Roberto Saviano's Blog, page 21
July 13, 2015
Pregare il Corano a Napoli: le storie di dieci convertiti
Napoli, Islam? Davvero Napoli si sta islamizzando? Ci sono dei documentari che cambiano per sempre la percezione del tema che affrontano. È stato così per Inside Job, film premio Oscar di Charles Ferguson che ha raccontato la crisi economica dimostrando la colpevole responsabilità della finanza. È stato così per Sugarman, la storia di Sixto Rodriguez, cantante sconosciuto nel suo Paese, gli Stati Uniuti, ma che era diventato, a sua insaputa, famoso come Elvis in un’altra parte del mondo, il Sudafrica, e per tutta la vita ha continuato a fare il manovale.
Il documentario che rischia di cambiare la percezione della quotidianità italiana è Napolislam . Scritto e diretto da Ernesto Pagano (e prodotto da Ladoc), racconta storie di napoletani e napoletane convertiti all’Islam.
Napoli è una città devota, la sua religiosità è continua, quotidiana, nelle iperboli pagane: dal sangue di san Gennaro alle capuzzelle , l’antica tradizione di adottare un teschio per prendersi cura dell’anima di uno sconosciuto in cambio di una grazia. Napolislam racconta invece la storia di una città in trasformazione attraverso dieci napoletani che si sentono chiamati da Dio a diventare islamici. E non stiamo parlando di intellettuali, ma di persone del popolo.
Il grande bisogno di trascendenza, a cui la Chiesa non sempre risponde, la vita che diventa insopportabile (commovente è la storia di un operatore ecologico che si avvicina all’Islam come “soccorso” dopo la morte di sua figlia per cancro), l’ideologia politica divenuta merce scadente che non basta più. La storia di Salvatore, ex disoccupato organizzato convertito perché in questa fede vede l’unica soluzione all’ingiustizia sociale, mostra come anche un certo tipo di lotta sociale abbia fatto il suo tempo: credere nell’ideologia è rischioso perché l’ideologia è miope, fallace, e quindi c’è chi ha sostituito con l’Islam l’ideologia del riscatto sociale contro i potenti. Salvatore non ha letto il filosofo Zizek ma dice in sintesi la stessa cosa: ossia che l’islam colma un vuoto quando avverti l’impossibilità di impegnarti in un cambiamento sociale reale. Se non c’è più possibilità di socialismo, di cambiamento di vita che viene dal lavoro, l’islam diventa per molti l’unica risposta.
È straniante sentire queste persone con forte accento napoletano che seguono le regole coraniche e affrontano il tema islamico con i loro famigliari. Ne nascono anche momenti di grande comicità: quando Alessandra, neo-convertita, spiega alla madre che per via della nuova religione ha cambiato anche le abitudini alimentari. La madre — pensando, erroneamente, che le abitudini musulmane siano incentrate sulla privazione del piacere del cibo — sbotta: «Però ‘a Nutella t’a mangi ‘o stess’ ». E lei:«E che c’entra, mica c’è il maiale nella Nutella».
Napolislam mostra il percorso di islamizzazione nelle periferie, nei Quartieri popolari: laddove si avverte un vuoto, si cerca di colmarlo con un altro tipo di spiritualità, perché la vita non può essere soltanto lavoro, materialità, sfogo. Deve almeno provare a cercare un senso. E queste persone l’hanno trovato nell’Islam.
Naturalmente un conto è l’Islam e un altro l’orrore della deriva terrorista e nel documentario questo non è dichiarazione di principio ma descrizione e dimostrazione. Di fronte ai tragici fatti di Charlie Hebdo, i protagonisti sono sconvolti: e tutti egualmente disgustati dalla violenza. C’è solo un momento in cui qualcuno si lancia in un ragionamento ambiguo: «Ora in tv si vede Isis ovunque… Te li fanno vedere col coltello in mano che tagliano teste o con le bombe, però non si va mai a vedere perché lo fanno». Inciso rischioso, ma è un atteggiamento isolato, motivato da una sorta di sensazione diffusa di colpa. In tutti, infatti, c’è una grande presa di distanza. Riassunta dal grido di un rapper convertito: «Che c’entra tutto questo con l’Islam?».
Il Corano raccontato da Ernesto Pagano nel film non è affatto il libro di guerra che sventolano i fanatici del terrore. È al contrario un Islam che risponde al bisogno di spiritualità dei napoletani. Napoletani che non sanno magari esprimersi in italiano, ma recitano perfettamente le preghiere in arabo, a dimostrazione che nessun limite può annichilire chi ha passione e voglia di cercare un senso nuovo al proprio vivere.
È una storia che mette in evidenza più di un vuoto: anche quello presente nella riflessione italiana sull’Islam, che si limita spesso alla rappresentazione di un doppio schieramento, chi condanna e chi difende, senza mai addentrarsi nella profondità del problema. Di più: Napolislam dimostra come sia il Sud il vero territorio che può fornire dialettica, prospettive nuove. Così come le periferie creano tensioni, sì, ma anche nuove ipotesi di vita, allo stesso modo il Sud Italia è la vera dimensione in cui avviene l’incontro, il dialogo e l’inevitabile confronto con l’Islam.
Napoli è da sempre una capitale di dialogo con tutte le minoranze: Napoli non è mai stata omofoba, Napoli non è mai stata islamofoba. Napoli è abituata per destino ad accettare tutto ma questa indolenza spesso rassegnata più volte ha saputo trasformarla in tolleranza e talento per le co-abitazioni. Esiste certo un razzismo di pregiudizio, anche a Napoli diffusissimo, ma che viene in concreto annullato da una prassi di vicinanza umana.
E nella sottolineatura di questo aiuta molto — nel film — la fotografia curata da Lorenzo Cioffi: le case dei napoletani sembrano case del Maghreb, il racconto delle strade e della quotidianità è quello di una città africana o mediorientale. Napoli insegna la convivenza delle diverse civiltà del Mediterraneo: quando i fedeli, numerosi, si fermano in mezzo alla strada a pregare, i commercianti di Piazza Mercato — piazza di sangue e odio dove personaggi come Corradino di Svevia e i rivoluzionari della Repubblica Partenopea furono decapitati — mostrano di rispettare la loro devozione, ammirando quel pregare quotidiano:«Vanno a messa tutti i giorni. Noi solo quando ne abbiamo bisogno».
E poi ci sono le donne, divise tra la voglia di seguire i precetti, come quello di indossare il velo, e la necessità di trovare un lavoro per cui quel velo non sarebbe ben visto. Donne tormentate nel dimostrare a chi gli è intorno che la scelta del velo non è imposta, non le fa sentire schiave ma al contrario le rafforza nell’identità e le protegge.
Il simbolo della tolleranza napoletana è poi la storia di Giovanni Yunis: proveniente da una famiglia cattolica osservante, si è convertito e si è messo a studiare l’arabo nonostante sia ormai anziano. Sua moglie, però, non si è convertita: «A me la chiamata non l’ha fatta nessuno!», ribatte con ironia mentre il marito spiega come si è sentito chiamato da Allah. Eppure i due continuano a convivere pacificamente, a dormire nello stesso letto dietro il quale campeggia l’effigie della Madonna, nelle stesse stanze in cui Giovanni stende il tappetino verso la Mecca per pregare.
La fede islamica dei protagonisti va a fondersi con la loro cultura napoletana, tanto che a volte non capiamo se i comportamenti siano frutto di uno o dell’altra. Quando una delle protagoniste chiama al telefono la madre per comunicarle che il figlio che aspetta sarà una femmina, la madre rimane delusa. E non è chiaro se questa delusione nasca dalla cultura islamica o — più probabile — da una certa cultura popolare per cui a portare fortuna è il maschio. Lo stesso dubbio lo abbiamo anche quando uno dei convertiti, emigrato in Inghilterra per trovare lavoro, spiega che ha intenzione di tornare perché, va bene il lavoro, ma non si può sempre faticare…
Popolo arabo e popolo napoletano forse hanno molto più in comune di quanto ciascuno ne abbia con il Nord Italia e il Nord Europa. Ma questa, a ben pensarci, dovrebbe essere una risorsa di dialogo e di pace. È interessante vedere anche come in alcune video-interviste precedenti — dal titolo Cercavo Maradona, ho trovato Allah — Pagano e Cioffi siano riusciti a raccontare la storia dei convertiti dei quartieri popolari, che sono passati per droga e criminalità. ma hanno imparato l’arabo per fede: l’Islam, dunque, come via di salvezza dalla vita criminale. L’Imam di Piazza Mercato incontra fedeli nuovi, persone semplici che cercano una strada, un senso, e trovano nel Corano «il libretto delle istruzioni dell’uomo», come uno di loro dice.
Napoli si sta islamizzando? Napoli è sempre stata islamica-cristiana-ebraica (prima della cacciata degli ebrei), laboratorio di genti, luogo — per dirla con Fellini — in cui è possibile trovare tutte le facce che esistono sulla terra. Benjamin scriveva che «ogni ascesa del fascismo è un fallimento della sinistra ma al tempo stesso reca testimonianza di una rivoluzione fallita». Ingiusto e improprio sarebbe paragonare queste conversioni al fascismo: ma è vero che nella scelta di vita queste persone c’è anche la traccia di un fallimento sociale. L’impegno come strada per realizzarsi, il lavoro come possibilità di crescere, il rispetto delle leggi come via per ottenere giustizia…. Tutto questo, a Napoli, è già fallito: e da molto tempo. Pagano è attento, in questo docu-film, a non lanciare allarmi sull’islamizzazione delle periferie come metafora di una conquista territoriale. Ascoltando e osservando queste persone, se ne intuisce la fame di spiritualità ed è su questa fame, l’ennesima per questo popolo, che il ponte tra Napoli e il mondo arabo si sta già silenziosamente costruendo.
L'articolo Pregare il Corano a Napoli: le storie di dieci convertiti sembra essere il primo su Roberto Saviano Online.
July 10, 2015
La giustizia che non c’è in Colombia

Credit: Luis Acosta/Getty Images.
Tre ex-ufficiali ai vertici dell’agenzia d’intelligence colombiana Das sono stati accusati di tortura psicologica nei confronti della giornalista Claudia Duque. Il processo, tuttavia, rischia di essere annullato. Un’udienza, prevista per lo scorso 24 giugno, è stata posticipata perché i tre imputati – tra cui l’ex vice-direttore della Das José Miguel Narváez – non si sono presentati. Due degli imputati, di cui si sono perse le tracce, sono ora ricercati dalla polizia colombiana, mentre non sono ancora chiari i motivi per cui Narváez non si sia recato all’udienza.
Secondo l’ong Reporters Without Borders, che si batte per la libertà di stampa nel mondo, si tratta dell’ennesimo caso in cui si cerca di ostacolare il corso della giustizia in Colombia. Claudia Duque è una giornalista investigativa. Attualmente lavora per Radio Nikzor, un’emittente radiofonica colombiana che si occupa di diritti umani. Nei suoi 23 anni di carriera giornalistica, ha scritto su casi di reclutamento minorile forzato da parte di gruppi armati legali e illegali, uccisioni e sequestri extra-giudiziali, abusi di diritti umani e corruzione.
La giornalista è una vera e propria spina nel fianco per il governo colombiano: nelle sue inchieste ha rivelato le infiltrazioni di gruppi di destra paramilitari all’interno delle istituzioni del Paese. Nell’ottobre del 2009, Duque scoprì che le guardie del corpo che le erano state assegnate, per difenderla dalle minacce di morte ricevute a causa del suo lavoro, erano in realtà spie al soldo dei servizi segreti colombiani. Alcuni report interni dell’agenzia hanno confermato che le sue guardie del corpo comunicavano ai loro superiori le attività della giornalista, riferendo tra le altre cose anche accuse infondate nei suoi confronti.
Da allora, la giornalista ha iniziato a investigare i giri di corruzione e le attività al limite della legalità all’interno della Das. Le ripetute minacce di morte a Duque e ai suoi familiari iniziarono nel 2001, in seguito alla sua inchiesta che portò alla luce il coinvolgimento dei servizi segreti colombiani nel’uccisione del giornalista Jaime Garzón, avvenuta a Bogotá nel 1999. La giornalista ha accusato gli agenti della Das di averla sequestrata nel 2001 e di essere stata perseguitata da allora. Per tre volte è stata costretta ad autoesiliarsi per salvarsi e per proteggere la sua famiglia.
In una delle minacce telefoniche ricevute, un uomo disse a Duque: “Tua figlia soffrirà, la bruceremo viva, taglieremo le sue dita e le spargeremo tutte intorno alla casa”. Dal 2001 al 2004 Duque presentò diverse denunce, ma solo nel 2011 è stata aperta un’inchiesta. Il caso Duque inoltre è stato macchiato da irregolarità sin dall’inizio. Nel giugno 2014, Radio Nizkor ha rivelato che alcuni documenti cruciali per l’inchiesta erano stati fatti scomparire.
Non è la prima volta che la Das viene accusata di violazioni alla libertà di espressione, corruzione e altri abusi. Nel febbraio del 2015, l’ex capo della Das Maria del Pilar Hurtado è stata incarcerata a Bogotá, a causa della sua implicazione in uno scandalo di intercettazioni illegali e minacce nei confronti degli oppositori dell’ex presidente colombiano Alvaro Uribe, al potere dal 2002 al 2010.
“Siamo molto preoccupati per la sicurezza di Duque, che l’anno scorso è stata nominata tra i nostri 100 eroi dell’informazione“, ha detto Virginie Dangles di Reporters Without Borders. “Condanniamo i tentativi di ostruzione giudiziaria nell’investigazione sul suo sequestro e sulle minacce ricevute dal 2001. È inaccettabile che il sistema di giustizia colombiano non sia capace di punire i responsabile di queste minacce. Purtroppo conferma l’impunità di cui godono coloro che commettono crimini contro i giornalisti in Colombia“.
Nell’indice sulla libertà di stampa redatto dall’Ong Reporters Without Borders, la Colombia è al 128esimo posto su 180 Paesi. Nel giugno del 2015, l’ufficio colombiano dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha espresso solidarietà con la giornalista e ha chiesto alle autorità colombiane di fare in modo che il processo si svolga nel modo più trasparente possibile e senza interruzioni.
Per il suo coraggio, Claudia Duque ha ricevuto numerosi premi internazionali, tra cui il Journalistic Courage Award dell’organizzazione statunitense International Women’s Foundation. Nel 2010 è stata nominata membro onorario dell’Unione nazionale dei giornalisti britannici.
Redazione The Post Internazionale – Lorena Cotza
L'articolo La giustizia che non c’è in Colombia sembra essere il primo su Roberto Saviano Online.
Viaggiare nel paese della sciatteria
Ci sono alcuni aspetti di un paese che è inutile nascondere. Vengono fuori quando meno si ha voglia di mostrarli. In Italia la sensazione che tutto si lasci vivere e che nulla proceda secondo un progetto è fortissima. Si manifesta sotto forma di malessere per chi ci abita e lavora e sotto forma di insofferenza per chi ci torna dopo aver vissuto e lavorato altrove.
Non ci si sente più paese se non per quei moti di razzismo che portano a temere un’invasione via mare imminente, ma prima, negli anni Novanta l’invasione la si temeva via terra dalla Polonia, poi dall’Ucraina. Ormai è divenuto superfluo ricordare i nostri avi, che stipati in navi come bestie, traversavano l’oceano non “per cercare fortuna”, come siamo soliti dire per conferire al dramma di dover abbandonare la propria terra un’aura di romanticismo, ma per vivere.
E ora, a viaggiare per l’Italia, la sensazione che si ha è di una casa in cui chi ci vive aspetta sempre che sia qualcun altro a ripulire dopo una serata di bagordi. Attraversare l’Italia in auto, come spesso mi capita di fare, ha un effetto fisico su di me. Si passa attraverso paesini che non contano più di seicento abitanti in cui l’unico parco giochi per bambini è inondato di sole, nemmeno un albero. Costruzioni in legno come fossimo in nord Europa, ma sole mediterraneo. Nessun bambino potrà mai utilizzare quelle aree che vanno in rovina, logorate da pioggia, neve e sole. E mi domando, ma chi le ha progettate avrebbe fatto lo stesso se si fosse trattato del giardino della propria casa? E mi rammarico pensando che nemmeno laddove potrebbe essere semplice gestire la cosa pubblica, si hanno risultati virtuosi.
Facile lamentarsi di come vengano gestiti (male) città e paesi sovrappopolati, ma assurdo notare come per i piccoli comuni le cose non cambino. E anzi è proprio lì che la cattiva politica è tanto più evidente. È proprio lì che capisci quanto siano inadeguati molti amministratori. È proprio in un comune di seicento abitanti con un parchetto per bambini che non ha un ramo a fare ombra che ti rendi conto di come il nostro paese patisca più che la crisi economica, la sciatteria.
Ma se in Italia non ci arrivi in mare e se non viaggi in auto, se raggiungi il primo scalo italiano e il settimo d’Europa – sto parlando di Roma Fiumicino, con un traffico di passeggeri che ha sfiorato i quaranta milioni nel 2014 – trovi un aeroporto che non si è ancora ripreso dall’assurdo incendio del 7 maggio 2015 al terminal 3, che ha paralizzato per settimane il traffico aereo in entrata e in uscita diretto e che ancora crea disagi, soprattutto adesso che è periodo di viaggi. E tutto per un condizionatore che ha fatto saltare la rete elettrica, un condizionatore per il quale, a quanto sembra, era già scattato diverse volte l’allarme di surriscaldamento. E non è vero che tutto è tornato alla normalità, anche se diranno che i turisti diminuiscono per gli echi di Mafia Capitale e non per i disagi creati dal dover trascorrere in aeroporto mezza giornata per recuperare bagagli.
Questa è l’Italia che fa cattiva pubblicità all’Italia: l’incapacità di far fronte immediatamente a un imprevisto. L’incapacità stessa di gestire gli imprevisti. L’incendio di Fiumicino non ha fatto vittime, fortunatamente, ma ha lasciato un paese monco di un hub fondamentale e insostituibile.
Ora la stampa ci è tornata qualche giorno fa per dar conto di quanto ha dichiarato Loredana Musmeci, direttore del Dipartimento Ambiente dell’Istituto superiore di sanità. Secondo l’Iss, nel molo D di Fiumicino ci sono dati di diossina trenta volte superiori al limite imposto dall’organizzazione Mondiale della Sanità.
Ovviamente la smentita di Aeroporti di Roma è stata immediata. «Tutti i valori riscontrati – garantisce Adr – sono sempre al di sotto dei limiti di legge». Al di sotto dei limiti di legge a voler considerare Fiumicino un ambiente industriale, questo Adr l’ha omesso, ma cosa cambia, se la politica non controlla cosa accade nell’aeroporto più trafficato d’Italia? Nel luogo che accoglie chi in Italia sceglie di venirci? Ma che sciocco sono, se nel 2015 i dati di affluenza saranno in calo, si potrà sempre dare la colpa all’arresto di Carminati e Buzzi e, ovviamente, a chi lo ha raccontato.
L'articolo Viaggiare nel paese della sciatteria sembra essere il primo su Roberto Saviano Online.
Tortura, è di nuovo uno sporco pantano
È di nuovo pantano. Ancora un rinvio. Ancora incertezza. Ancora pressioni. Il disegno di legge per l’introduzione del reato di tortura è stato nuovamente modificato dalla Commissione Giustizia del Senato e, se l’aula approverà le modifiche, dovrà tornare alla Camera.
Si torna indietro, ad una parte del testo originario cambiando un singolare in plurale. La grammatica, nei testi legislativi, ha un valore pregnante anche nelle più piccole sfumature. Sfumature solo apparentemente lievi, che nei fatti hanno il peso di macigni pronti a travolgere la realtà.
Il reato di tortura torna a configurarsi nelle “reiterate violenze”. Non basta un unico atto di violenza per commettere una tortura. Per spiegarla con le parole del Presidente dell’associazione Antigone, Patrizio Gonnella “andrebbe impunito il mono-torturatore, quello che per una volta ad esempio usi violenza inaudita fisica o psichica, ad esempio minaccia di morte i figli della persona sotto custodia legale”.
Un’altra modifica riguarda la riduzione della pena prevista se i fatti sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio: da cinque a quindici anni, nel primo testo, da cinque a dodici anni, nel secondo.
Le modifiche sono il frutto di un’audizione a senso unico che la Commissione Giustizia Senato ha svolto sentendo informalmente solo i vertici di tutte le forze di polizia. Fuori tutti gli altri. Quelli che, come l’associazione Antigone o Amnesty International, chiedono da anni che l’Italia si metta in linea con la Convenzione Onu approvata 26 anni fa e mai applicata dal nostro Paese, che resta uno dei pochi a non avere ancora un reato di tortura nel proprio codice penale.
A nulla sono valsi finora gli appelli delle associazioni e le oltre 50 mila firme raccolte per rispettare una definizione del reato che sia quanto più vicina a quella prevista dall’Onu. La legge è bloccata dal marzo 2013 nel gioco dei rimpalli tra le Camere, sebbene ormai costituisca un’urgenza penale.
Quella che invece non è affatto un’urgenza, è l’ipotesi in discussione in questi giorni, di aumentare le pene per i reati contro il patrimonio, come furti in appartamento o rapine. Questa è un’altra pagina delle riforme penali, che però ha poco a che fare con l’evoluzione normativa e molto di più con l’involuzione nella politica della gestione delle carceri.
L’aumento della pena non farebbe altro che riempire di delinquenti minori le prigioni italiane già sovraffollate, lasciando fuori i grandi criminali. È una risposta politica al malessere della gente, alla sensazione di insicurezza. Ma non dà risposte alla lotta al vero crimine, portando in carcere, ad esempio, i mandanti delle stragi di mafia o chi turba la democrazia di un paese con la corruzione e il malaffare.
Prendiamoci il tempo di una riflessione, ma facciamo presto del nostro codice penale il custode della giustizia, non di uno spicciolo giustizialismo.
L'articolo Tortura, è di nuovo uno sporco pantano sembra essere il primo su Roberto Saviano Online.
Infiltrati per dieci anni nelle cosche. La doppia vita dei carabinieri tra i narcos
Cambi pelle, cambi vita. Prendi il nome di un altro. Coltivi i tuoi valori di legalità di nascosto e fuori ti mostri una bestia senza scrupoli. Dieci anni così, fianco a fianco dei narcos. Per capirne il mestiere, studiarne le mosse, il linguaggio, la mimica. Studiare il giro di affari dell’economia criminale più redditizia del mondo: la produzione e lo spaccio di cocaina, mentre dentro di te batte il cuore di un carabiniere.
È stata così la vita di Maurizio Amico e Roberto Longo, soci di un’impresa creata ad hoc dalle forze dell’ordine per seguire il traffico di stupefacenti tra Sudamerica ed Europa, passando per la Calabria. I loro veri nomi non li conosciamo, ma sappiamo che nell’altra vita, quella davvero nascosta, sono un comandante dei Ros di Catanzaro ed uno del Comando provinciale di Livorno. Sono il motore umano dell’operazione “Overing”.
Una di quelle operazioni che sembra un film e non lo è. Assieme a loro un altro uomo chiave. Un pentito, un broker della droga, oggi diventato collaboratore di giustizia, che ascoltava le telefonate e le decifrava.
Nelle conversazioni molte voci di uomini. Parlano di una “ragazza”, non ne pronunciano mai il nome. Perchè “Lei” è la coca. Poi ci sono i numeri. Cifre in euro, decine, centinaia. Anche questi non sono soldi, sono quantità che indicano il peso. Quanti chili di coca dal Sudamerica arrivano in Europa? Tot euro alla ragazza. È la risposta in codice. Ma ce ne sono altre di conversazioni incomprensibili, finite nelle carte della Procura distrettuale Antimafia di Catanzaro che ieri all’alba ha fatto partire 44 arresti tra Vibo Valentia, Colombia e Venezuela. Il traffico di stupefacenti faceva capo alla potente cosca della ‘Ndrangheta dei Mancuso, nel vibonese.
Il viaggio della droga prevedeva diverse tappe: iniziava in Colombia, in Venezuela o in Cile, passava per la Spagna, dove avveniva il pagamento, poi raggiungeva Spilinga, un comune del vibonese di 1500 abitanti, dove aveva sede la raffineria in cui si lavorava la droga.
Un passo alla volta, documenti, telefonate, contatti, indagine su indagine, i carabinieri hanno scoperto i mezzi e i trucchi per trasportare la coca grezza in Europa. Il metodo più usato era quello di sciogliere la droga e utilizzare vestiti imbevuti di cocaina, attraverso un procedimento chimico, per trasportarla oltreoceano. Una volta giunta in Calabria nella raffineria si provvedeva a recuperarla con un procedimento inverso, raffinarla, tagliarla e immetterla sul mercato del Nord Italia e degli altri paesi europei.
Altra droga viaggiava attaccata sotto le forniture di piastrelle o all’interno di travi in legno imbevute di cocaina. Nel traffico di stupefacenti era coinvolto anche un gruppo criminale albanese con base vicino a Roma, a cui era destinata una parte della “roba” da indirizzare su altri mercati. Un traffico internazionale complesso e ricchissimo, che ha portato al sequestro di 600 chili di cocaina.
Una trama da film, ma come sempre alla realtà va riconosciuto il potere di superare la fantasia.
Redazione RSO – Silvia Savi
L'articolo Infiltrati per dieci anni nelle cosche. La doppia vita dei carabinieri tra i narcos sembra essere il primo su Roberto Saviano Online.
Infiltrati per dieci anni nelle cosche. La doppia vita del carabiniere tra i narcos
Cambi pelle, cambi vita. Prendi il nome di un altro. Coltivi i tuoi valori di legalità di nascosto e fuori ti mostri una bestia senza scrupoli. Dieci anni così, fianco a fianco dei narcos. Per capirne il mestiere, studiarne le mosse, il linguaggio, la mimica. Studiare il giro di affari dell’economia criminale più redditizia del mondo: la produzione e lo spaccio di cocaina, mentre dentro di te batte il cuore di un carabiniere.
È stata così la vita di Maurizio Amico e Roberto Longo, soci di un’impresa creata ad hoc dalle forze dell’ordine per seguire il traffico di stupefacenti tra Sudamerica ed Europa, passando per la Calabria. I loro veri nomi non li conosciamo, ma sappiamo che nell’altra vita, quella davvero nascosta, sono un comandante dei Ros di Catanzaro ed uno del Comando provinciale di Livorno. Sono il motore umano dell’operazione “Overing”.
Una di quelle operazioni che sembra un film e non lo è. Assieme a loro un altro uomo chiave. Un pentito, un broker della droga, oggi diventato collaboratore di giustizia, che ascoltava le telefonate e le decifrava.
Nelle conversazioni molte voci di uomini. Parlano di una “ragazza”, non ne pronunciano mai il nome. Perchè “Lei” è la coca. Poi ci sono i numeri. Cifre in euro, decine, centinaia. Anche questi non sono soldi, sono quantità di peso. A quanti chili viaggia la coca dal Sudamerica all’Europa? Tot euro alla ragazza. È la risposta in codice. Ma ce ne sono altri, finiti nelle carte della Procura distrettuale Antimafia di Catanzaro che ieri all’alba ha fatto partire 44 arresti tra Vibo Valentia, Colombia e Venezuela. Il traffico di stupefacente faceva capo alla potente cosca della ‘Ndrangheta dei Mancuso, nel vibonese.
Il viaggio della droga prevedeva diverse tappe: iniziava in Colombia, in Venezuela o in Cile, passava per la Spagna, dove avveniva il pagamento, poi raggiungeva Spilinga, un comune del vibonese di 1500 abitanti, dove aveva sede la raffineria in cui si lavorava la droga.
Un passo alla volta, documenti, telefonate, contatti, indagine su indagine, i carabinieri hanno scoperto i mezzi e i trucchi per trasportare la coca grezza in Europa. Il metodo più usato era quello di sciogliere la droga e utilizzare vestiti imbevuti di cocaina, attraverso un procedimento chimico, per trasportarla oltreoceano. Una volta giunta in Calabria nella raffineria si provvedeva a recuperarla con un procedimento inverso, raffinarla, tagliarla e immetterla sul mercato del Nord Italia e degli altri paesi europei.
Altra droga viaggiava attaccata sotto le forniture di piastrelle o all’interno di travi in legno imbevute di cocaina. Nel traffico di stupefacente era coinvolto anche un gruppo criminale albanese con base vicino a Roma, a cui era destinata una parte della “roba” da indirizzare su altri mercati. Un traffico internazionale complesso e ricchissimo, che ha portato al sequestro di 600 chili di cocaina.
Una trama da film, ma come sempre alla realtà va riconosciuto il potere di superare la fantasia.
Redazione RSO – Silvia Savi
L'articolo Infiltrati per dieci anni nelle cosche. La doppia vita del carabiniere tra i narcos sembra essere il primo su Roberto Saviano Online.
July 9, 2015
Ecco cosa rischiano i giornalisti e i blogger in Iran

Foto Getty Images
Nell’ultimo mese le Guardie Rivoluzionarie iraniane, che controllano sia l’esercito che le forze paramilitari del Paese, hanno intensificato la sorveglianza sui social network e sui blog degli attivisti. Per questo motivo, l’otto giugno scorso la Corte Suprema Iraniana ha annunciato l’arresto di “alcuni individui” colpevoli di “atti contro la sicurezza nazionale”.
Tra questi ci sono Mahmud Moussavifar e Shayan AkbarPour, due attivisti che gestivano la pagina Facebook “Rahian” e il blog “Rahi”, oggi reso inaccessibile. Dall’inizio del governo del conservatore moderato Hassan Rouhani nel 2013, si contano almeno 100 arresti di attivisti digitali, nonostante il Presidente abbia più volte promesso il loro rilascio. I detenuti sono costretti a scontare pene lunghissime, e spesso basta la testimonianza delle Guardie Rivoluzionarie per condannarli.
Solo nel giugno 2009, dopo la contestata rielezione di Mahmoud Ahmadinejad, almeno 300 tra giornalisti e attivisti sono stati arrestati arbitrariamente e torturati. La maggior parte di loro è ancora in carcere. Shahi Savandi Shirazi, arrestata nel 2013 ma rilasciata in seguito, ha raccontato a Reporters Without Borders che in prigione è stata torturata e minacciata di stupro. Anche una volta tornati in libertà, i giornalisti non possono più esercitare la professione.
Con più di 40 milioni di utenti, l’Iran è il Paese mediorientale con più connessioni a Internet. Rispetto ai tempi di Ahmadinejad, oggi la rete è meno controllata dal governo. Tuttavia, le Guardie Rivoluzionarie amministrano ancora l’enorme business della Compagnia di Telecomunicazioni dell’Iran (TCI), la principale compagnia telefonica del Paese. Questa si occupa soprattutto dei servizi della rete.
Internet ha dato la possibilità a molti blogger iraniani di creare un’informazione indipendente e di cercare di contrastare il governo, ma è anche un canale facile da controllare. Per questo le prime vittime del liberticidio condotto dalle Guardie Rivoluzionarie sono gli attivisti digitali. Per esempio, nel dicembre 2013 l’intero staff del sito Narenji è stato condannati a pene dai 2 agli 11 anni con l’accusa di “collaborare con i media nemici”. Per ora solo sei di loro hanno ottenuto un rilascio condizionato.
Un’altra categoria a rischio sono gli iraniani con una doppia cittadinanza. In molti casi, questi hanno subito delle condanne a molti anni di prigione solo per aver pubblicato su Facebook dei post “scomodi” al governo. Tra questi c’è Roya Saberi Negad Nobakht, cittadino iraniano e inglese, condannato a 20 anni nel maggio 2014. Ad aprile 2015 la condanna è stata ridotta a 5 anni. Per Farideh Shahgholi, che ha la doppia cittadinanza iraniana e tedesca, la sentenza è stata di 3 anni. Secondo l’indice 2015 di Reporters Without Borders, l’Iran è al 173esimo posto su 180 Paesi per la libertà di stampa.
Redazione The Post Internazionale – Eleonora Cosmelli
L'articolo Ecco cosa rischiano i giornalisti e i blogger in Iran sembra essere il primo su Roberto Saviano Online.
July 8, 2015
Migrazioni, crescono più gli italiani all’estero che gli immigrati in Italia
“Gli immigrati invadono il nostro paese” è un preconcetto. “Nel 2014 gli emigrati italiani all’estero sono cresciuti più degli immigrati in Italia” è un dato di fatto. La differenza tra un preconcetto e un dato di fatto è che il primo crea una visione distorta della realtà, il secondo ci aiuta a formarci un’opinione.
Per formarci un’opinione corretta sul tema dell’immigrazione ci vengono in aiuto in questi giorni le anticipazioni del rapporto IDOS, il Dossier statistico immigrazione 2015, che sarà pubblicato in autunno.
Lo studio ci riporta un dato importante che è anche una novità assoluta degli ultimi 20 anni nella bilancia italiana interna dei flussi migratori. Nel 2014 il numero di emigrati italiani all’estero è cresciuto più del numero di immigrati stranieri in Italia: lo scorso anno gli italiani residenti all’estero sono aumentati di 155 mila unità mentre gli immigrati residenti stabilmente nel nostro Paese sono 92 mila in più.
Complessivamente gli italiani che vivono fuori dai confini nazionali sono 4.637.000, un numero sempre più vicino a quello degli stranieri che vivono in Italia, che oggi sono poco più di 5 milioni. E c’è una capitale europea, Londra, che ha adottato un’intera comunità di 250 mila connazionali e che per questo può considerarsi la tredicesima città italiana.
L’altro dato su cui è bene riflettere è il numero di profughi che è arrivato in Italia nel 2014, 170 mila, sbarcati quasi tutti dall’Africa e dall’Asia e per la gran parte migranti di passaggio, diretti verso altri paesi. Mentre sono aumentati anche gli italiani che nel corso del 2014 si sono cancellati dai comuni di residenza per andare ad abitare all’estero (89 mila).
Il dossier svela altri dati interessanti. Ad esempio, che tra gli italiani all’estero ci sono meno ultrasessantacinquenni che tra gli italiani residenti in Italia. Perchè le valigie le fanno soprattutto i giovani. L’84,4 per cento dei ragazzi italiani tra i 19 e i 32 anni è disponibile a trasferirsi all’estero per migliorare le proprie prospettive di lavoro, secondo quanto ha rilevato un’indagine recente dell’Istituto Giuseppe Toniolo.
Non si parte più con la valigia di cartone, ma con una laurea in tasca. E tra i giovani del Sud solo il 16 per cento preferisce restare in Italia. Tutti gli altri sono pronti a volare via. Il problema oggi non è come respingere gli immigrati, ma come trattenere gli italiani.
L'articolo Migrazioni, crescono più gli italiani all’estero che gli immigrati in Italia sembra essere il primo su Roberto Saviano Online.
La paura del governo spagnolo imbavaglia la libertà d’espressione
I cittadini che partecipano a manifestazioni non autorizzate sono puniti con una multa di trentamila euro. Se la protesta si svolge fuori degli edifici governativi, la multa arriva a 600 mila euro. Chi disobbedisce o resiste alle autorità o alla polizia può essere multato da 600 a 30 mila euro. La multa può essere applicata direttamente dagli agenti di polizia, senza giudizio in tribunale.
Non si possono bere alcolici per strada. Non si possono fare e diffondere immagini della polizia. È proibito fare appelli alle manifestazioni di piazza su Twitter, Facebook e Instagram. Sono previste pene tra 600 e 30 mila euro per chi si oppone ad uno sfratto o per chi è sorpreso a fumare marijuana in un luogo pubblico.
Non è la Spagna di Franco del secolo scorso, è la Spagna del 2015 di Mariano Rajoy. Ad un anno dalle elezioni il Governo iberico ha deciso di dare una stretta alla libertà di espressione e alla libera possibilità di critica, approvando una legge che non ha precedenti tra gli stati europei dalla fine delle dittature totalitariste.
Un balzo nel passato che trova giustificazione nella paura del primo ministro che il suo partito maggioritario, il Partito Popolare, perda terreno davanti alla crescente insoddisfazione per la politica interna, che non sta dando i risultati sperati sul fronte dell’uscita dalla povertà e dalla disoccupazione.
Ragioni che sono spiegate molto bene nell’articolo del giornalista spagnolo Miguel Mora che potete leggere qui e che giustificano il nome con cui gli spagnoli hanno ribattezzato il provvedimento: ley mordaza, legge bavaglio.
Quando un governo ha paura dei propri cittadini allora non si sente più legittimato a proporsi alla guida del paese in forza delle politiche attuate e dei risultati ottenuti, ma cerca legittimazione al proprio potere con l’imposizione di sé e l’annientamento della critica.
Chiudersi al confronto con i cittadini è l’anticamera alla trasformazione di una democrazia in uno stato autoritario. Mostrare paura è mostrare debolezza. E il governo spagnolo attraversa un momento di grande incertezza, su cui incombe la crisi greca e con essa l’intera crisi dell’Europa e dei valori democratici.
Quello che arriva dalla Spagna è un pessimo segnale per la tenuta dei diritti civili in tutti i paesi dell’Eurozona. È l’ennesima prova, come la crisi greca, la diffusione della corruzione, l’assenza di una politica condivisa nella gestione del fenomeno delle migrazioni, le minacce alla libertà di stampa (oggi in Italia un altro giornalista, Nello Trocchia, è stato minacciato e ha bisogno di una scorta) che l’Europa si sta chiudendo su se stessa, incapace di produrre prospettive di progresso.
E così tornano i fantasmi del passato, gli stati di polizia, la stretta sulle libertà fondamentali. Se dagli altri paesi non si leverà una voce contro questa deriva autoritaria, la ley mordaza imbavaglierà presto tutti noi.
L'articolo La paura del governo spagnolo imbavaglia la libertà d’espressione sembra essere il primo su Roberto Saviano Online.
Firmate per la libertà di Raif Badawi. È anche la nostra.
Raif Badawi non sopporterà altre 50 frustate dopo quelle che gli sono state inferte a gennaio. Ne è certa la moglie Ensaf Haidar, che dopo l’arresto e la condanna del marito a 10 anni di carcere e mille frustate, è scappata in Canada con i tre figli per aver ricevuto minacce di morte. Ensaf sa che la salute cagionevole del marito impedirà al suo corpo di reggere altri colpi, mentre la sua vita e quella della sua famiglia è già stata distrutta da una condanna ingiusta.
Raif Badawi è stato condannato dalla Corte suprema dello stato arabo per la sua attività di blogger. Allo stato islamico non sono piaciute le sue critiche ad alcuni rappresentanti religiosi e l’aver sollevato il sospetto che nell’Università Islamica Saudita di Riyadh si formassero dei terroristi.
Il suo avvocato ha portato il caso all’attenzione dell’Osservatorio saudita sui diritti umani. Un atto di denuncia che gli è costato l’arresto per aver preso contatti con “un’organizzazione non autorizzata”.
La restrizione della libertà di espressione da parte delle autorità saudite è una sorta di ragnatela che da Badawi si allarga a tutti coloro che gli sono vicini e che ne sostengono le ragioni.
Ma è una ragnatela che non può immobilizzare le migliaia di persone e le organizzazioni internazionali che in tutto il mondo si sono mobilitate per salvare Badawi. Tra queste c’è Amnesty International Italia che in questi giorni ha rinnovato il suo appello all’ambasciatore dell’Arabia Saudita in Italia affinchè la condanna venga sospesa e Badawi rilasciato.
“Nel sacro mese di Ramadan, dedicato alla preghiera e alla compassione, vogliamo rivolgere un appello al senso di umanità e alla saggezza di Sua Maestà Salman bin Abdel Aziz Al Saud, affinché Egli prenda la decisione di rilasciare Raif Badawi. È nostra convinzione che Raif Badawi abbia esercitato il suo diritto alla libertà di espressione, pubblicando su Internet opinioni e commenti che non hanno causato danno alla reputazione del Regno né alla religione professata dalla popolazione. La moglie e i tre figli di Raif Badawi, attualmente in Canada, aspettano di poterlo riabbracciare”.
Questo è il testo dell’appello che ho sottoscritto assieme a molti altri giornalisti, scrittori e associazioni.
Difendere la libertà di espressione di Raif Badawi, significa difendere la nostra libertà e il nostro diritto a conoscere i punti di vista e le opinioni altrui.
Fatelo anche voi. L’appello si può sottoscrivere qui.
L'articolo Firmate per la libertà di Raif Badawi. È anche la nostra. sembra essere il primo su Roberto Saviano Online.
Roberto Saviano's Blog
- Roberto Saviano's profile
- 1304 followers
