburu, e i figli sono considerati il dono più grande.
Così si recano negli insediamenti vicini e invitano gli uomini a trascorrere la notte con loro. Alcuni visitano regolarmente il villaggio per aiutare le donne con il bestiame e i lavori più pesanti, e capita che abbiano tre o quattro mogli ad Umoja. “Credono di poter vivere senza gli uomini, ma questo non è possibile”, racconta Samuel, il capo anziano del villaggio vicino mentre ride con i suoi compagni. Ma avere rapporti sessuali per concepire un figlio è diverso dalla convivenza con un uomo, e per le donne di Umoja questa sarebbe impossibile dopo tanti anni trascorsi nella comunità femminile. Non lascerebbero mai il villaggio, perché lì hanno tutto ciò che serve.
Marta Vigneri, Redazione TPI
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