Roberto Saviano's Blog, page 18
August 26, 2015
LA CALABRIA ERRANTE DI TETI IN “TERRA INQUIETA”
C’è sempre un carico di sofferenza da affrontare nel viaggio se il luogo da attraversare è il Sud. Che sia un viaggiare al Sud, per il Sud o lontano dal Sud, il fardello non manca mai. È un’impronta che quei luoghi si portano appresso e che giunge da lontano, dalla storia, dalla geografia, dalla morfologia della terra e delle persone che la vivono. Ma è una sofferenza che non incute paura, semmai voglia di capire, approfondire per studiarne l’origine, la trasmissione e i tanti modi per affrontarla e convertirla in ricchezza.
Lo scrittore Vito Teti ci regala un’ennesima profonda lettura di questi temi, in chiave letteraria ed antropologica, nel suo ultimo libro pubblicato da Rubbettino “Terra inquieta – Per un’antropologia dell’erranza meridionale”.
Ogni libro di Vito Teti è una benedizione. Il suo racconto del Sud, dell’erranza meridionale, è fatto attraverso racconti antropologici: uomini che emigrano sperando nella fortuna americana, donne che ascoltano in sogno San Giorgio che consiglia come scannare il drago. Anche questo è un libro letterario bellissimo come tutta la produzione di Teti.
Spiega nella prefazione l’autore che “la parola «erramo», che ascoltavo ancora da bambino e che ritorna nelle parlate e nelle tradizioni orali, dal greco éremos (deserto, solitario, privo di tutto) indica l’errante, il profugo, il ramingo, la persona abbandonata e priva di tutto”.
Lo sfondo del viaggio è la Calabria, la regione priva di tutto, della stabilità della sua terra franosa, della perseveranza della politica quasi sempre parassita e inadeguata, della stanzialità delle sue genti, costrette ad essere raminghe, “mobili e precarie” sempre nei secoli andati come tuttora.
La predisposizione al viaggio viene riscoperta nella cultura tradizionale calabrese, nell’abitudine a spostarsi per seguire i cicli naturali della campagna o per i pellegrinaggi religiosi da un paese all’altro.
Dall’Ottocento in poi il viaggio è diventato emigrazione ed ha portato con sé il fenomeno della duplicazione delle origini. È nella memoria e nella ricerca delle proprie radici altrove che si consumano i momenti di maggiore felicità per il migrante, momenti intrecciati indelebilmente con la nostalgia. Sono le pagine più allegre di questo viaggio, dove si parla del cibo, della cucina come vicinanza e solidarietà. Nei racconti di Corrado Alvaro, ampiamente citati da Teti, il cibo rende possibile il legame con la propria terra, soprattutto nei figli degli emigrati che di quella terra hanno solo sentito parlare. È così che si inventa la nostalgia.
Nella sua ricerca errante, dopo aver ricordato la natura debole della geologia calabrese, Teti rimarca e denuncia il lato antropico della devastazione: “il paesaggio è stato sconvolto da case incompiute, costruzioni mai utilizzate, depuratori mai aperti, ponti e bretelle di cemento inutili, palazzi e capannoni mai usati. Una mescolanza di incuria, ruberie, interessi illegali che ha visto complici e collusi, in vario modo, criminalità organizzata e ceti politici, dirigenti e funzionari dello Stato e degli enti pubblici locali, amministratori e sindaci, imprenditori e costruttori, tecnici e professionisti. L’elenco di queste macerie incompiute sarebbe davvero lungo”.
Ci vogliono grandi catastrofi naturali o indotte dall’uomo perché la Calabria, come il Sud intero, siano scoperti e raggiunti dal resto del mondo. Ne è testimone la fotografia di Wim Wenders, il forestiero che scoprì la Calabria e la raccontò con il suo filtro ottico artificiale, di un realismo inarrivabile all’occhio umano. Il libro va letto anche per questo, per il suo ricco accompagnarsi di testi e fotografie, che ne fanno un’opera utile, appagante, imperdibile.
Redazione Silvia Savi
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August 22, 2015
Una parrocchia da commissariare
Gran rumore per il funerale di Vittorio Casamonica. Ma sono scene che non dovrebbero sorprendere. Stupore per cosa? Perché un boss viene celebrato come un re? Perché il rito del funerale si trasforma in una oscena manifestazione di potere?
Non bisogna farsi illusioni. La partecipazione di quella piccola folla nella periferia romana è stata sincera, non è stata costretta né spinta dalla curiosità per la morte di una celebrità o dalla voglia di partecipare a un evento. Si va ad omaggiare don Vittorio Casamonica perché don Vittorio anzi Zio Vittorio ha saputo “governare” il suo regno nascosto, è stato presente nelle vite di chi lo va a salutare.
Le organizzazioni criminali sono strutture serie in grado di organizzare il consenso, mantenere la parola, distribuire ricchezze, intervenire nel momento in cui non solo gli affiliati ma il proprio territorio ha necessità. Nel vuoto dello Stato esiste un anti-Stato criminale che riesce a generare consenso tra la sua gente anche se il suo “governo” vuol dire estorsioni, usura, droga, violenza. È un anti-Stato in grado di portare soldi, e molti, ai capi ma anche diffusione di benessere e controllo del territorio. È paradossale dirlo, ma è vero: se domani l’economia criminale sparisse da questo Paese, il Paese ne avrebbe un contraccolpo non solo economico ma organizzativo. La classe dirigente mafiosa in Italia ha una sua terribile efficienza.
Ecco perché il funerale di un capo-clan non è semplicemente una messa in scena, un’ostentazione kitsch di opulenza e dominio. Tutt’altro: i Casamonica sono una mafia emergente, emergente non perché sono dei novizi ma perché dopo decenni di crimine subalterno e gangsteristico hanno cercato di strutturarsi in regole e gerarchie e hanno quindi costruito una cultura ed un’economia mafiosa attorno al proprio sangue e al proprio gruppo. L’ambiguità di criminali di piccolo cabotaggio ma tutto sommato in grado di farsi ascoltare in borgata li ha resi interlocutori della politica (la cena con Poletti e le foto con Alemanno) al punto da potersi permettere di sedersi al tavolo stesso del Palazzo come borderline tra la strada – il carcere e il (finto) impegno sociale. Quindi i Casamonica come tutti i gruppo neo-mafiosi hanno bisogno come ossigeno di queste celebrazioni. Anche la musica del Padrino è il riferimento più chiaro a chi vuole in tutti modi mostrare che è uscito dal marciapiede e dai campi e si è eletto a gruppo mafioso.
La chiesa di papa Francesco ha scomunicato i mafiosi, ha spinto ‘ndranghetisti in carcere a non presentarsi alla messa temendo che il solo partecipare potesse significare agli occhi dei vertici dell’organizzazione una dichiarazione di distanza dalle cosche. Ora la chiesa di Francesco deve fare un nuovo passo: commissariare la chiesa di San Giovanni Bosco. Non so se le regole vaticane prevedono misure simili, non so se è il termine adatto, non mi riferisco al diritto canonico. Sarebbe però un gesto in grado di interrompere il legame tra sacramenti religiosi e sacramenti mafiosi. Il sacramento mafioso è l’utilizzo dei rituale religioso per avere un’investitura pubblica, per trovare uno spazio legittimo per manifestare se stessi e la propria forza e autorità. Don Peppino Diana ne fece la sua battaglia: quella di impedire che battesimi, comunioni, cresime divenissero occasioni di autocelebrazione criminale. Fu proprio questa sua scelta che lo condannò a morte.
Il parroco che ha celebrato il funerale di Vittorio Casamonica, don Giancarlo Manieri, risponde nel più classico dei modi: “Non sapevo chi fosse”. E ha aggiunto: “Il perdono c’è per tutti. La chiesa non discrimina, io l’assoluzione la do a tutti”. Strano: la stessa chiesa che ha spalancato le porte al clan Casamonica le ha chiuse invece a Welby “colpevole” di aver scelto di lasciare una vita diventata per lui insopportabile.
Questa volta il sacerdote ha deciso invece di celebrare il funerale. Bene. Ma avrebbe dovuto rifiutarsi di farlo quando si è trovato di fronte ad un teatro del genere. La scomunica di papa Francesco non è contro l’uomo, non si rivolge all’individuo. La scomunica non è all’assassino, all’estorsore, all’affiliato, al sindaco corrotto, al giudice compromesso, al boss, la scomunica è contro chi continua a sostenere l’organizzazione. La scomunica è all’assassinio, all’estorsione, alla tangente, alla corruzione quindi alla prassi mafiosa.
Ieri quel funerale è apparso come pura prassi mafiosa. L’assoluzione che doveva andare all’uomo è stata estesa, di fatto, al suo sistema di potere criminale. Roma è una città impreparata. La trasformazione è accaduta raccontandosi la menzogna di essere territorio immune, semplicemente “invaso” da rubagalline e bande. La stessa favola che vede piangere miseria le donne dei Casamonica nella perfetta tradizione mafiosa, nella quale i grandi capi risultavano essere dipendenti di fruttivendoli, si dichiaravano semplici contadini con una giovinezza di rubamacchine.
Roma ha sempre creduto di essere estranea alle dinamiche mafiose. Del resto il suo gruppo più forte si chiamava appunto “Banda della Magliana”, banda è qualcosa di molto diverso da una cosca mafiosa. Ma l’inchiesta su Mafia capitale ha obbligato la città a un brusco risveglio. I funerali di giovedì sono una allarmante conferma di cosa rischia di diventare la prima città d’Italia. Anzi di cosa è già: terra di mafia.
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August 21, 2015
I nostri genitori, cicale del XX secolo
Ho trentacinque anni ancora per circa un mese e sono dantescamente nel mezzo del cammin di nostra vita, salva la necessaria considerazione dell’innalzamento dell’aspettativa di vita. Sono abituato a fare bilanci, perché da quasi dieci anni le persone che incontro mi chiedono spesso di guardarmi dietro, di riflettere su quello che ho fatto e chiedermi se ne sia valsa la pena. Sono stato sollecitato a riconsiderare anche il passato più che prossimo, quindi con i bilanci sono abituato a convivere.
Ultimamente mi sono chiesto se la mia storia personale sia sovrapponibile a quella dei miei coetanei, a quella della mia generazione, per usare un termine cui sono affezionati i nostri padri. Io che non vivo la quotidianità da molto tempo – non per mia scelta – ma che per questo vengo spesso accusato di parlare di cose che non conosco, sento la necessità di calarmi nella normalità della mia generazione, poiché noi tutti, anche io dunque, siamo quelli nati con un debito pro-capite già oltre la soglia di guardia e che nel tempo della nostra adolescenza è andato progressivamente crescendo, per poi esplodere quando ci siamo affacciati al mercato del lavoro.
La storia del debito è vicenda da economisti, dunque lungi dal volerla volgarizzare. Eppure, ciò che resta all’osservatore profano è la ovvia verità di alcune considerazioni: la mia generazione è per certi versi tanto avventurosa e disposta a lasciarsi casa alle spalle, perché costretta, quanto quella dei nostri nonni, che oggi spesso non ci sono più. Tra loro che hanno accumulato la ricchezza del Paese, cavalcandone l’industrializzazione, e noi attoniti spettatori della desertificazione di quello scenario – con l’urgenza di riadattarlo a una realtà che sia vitale, e non una ineluttabile successione di macerie più o meno figurate – c’è un filo rosso. I nonni si trovarono al cospetto di un Paese distrutto economicamente e fiaccato da venti anni di dittatura, con tutto quanto questo comportò in termini di compromissione morale della popolazione.
Noi, più modestamente, ci troviamo a dover riciclare gli scarti lasciati dalla generazione dei nostri genitori, le cicale del ventesimo secolo. Non è questo un discorso valido ovunque, ma in Italia ha un qualche senso: gli anni Sessanta e Settanta del Novecento hanno ovunque conosciuto una stagione di grande vitalità e i nostri padri, figli allora, combatterono una battaglia costante e senza quartiere contro i loro padri, con l’obiettivo unico della liberazione delle loro vite, nell’istruzione, nel lavoro, nell’amore e in famiglia.
Quel patrimonio di conquiste sociali e civili è oggi acquisito, ma mentre altrove quanto seminato ha continuato a dare frutti, l’Italia sembra ferma dagli anni Settanta, poiché non un passo si è fatto in quella direzione, per portare a compimento quelle battaglie e consentire la nascita di nuovi diritti. Anzi, le timidezze su conquiste ormai quasi “banali” sul piano dei diritti civili lasciano davvero attoniti (oltre a costituire materia di costante richiamo in sede europea). Questa strada interrotta – che è il frutto di un repentino adattamento alla realtà di quelle generazioni di sognatori – trova un corrispettivo, particolarmente visibile nel Mezzogiorno d’Italia, nella famelicità con la quale i figli di chi aveva accumulato hanno sperperato, distrutto, cementificato.
Ricordo negli anni Ottanta le elezioni nel mio Comune d’origine, quando i candidati al Consiglio comunale erano tutti dipendenti, o futuri tali, dei più svariati e inutili consorzi: la società meridionale stessa pareva fluttuare in un sistema non solare, ma parastatale. Si guadagnava senza lavorare o magari si iniziava a lavorare (in nero) quando, dopo pochi anni di lavoro, si andava in pensione. E quell’apparato di privilegi diffusi aveva preso il nome di diritti.
Anche per questo, quando sono arrivato all’età della ragione, il termine diritto aveva smarrito il senso, oltre che la lettera maiuscola. Lo stupido egoismo della generazione dei nostri padri trova la migliore rappresentazione nel paradosso di chi ha scavato dall’interno lo stato sociale, e la sua stessa possibilità di sopravvivenza, in ragione di una sua ipertrofica espansione: il prezzo da pagare è che molti già hanno visto i figli partire, emigrare (per usare un termine tristemente noto ai loro padri), non vedranno probabilmente i nipoti crescere e si trovano anche nella necessità di costruire attorno ai figli che restano una parvenza di stato sociale, finanziato con gli ultimi resti dei propri bagordi.
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August 13, 2015
Amare l’Italia significa dire ciò che non va
Ciò che accomuna il “Don’t fire on Italy if you love it” e l’appello del sindaco di Napoli Luigi De Magistris a «mettere in evidenza anche il bello del nostro territorio», ciò che unisce tutto questo alle autorizzazioni negate a poter girare scene di Gomorra la serie in alcuni paesi della provincia di Napoli, è la demagogia.
Quando si è opposizione, quando si sta dall’altra parte, si sottolineano solo gli aspetti di un territorio che non funzionano, quelli che vanno cambiati, e spesso l’urgenza sembra massima. Chiunque stia facendo campagna elettorale dà l’impressione che quando la sua forza politica smetterà di essere opposizione e potrà finalmente governare tutto sarà diverso a partire dalla fine immediata di inutili proclami. Chiunque faccia campagna elettorale promette che il proprio sarà il governo del fare, delle azioni e che le parole saranno messe al bando, che le promesse saranno mantenute.
Poi accade inesorabilmente che quando si va al potere il racconto della propria terra che si vuole fare, e l’unico che si accetta di ascoltare, sia tutto concentrato sulle bellezze naturali e sull’amore che ciascun italiano dovrebbe provare per la patria. Rispetto prima di tutto e a prescindere da tutto. A prescindere da come si vive, dalle opportunità, dal rispetto che a loro volta i cittadini ricevono dalle istituzioni. A prescindere dalle ingiustizie che subiscono. Per capire il concetto: quando si è al potere il racconto di ciò che funziona diventa l’unico racconto possibile e non è lontano da una normale quanto ridicola dinamica di autocompiacimento.
Ma tra l’amore che ciascun individuo prova per la propria terra, quell’amore che la politica peggiore continuamente ci invita a esternare, e la politica stessa, non esiste alcun legame. Se non la constatazione che le bellezze che siamo costantemente invitati a decantare, ai nostri amministratori, non devono nulla. Esse esistono e resistono nonostante la politica non grazie alla politica. In un Paese in cui deve essere normale amare il proprio Paese ed è considerato deprecabile sottolineare ciò che non funziona, non c’è spazio per alcun miglioramento.
Qualche settimana fa mi sono imbattuto in un video diffuso dai media inglesi. Si tratta del racconto commovente di un bambino di 8 anni, Bailey Matthews, che ha una paralisi cerebrale e che con suo padre partecipa alla gara di Triathlon nello Yorkshire. Bailey corre aiutandosi con una specie di girello, ha suo padre accanto. Giunto con molta fatica al traguardo, lascia il girello e inizia a correre con la sola forza delle gambe. Cade una volta, il padre commosso guarda ma non va in suo soccorso. Cade una seconda volta, il fotografo che è lì vorrebbe aiutarlo, ma capisce che Bailey vuole farcela da solo, e infatti si rialza e taglia il traguardo. L’ostinazione e la forza di Bailey, il coraggio di suo padre diventano una storia che invita al coraggio. Superare i propri limiti, sognare di poterlo fare, è il solo modo per vivere quando tutto sembra compromesso. Ma tutto questo può avvenire solo dove le istituzioni si assumono le proprie responsabilità. Questo può accadere dove non si parla di famiglia solo in campagna elettorale.
Ho condiviso su Facebook la storia di Bailey e in molti l’hanno commentata. Non mi aspettavo tante testimonianze di genitori che quotidianamente lottano per dare dignità alle vite dei propri figli affetti da patologie simili a quella che colpisce Bailey. Non mi aspettavo le tante testimonianze che sono arrivate di persone che lavorano per le aziende sanitarie e che spesso ammettono che «la priorità per alcuni dirigenti non è semplificare la vita a chi ne ha bisogno, ma produrre carta per giustificare i propri compensi».
Non è sempre così, naturalmente, ma è troppo facile per i nostri amministratori invitarci ad amare il nostro Paese e a non denunciare ciò che non funziona. Troppo facile e autoassolutorio. E questo non possiamo accettarlo, perché compito della politica non è solo difendere la bellezza di un territorio, ma dotare quella bellezza e l’amore per la propria terra di vivibilità. Quando questo non accade, la politica ha fallito miseramente e non deve in alcun modo appropriarsi di vittorie che non le appartengono, che non appartengono a nessuno, ma che sono patrimonio dell’umanità. Un patrimonio che la cattiva gestione sta compromettendo.
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August 12, 2015
Da Reggio Calabria a Bacoli, il Sud deturpato e intossicato che resiste
Il Sud ha piaghe aperte, mai risanate. Lo sviluppo industriale programmato ha creato più danni che ricchezze. Non c’è solo Bagnoli che, in Campania, attende da nove mesi che il governo nomini un commissario per la bonifica, promessa, sognata, mai partita. Non c’è solo lo spettro dell’altoforno dell’ex acciaieria, che ancora sforna vittime, malati di cancro ai polmoni e toglie il fiato, la vita ad ex operai. C’è di più. In Calabria una fabbrica, nata col cosiddetto Pacchetto Colombo, che risale agli anni Settanta, fu l’invenzione del governo centrale per sedare gli animi dei ribelli che, in una rivolta (quella di Reggio), volevano che la città in riva allo Stretto fosse capoluogo di regione; Roma promise sviluppo e costruì una fabbrica chimica che, dalle proteine del petrolio, doveva produrre mangimi per animali. La fabbrica costò circa 1300 milioni di lire. Assunse centinaia di operai. Aprì e 48 ore dopo chiuse. Quel mangime era cancerogeno. Lo scoprirono dopo. Non si poteva fare. Chi lo aveva scritto, come l’ingegnere che firmò la perizia, morì misteriosamente in un incidente stradale e ancora oggi attende giustizia. In realtà due giorni durò il sogno di sviluppo. Gli operai furono mandati in cassa integrazione. Furono come sospesi, per 18 anni. Il progetto fu accantonato. Guadagnò la ‘ndrangheta. L’ammasso di capannoni è rimasto. Un cimitero industriale vecchio quarant’anni. Negli anni si è pensato al porto di Saline come volano di sviluppo per la nautica, ma la ciminiera alta 174 metri è ancora lì che sovrasta sul mare. Una ferita aperta. La baia del basso Jonio è servita a far passare rifiuti tossici, a nascondere i business delle ecomafie, volute dal clan Iamonte. Ci sono ancora tonnellate di rame e di tubi e di amianto che andrebbero smaltiti. Le bonifiche però sono lontane. In Campania, nei Campi Flegrei, a Baia (nel Comune di Bacoli) c’è un’ex cava di tufo, ormai in disuso che è stata imbottita di spazzatura, lo dicono i pentiti, una sentenza della VI sezione del tribunale di Napoli, in primo grado e, soprattutto, lo attesta l’ultimo incendio avvenuto appena due giorni fa. Le lingue di fuoco hanno lambito due case. Non si fermavano. Ardevano. Bruciavano combustibile tossico. In quella conca il Nord dell’Italia, le società private del Veneto scaricavano ciò che non riuscivano a smaltire negli impianti. In provincia di Napoli, tra golfi e laghi dalla storia millenaria la ferita è ancora aperta e chi ha lucrato, chi è stato condannato in primo grado per aver imbottito la terra di veleni ha pure tentato di riciclarsi facendo nascere, sulle fondamenta della cava, resort e alberghi. Il sindaco di Bacoli neoeletto, che ha appena 28 anni, spera nella bonifica. Intanto resiste, in una terra dove l’Oms certifica che è tra gli otto Comuni della Campania col più alto tasso di neoplasie e malformazioni, anche se non ci sono discariche ufficiali, d’altronde sarebbero impensabili, non autorizzabili visto che c’è il bradisismo e il sali e scendi della terra inquinerebbe le falde. Follie umane. Ecco il Sud ferito a morte che non piange, ma resiste.
Andreana Illiano
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August 11, 2015
Da Bergamo ai narcos, l’impero di Locatelli: la primula rossa del traffico di cocaina
Bergamo fa finta di niente, ma c’è una notizia importante che la riguarda da vicino. Il principale broker di cocaina d’Europa è stato estradato dalle prigioni spagnole e torna finalmente in Italia (anche grazie al lavoro del pm Maria Cristina Rota che non ha mai mollato e ha ottenuto un risultato per molti insperato). Si chiama Pasquale Claudio Locatelli. Ed è di Bergamo.
La città sembra volerlo rimuovere, ma se dovesse pentirsi potrebbe raccontare una delle storie più complesse e intricate che lega la ricchezza imprenditoriale di quel territorio al narcotraffico, una storia sconosciuta e cruciale, una storia di un Nord segreto e, purtroppo, ignorato. È il criminale più sottovalutato degli ultimi decenni e anche il meno raccontato. Uomo di riferimento dei narcos sudamericani nel Vecchio Continente, proprietario di un’intera flotta di navi per il traffico internazionale di droga, manager capace – attraverso uomini di fiducia – di servirsi a suo piacimento di una banca italiana e di tentare la scalata a una banca croata.
L’ultima volta che ho avuto a che fare con la vicenda Locatelli è stato qualche mese fa. Dallo studio legale Mariacarla Giorgetti, professore universitario di Diritto processuale civile dell’Università di Bergamo, ricevo la richiesta del ritiro immediato dalle librerie di tutt’Italia di “ZeroZeroZero”. Vedo il cognome sul documento legale: Locatelli. A lui è dedicato un capitolo del libro. Cerco di capire. Quale arroganza poteva spingere un uomo in cella per narcotraffico a un gesto del genere? Ma a chiedere il ritiro del libro non è lui direttamente, bensì la sua famiglia, precisamente il figlio Massimiliano: è un tentativo che i familiari dei criminali fanno spesso, quello di provare a sfruttare qualche cavillo, o qualche falla della giustizia civile, per ottenere qualche vantaggio. Ma in questo caso falliscono, il giudice rigetta la richiesta.
Dunque ecco la storia di Pasquale Claudio Locatelli, il re della cocaina che nessuno conosce, anche perché non è né calabrese né napoletano né siciliano né casalese. È bergamasco, e questo gli ha giovato molto per mantenere il silenzio sui suoi affari. Nasce sessantuno anni fa ad Almenno San Bartolomeo, un paesino lombardo a una manciata di chilometri da Bergamo. È un ragazzo di vent’anni quando comincia a farsi le ossa con incursioni nelle province ricche, tra Milano e Verona, per rubare macchine di grossa cilindrata.
Pensa subito in grande: organizza una rete imponente di riciclaggio di auto rubate allacciando contatti anche all’estero, dall’Austria alla Francia, impara lingue straniere (finirà per padroneggiarne quattro). Ragiona già come un imprenditore proiettato su uno scenario internazionale.
È sveglio – presto verrà soprannominato anche “Diabolik” – e capisce prima di altri che la coca è il futuro. Per i suoi traffici passati è in libertà vigilata, e sono le restrizioni al suo raggio di movimento che lo inducono a cominciare la vita del latitante. Cerca di allargare la sua fortuna là dove sa di poter trovare facilmente nuovi clienti, in Costa Azzurra. Si stabilisce in una villa a Saint-Raphaël, località più esclusiva e tranquilla della vicina Saint-Tropez. Lì Locatelli è conosciuto come Italo Salomone, i suoi ricchi vicini non sanno che la polizia francese lo sta braccando da quando ha sequestrato all’aeroporto di Nizza una valigia proveniente dalla Colombia zeppa di coca nascosta in un doppiofondo.
Solo dopo tre anni di ricerche i flic riescono ad arrestarlo nella sua villa, dove trovano anche una provvista di 41 chili di cocaina. È il 1989. Condannato per narcotraffico internazionale, finisce nel carcere di Grasse per scontare una pena di dieci anni. Ma Diabolik è un uomo di pensiero e d’azione rapida. Si rompe un braccio. Bisogna ricoverarlo, però i francesi sospettano che quell’incidente possa non essere casuale. Per precauzione non lo mandano a Nizza, ma a Lione, a quasi cinquecento chilometri di distanza dalla costa che ha battuto palmo a palmo. Accorgimento inutile. Quando il detenuto scende dal cellulare e si avvia verso l’ospedale, si materializzano tre uomini armati e mascherati che disarmano gli agenti e spariscono in un lampo assieme al detenuto. Locatelli varca il confine con la Spagna. D’ora in poi non sarà più Italo, ma Mario di Madrid, il broker dei due mondi.
Gira con una guardia del corpo e una segretaria personale, ha imparato a non dormire mai più di due notti nello stesso posto, cambia cellulari con la frequenza con cui le persone normali si cambiano i calzini. Ma non è un uomo del cartello di Medellín né del cartello di Cali. Questa è la sua caratteristica. Il bergamasco è il padrone della propria impresa, libero di stabilire da solo ogni nuovo investimento, unico responsabile dei rischi che si accolla. Non è un affiliato. Non uccide e non ordina omicidi. Lui raccoglie capitali, li investe comprando cocaina in grande quantità e nel momento più conveniente, e riesce a movimentarla ovunque. Tratta con tutti: le famiglie di Bagheria e di Gela, le ‘ndrine di San Luca e di Platì, i clan più potenti dell’area nord di Napoli.
Pasquale Locatelli e l’altro grande broker italiano Bebé Pannunzi (arrestato in Colombia) sono il Copernico e il Galileo del commercio di cocaina. Con loro cambia il modello di rotazione degli affari. Prima era la coca che ruotava intorno al danaro. Ora è il danaro che è entrato nell’orbita della coca, risucchiato dal suo campo gravitazionale. Tra una consegna di coca e un lavaggio di denaro sporco, Mario di Madrid fa crescere il suo impero indisturbato fino al 1994, ignaro del fatto che le forze dell’ordine di mezzo mondo da qualche tempo lo tengono sotto controllo.
Sta maturando, infatti, l’ultima fase di una maxioperazione coordinata tra le polizie internazionali, inclusi la Dea statunitense e l’Fbi, che porta il nome di Operation Dinero. Due anni di indagini e di operazioni segretissime, agenti infiltrati in due continenti e, come esca centrale, una banca aperta ad hoc su un’isola offshore dei Caraibi, Anguilla, per ripulire i narcodollari dei trafficanti. Una banca vera, registrata come si deve, con una sede elegante, dipendenti qualificati e competenti che sanno accogliere i clienti in molte lingue. Ma controllata integralmente dalla Dea. La Rhm Trust Bank offre tassi d’interesse da sogno, soprattutto ai clienti più facoltosi.
I narcos colombiani si fanno ingolosire. Un consulente finanziario della Dea riesce a entrare in rapporto con Carlos Alberto Mejía detto “Pipe”, legato al cartello di Cali. Mejía ci casca in pieno. Ci sarebbero, per cominciare, quasi due milioni e mezzo di dollari provenienti dal narcotraffico in Italia da reinvestire, soldi che arriveranno attraverso un socio italiano di Mejía che opera in Spagna e in Italia. Un “socio italiano”. È così che gli agenti della Dea si trovano all’improvviso e senza averlo messo in conto sulle tracce di Pasquale Locatelli. Proprio a causa di questo “socio italiano” – abilissimo nel cancellare le sue tracce ogni volta – le indagini toccano un punto morto.
Gli inquirenti decidono allora di mettergli alle costole un agente “undercover”, un agente assai particolare. È ispettore del Servizio centrale operativo della polizia italiana. Ha una formazione finanziaria affinata in anni di indagini, anche se non ha mai svolto una missione sotto copertura. È giovane, nemmeno ventisette anni, ma di presenza impeccabile. Parla fluidamente diverse lingue. Conosce i metodi più sofisticati del riciclaggio. Ma, soprattutto, è una donna. Quindi insospettabile.
Dopo un corso accelerato e personalizzato della Dea, nasce Maria Monti, un’esperta di finanza internazionale con un enorme desiderio di farsi largo in mezzo alla spietata concorrenza maschile. Maria viene catapultata in un vortice di voli in business class, trasferimenti in taxi o macchine di grossa cilindrata, alberghi e ristoranti per pochi eletti, incontri con narcos sudamericani su yacht di lusso al largo di Miami o della Costa del Sol per proporre loro servizi di riciclaggio sicuri e veloci presso la Rhm Trust Bank. Maria riesce a guadagnarsi la fiducia dei narcos e di Locatelli. Vengono fissate le prime consegne di denaro da reinvestire attraverso la banca nelle Antille: gli incontri avvengono in posti molto frequentati, come l’Hotel Jolly di Roma o il Bar Palombini all’Eur: 671.800.000 lire più cinquantamila dollari la prima volta, poi ancora due tranche da 398.350.000 e 369.450.000 lire, il tutto nel giro di un mese e mezzo.
Ma colui che ha permesso alle forze dell’ordine di arrivare fisicamente a Locatelli è un personaggio dall’aspetto rassicurante dell’avvocato di provincia, Pasquale Ciola, pugliese. È lui il vero perno degli affari di Locatelli in Italia. Grazie a Ciola, che siede nel Cda, riesce a servirsi di un’intera banca, la Cassa rurale ed artigiana di Ostuni. Seguendo Pasquale Ciola fino a Madrid, il 6 settembre 1994 la polizia arresta Locatelli al ristorante Adriano: ha con sé documenti falsi e una borsa con 130 milioni in contanti. Al suo tavolo siedono tra gli altri l’immancabile segretaria svizzera Heidi e il sostituto procuratore di Brindisi, Domenico Catenacci.
Mario di Madrid perde così oltre alla libertà anche quattro navi della sua flotta, già pronte per raggiungere le coste della Croazia cariche di droga e di armi, e molti altri pezzi del suo impero. L’Operazione Dinero, secondo i documenti della Dea, porta all’arresto di centosedici persone in Italia, Spagna, Stati Uniti e Canada. Alla fine dei conteggi, tra un continente e l’altro, vengono sequestrati circa novanta milioni di dollari in contanti e una quantità incredibile di cocaina: nove tonnellate. L’avvocato Pasquale Ciola per diciassette anni ha continuato a vivere nella sua casa di Ostuni: solo a febbraio del 2011 arriva il verdetto definitivo della Cassazione che lo condanna a sette anni e due mesi. Il magistrato Domenico Catenacci, invece, ha subito la sospensione dalle sue funzioni e un processo per associazione a delinquere, ma è riuscito a dimostrare di non aver avuto idea di chi fosse Pasquale Locatelli ed è stato prosciolto.
Mario di Madrid resiste invece ad anni di galera come un capo mafioso di antica stirpe. Passa da una cella spagnola ad una francese, ma dieci anni dopo l’arresto viene estradato a Napoli per un processo, dove incredibilmente la Corte di Cassazione ne ordina la scarcerazione: un cavillo gli dà il tempo necessario a sparire di nuovo. E infatti Locatelli non perde un minuto e si rifugia nuovamente in Spagna. E lì rimane tra fermi, scarcerazioni, libertà vigilata e latitanza.
Ma mantiene i contatti con i suoi figli rimasti in Italia, come dimostrano varie intercettazioni. Ed è pedinando il figlio Massimiliano – lo stesso che poi avrebbe chiesto il ritiro del mio libro da tutta Italia – che gli investigatori sono giunti all’ultimo e speriamo definitivo arresto di Locatelli avvenuto all’aeroporto di Madrid nel maggio del 2010 su mandato di cattura spiccato dalla Dda di Napoli. Anche Patrizio e Massimiliano vengono condotti in carcere, con l’accusa, fondata su diverse intercettazioni, di aver avuto una parte molto attiva sia nel riciclaggio che nei pagamenti stratosferici consegnati nelle mani dei trafficanti. Entrambi saranno poi scarcerati, e sono tuttora in attesa di giudizio a piede libero.
I Locatelli hanno un saldo legame con la borghesia bergamasca. Domenica 19 settembre 2010 alle Ghiaie di Bonate organizzarono a nome della loro ditta un party con molti ospiti. C’erano l’arcivescovo (che verrà per altre vicende coinvolto in un indagine sul ricoclaggio Ior) poi ben tre magistrati, un ispettore di polizia in servizio in Procura, il direttore del carcere di Bergamo e un sottoufficiale della Guardia di Finanza.
Si capisce ovviamente perché i Locatelli abbiano cercato di scongiurare l’estradizione del padre. Se parlasse cadrebbe un impero. La domanda centrale è: dove sono i soldi di Locatelli? Dove si nasconde il suo immenso patrimonio? In questo momento ha i riflettori accesi su di lui, i suoi uomini di fiducia e i suoi affari, e quindi sa che non può muovere nulla. Ma il danaro di Pasquale Claudio Locatelli deve essere trovato e deve tornare al nostro Paese.
La ricchezza del narcotraffico è una delle risorse principali che la democrazia italiana dovrebbe saper sottrarre gli imprenditori della droga. La cocaina è il petrolio nascosto della nostra economia. Togliere il danaro al mercato globalizzato della droga e reimmetterlo nel sistema economico sarebbe una grande risorsa: porterebbe molti più soldi di una nuova tassa.
Ci vuole una nuova politica e non soltanto deleghe a poliziotti e giudici. Serve nuova creatività in materia di leggi economiche per fermare l’infinito riciclaggio dei soldi sporchi. Trascurare queste risorse, come le autorità politiche stanno facendo, è una colpa di cui un giorno saranno chiamate a rispondere.
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August 10, 2015
Gomorra, parlez vous français? Gli effetti del doppiaggio
Vi siete mai chiesti quali sono gli effetti del doppiaggio su un dialogo in napoletano? Gomorra la serie è stata distribuita in 120 paesi e doppiata in molte lingue.
Sky Atlantic ha realizzato questo video clip che mette a confronto le varie traduzioni.
Poche frasi che si trasformano completamente se pronunciate in francese in tedesco in inglese o in spagnolo.
Il risultato è curioso a volte divertente ed anche un po’ paradossale.
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Cari inglesi, guardate dentro al cuore nero della City
Quando guardi a lungo nell’abisso, l’abisso ti guarda dentro. Succede anche con i bravi giornalisti, come il britannico Stephen Sackur che mi ha intervistato nel programma BBC HARDtalk.
L’incontro si è svolto durante il mio ultimo tour in Gran Bretagna per la presentazione di ZeroZeroZero nella versione inglese delle casa editrice Penguin Books.
Con il mio interlocutore ho discusso di criminalità organizzata, narcos, riciclo dei proventi illeciti del traffico di droga e di come le mafie abbiano accumulato grandi profitti grazie alla crisi greca. Ma non solo di questo.
Ho raccontato anche di come il successo di Gomorra abbia cambiato l’approccio alle mafie in Italia, di come la mia esposizione mediatica abbia mutato per sempre la vita – a me e ai miei cari. E perché, tra le mie paure, non c’è quella di morire.
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Libri in valigia: carica un selfie con il tuo libro dell’estate
Carica un selfie con il tuo libro dell’estate
Condivido spesso su queste pagine le mie letture con voi. Questa volta chiedo a voi di farlo: con l’iniziativa “Libri in valigia” sarete voi a segnalare i vostri libri a me.
Mi piacerebbe che questo spazio così prezioso possa diventare realmente un luogo di scambio di idee tra me e voi: una sorta di nostra biblioteca.
Vi va di tentare questo esperimento? Provate a farvi un selfie con un libro (e se il selfie proprio non vi va, fotografate almeno il libro, perché chi ama le parole non sempre ama anche ritrarsi).
Per il libro scegliete quello che vi pare: uno che state leggendo, quello appena finito, oppure un libro che vi è entrato nel profondo e che ci tenete a consigliare a tutti. Un libro grande, oppure piccolo, una novità, un best seller oppure una rarità antiquaria. Questa biblioteca è aperta a tutti voi.
Oltre alla foto potete postare un breve commento: andate pure a ruota libera sui temi, date spazio alle emozioni, alle contaminazioni positive di parole e di pensieri che le pagine vi trasmettono.
Proponete i vostri libri e condivideteli con me e con gli altri lettori. Fate passaparola con chi ama i libri come voi. Avete tempo fino al 31 agosto. Approfittate del mio/nostro spazio per lanciare un’epidemia di parole. Lasciatevi contagiare l’un l’altro dalla lettura. Scambiandoci libri ci infettiamo di un contagio piacevole.
È un grande gioco: alla fine del mese di agosto cercherò di mettere in pratica i vostri consigli.
Ora tocca a voi: aprite le vostre valigie e mostrate le pagine che portate con voi. Ricordando Flaubert, non leggete per intrattenervi, non leggete per apprendere; leggete per vivere.
Carica un selfie con il libro dell’estate
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La mafia oggi e ieri. La mia intervista su Tv Klan Albania
La tv albanese Tv Klan mi ha recentemente ospitato per un’intervista di approfondimento sui temi della mafia e sui legami con la politica, il terrorismo, l’economia (la potete guardare qui su YouTube). Un’intervista di un’ora in cui ho potuto parlare di argomenti di cui in Italia si preferisce non parlare più, se non superficialmente.
Mi ha colpito che in Albania, dove la mafia continua a fare grossi affari nel mondo del narcotraffico come in quello del traffico di armi, io abbia potuto rispondere con serenità a domande poste con franchezza, chiare, che andavano dritte al cuore degli argomenti.
Quali sono stati i legami tra mafia e politica in Italia? Chi erano i politici più corrotti dalla mafia? Perchè la mafia uccide nei paesi meno sviluppati, qual è il ruolo dello Stato?
Ho cercato di spiegare che laddove lo Stato è più forte, chi ammazza rischia una reazione delle istituzioni più decisiva, ma ciò non significa che la mafia rinunci al proprio mercato. Così anche i paesi più strutturati, come Francia e Germania, hanno le loro mafie, meno recrudescenti, ma comunque attive e prolifiche.
E poi c’è il fenomeno della corruzione, che non si ferma facendo leva soltanto sul piano morale. A chi è disposto ad essere corrotto, i principi morali non fanno cambiare opinione. Ci vuole una leva economica, sociale. La corruzione deve essere una minaccia per la tua carriera, per il tuo percorso nella società. Adesso, invece, la corruzione gioca il ruolo dell’incentivo.
E poi ci sono le banche, i canali di finanziamento delle organizzazioni criminali internazionali, le “lavanderie” del denaro sporco nel cuore delle grandi città occidentali, da Londra all’Austria.
Vi invito ad ascoltare questo intervento e a concentrarvi soprattutto sulle domande: quanti ancora in Italia sarebbero disposti a porre questo genere di domande? E ad ascoltare le risposte?
L’intervista è in italiano. Qui di seguito potete leggere l’introduzione all’intervista fatta dal conduttore e tradotta dall’albanese.
Buonasera cari spettatori. Vi parlo dallo studio della trasmissione “Opinione” che ha per oggetto l’intervista a un personaggio il quale, 9 anni fa, mentre viaggiava in treno verso Napoli, veniva informato dai carabinieri che la sua vita era in pericolo. All’arrivo alla stazione di Napoli viene accompagnato dalle forze dei carabinieri e da 9 anni vive completamente isolato, sotto la scorta di sette persone che lo seguono ovunque in una vita che rimane anonima. Una vita molto simile a quella che molti albanesi hanno conosciuto attraverso un altro scrittore, Salman Rushdie dopo i problemi con Ruhollah Khomeyni e il fondamentalismo islamico in Iran.
Roberto Saviano scrisse il libro “Gomorra” disturbando molto la camorra e gran parte dei mafiosi del sud Italia, in modo particolare nella zona intorno a Napoli. La loro decisione era l’eliminazione di Saviano, a quel tempo un 26enne che attraverso questo libro era riuscito a rendere pubblica e denunciare l’attività mafiosa. Roberto Saviano continua a vivere in isolamento da 9 anni e si trova a Tirana per presentare il suo secondo libro pubblicato in albanese “ZeroZeroZero”. Il libro si concentra sul traffico della cocaina e i rapporti tra l’Europa e l’America Latina in quello che lui considera uno dei mercati più importanti al mondo. Roberto Saviano risponderà in modo approfondito per entrare anche nell’attualità dell’Albania poiché molto del materiale contenuto in questo libro non è conosciuto allo stesso modo in Albania.
Trascrizione e traduzione a cura di Alba, ‘Roberto Saviano traduzioni’.
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