Roberto Saviano's Blog, page 19

August 10, 2015

Web e libri. Sogno un’alleanza in nome dell’approfondimento

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Credo molto in un’alleanza tra web e libro. Voglio sovvertire l’idea e la prassi per cui il web rischia di divenire un nemico del libro, toglie tempo all’approfondimento istigandoci ad una lettura veloce di titoli e testi brevi. Io credo che il web possa dare profondità alla lettura e debba farlo alleandosi con i libri.
Non è facile convertire questa idea in un progetto: esiste un mercato, della notizia e anche del libro, che ragiona con logiche opposte, ma che credo siano logiche di autocannibalizzazione.


Alla lunga stiamo perdendo fiducia nelle notizie e anche nei libri perchè la carenza di tempo per leggere ci ha privato anche della qualità.
Per questo stiamo vivendo un momento di crisi dell’editoria, che ha cambiato anche il ruolo dello scrittore e del critico.


Ne ho parlato con Silvia Truzzi su Il Fatto Quotidiano in un’intervista che vorrei fosse il principio di un dibattito su questi temi, da parte di tutta la comunità editoriale in Italia.


Il discorso intorno al libro finisce quando il mercato del libro entra in crisi e questo perchè, come ho spiegato a chi mi ha intervistato:



La crisi dipende più da un cambiamento di tempo e di relazione con la parola. Il mio primo obiettivo – ed è il motivo che mi porta ad Amici o nelle scuole – è tornare a creare familiarità con la lettura. Oggi non sei analfabeta se non sai leggere, almeno nella società occidentale. Sei analfabeta se non dedichi tempo alla lettura, intesa come approfondimento e capacità di concentrazione. In questo senso il web rischia di diventare nemico del libro, perché abitua alla lettura di titoli di poche righe, una lettura piana, orizzontale che non cerca profondità ma immediata fruibilità. E poi andiamo a letto con il tablet, in treno con lo smartphone: il tempo del libro scompare. Mi piace l’idea di lavorare a un’alleanza tra web e libro in nome della possibilità di approfondimento.
 



Attorno ad un progetto simile potrebbero stringersi anche alleanze tra scrittori, ma oggi percepisco soprattutto odio, gli scrittori italiani si detestano e non c’è più un senso di comunità letteraria. Si è persa persino la solidarietà.
 



Il primo pensiero va al mercato, che è saturo, quindi ciò che vendi tu non lo vendo io. Assioma tristissimo. C’è stato il processo per le minacce del clan dei casalesi nei miei confronti (e di Rosaria Capacchione): mi aspettavo vicinanza umana da chi dovrebbe rappresentare la sublimazione dell’umano, ovvero gli scrittori. Nulla, silenzio totale. Stessa cosa per Erri De Luca: credo che gli attestati di solidarietà nei suoi riguardi siano stati pochissimi. In fondo vedono questi guai, tra l’altro molto diversi tra loro, come occasioni di visibilità e quindi si ritraggono. Invece sono solitudini accadute per aver scritto e parlato. La solidarietà degli scrittori sarebbe stata necessaria. E naturale
 



Mi si chiede allora perchè scrivo?



Per perdere qualcosa. Sicurezze, stabilità, serenità, reputazione. Agli aspiranti scrittori direi: scrivete un libro solo se avete da perdere qualcosa. La recensione negativa è il rischio minore. Le cose che portano disagio sono altre: gli attacchi politici, l’isolamento, i tentavi di delegittimazione. La frase che non dimenticherò mai di Solzenicyn è: “Dove non c’è libertà, gli scrittori diventano i ministri del vero governo”
 



Leggete l’intervista integrale qui.




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Published on August 10, 2015 01:12

Gomorra è il male, oscuriamola. Un alibi per autoassolversi

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Ciclicamente vengo accusato di influenzare negativamente la realtà, soprattutto quella delle città e dei paesi campani da cui provengo, con racconti di violenza che costituirebbero un motivo di emulazione da parte di giovani e ragazzini. Chi amministra in queste città mi accusa di non raccontare il bello e il buono di questi luoghi.


Mi sono sempre interrogato sul rapporto tra realtà e fiction e su come sia possibile andare oltre la lapalissiana considerazione che la realtà supera sempre la fantasia. Da quando mi occupo di cronaca nera, di organizzazioni criminali, di narcotraffico, nella realtà trovo gli spunti alle storie più incredibili e violente. Quando ho scritto Gomorra non ho fatto altro che far conoscere ad un pubblico più ampio – più ampio anche delle mie stesse aspettative – un mondo conosciutissimo alla gente che vive nel napoletano e nel casertano. Qualcuno avrebbe preferito che quella realtà rimanesse conosciuta entro i confini controllati di quel territorio. Non è andata così e le conseguenze sulla mia vita sono ormai note a tutti.


E’ una vecchia caccia alle streghe, utile soprattutto a chi dovrebbe affrontare quei luoghi, quella criminalità, quella violenza e trovare soluzioni, E invece preferisce alibi. Lo si faceva al tempo delle epidemie di peste: davanti all’incapacità di risolvere un problema, si cercavano gli untori. Per quietare gli animi, per dirottare le critiche e le pretese altrove.


Così è più facile pretendere da me che io smetta di scrivere libri o fare fiction tv che raccontano ciò che accade, che pretendere dai politici, dagli imprenditori, dalle istituzioni in genere di fare il proprio dovere.


Ho dialogato di questi temi con Stefano Piedimonte su Il Mattino. Stefano Piedimonte è un giovane scrittore, già giornalista di cronaca nera, autore di romanzi noir. Conosce la realtà e conosce la finzione. Nell’intervista  parliamo degli effetti di Gomorra la serie sull’opinione pubblica, di come ancora a Napoli e in Italia l’oscurantismo più mio miope consideri un libro, una serie, responsabili della violenza. Di come esista ancora il coro che consideri “diffamante” raccontare il potere criminale.


Riporto qui qualche passaggio dei pensieri che ci siamo scambiati, a partire proprio dal concetto di influenza negativa della letteratura – perchè alla fine di questo stiamo parlando, di letteratura – sulla vita reale.


 



Allora vietiamo ”Medea”, nelle università, nelle scuole, dappertutto. Altrimenti le donne, quando vengono lasciate dai propri uomini, possono prendere ispirazione dalla tragedia e scannare i loro figli. E poi andiamo avanti con la Bibbia, il Corano, che pure esprimono molta violenza. Dai, non scherziamo. Rendersi conto che a Napoli, ma anche nel resto d’Italia, siamo a questo, è veramente doloroso.
 



Mi chiedo, lo chiedo soprattutto a chi muove questa critica, se valga il principio contrario, ovvero se la narrazione di una realtà tutta d’oro valga a far mutare le cose in meglio. Chi scrive sceglie i propri argomenti, possono essere di denuncia o di approvazione, di critica o di elogio. Ma dall’altra parte c’è un lettore che sceglie, una volta cercherà la denuncia, un’altra la soluzione. In entrambi i casi il lettore è libero solo se c’è uno scrittore, un giornalista, un autore libero di raccontargli il lato della realtà che ritiene più meritevole d’essere raccontato.
 



L’artista è responsabile di ciò che racconta, nessun dubbio su questo: la funzione pedagogica dell’arte può esistere, ma questa pedagogia non segue un meccanismo così semplicistico, non è che se io racconto di un killer, chi legge uccide, o se io, al contrario, racconto di Francesco d’Assisi, chi legge diventa santo. In questo caso sarebbe semplice: facciamo così tante serie tv in Italia di una bontà banale e scontata che avremmo un paese di buoni, simpatici e onesti. Recentemente, una ragazza in Francia ha smaltito un cadavere come avveniva in ”Breaking Bad”, ma non è che ”Breaking Bad” abbia fatto uccidere: la serie ha raccontato quella violenza legata al narcotraffico, e loro in quella violenza si sono ritrovati. Io non mi voglio sottrarre a nessuna responsabilità, ma se qualcuno mi dice: ”Quel ragazzino usa proprio quel metodo, quell’espressione di ”Gomorra”, e questo significa che tu l’hai imbeccato”, rispondo: no, significa che la violenza di cui racconto è vera.
 



Tra autore e lettore, o telespettatore, c’è un patto implicito: io ti offro il mio racconto e tu lo interpreti come vuoi. Ma tanto più lo scrittore è autorevole, credibile, perchè più informato o documentato, sia quando racconta il brutto che il bello, tanto più il lettore deciderà di premiarlo
 



L’opera è qualcosa di vivo, che respira, non è un monolite che un autore lancia sulla testa di qualcuno aprendola in due. L’opera è in continua dialettica col quotidiano. Dietro questi attacchi c’è una grande furbizia: quella di attaccare le serie tv o i libri, autoassolvendosi. Visto che non l’ho fatto io, che non l’ho raccontato io, o almeno non in quel modo, allora mi sento in colpa e dò la responsabilità all’opera.
 
 



La politica dovrebbe fare lo stesso, rendersi credibile e farsi premiare per ciò che fa.
 



De Magistris che mi invita a raccontare le cose belle di Napoli, sì, l’ha fatto più volte. Che cosa assurda. È un invito che trovo di un’ingenuità incredibile. Io parlo spessissimo delle meraviglie di Napoli, dopodiché: il Maschio Angioino, Caravaggio, il Golfo di Napoli, sono forse merito dell’amministrazione comunale? Iniziamo a parlare delle cose di cui abbiamo merito. È molto più difficile trovarne, no? A Napoli è difficilissimo raccontare di qualcosa che sia merito della politica.
 



Con Piedimonte ho parlato anche del lato più tecnico della questione, quello che riguarda la scelta delle location, degli aspetti oggettivi della fiction che reggono la narrazione e che qualcuno vorrebbe sottoporre a continue licenze, autorizzazioni e lasciapassare. Come se Tomasi di Lampedusa non avesse potuto citare Palermo o Donnafugata nel Gattopardo o Leonardo Sciascia non avesse potuto denunciare l’esistenza della mafia con “Il giorno della Civetta” citando Palermo e Roma.
 



Mi chiede Piedimonte: ma poi, vogliamo parlare della questione più tecnica? Sembra banale, però ai più sfugge. Se io, nella mia serie, o nel mio libro, parlo di una Fiat guidata da un camorrista o di un vestito di Gucci indossato da un serial killer, non devo chiedere autorizzazioni a Fiat né a Gucci. Mi sembra scontato. Forse alcuni amministratori locali non sanno che posso filmare a Baltimora e dire che è Ponticelli, e nessuno potrà mai alzare un dito. La chiamerò comunque Ponticelli. Che senso ha questo martirio delle autorizzazioni? Autorizzazioni a cosa?
«È vero, è una questione interessantissima. Queste ”autorizzazioni a girare” non sono autorizzazioni a parlare del territorio. Praticamente, vietano la possibilità – che il Comune deve darti – di riprendere il Comune stesso, per esempio, o una piazza, ma ovviamente io posso benissimo parlare di Afragola, Acerra, Secondigliano, anche se il Comune non mi autorizza a girare lì. Perché fanno la fila a non autorizzare le riprese? Perché così fingono di difendere il proprio territorio. Non si rendono conto che tu lo difendi non impedendone il racconto, ma trasformandolo. Cosa credono di fare, di salvare il proprio territorio dal racconto della realtà? Allora New York dovrebbe bloccare immediatamente Scorsese. Sta per uscire una nuova serie, ”Vinyl”, parla di una NY piena di droga e di sesso estremo, culla del rock ’n roll. Dobbiamo bloccarla? Significa diffamare Manhattan? Che idiozia.
 



Leggete l’intervista integrale qui.




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Published on August 10, 2015 00:33

August 7, 2015

Se l’inchiesta la paga il lettore

la_natura_delle_cose_615x340Seguire i percorsi attraverso cui reperiamo informazioni è operazione utilissima per capire come il nostro mondo sia cambiato. D’estate per molti aumenta il tempo da dedicare alla lettura che fino a qualche tempo fa era un giornale, una rivista, qualche libro. Ora ci troviamo sempre più a maneggiare tablet e smartphone e da lì prendiamo informazioni e cultura.


Questo rende meno netta la divisione tra routine e vacanza, ma ci dice che ormai è diventato impossibile trovare una separazione tra sé e la notizia. Saltare anche solo per un giorno il giro obbligato tra social e siti di informazione ci fa sentire fuori dal mondo.


Spesso questo genere di considerazioni porta con sé un giudizio negativo che riguarda soprattutto quella forma di addiction all’online che non consente di staccare mai, come se essere offline equivalesse a non essere. Quella che meno spesso viene esplorata è la ricaduta positiva che questo genere di attenzione ha sulla produzione di contenuti.


Se fino a qualche tempo fa – pochissimo tempo fa – era relativamente difficile decidere di finanziare un’inchiesta perché serviva innanzitutto una piattaforma che decideva di finanziarla, ora tutto viene declinato su binari differenti. Il committente può non essere più una testata tradizionale o online, ma possono essere decine, centinaia o migliaia di persone che decidono di investire prima di tutto nella ricerca. Ricerca intesa in senso ampio, dall’informazione pura all’arte, dal no profit al cinema, dalla tecnologia alla musica. Si condividono le premesse di un progetto e si desidera vederne lo sviluppo.


È questa la nuova frontiera anche del giornalismo d’inchiesta: il crowdfunding. Ovvero, la possibilità di contribuire affinché un progetto, un documentario o un reportage possano vedere la luce. E non è un singolo a decidere dell’utilità di quel prodotto, ma molte persone che sentendone la necessità decidono di finanziarlo.


Non più spettatori, ma attori in un panorama informativo in costante evoluzione nel quale siamo noi che abbiamo la possibilità di decidere quali informazioni vogliamo approfondire. Ho un’idea di racconto, credo che un fatto meriti di essere narrato, magari raccogliendo le voci e le testimonianze di chi tra qualche tempo potrebbe non esserci più; o semplicemente ho l’impressione che la lettura artistica di quel fatto possa sublimarne la comprensione; a questo punto la situazione che potrebbe presentarsi è la mancanza di mezzi per poter realizzare il progetto.


Eppure io voglio leggerla in modo diverso: metto la mia idea sul mercato, nel senso che chiedo a un numero indefinito di utenti di valutare il progetto ed eventualmente finanziarlo. Questo è il modo migliore per testare idee, ed apre anche nuove strade al giornalismo d’inchiesta: un giornalismo che abbia come fine primo la pubblica utilità. Non uno che commissiona, ma molti che sentono la necessità di essere informati su quel dato argomento.


Non si tratta di avere mezzi o di non averne, ma di voler testare la propria idea attraverso una sorta di azionariato popolare; la partecipazione economica di tanti piccoli finanziatori, trovati nel web e disposti ad investire magari somme irrisorie ma essenziali nella realizzazione di un progetto che è virtuale ma che ci metterà poco a diventare reale.


La natura delle cose” è il titolo di un film che uscirà tra qualche mese. La regista, Laura Viezzoli, ha proposto un percorso che parte dalla vita di Piergiorgio Welby e si sviluppa attraverso un concetto fondamentale, semplice, ma spesso ignorato: la libertà di scelta.


Attraverso Eppela, una piattaforma di crowfunding, Viezzoli ha proposto una sorta di call to action: “Se credi al diritto individuale alla non sofferenza e alla libertà di scelta in situazioni di fine vita, se hai sentito parlare di Welby e stimi la sua battaglia, e se per di più ami la magia del Super8 e dei viaggi aerospaziali, ti offriamo la possibilità di entrare nel gruppo di coproduzione popolare del progetto Filmico “La Natura delle Cose” sostenendone la realizzazione con piccole donazioni a partire da 5 euro l’una”. La somma da raggiungere era di 15mila euro e 155 persone hanno risposto all’appello.


La semplice osservazione di questi casi conferma che la voglia di esprimersi e di farlo liberamente, la necessità di mostrare il proprio sguardo agli altri, per condividerne le sfumature, è un’attività umana sovrapponibile al respiro. E dimostra che tutto sommato il virtuale è materia antica, di cui sono intrisi i nostri sogni e i nostri ideali.




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Published on August 07, 2015 03:35

August 5, 2015

Notizie che non lo erano

Come possiamo distinguere il vero dal falso? Chi filtra le notizie in un mondo dominato da internet e dai social media, dove le “bufale” circolano insieme a notizie vere, confondendosi con esse?


Sono alcuni interrogativi a cui cerca di dare risposta Luca Sofri nel suo libro “Notizie che non lo erano” dedicato ai paradossi dell’informazione contemporanea. Un libro che consiglio di leggere per capire come chi diffonde in rete leggende metropolitane spesso trova nel web un’arma a doppio taglio: la massima visibilità possibile e insieme la certezza di essere smascherati.


Ed ecco che il racconto del nostro paese che verrebbe fuori da questo bestiario dell’informazione è smontato dagli stessi a cui era rivolto, ovvero gli utenti finali, i lettori che sono molto meno inermi di quanto non si creda. Sofri cita notizie assolutamente fantasiose come quella sul complotto per uccidere Obama, sul ritrovamento dell’agenda di Paolo Borsellino o sul super-pomodoro contro l’invecchiamento.


A smentirle, il più delle volte, sono stati gli stessi lettori, quegli utenti del web ormai divenuti “citizen journalists” che non si accontentano di digerire tutto quanto viene loro offerto in pasto dall’informazione quotidiana, ma approfondiscono, verificano, si informano. E poi contrattaccano.


Un’analisi cara a Sofri, che da tempo raccoglie queste informazioni e ne fa uno spunto di riflessione centrale sul rapporto tra giornalisti e lettori, tra informazione e disinformazione. Ricordandoci il principio che più di ogni altro ci rende liberi: conoscere per deliberare.


Ma conoscere e quindi deliberare è possibile solo se si hanno gli strumenti per farlo e gli strumenti può darceli solo il Quarto Potere, quello che oggi più di prima – Edmund Burke l’aveva preconizzato – condiziona le nostre vite.


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Published on August 05, 2015 06:29

August 3, 2015

Fiumicino, il simbolo dell’Italia che decade

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Il nome di Leonardo da Vinci, il genio che sognava di volare cinquecento anni fa, non è bastato a mettere le ali al primo scalo aeroportuale italiano. E questo perché l’Italia tutta non ha l’ambizione di volare come il suo illustre concittadino.


Quanto sta accadendo in questi giorni all’aeroporto di Fiumicino è il segno di quanto il Paese non sia in grado di giocarsi i propri migliori assi, facendo decollare l’economia turistica e mostrando al mondo intero il suo potenziale migliore.


Invece stiamo assistendo a scene poco dignitose, che certo sono le conseguenze di una serie di incidenti, prima l’incendio della pineta di Focene poi il black out, ma che hanno paralizzato lo scalo e al suo interno migliaia di passeggeri, la gran parte stranieri, nel periodo di massimo traffico.


Avevo già avuto modo di constatare in prima persona il brutto biglietto da visita che Fiumicino rappresenta per il nostro Paese, transitando per lo scalo qualche settimana fa in viaggio per Londra. Ora se ne sono accorti tutti.


Sul web si moltiplicano i video di passeggeri che protestano in tutte le lingue, della tensione che cresce nelle sale di attesa, di hostess che reagiscono in modo scomposto, di famiglie con figli piccoli e piccolissimi che giacciono sfinite dopo due giorni di notti in bianco a tentare di dormire su affollate poltroncine.


E come se non bastasse, fuori di lì, tra gli uffici di chi conta davvero in tutta questa vicenda, si accende la polemica. Alitalia ha minacciato di lasciare lo scalo romano se la società di gestione, AdR – Aereoporto di Roma non farà investimenti ed accusando di aver già perso 80 milioni di euro a causa dell’incendio dello scorso 7 maggio che causò il blocco del terminal 3.


La tensione tra la compagnia di bandiera italiana (oggi la società è controllata per il 51% da Alitalia Cai attraverso la MidCo, mentre per il 49% è stata acquisita da dall’araba Etihad Airways, attraverso Alitalia Sai) e la società aeroportuale è tale che l’ENAC – Ente Nazionale per l’Aviazione Civile ha convocato un incontro il prossimo 6 agosto con i vertici di Alitalia e AdR per ‘verificare la rispondenza delle azioni poste in essere a quanto previsto dalla normativa vigente e di ribadire obblighi e competenze a carico delle due figure’.


Ne approfitta Ryanair, la compagnia lowcost irlandese, che subito si propone per aggiungere più aerei, più rotte e più voli a basso costo su Fiumicino non appena Alitalia dovesse cedere il passo. Da quando ha fatto il suo ingresso a Fiumicino nel dicembre del 2013, Ryanair in un anno è diventata il primo operatore d’Italia, con 26,1 milioni di passeggeri nel 2014 rispetto ai 23,3 di Alitalia.


Nel caos si inserisce la Lega Nord, che con il presidente della Lombardia Roberto Maroni, coglie l’occasione per proporre Malpensa come scalo hub per Alitalia, opponendo Roma “città dello sfascio” a Milano “città dell’eccellenza”. Eppure era stata proprio Alitalia a decidere di lasciare lo scalo lombardo tagliando oltre il 70% dei voli e lasciando solo un paio di rotte intercontinentali verso New York e Tokyo.


Ma mentre la diatriba tra Roma e Milano è un argomento utile solo alla politica interna, perché vista dall’estero la vicenda di Fiumicino, come la chiusura di Pompei per sciopero in piena estate e senza preavviso, è una figuraccia per tutta l’Italia. Un’Italia che proprio sul turismo si mostra in piena decadenza.




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Published on August 03, 2015 06:06

August 1, 2015

Caro premier il Sud sta morendo: se ne vanno tutti, persino le Mafie

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Caro Presidente del Consiglio Matteo Renzi, torno a scriverLe dopo quasi due anni e lo faccio nella speranza di poter ottenere una risposta anche questa volta. La prima volta Le scrissi quando il Suo governo aveva appena iniziato la propria azione di “riforma radicale della società italiana”. Oggi non si può certo pretendere dal Suo esecutivo la soluzione di problemi endemici come la “questione meridionale”: ma non ci si può neppure esimere dal valutare le linee guida della sua azione.


Game Over. Questa è la scritta immaginaria che appare leggendo il rapporto Svimez sull’economia del Mezzogiorno. Game Over. Per giorni i media di tutto il mondo sono stati con il fiato sospeso in attesa di un accordo che scongiurasse l’uscita della Grecia dalla zona euro: oggi apprendiamo che il Sud Italia negli ultimi quindici anni ha avuto un tasso di crescita dimezzato rispetto a quello greco. La crisi è ben peggiore: ed è nel cuore dell’Italia. Il lavoro come nel 1977, nascite come nel 1860.


Tra i fattori di grave impoverimento della società meridionale ci sono il decremento del tasso di natalità e l’aumento esponenziale dell’emigrazione che coinvolge soprattutto i giovani più brillanti: quelli formati a caro prezzo, nelle tante Università meridionali, funzionali più agli interessi dei docenti che a quelli degli studenti.


Ci sono meno nascite perché un figlio è diventato un lusso e averne due, di figli, è ormai una follia. Chi nasce, poi, cresce con l’idea di scappare: via dall’umiliazione di non vedere riconosciute le proprie capacità. Questo è diventato il meridione d’Italia: spolpato dai tanti don Calogero Sedara che non si rassegnano ad abbandonare il banchetto dell’assistenzialismo.


Ed è in questo contesto che si ripropongono nostalgie borboniche: l’incapacità del governo e la non linearità della sua azione resuscitano bassi istinti già protagonisti della nostra storia.


“Fate Presto” era il titolo de Il Mattino all’indomani del terremoto del 1980. Andy Warhol ne fece un’opera d’arte. E oggi quella prima pagina si trova a Casal di Principe, in un immobile confiscato alla criminalità organizzata, che ospita una esposizione patrocinata dal Museo degli Uffizi di Firenze. Le consiglio di andarci, caro Premier: Le farebbe bene camminare per le strade del paese, Le farebbe bene vedere con i suoi occhi quanto c’è ancora da fare e come il tempo, qui, sia oramai scaduto. Per com’è messo oggi il Sud Italia, anche quel “Fate Presto” è ormai sintesi del ritardo.


Potrei dunque dirLe che agire domani sarebbe già tardi: ma sarebbe inutile retorica. Le dico invece che  –  nonostante il tempo sia scaduto e la deindustrializzazione abbia del tutto desertificato l’economia e la cultura del lavoro del Mezzogiorno  –  Lei ha il dovere di agire. E ancora prima di ammettere che ad oggi nulla è stato fatto. Solo così potremo ritrovare la speranza che qualcosa possa essere davvero fatto.


Le istituzioni italiane devono infatti chiedere scusa a quei milioni di persone che sono state considerate una palla al piede e, allo stesso tempo, sfruttati come un serbatoio di energie da svuotare. Sì, qualche tempo fa c’è stato pure chi ha pensato di tenere il consiglio dei ministri a Caserta, a Napoli. Ma di che s’è trattato? Di pura comunicazione: nient’altro. Che cosa ha invece opposto la politica italiana al dissanguamento generato dalla crisi? Dal 2008 a oggi contiamo 700mila disoccupati in più. Sono certo che Lei mi risponderà che la Sua riforma del mercato del lavoro va in questa direzione: vuole fermare il dissanguamento. Ma a me corre l’obbligo di dirLe che anche una buona riforma  –  e se quella attuale lo è lo capiremo solo negli anni  –  può generare effetti perversi se calata in un sistema-Paese claudicante.


Nel frattempo, la retorica del Paese più bello del mondo ha ridotto il Mezzogiorno a una spiaggia sulla quale cuocere al sole di agosto: per poi scappar via. Ammesso che ci si riesca ad arrivare, su quella spiaggia, dato che  –  come è accaduto alla Salerno-Reggio Calabria  –  si può incappare in interruzioni sine die (secondo le indagini, tra l’altro, frutto ancora una volta della brama di denaro da parte di funzionari infedeli). Non creda che nelle mie parole ci sia rancore da meridionalista fuori tempo: ma, mi scusi, che cosa crede che sarebbe successo se le interruzioni avessero riguardato un’arteria cruciale del Nord Italia?


Troppe volte ho sentito dire che è ormai inutile intervenire. Che il paziente è già morto. Ma non è così. Il paziente è ancora vivo. Ci sono tantissime persone che resistono attivamente a questo stato di cose e Lei ha il dovere di ringraziarle una ad una. Sono tante davvero. E tutte assieme costituiscono una speranza per l’economia meridionale. È Lei che ha l’ingrato ma nobile compito di mostrare che è dalla loro parte e non da quella dei malversatori. Tra i quali, purtroppo, si annidano anche coloro che dovrebbero rigenerare l’economia.


Massimiliano Capalbo si definisce imprenditore “eretico” e legge nella desertificazione industriale un elemento positivo. Se desertificazione significa che impianti come l’Ilva di Taranto o la Pertusola di Crotone o l’Italsider di Bagnoli scompariranno dalle terre del Sud, questa  –  argomenta gente come Capalbo  –  può essere anche una buona notizia: vuol dire che il Sud potrà crescere diversamente. Aiutare il Sud non vuol dire continuare ad “assisterlo” ma lasciarlo libero di diventare laboratorio, permettergli di crescere diversamente: con i suoi ritmi, le sue possibilità, le sue particolarità. Non dare al Sud prebende, non riaprire Casse del Mezzogiorno, ma permettere agli imprenditori con capacità e talenti di assumere, di non essere mangiati dalla burocrazia, dalle tasse, dalla corruzione.


La corruzione più grave non è quella del disonesto che vuole rubare: la vergogna è quella dell’onesto che  –  se vuole un documento, se vuole un legittimo diritto, se vuole fare impresa o attività  –  deve ricorrere appunto alla corruzione per ottenere ciò che gli spetta. A sud i diritti si comprano da sempre: e Lei non può non ricordarlo.


No, non mi consideri alla stregua del radicalismo ciarliero tipico dei figli dei ricchi meridionali, i ribelli a spese degli altri. Il vittimismo meridionale, quello che osserva gli altri per attendere (e sperare) il loro fallimento e giustificare quindi la propria immobilità è storia vecchia. Va disinnescato dando ai talenti la possibilità di realizzarsi. Provi a cogliere le mie parole come la “rappresentanza” di una terra che smette di essere al centro dell’attenzione quando non si parla di maxiblitz o sparatorie (tra parentesi, perché non è questo l’oggetto di della discussione: tanti studi ormai spiegano che certi exploit della violenza criminale al Sud siano anche l'”effetto” di “cause” dall’origine geografica ben più lontana).


Caro Presidente del Consiglio, parli al Paese e spieghi che cosa pensa di fare per il Sud. Lei deve dimostrare di saper comprendere la sofferenza di un territorio disseccato: solo allora avrà tutto il diritto di chiedere alla gente del Sud di smetterla con la retorica della bellezza per farsi davvero protagonista di una storia nuova  –  costruita camminando sulle proprie gambe. A Lei, quale più alto rappresentante della politica italiana, spetterà dunque il compito di levare ogni intralcio a questo cammino. E i progetti dovranno naturalmente essere concreti.


Permette un paradosso? È un tristissimo paradosso. Dal Sud, caro primo ministro, ormai non scappa più soltanto chi cerca una speranza nell’emigrazione. Dal Sud stanno scappando perfino le mafie: che qui non “investono” ma depredano solo. Portando al Nord e soprattutto all’estero il loro sporco giro d’affari. Sì, al Sud non scorre più nemmeno il denaro insaguinato che fino agli anni ’90 le mafie facevano circolare…


Il Sud è scomparso da ogni dibattito per una semplice ragione: perché tutti, ma proprio tutti, vanno via. Quando milioni di italiani partirono da Napoli per le Americhe Lei lo sa che cosa succedeva al molo dell’Immacolatella? Le famiglie si presentavano con un gomitolo di lana: le donne davano un filo al marito, al figlio, alla figlia che partiva. E mentre la nave si allontanava, il gomitolo si scioglieva, girando nelle mani di chi restava. Era un modo per sentirsi più vicini nel momento del distacco. Ma anche per dare un simbolo al dolore: al distacco immediato. La speranza era che quel filo che i migranti conservavano nelle tasche potesse continuare a essere mantenuto dai due capi così lontani.


Faccia presto, caro Presidente del Consiglio, ci faccia capire che intenzioni ha: qui ormai s’è rotto anche il filo della speranza.




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Published on August 01, 2015 06:16

July 31, 2015

È ora di legalizzare le droghe

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Come spiegare a un adolescente cosa sia la droga e come farne uso? Lasciare che la questione venga affrontata tra le mura domestiche o iniziare un dibattito politico che poi diventi dibattito pubblico e che giocoforza coinvolga tutti, chi ci rappresenta, organi di stampa e noi?


Avete letto bene: come spiegare a un adolescente come fare uso di droga. È inutile e controproducente sperare che i ragazzi non si facciano canne, che non si sentano attratti dall’uso di droghe sintetiche, che non bevano il sabato sera. Deresponsabilizza tutti, genitori, educatori e istituzioni. La verità è che dovremmo trovare il coraggio di dire ai nostri ragazzi: scusateci, siamo talmente inadatti a questo mondo che preferiamo che ogni tanto qualcuno di voi muoia piuttosto che assumerci come società l’onere di vigilare affinché le sostanze che la maggior parte di voi decide di assumere non siano pericolose per la salute.


Eh sì, perché chi prova droghe e beve alcolici il sabato sera non è l’adolescente con una vita familiare complicata, non è la ragazza mollata dal fidanzatino. Non è il diciassettenne sovrappeso o che si crede brutto. Le droghe le prova chiunque per semplice curiosità. È un momento di crescita, come fare sesso per la prima volta. È crescita e trasgressione insieme. È dimostrazione di coraggio, e la vita degli adolescenti è nella fase eroica, quella in cui si vuole costantemente dimostrare a se stessi – non necessariamente agli altri – di poter superare i propri limiti o quelli che la pubblica morale pone. A sedici anni ci si sente onnipotenti ed eterni e non c’è nulla che faccia davvero paura, ecco perché inutile demonizzare o vietare, l’unica cosa che gli adolescenti ascoltano è il ragionamento, l’unica cosa davanti alla quale si fermano è la conoscenza.


Il vuoto che esiste tra la gestione del problema droghe, che di fatto è demandato alle sole famiglie, e le tragedie che si consumano periodicamente, deve essere colmato da uno stato che non può concepire più il suo ruolo solo come emergenziale. Le istituzioni non devono più arrivare quando la decisione da prendere è se chiudere o meno l’ennesima discoteca o fare processi più o meno equi ai giovani sopravvissuti, ma devono essere presenti prima, nelle scuole a fare informazione e in parlamento a fare leggi.


Lamberto Lucaccioni aveva 16 anni ed è morto dopo una serata in discoteca per gli effetti letali di una dose eccessiva di Mdma. A me non interessa sapere chi gliel’abbia venduta (questo è affare da inquirenti), a me non interessa sapere se fosse al parco o in discoteca quando l’ha assunta. A me quel che interessa è comprendere se davvero Lamberto, a 16 anni, sapeva quali fossero i rischi che correva data la natura stessa del mercato degli stupefacenti in Italia.


Chi sintetizza e chi spaccia, chi si fa carico di gestire il traffico di marijuana e cocaina non sono aziende che lavorano legalmente, per conto dello stato o sotto il suo controllo. I prodotti che mettono in vendita non sono testati perché non siano letali per la salute di chi ne fa uso. A gestire il traffico di droga nel nostro paese sono le organizzazioni criminali che hanno come unico fine il profitto. A loro poco importa se un acido uccida o se una canna possa provocare perdita di memoria, attacchi d’ansia e paranoia o, addirittura, disturbi motori.


La chiamano amnèsia, si tratta di marijuana tagliata con metadone, eroina e addirittura con l’acido delle batterie delle auto e la spacciano a Napoli. Quel che viene fuori dalla combustione di queste sostanze è una droga dannosissima per la salute. Con chi ce la prendiamo? Con le organizzazioni criminali, certo. E poi che facciamo, andiamo ad analizzare caso per caso le famiglie dei ragazzi che hanno assunto queste sostanze? E che facciamo, puntiamo il dito su come quei genitori avrebbero tirato su o loro ragazzi? Ma davvero? E poi? Chiudiamo i locali dove avviene lo spaccio? E questo basterà? E cosa avremo capito? E cosa avremo risolto? Nulla. Non avremo capito nulla e avremo risolto ancor meno.


Non è una questione morale, ma di salute pubblica. Le politiche repressive hanno avuto decenni per dimostrare la loro validità e non solo hanno fallito, ma hanno anche fatto danni enormi. È ora di legalizzare il mercato delle droghe in Italia e di farlo in maniera ragionata per evitare che continuino a circolare sostanze che uccidono. Non è più possibile girare la faccia dall’altra parte. È ora di capire che abbiamo troppo da perdere.




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Published on July 31, 2015 02:32

July 27, 2015

Narcotraffico e violenza, la terra messicana restituisce 129 cadaveri in 60 fosse comuni

Foto Eduardo Verdugo/AP Photo

Foto Eduardo Verdugo/AP Photo


In Messico la violenza generata dalle lotte tra clan per il controllo del narcotraffico ha un orrore che non conosce misura. Nei giorni scorsi la secca terra dei dintorni di Iguala, nello stato di Guerrero, 200 chilometri a sud di Città del Messico, ha restituito i resti di 129 corpi seppelliti in più di 60 fosse comuni.


Lo ha riferito l’agenzia giornalistica Associated Press e la notizia ha già fatto il giro del mondo, anche se, sono ancora pochissime le informazioni che circolano. Le fosse comuni sono state scoperte durante le ricerche dei 43 studenti scomparsi il 26 settembre 2014 e di cui non si è mai più saputo nulla.


Gli studenti stavano partecipando ad una manifestazione ad Iguala e sarebbero stati sequestrati. Secondo una prima ricostruzione della polizia, i ragazzi sarebbero stati uccisi e i loro corpi bruciati da una gang di narcotrafficanti che li avrebbe confusi per affiliati ad un clan rivale. Ma i parenti dei giovani non hanno mai creduto a questa versione dei fatti.


Non ci sono ancora elementi che possano ricondurre i resti dei corpi appena rinvenuti nelle fosse comuni a quelli dei giovani scomparsi. Dei corpi ritrovati, 112 sarebbero di uomini, 20 di donne mentre gli altri sarebbero addirittura irriconoscibili.


Un orrore crescente che si aggiorna di giorno in giorno con l’aumentare del numero di fosse comuni scoperte dallo scorso ottobre ad oggi e che dà conto dell’infinita barbarie che il narcotraffico genera laddove la guerra si consuma sul campo, lontana dai sicuri e lindi uffici delle banche internazionali, che di quella guerra contano i soldi, non i cadaveri.




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Published on July 27, 2015 05:32

July 24, 2015

Censura, in Russia rischia la chiusura il giornale di Anna Politkovskaya

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La scure di Roskomnadzor, l’Agenzia di regolamentazione dei media e della comunicazione russa, rischia di abbattersi definitivamente su uno dei pochi quotidiani indipendenti della Russia di Putin, la Novaya Gazeta per cui lavorava Anna Politkovskaja, uccisa il 7 ottobre 2006. Lei era una delle poche a denunciare le violazioni dei diritti umani in Cecenia e rivolgere una dura critica alla politica di Putin.


Il giornale ha ricevuto un secondo ammonimento dall’agenzia che di fatto esercita potere di censura sulle pubblicazioni a stampa. Due ammonimenti in meno di un anno, secondo la legge, comportano la revoca dell’autorizzazione alla pubblicazione.  


Novaya Gazeta è “colpevole” di aver pubblicato una parolaccia contenuta in un brano estratto dall’ultimo libro di Vasily Avchenko, corrispondente da Vladivostok per il quotidiano russo. La parolaccia era stata coperta con degli asterischi, ma secondo il portavoce di Roskomnadzor, Vadim Ampelonsky, “poteva essere letta chiaramente”.


Da qui il monito, contro cui il giornale ha deciso di fare appello nella speranza di evitare la chiusura. Il direttore di Novaya Gazeta, Dmitry Muratov, contesterà il richiamo sostenendo che il lavoro di Avchenko è pura letteratura, un’espressione artistica: “non stiamo parlando di un lavoro giornalistico, qui possiamo ammettere deroghe alla regola generale”.


Ma la legge di Putin bandisce l’uso di parolacce da tutti i media e nelle arti, compresa la letteratura. Il primo avvertimento dell’organo di censura contro Novaya Gazeta era stato mosso per un articolo intitolato “Se non siamo l’Occidente, allora cosa siamo?”, considerato “estremista”.


Nel 2014 in Russia sono stati chiusi 4500 siti web accusati di riportare contenuti estremisti, in alcuni casi sono stati riaperti dopo la rimozione dei contenuti considerati fuorilegge. Ma in questo modo sono stati messi a tacere molti blogger e siti di controinformazione, critici con il presidente Putin.




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Published on July 24, 2015 06:38

Libertà di satira non di razzismo

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Dove finisce la libertà di espressione e iniziano le minacce? Qual è il confine tra ciò che l’individuo può permettersi di dire e ciò che dovrebbe tacere?


Dopo la strage alla redazione di “Charlie Hebdo” tutti abbiamo preso posizione in favore della libertà di espressione e moltissimi quotidiani, riviste e siti internet hanno pubblicato le vignette di Cabu, di Tignous e di Wolinski per dimostrare che non esiste censura possibile, che il sangue non ferma la satira.


In quei mesi mi trovavo negli Stati Uniti dove accanto al grido di dolore «Je suis Charlie» c’è stato anche chi non ha ripubblicato le vignette di Cabu, Tignous e Wolinski in nome di un politicamente corretto che nel nuovo continente segue regole con le quali io spesso non mi trovo d’accordo, ma che vale la pena conoscere, perché le nostre prese di posizione siano sempre frutto di ragionamento e mai di pigrizia, di mera voglia di seguire l’onda. Regole che sono il frutto di una convivenza che deve essere pacifica tra culture diversissime in aree urbane dove spesso le differenze diventano l’unico segno distintivo, ciò che ricorda a ciascuna comunità le proprie origini. Dove la differenza viene vissuta come un plusvalore, come unico legame rimasto con il proprio sangue.


Questo l’Europa lo sta sperimentando ora. E lo sta sperimentando nella prima lunga fase pacifica della propria storia. Eppure la memoria di ciò che sono state le due grandi guerre del Novecento è nella carne, anche nella nostra, e quello che resta è ciò che il Nuovo Mondo non può avere: la necessità di voler scrivere, dire, urlare che tutti sono liberi di essere quel che sono nel rispetto delle origini di ciascuno, e allo stesso tempo la libertà di poter essere leggeri, di poter rendere tutto oggetto di satira.


Questa libertà è quanto di più prezioso possa esserci quando si sono sperimentati governi che hanno reso la satira illegale e hanno eliminato, fisicamente eliminato, chiunque provasse a mettere in discussione il potere con il sorriso. Ma questa libertà ha un solo limite, fondamentale, irrinunciabile, pena la dannazione e conseguenza il ritorno a un’epoca nera: la discriminazione. Le ferite dell’esperienze nazista e fascista ci hanno lasciato questa unica grande paura, quella di non voler mai più sentire o leggere offese a persone che sono di un’altra nazionalità, che hanno una diversa origine o che professano una diversa religione. E soprattutto, offese che poi come conseguenza prevedono l’allontanamento, la reclusione o addirittura lo sterminio. Si può prendere in giro chiunque, perché l’ironia serve a smussare gli spigoli, a notare eccessi, che nella convivenza vanno necessariamente ridimensionati, ma la linea di demarcazione la fanno le intenzioni.


È notizia di questi giorni il rinvio a giudizio di 25 persone con l’accusa di odio razziale; erano tutti animatori del sito internet neonazista Stormfront che negli scorsi anni più volte ha preso di mira extracomunitari e chi fosse a favore di politiche di accoglienza, la comunità ebraica e chi avesse origini ebraiche. Con me poi hanno trovato la summa di ciò che ritengono massimamente detestabile e le accuse quotidiane erano le solite: ebreo (usato come insulto) e sionista (perché parlo di pace, di due popoli e due stati). Mi odiano perché invoco lo Ius soli per i cittadini stranieri che nascono, studiano, vivono, lavorano e amano nel nostro paese.


In televisione raccontai la storia, bellissima e commovente, di Yvan Sagnet un giovane camerunense innamorato dell’Italia che studiava ingegneria al Politecnico di Torino e d’estate partecipava alla raccolta dei pomodori in Puglia. Yvan è un ragazzo istruito e grazie a lui molti extracomunitari sono riusciti a ribellarsi e denunciare le condizioni di vita nei campi, una moderna, ingiustificabile e vergognosa schiavitù. Dopo quell’intervento in tv sul sito Stormfront apparve questo commento «L’ebreo Saviano vuole candidare un nero come sindaco di Castelvolturno». Non c’è ironia in questa frase, non è satira, non prende in giro me, né Yvan. Ecco perché mi sono costituito parte civile in questo processo, perché sono convinto che ogni individuo sia libero di esprimere il proprio pensiero, ma esiste una linea, che si ferma davanti a cicatrici che si stanno rimarginando ora. Il nostro compito è di vegliare su quelle ferite, medicarle e fare in modo che mai più nessuno possa permettersi di infettarle dicendosi superiore. Non esistono razze superiori, solo individui stupidi, ignoranti e pericolosi.




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Published on July 24, 2015 03:54

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