Roberto Saviano's Blog, page 25

June 8, 2015

Il video della finale di Amici e la storia di tre giovani donne

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Published on June 08, 2015 06:11

June 5, 2015

Nel paese dove è inutile essere onesti

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Elezioni all’insegna del “in fondo sapevamo già tutto”, le Regionali di domenica scorsa. Certo, banalizzare l’esito del voto talvolta può essere un’operazione scontata, ma non in questo caso, in cui le premesse dicevano già molto. Ma non le premesse dei sondaggi, non i dibattiti sui giornali, non i comizi da talk show. Bensì gli umori in strada, i discorsi tra le persone, la delusione da bar. Eh sì, perché ormai le “chiacchiere da bar” è in questo che si sono mutate, in “delusione da bar”.


Alla politica ormai si applica la stessa “sindrome Trapattoni” che il nostro paese conosce per il calcio: tutti allenatori e tutti delusi dalla classe politica. Abbiamo letto ancora una volta titoli come “Il vero vincitore è l’astensionismo” che mette in luce quel 52% di affluenza al voto che ormai non scandalizza più. E se in Italia la politica, tutta, non cambia rotta – ma evidentemente non lo farà – è un dato destinato a decrescere soprattutto se alle urne si è chiamati in una domenica di sole, la prima dopo freddo e pioggia.


Ma cosa significa cambiare rotta? Significa forse non candidare “impresentabili”? Significa forse smetterla di assecondare le pulsioni più ancestrali come la difesa del proprio nido dallo straniero aggressivo ma soprattutto diverso? Significa smetterla di credere che determinate regole valgano per gli altri e non per noi? Significa pesare ogni parola, ogni esternazione pubblica, e farlo sul serio? Significa iniziare a dialogare con la società civile e farlo non mettendosi alla lavagna, gessetto in mano, a dare lezioni?


Tutto questo, ma significa anche non dare per morta una forza politica quando non lo è: per 20 anni in Italia abbiamo visto vincere il berlusconismo senza davvero riuscire a spiegare al paese come potesse accadere. Il voto di scambio non può essere un alibi che la parte “buona” della società, dell’informazione e della politica trova ogni volta per giustificare le proprie incapacità. La vittoria di Giovanni Toti in Liguria dimostra quanto abbiamo visto ormai talmente tante volte da poterlo considerare in fondo un copione già scritto: una forza politica data per morta può farcela contro una forza politica data per viva, ma divisa. Ed ecco che Berlusconi è stato ancora una volta in grado di unire, assecondando utili convenienze come ai bei tempi. Tutti quanti a parole sono contro una fantomatica “Sinistra” che dal 1989 esiste solo nei discorsi e nelle fantasie del satrapo di Arcore.


Ed ecco che il PD, ancora una volta, ha consapevolmente perso in Veneto e la Liguria e ha vinto in Campania chiudendo tutti e due gli occhi sulla candidatura di De Luca. Ed ecco il M5S, che per la prima volta ha fatto campagna elettorale senza gli eccessi verbali di Beppe Grillo, ha recuperato parte del voto moderato e si è attestata come terza forza politica del Paese. A Napoli con un’unica lista ha sfidato due coalizioni ottenendo risultati encomiabili con 20mila euro di campagna elettorale provenienti da donazioni private.


Come accade che un movimento dato per defunto risorga dalle proprie ceneri, o meglio, dalle ceneri con cui lo avevano erroneamente ricoperto? Il M5S è nato come movimento di protesta e di cambiamento. Non essendo ancora mutato nulla, nonostante la rottamazione, resta un catalizzatore di consenso che si nutre di sfiducia verso tutto il resto. È l’unica forza politica ad aver mantenuto fermo un punto essenziale: candidare solo chi non abbia pendenze giudiziarie.


Per un garantista come me non è ammissibile pensare che se sono sotto processo perché il mio cane avrebbe morso un passante e ancora non sono stato né assolto né condannato, questo possa rappresentare motivo di incandidabilità. Ma l’umore in Italia è questo: “Se hai problemi con la giustizia, senza entrare nel merito, noi non ti vogliamo a rappresentarci. Punto”.


Alla fine si è diventati più realisti del re, a causa dell’incapacità che la politica italiana ha da sempre di fare pulizia prima che arrivino inchieste giudiziarie o Commissioni parlamentari antimafia. Perché alla fine non basta più il buon senso, ma occorre, per catalizzare fiducia, ricorrere a metodi estremi. E ormai anche io, da osservatore, non so davvero se temere di più la retorica dell’onestà o che si realizzi quanto disse Corrado Alvaro: «La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile».




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Published on June 05, 2015 07:53

Aprire gli occhi sul Sud del Lazio, l’eredità dell’omicidio Piccolino

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L’ultimo articolo ospitato su freevillage.it, il blog di Mario Piccolino, porta inesorabilmente la data del 29 maggio, l’ultimo giorno di vita dell’avvocato di Formia, ucciso nel pomeriggio di quel venerdì da un uomo che lo ha raggiunto a casa sua e gli ha sparato. “Freddato con un colpo di pistola” scriveranno le cronache il giorno dopo. E il termine “freddato” non  suona come scontato gergo giornalistico, questa volta,  se è vero che il primo pensiero alla notizia della sua morte, tra chi conosceva Piccolino e lo frequentava, è che si sia voluta uccidere una calorosa passione per la critica, per la legalità, per la politica. Temi cari a Mario Piccolino, che non mancava di stare al centro delle polemiche nei dibattiti che animavano la sua città.


Un uomo non estraneo alla vita pubblica, all’impegno civile, che non si sottraeva anche a confronti insidiosi ma che non sempre appariva comprensibile. A leggere tra le pagine del suo blog e tra i commenti, appare chiaro che Piccolino, su alcuni temi, sceglieva spesso comportamenti e toni sopra le righe e per questo si era fatto dei nemici.


Caratteri di una personalità vivace, che lasciano aperte tutte le strade sulle possibili motivazioni, anche personali, che hanno portato all’omicidio. Qualcuno ricorda i recenti scontri con un consigliere comunale, Mattia Aprea, ma anche le parole sessiste mosse da Piccolino nei confronti di donne impegnate nella politica locale. Agli inquirenti sarebbero giunte anche voci  su possibili relazioni con minorenni. Un quadro complicato, che impone di partire dai pochi fatti finora accertati: un minimo profilo dell’identikit del killer e il tipo di pistola usata, una 38 special.


Eppure, dalle prime ricostruzioni, l’avvocato di Formia sembra essere stato freddato, come in un’esecuzione. Gli inquirenti, che stanno svolgendo indagini senza escludere ancora alcun movente, descrivono l’agguato con i connotati di un omicidio su commissione, come si usa negli ambienti della criminalità organizzata, quando si vuole lanciare un avvertimento.


Piccolino aveva ricevuto numerose minacce e intimidazioni negli ultimi anni. Nel 2009 era stato picchiato alla testa con un cric e nelle indagini era finito un esponente della camorra, Angelo Bardellino. Qualche anno dopo la sua abitazione era stata svaligiata e davanti alla porta di casa erano state lasciate teste di pesce. Ultimamente l’avvocato si era occupato delle sale slot, molto diffuse in città, e delle iniziative dell’amministrazione comunale per contenere il fenomeno delle sale da gioco, giungendo anche ad ordinare la chiusura di alcuni locali.


Mario Piccolino sosteneva il sindaco di Formia, Sandro Bartolomeo, e secondo i famigliari della vittima è in questa vicinanza che si deve cercare il movente dell’omicidio. “Quel proiettile che ha ucciso mio fratello era in realtà diretto all’amministrazione comunale. Hanno scelto la persona più debole, più vulnerabile che aveva sposato in toto i progetti di legalità del sindaco Bartolomeo” ha detto il fratello dell’avvocato ucciso, Marco Piccolino.


Formia è da tempo una piazzaforte della camorra, in cui dagli anni ’80 si ricicla con nonchalance il denaro dei proventi dei traffici illeciti. Qui vive Massimiliano Noviello, figlio dell’imprenditore casertano Domenico, ucciso dalla camorra per essersi opposto al racket del pizzo; ma qui vive anche Katia Bidognetti, figlia del boss Francesco “Cicciotto e mezzanotte” condannato all’ergastolo nel processo “Spartacus”. Una situazione drammatica che impone di convivere a poca distanza famiglie di vittime e di aguzzini nei “Cento passi di Formia”, come li ha definiti la giornalista Graziella Di Mambro.


A Formia lo scorso novembre la Guardia di Finanza ha portato a termine l’ennesimo sequestro per ordine della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli, confiscando un palazzetto del valore di 600 mila euro. A Formia sono stati confiscati i beni dei Bardellino, case in cui nessuno vuole andare a vivere.


Il giorno dei funerali, il Comune ha indetto due giornate di lutto e il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, ha annunciato, entro la fine del mese, un grande convegno nazionale per discutere delle infiltrazioni camorristiche.


Se l’assassinio di Piccolino sarà riconducibile ai clan della camorra, Formia non sarà solo un luogo di riciclaggio, ma una vera e propria piazzaforte criminale. Davanti a questa ipotesi, l’eredità di quest’omicidio sarà almeno la possibilità, anche tra le istituzioni, di aprire un dibattito sulla realtà sociale ed economica del Sud Pontino.




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Published on June 05, 2015 03:27

June 3, 2015

La camorra a San Marino, i conti tornano. E anche i nomi.

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Ci sono soldi sospetti che viaggiano tra Campania e San Marino. C’erano nel 2008, quando se ne parlò durante il maxi-processo “Spartacus”, il più grande processo a carico del clan camorristici dei casalesi, e ci sono oggi, nel fascicolo di un’inchiesta aperta dalla magistratura sammarinese su un’ipotesi di riciclaggio.


Anche il nome dell’indagato ha legami con le inchieste precedenti: è quello dell’avvocato Michele Santonastaso, condannato alla fine del 2014 ad 11 anni di reclusione per associazione di stampo camorristico e favoreggiamento e, in un altro procedimento, ad un anno per le minacce nei confronti miei e della giornalista del Mattino Rosaria Capacchione.


I fatti degli ultimi giorni riportati soltanto da una testata online di San Marino riguardano perquisizioni e sequestri di documentazione in uno studio legale della Repubblica di San Marino a cui si sarebbe appoggiato l’avvocato campano; documenti che sarebbero utili a ricostruire la movimentazione di denaro dietro cui si nasconderebbe il riciclaggio di 1,8 milioni di euro frutto di proventi del clan del Casalesi.


Santonastaso risulta indagato assieme ai tre figli e al casertano Teodoro Iannotta, amministratore della società sammarinese che sarebbe servita ad assorbire il denaro proveniente dalla camorra, assieme ad un’altra società con sede oltreconfine, con quote intestate ai figli di Santonastaso. Tra le movimentazioni sospette, alcune avvenute nei primi mesi di quest’anno, subito dopo le condanne di Santonastaso, ci sarebbe anche il prelievo di 160 mila euro destinati ad acquistare un immobile a Napoli.


È la seconda volta che il nome di Santonastaso viene associato, in un’inchiesta, all’utilizzo di conti bancari di San Marino per riciclare proventi illeciti della camorra. Un’indagine era già partita nel 2011 e chiusa due anni dopo per insufficienza di prove.


Le condanne recenti hanno però risollevato l’allerta sulle operazioni finanziarie fino a giungere, venerdì scorso, all’ordinanza di sequestro da parte del Commissario della Legge (il corrispondente del nostro Pubblico Ministero nell’ordinamento giuridico di San Marino), Alberto Buriani.


Il 10 novembre dello scorso anno l’avvocato Santonastaso, legale dei boss dei casalesi Francesco Bidognetti e Antonio Iovine, è stato condannato ad un anno di carcere per minacce espresse proprio durante il processo “Spartacus”, quando presentò istanza di ricusazione della Corte di appello di Napoli perché ritenuta influenzata dai contenuti del lavoro di inchiesta mio e della giornalista del Mattino, oggi senatrice PD.


Recentemente le motivazioni della sentenza hanno riconosciuto che nelle parole pronunciate in aula per motivare la richiesta erano contenute chiare minacce di morte nei nostri confronti. La sentenza ha anche assolto i due boss (uno dei quali, Iovine, è da tempo un “collaboratore di giustizia”) ritenendo che l’avvocato non abbia agito su mandato dei suoi assistiti, ma di propria iniziativa.


Ho già espresso all’indomani della sentenza la mia amarezza per una decisione che credo sia “a metà” e che dimostra comunque che la camorra  non è invincibile.


Poco più di un mese dopo, il 19 dicembre, i giudici del tribunale di Santa Maria Capua Vetere hanno condannato Santonastaso a 11 anni, per associazione di stampo camorristico e favoreggiamento, riconoscendolo affiliato alla camorra. Nello stesso procedimento,  è stato assolto dall’accusa di corruzione in atti giudiziari e falsa perizia, che sarebbe servita – come di fatto è poi avvenuto  – a scagionare il figlio di Bidognetti dall’accusa di omicidio.


Come ho avuto modo di spiegare in un recente intervento a Losanna, l’intreccio tra banche e mafie è molto più vicino a  noi di quanto non si possa immaginare. Non servono le isole Cayman: la mafia da tempo trova canali di appoggio finanziari nelle banche europee, su piazze di grandissimo traffico come Londra, ma anche in aree considerate di periferia, come l’Austria o la piccola Repubblica di San Marino.


 




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Published on June 03, 2015 10:28

Schiave del loro corpo: l’incubo dell’aborto in Cile

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Foto: Reuters/Ivan Alvarado


Belén, una ragazza di Puerto Octay, aveva undici anni quando rimase incinta, in seguito alle continue violenze sessuali inflitte dal suo patrigno. Pochi mesi dopo, una bambina originaria di Santiago, allora tredicenne, rimase incinta di suo nonno, un uomo di sessantasei anni accusato di aver commesso abusi sessuali nei confronti della nipote da quando lei ne aveva sei. A entrambe le bambine fu negato l’aborto.   
 
Era il 2013. Oggi come allora in Cile non è cambiato nulla. I casi riportati non sono gli unici episodi di gravidanza in età minorile a seguito di violenza sessuale da parte di un parente. Esistono innumerevoli casi di gravidanze indesiderate, indipendentemente dall’età della donna e dalla condizione in cui è avvenuto il rapporto, si tratti di un abuso o meno. Il denominatore comune è sempre lo stesso: nessuna donna può abortire, in nessun caso.
 
L’aborto in Cile è condannato in tutte le sue forme, non esiste alcuna eccezione legale alla sua penalizzazione. Le leggi contro l’aborto in Cile sono tra le più restrittive al mondo e gli articoli a riguardo si trovano nella sezione Crimini e Delitti contro l’Ordine Familiare e la Moralità Pubblica, nel Codice Penale, il più antico dell’America Latina.


L’interruzione maliziosa della gravidanza – così fu definito l’aborto in una sentenza della Corte Suprema di Giustizia cilena – non è mai giustificata, e saranno perseguibili legalmente tanto le donne consenzienti quanto i medici che hanno indotto loro la pratica dell’aborto illegale.
 
Il corpo della donna è per loro stesse un potenziale carcere. Dal 1989 vige il divieto assoluto di interrompere la gravidanza, divieto introdotto dal regime militare del dittatore Augusto Pinochet. Da allora i governi conservatori e la forte tradizione cattolica del Paese non hanno volutamente attuato alcun mutamento per reintrodurre l’aborto terapeutico, pratica legale fino all’arrivo della dittatura.
 
La vita delle donne e il loro benessere fisico e psicologico sono di gran lunga subordinati a quella del feto in gestazione. Secondo la legislazione cilena, la donna deve rispettare la gravidanza, in ogni caso, anche quando questa è frutto di terribili violenze sessuali o quando la gestazione e il parto possono mettere la sua vita a repentaglio. Anche quando le malformazioni del feto sono incompatibili con la vita, la madre è costretta a dare alla luce. La donna non ha alcun diritto sul proprio corpo: quei diritti sono tutti in mano allo Stato.
 
Nonostante tutto, le donne continuano a ricorrere alle pratiche illegali per interrompere la gravidanza e in molti casi sono loro stesse a indursi l’aborto. Secondo i dati agghiaccianti del rapporto annuale 2013 sui diritti umani dell’Università Diego Portales, ogni anno si verificano circa 70mila casi di aborti volontari. Il dottor Ramiro Molina, professore universitario cileno e fondatore del Centro di Medicina Riproduttiva e dello Sviluppo Integrale dell’Adolescente, calcola che il numero ammonti addirittura a 140mila aborti l’anno.
 
Il modo più economico e accessibile per provocare un aborto volontario è il misoprostol, un farmaco utilizzato per trattare le ulcere, ora adattato all’uso ginecologico e riconosciuto dall’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS). Il farmaco non è però acquistabile in nessuna farmacia del Cile e molte donne sono costrette a procurarselo all’estero o a ricorrere al mercato nero, dove i costi di una dose oscillano tra i 65 e i 200 dollari.
 
I modi per interrompere volontariamente la gravidanza sono molti. Una polemica campagna di sensibilizzazione mostra alcune donne intente a spiegare, attraverso dei finti tutorial, come provocarsi un aborto attraverso incidenti casuali – buttarsi da in cima alle scale o sotto una macchina – simbolo della disperazione e dell’impotenza di fronte a una realtà che accomuna tutte le donne cilene.
 
Dal 1990 gli sforzi per modificare la dura legge sono stati molti. Il 31 Gennaio la presidente cilena Michelle Bachelet ha presentato un disegno di legge per depenalizzare l’aborto terapeutico in tre casi: quando la vita della madre è a rischio, quando la gravidanza è frutto di violenza sessuale e quando il feto non ha possibilità di sopravvivere.


Ad oggi l’aborto illegale e le gravi conseguenze fisiche che spesso comporta sono le uniche certezze per il Cile; un Paese miope, incapace di ammettere che il divieto assoluto dell’aborto costituisce una violazione dei Diritti Umani di tutte le donne.


Redazione The Post Internazionale – Fernanda Pesce Blazquez




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Published on June 03, 2015 06:18

June 2, 2015

Coltivare il talento, per non abbandonarsi al lamento

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Published on June 02, 2015 03:33

La comunità indigena che sta morendo di sete

Foto: Donaldo Zuluaga

Foto: Donaldo Zuluaga


La maggior parte degli abitanti di La Guajira, nel nord della Colombia, appartiene alla popolazione indigena degli Wayùu, una comunità che sta letteralmente morendo di sete sotto lo sguardo indifferente di un Paese incapace di far fronte all’emergenza.


Negli ultimi anni la mancanza di acqua ha stroncato la vita di circa 5.000 bambini, secondo Javier Rojas, il rappresentante legale dell’Asociación de Autoridades Tradicionales Indígenas Wayúu Shipia Wayúu, l’associazione che si batte per i diritti della comunità indigena. Lo scorso 22 maggio un bambino di tre anni è tragicamente morto per denutrizione, altra grave piaga che attanaglia la regione, sommandosi al dato agghiacciante delle morti bianche.


Le oltre 400mila persone che fanno parte della comunità sono costrette da oltre dieci anni a vivere ogni giorno senz’acqua, a temperature che spesso oscillano tra i 35 e i 42 gradi.


Eppure, ad aver distrutto l’equilibro biologico della regione non è la siccità quanto la tanto spesso ignorata azione dell’uomo sul territorio. A seguito della costituzione di un’impresa dedita allo sfruttamento minerario, le acque del fiume Ranchería, che attraversa la regione, vengono adibite esclusivamente all’estrazione del carbone, privando gli abitanti delle garanzie di accesso a una risorsa fondamentale per l’essere umano.


Il caso è stato esaminato dalla Commissione Interamericana dei Diritti Umani (CIDH), che ha fatto richiesta al governo colombiano di esporre le misure prese per accorrere in soccorso ai membri della comunità indigena con il fine di far fronte alla grave crisi alimentare che ha travolto La Guajira.


Il giornalista colombiano Gonzalo Guillén, noto per le sue inchieste sui casi di corruzione che in pochi hanno avuto il coraggio di denunciare, ha deciso di raccontare con un documentario la triste storia degli Wayùu: il riflesso di un governo miope di fronte alla mostruosa evidenza dello sterminio di un’intera comunità.


Redazione The Post Internazionale – Fernanda Pesce Blazquez
 




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Published on June 02, 2015 01:00

May 31, 2015

L’economia criminale si regge sul riciclaggio. Tra crisi, mafia e banche

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La sintesi del mio intervento al Forum des 100 a Losanna, in cui racconto, attraverso i più recenti casi di cronaca e le più grandi investigazioni internazionali tra Europa e Stati Uniti, i fitti legami tra criminalità, imprenditoria e sistema finanziario. Un’economia parallela che intossica il mercato.



LA NECESSITA’ DEL RICICLAGGIO PER L’ECONOMIA CRIMINALE
Riciclaggio ed economia criminale sono due mali che si tengono per mano, che si autoalimentano. Senza il riciclaggio, il denaro delle mafie sarebbe un ricavato inerte. È necessario che rientri in circolo. Dal riciclaggio spicciolo, ad esempio il reinvestimento nel mattone, sino alla creazione di fiduciarie estere, diventa parte rilevante dell’economia planetaria.


A livello mondiale, secondo il FMI – Fondo Monetario Internazionale il denaro sporco muove tra il 3 e il 5% del Pil del pianeta, una cifra che oscilla tra 600 e 1500 miliardi di dollari solo negli Usa, pari all’intera economia italiana.
In ambito europeo, il bilancio globale della holding del denaro sporco è di 600 miliardi di euro.
In Italia l’economia criminale, cioè i proventi di attività come contrabbando, traffico di armi, smaltimento illegale di rifiuti, gioco d’azzardo, ricettazione, prostituzione e traffico di stupefacenti, (senza contare i reati violenti come furti, rapine, usura ed estorsioni) vale 170 miliardi di euro l’anno.
Per la Guardia di Finanza nel 2013 il denaro sporco immesso nel sistema economico valeva più del 10% del Pil e sottraeva 75 miliardi al Fisco. Le attività criminali più redditizie, nel rapporto della GdF, sono il narcotraffico (con 7,7 miliardi di euro), seguito dalle estorsioni (4,7 miliardi), dallo sfruttamento della prostituzione (4,6 miliardi) e dalla contraffazione (4,5 miliardi). Nel 2013 i sequestri della Finanza alla criminalità organizzata erano ammontati a 3 miliardi di euro (meno del 2% del fatturato criminale).


Il riciclaggio rappresenta un ponte fra criminalità e società civile, perché offre ai criminali gli strumenti per essere invece accolti e integrati nel sistema:


Tra il 2009 ed il 2013 le operazioni sospette segnalate all’Unità di informazione finanziaria (Uif) della Banca d’Italia sono aumentate di quasi il 212%. Quasi il 60 per cento delle segnalazioni registrate a livello nazionale è concentrato in Lombardia (11.575 segnalazioni), Lazio (9.188), Campania (7.174), Veneto (4.959) ed Emilia Romagna (4.947).
Il 40% dei proventi riciclati dalle cosche calabresi è oggi reinvestito in tre regioni italiane: Liguria, Piemonte e Lombardia, in settori quali gli appalti pubblici, lo smaltimento dei rifiuti, i giochi e le scommesse.


L’economia criminale è anche l’unica parte di economia nazionale che non ha risentito della crisi.  Anzi, ha guadagnato dalla crisi.


 CRISI, MAFIA E BANCHE


Fin dagli anni ’70, con la globalizzazione del crimine organizzato, si è creato un vincolo tra mafia e banche. Alla fine degli anni ’80 le autorità fecero passi avanti contro la penetrazione del riciclaggio criminale negli istituti finanziari e da quel momento i soldi cominciarono ad uscire dalle banche e a tornare in contanti.  Poi accaddero due cose: la crisi finanziaria in Russia (dopo l’affermazione della mafia russa) e la crisi finanziaria globale del 2008. Con queste crisi, il settore finanziario si ritrovò a corto di liquidità, così le banche si aprirono ai cartelli criminali, che avevano i soldi in tasca.


Nel dicembre 2009 l’allora responsabile dell’Ufficio Droga e Crimine dell’ONU, Antonio Maria Costa, fece una dichiarazione scioccante: rivelò che i guadagni delle organizzazioni criminali erano stati l’unico capitale d’investimento liquido che alcune banche avevano avuto a disposizione durante la crisi del 2008 per evitare il collasso. Così i prestiti interbancari iniziarono a essere sistematicamente finanziati con i soldi provenienti dal traffico di droga e da altre attività illecite. Alcune banche si salvarono solo grazie a questi soldi. Gran parte dei 352 miliardi di dollari provenienti dal narcotraffico sono stati assorbiti dal sistema economico legale, perfettamente riciclati.
Un’inchiesta di un paio di anni fa di due economisti colombiani, Alejandro Gaviria e Daniel Mejiia dell’Università di Bogotà, ha rivelato che il 97,4% degli introiti provenienti dal narcotraffico in Colombia viene puntualmente riciclato da circuiti bancari di Usa ed Europa attraverso un sistema di pacchetti azionari, un meccanismo di scatole cinesi per cui i soldi contanti vengono trasformati in titoli elettronici, e con una serie di passaggi diventano puliti e irrintracciabili.


Nemmeno il “Patriot Act”, voluto dagli USA all’indomani dell’11 settembre allo scopo di prevenire, individuare e perseguire il riciclaggio internazionale di denaro e il finanziamento del terrorismo – e che stabilisce che il Dipartimento del Tesoro americano può richiedere agli istituti finanziari nazionali di intraprendere misure speciali nei confronti di giurisdizioni, istituti o conti bancari stranieri sospettati di essere coinvolti nel riciclaggio di denaro sporco – è stato sufficiente ad allontanare i flussi di denaro sporco dall’economia e dalla finanza americana.


Secondo alcuni esperti, New York e Londra, con le loro banche, sarebbero diventate le due più grandi lavanderie di denaro sporco del mondo. Non più i paradisi fiscali come le Cayman Islands, o la Isle of Man. Ma la City di Londra e Wall Street.


Naturalmente la Svizzera continua ad essere un approdo sicuro sia per i soldi degli evasori fiscali, sia per i soldi delle organizzazioni criminali di tutto il mondo.
A questo proposito, a febbraio 2015 è stato firmato il Protocollo tra Italia e Svizzera in materia fiscale, che pone finalmente le condizioni per la fine del segreto bancario fra i due Paesi. Bisognerà però attendere il settembre 2018 per il primo scambio automatico di informazioni di carattere finanziario (con riferimento all’anno 2017). Tre anni di attesa che forse daranno ai criminali il tempo per organizzarsi e trovare vie alternative per nascondere i loro capitali.
Ma poi, quanto sarà davvero efficace questa misura? Quanti si convinceranno a far rientrare i propri capitali e a regolarizzarli, soprattutto se derivano da attività illecite?


 IL CASO FILIPPO DOLLFUS DE VOLCKESBERG
Il barone e finanziere svizzero Filippo Dollfus De Volckesberg, indagato per associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio transnazionale, è stato arrestato tra il 24 e il 25 aprile a Milano, nella sua casa vicino al Castello Sforzesco.
Dollfus è accusato di essere a capo di una delle più grandi holding del riciclaggio mai scoperte in Italia, con base a Lugano, che nel corso degli ultimi decenni avrebbe aiutato professionisti e imprenditori italiani a trasferire all’estero denaro e utilità nella gran parte dei casi provenienti da delitti di appropriazione indebita, evasione fiscale, corruzione o riciclaggio. Nella lista dei suoi ‘clienti’ (tutti non indagati, tranne Caltagirone Bellavista e Rita Rovelli) compaiono professionisti, nobili, broker assicurativi, costruttori, imprenditori del settore siderurgico, manager.
La gestione occulta del denaro attraverso paradisi fiscali è stata garantita dal segreto bancario.
Il totale del denaro movimentato in 40 anni di attività dell’organizzazione raggiungerebbe alcuni miliardi di euro. Tra i clienti del gruppo Dollfus ci sarebbe stato l’imprenditore Francesco Bellavista Caltagirone (anch’egli indagato) che avrebbe così ripulito i proventi di reati di appropriazione indebita e frode nelle pubbliche forniture contestati dalla Procura di Civitavecchia nel progetto di realizzazione del Porto Turistico di Civitavecchia.


CASO UBS e CREDIT SUISSE
Nel 2008, il Dipartimento di Giustizia americano iniziò indagini sulla maggiore banca svizzera, l’UBS, per favoreggiamento dell’evasione fiscale negli Stati Uniti. Un anno dopo, la banca ammise la sua colpevolezza e pagò una multa di 780 milioni di dollari. Inoltre il governo svizzero autorizzò anche la trasmissione di circa 4500 nomi di clienti di UBS al fisco statunitense, aprendo una breccia nel segreto bancario svizzero.


Il Dipartimento di Gustizia USA avviò inchieste penali nei confronti di 14 altre banche svizzere, con risultati pesanti, incriminando la banca Wegelin, la più vecchia del paese (costretta ad abbandonare le sue attività negli Stati Uniti) e la banca Frey che cessò le operazioni a causa delle indagini negli Stati Uniti.


Per porre fine al contenzioso fiscale, nell’agosto 2013 Berna e Washington firmarono un accordo di non perseguimento penale. In cambio gli istituti devono però fornire informazioni sulle loro operazioni transfrontaliere, ma non sono tenute a trasmettere agli Stati Uniti i nominativi dei clienti a meno di una richiesta esplicita di assistenza amministrativa. Alla fine del 2013, 106 istituti avevano aderito al programma americano.
Nel febbraio 2014, il Credit Suisse si dichiarò colpevole di aver cospirato per aiutare i suoi clienti americani più facoltosi a nascondere i propri asset offshore per evadere le tasse, diventando così la prima banca in vent’anni ad ammettere un reato negli Stati Uniti (UBS, infatti, aveva accettato il patteggiamento ma non si era dichiarata colpevole). Accettò di pagare 2,6 miliardi di dollari per chiudere l’indagine. Il rapporto realizzato dalla commissione d’indagine permanente del Senato presieduta da Carl Levin era degno di una sceneggiatura di un film di spionaggio. Tra 2002 e il 2008 i banchieri di Credit Suisse hanno effettuato 150 viaggi negli Stati Uniti: si tratta, complessivamente, di 1.800 banchieri coinvolti. I banchieri corteggiavano i potenziali clienti americani sui campi di golf della Florida e a balli a New York. Le trattative avvenivano negli ascensori e gli estratti conti venivano recapitati tra le pagine di magazine sportivi come Sport Illustrated.


Malgrado le ammissioni del Credit Suisse, però, soltanto 238 nomi – dei 22.000 clienti che la banca aveva nel 2008, che valevano 12 miliardi di franchi svizzeri – sono stati comunicati alle autorità statunitensi. Ciò è il risultato dell’accordo tra Berna e Washington dell’agosto 2013, che permette che gran parte dei nomi dei titolari dei conti rimangano ancora segreti.


Nell’annunciare il patteggiamento con Credit Suisse, il segretario alla Giustizia americano, Eric Holder, disse: “La redditività o la quota di mercato di una banca non possono e non saranno mai usate come scudo dall’essere perseguite o punite. Questo caso mostra come nessuna istituzione finanziaria, qualunque sia la sua dimensione, è al di sopra della legge”. Eppure non molti anni prima le autorità americane erano state criticate per non aver colpito nessuna delle banche coinvolte nella crisi, tanto da far ritenere che alcune banche fossero troppo grandi per finire alla sbarra: il cosiddetto “too-big-to-jail” (=troppo grande per finire in galera).





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Published on May 31, 2015 01:00

May 29, 2015

Il prezzo da pagare per fare il giornalista in Brasile

Foto: Associated Press

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Benvenuti a Padre Paraíso. Le regole e le leggi danno fastidio, qui non le abbiamo”. La pubblicazione di questa frase su un blog è costata la vita a un giornalista brasiliano.
 
Il corpo decapitato di Evany José Metzker, un reporter di 67 anni scomparso il 14 maggio, è stato trovato quattro giorni dopo nei pressi di Padre Paraíso, una città di 19.000 abitanti nello stato di Minas Gerais, nel sud est del Brasile.
 
Metzker era l’autore del sito Coruja do Vale, un blog in cui venivano principalmente trattati i casi di corruzione e gli omicidi ad essa legati. Secondo quanto riportato dal Sindacato dei Giornalisti di Minas Gerais, il blogger viveva da tre mesi in un ostello dove stava preparando un’inchiesta su una rete di prostituzione infantile. Il Sindacato ha individuato un possibile collegamento tra l’assassinio di Metzker e la sua inchiesta, che era ancora sul piano delle indagini.  
 
Il presidente del Sindacato, Kerison Lopes, ha insistito affinché sia la Polizia Federale a prendere in mano il caso, poiché spesso sono proprio gli organi locali del potere a essere implicati in questo tipo di delitti.
 
Quello di Metzker non è però l’unico fatto di cronaca nera legato al giornalismo in Minas Gerais. Già nel 2013, le morti violente di due giornalisti scossero gli abitanti dello stato: un fotografo e un reporter stavano svolgendo un’indagine sui crimini commessi dalla polizia a Ipatinga, nella parte interna del Brasile. Nel giro di un mese furono entrambi assassinati. Un agente di polizia fu poi condannato a dodici anni di prigione per entrambi gli omicidi.
 
Secondo i dati dell’organizzazione Reporteros Sin Fronteras (RSF), quella di Metzker è la seconda morte violenta di un giornalista avvenuta quest’anno e il Brasile sarebbe il terzo Paese più pericoloso dell’America Latina, dopo il Messico e la Colombia. Il Brasile si trova inoltre al novantanovesimo posto su 180 Paesi nel rapporto sulla libertà di stampa elaborato da RSF.


Redazione The Post Internazionale – Fernanda Pesce Blazquez


 




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Published on May 29, 2015 23:00

Atlante delle mafie

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Mappare le mafie, riconoscerne il ruolo centrale nell’economia mondiale, dar conto delle loro evoluzioni, ecco cosa fa, in maniera scientifica l’Atlante delle mafie. Storia, economia, società, cultura edito da Rubbettino. Al Salone del Libro di Torino è stato presentato il terzo volume della collana. A parlarne c’erano i curatori Enzo Ciconte e Francesco Forgione e con loro il procuratore della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone.


Mi soffermo sul capitolo curato da Pignatone e dal procuratore aggiunto Michele Prestipino “Le mafie su Roma, la mafia di Roma” perché le loro prime parole le sento particolarmente vicine. Scrivono: “È storicamente ben nota la difficoltà, talora una vera e propria ritrosia, anche culturale, a riconoscere l’esistenza delle mafie nel nostro Paese”. Da Berlusconi che accusò chi parla e scrive di mafia, finanche chi produce o interpreta film e serie televisive che raccontano di mafia, di diffamare il paese, di esportare un’immagine negativa dell’Italia, alla politica attuale che tratta il problema sempre e soltanto secondo un’ottica emergenziale. Senza domandarsi seriamente come possa essere emergenza ciò che interessa il nostro paese da secoli. Come possa essere emergenza ciò che ormai è diventato e riconosciuto come parte stessa del nostro DNA, del nostro passato, del nostro presente e purtroppo anche del nostro futuro.
Pignatore e Prestipino continuano: “Certamente maggiori, e ancor più difficili da scalfire, le resistenze ad ammettere la penetrazione e l’espansione degli interessi mafiosi in vaste zone delle regioni del centro-nord, ritenute, evidentemente a torto, immuni da tale pericolo”. Mi accusarono di diffamare il Nord, di averlo “chiamato mafioso”, raccolsero firme contro di me che avevo parlato delle infiltrazioni della ’ndrangheta al Nord in televisione, ignorando le inchieste diventate ora condanne, che mostravano implacabilmente una realtà criminale in espansione. Una realtà criminale che ormai si sentiva a casa ovunque in Italia, non solo più al Sud.


E ancora: “Ipotizzare, poi, che le mafie abbiano messo radici anche a Roma, la Capitale del Paese, è sembrato ai più, e a taluni sembra ancora oggi, una costruzione investigativa tanto ardita, da apparire addirittura interessata fantasia.”. Eppure dopo Mafia capitale nessuno può più dire che Roma sia immune dal fenomeno criminale. Nessuno può più ricondurre alla sola Banda della Magliana l’associazionismo criminale della capitale. Anzi, a studiare la storia criminale di Roma, ci si accorge che proprio per i legami accertati con la Banda della Magliana, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni’80, a Roma aveva la sua base operativa Pippo Calò, noto come il «cassiere della mafia». In seguito Pasquale Galasso, boss della Nuova Famiglia di Carmine Alfieri, coinvolto nell’omicidio a Roma di Vincenzo Casillo detto ’o Nirone, luogotenente di Cutolo, una volta divenuto collaboratore di giustizia, raccontò che «la mafia su Roma c’è stata sin dagli anni ’60/’70, c’è e ci sarà sempre. Roma era già mafiosa, era già il ricovero, la protezione dei mafiosi. Nel 1982 ho conosciuto Pippo Calò, Michele Zaza stava a Roma, Mario Iovine sta a Roma da 15/20 anni, i Moccia non esistono più a Napoli, ad Afragola, stanno a Roma».


Giovanni Falcone diceva che la mafia, come ogni fenomeno umano, è destinato a finire. Io aggiungo che prima della fine, la mafia, come ogni fenomeno umano è destinato a evolversi, a mutare con il mutare dei tempi. Prima dell’estinzione (se mai avverrà) cambierà pelle mille volte. E come ogni fenomeno umano nasce nella terra delle periferie per prosperare e crescere sull’asfalto delle città, laddove può entrare in contatto con politica e imprenditoria. Questo è da sempre la mafia romana, una mafia che riesce più di ogni altra a oleare gli ingranaggi perché è vicina al potere, quello vero, quello che conta, quello che decide degli investimenti, della destinazione di fondi, quella che muove denaro e consenso.


E nel silenzio della politica cui, nonostante le tante parole spesso non seguono fatti, nel silenzio che avvolge il fenomeno criminale, l’Atlante occupa un vuoto, un vuoto riempito dalle esperienze di quanti vi hanno collaborato, dalle loro voci: voci necessarie.


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Published on May 29, 2015 01:00

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