Roberto Saviano's Blog, page 23
June 25, 2015
In Italia non e’ tortura
Oggi è la Giornata mondiale in memoria delle vittime della tortura. Ma in Italia, nonostante la lista sia lunga, formalmente non avremmo nessuno da ricordare, perché non esiste il reato di tortura. Quindi le vittime delle violenze subite dalla polizia alla Diaz nella lunga notte del 21 luglio 2001 a Genova, che per la Corte Europea dei diritti umani sono state di fatto torturate, non lo sono per la giustizia italiana. Quindi quelle non sono vittime da ricordare.
Per Matteo Salvini la Corte europea dei diritti umani dovrebbe occuparsi di altro, come se l’abuso di potere e le violenze ingiustificate non rientrassero nella categoria della violazione dei diritti umani. Secondo il leader della Lega Nord, “carabinieri e polizia devono poter agire liberamente”, quasi che l’uso incontrollato, eccessivo o addirittura estorsivo della violenza sia compreso tra gli strumenti legittimi a disposizione delle forze dell’ordine.
Quella di Salvini non va liquidata come l’ennesima provocazione. No, perché manifestando con il SUP e con l’ex ministro degli Interni Maroni, si è schierato per una precisa idea di Stato, mettendo in discussione anche l’adeguatezza del Capo della Polizia. Salvini immagina uno Stato che non riconosce il diritto e gli accordi internazionali, legittimato a imporsi sui cittadini anche con la forza, di cui a disporre è l’esecutivo e non la legge.
Varrebbe la pena di ricordare a Salvini che una legge sul reato di tortura tutela anche le forze dell’ordine e rafforza il loro ruolo e la loro integrità, distinguendo i comportamenti legali da quelli illegali. Le sue parole offendono poliziotti e carabinieri che ogni giorno rispettano e fanno rispettare lealmente la legge.
A 26 anni dalla ratifica della Convenzione Onu contro la tortura, l’Italia trascina da cinque legislature l’approvazione di un testo che introduca il reato di tortura nel nostro codice penale. Siamo un paese che viola gli accordi internazionali. Lo scorso aprile la Camera ha approvato un testo normativo che ora rischia nuovamente di fermarsi al Senato.
Secondo Amnesty International Italia e associazione Antigone, il testo, seppure perfettibile, va votato al più presto per non rischiare nuovamente di mancare l’obiettivo. Anche perché tra poco riceveremo la visita del sottocomitato Onu contro la tortura e non avremo ancora buone notizie da dare ai commissari, che nel frattempo hanno bacchettato la Spagna, che pure il reato lo prevede, per non aver adeguato la definizione di tortura a quella delle Nazioni Unite.
Tra chi ritiene la norma troppo dura e chi al contrario la considera eccessivamente morbida nei confronti delle forze dell’ordine, si è trovato un compromesso che le associazioni per i diritti umani ritengono accettabile: definire la tortura come un reato comune (che può essere imputabile a qualunque cittadino) con il riconoscimento dell’aggravante nel caso sia perpetrato da pubblico ufficiale.
Se il codice penale avesse previsto questo reato, le vittime della Diaz e di Bolzaneto, ma anche casi come quello di Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva avrebbero ricevuto giustizia, se non nelle aule dei tribunali, almeno nella definizione di ciò che è accaduto loro.
Il nuovo testo ha un ulteriore limite: l’aver eliminato la costituzione di un fondo nazionale a sostegno delle vittime di tortura. Questo sempre perché si è convinti che nulla mai possa riguardarci, e fin quando a patire sono gli altri, vanno ridotti al minimo diritti e sostegno.
Su questo e altri punti il Parlamento potrà tornare a riflettere, ma prima diamo al nostro paese una legge che ci renda degni di chiamare l’Italia democrazia.
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June 24, 2015
Da che parte soffia il messaggio di libertà di Bob Dylan?
Quanto resta del messaggio di libertà che cinquant’anni fa soffiava nelle parole di Bob Dylan? Quante sono le costrizioni, i pregiudizi, i limiti con cui oggi decliniamo la parola “libertà”?
La libertà non te la tolgono solo minacce e fucili, ma anche chi ti invita a non raccontare, a parlare di altro. Chi ti giudica per la religione che professi, per la sessualità che vivi.
Sono passati cinquant’anni e non è possibile abbassare la guardia perché la conquista di nuovi spazi di libertà non si è sopita, assume, anzi, nuove forme.
È dalla libertà di espressione e di opinione che discendono tutte le altre forme di libertà. Ci sono casi recenti che ci hanno imposto di riflettere nuovamente su quanto siamo liberi e su quanto siamo disposti a cedere per garantire la libertà altrui. Il 7 gennaio scorso la redazione della rivista satirica francese Charlie Hebdo è stata presa d’assalto e 12 persone sono rimaste uccise perché colpevoli di firmare vignette considerate contrarie a qualche dio. Più di qualcuno in quell’occasione ha cercato di dettagliare le motivazioni, di distinguere alcune sottigliezze per giungere alla conclusione che sì, forse, la libertà di espressione dovrebbe essere sottoposta a dei limiti. Ma chi può deciderne i confini?
Anche le mafie hanno un proprio “codice etico” interno che prevede punizioni diverse a seconda delle violazioni alle regole. Il limite è l’adesione al crimine: se sei dentro ti attieni a quelle regole, se sei fuori rispondi alle regole dello stato. Ma le regole del crimine costano care a tutti, non solo a chi le ha accettate.
Ci sono moltissimi casi di persone a cui è stata sottratta la libertà perché hanno cercato di esercitare il proprio diritto ad essere felici: la giovane ragazza turca Mutlu Kaya a cui hanno sparato perché voleva esibire la sua splendida voce ad un talent show, o Malala che si è battuta per il diritto allo studio delle ragazze pakistane (di entrambe ho parlato qui).
E poi ci sono coloro che per difendere la propria libertà vorrebbero negare quella altrui. La settimana scorsa un milione di persone ha manifestato per impedire il riconoscimento di diritti altrui, pur non avendo nulla da temere per sé stessi. E anche questi sono i nuovi contorni della lotta per la libertà.
Bob Dylan sarà di nuovo in Italia sabato a San Daniele del Friuli ospite del festival Collisioni per Aria di Friuli Venezia Giulia e prima di lui interverrò su questi temi. Mi piacerebbe davvero chiedergli se il vento della libertà soffia ancora e in che direzione sta andando…
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June 22, 2015
La mafia di mezzo: guida alla Capitale perduta
Mafia Capitale. Un racconto nuovo che riscrive completamente la narrazione del potere romano. Perché mafia a Roma? Com’è possibile? Come è potuto succedere che una banda di pluripregiudicati sia riuscita a decidere buona parte degli appalti del Comune di Roma per anni? Il grande romanzo di Mafia Capitale va affrontato e interpretato parola per parola, luogo per luogo.
Scalinata del Campidoglio. La simbologia, anche semplicemente relativa a salire o scendere una scalinata, fa capire dove c’è mafia. Chi non conosce il galateo del potere è destinato a non prendere potere. Antonio Lucarelli è il capo segreteria del sindaco Alemanno ai tempi in cui Salvatore Buzzi lo cerca. Buzzi ha bisogno che sia sbloccato un versamento di trecentromila euro alla sua cooperativa. Chiama, manda messaggi, richiama: niente. Allora il braccio economico dell’organizzazione informa il capo militare, Massimo Carminati. Carminati chiama Lucarelli e poi richiama Buzzi: “Vai alle tre, tranquillo” gli dice. Ma non è questa la vittoria. Er Cecato conosce benissimo le regole comportamentali del potere. “Scende e viene a parlare con te”. Scendere le scale del Campidoglio per andare a confermare che i soldi sono stati sbloccati: questo sì che è vincere. È il Comune, cioè in quel momento lo Stato, che va dall’uomo dell’organizzazione, e non quest’ultimo che sale le scale per chiedere. Dirà Buzzi, chiosando: “C’hanno paura de lui, c’hanno paura”. La paura fa scendere le scale al potere.
Bar Euclide. È questo il primo luogo dove si prendevano le decisioni organizzative più importanti. Affittare una casa è rischioso (vicini sospettosi, telecamere…): un bar invece è aperto, visibile. E la visibilità spesso è il miglior modo per nascondersi. Ma i Ros riescano a “cimiciarlo”. È sotto il gazebo del bar Euclide di piazza Vigna Stelluti che Carminati, parlando con il suo uomo Riccardo Brugia, teorizza il loro nuovo ruolo, molto di più del violento recupero crediti: “È nella strada che glielo devi dire. Comandiamo sempre noi, non comanderà mai uno come te nella strada, nella strada tu c’avrai sempre bisogno”. Senza il livello della strada non si governa. Intimidire, avere gli strumenti per minacciare, significa avere un’azienda con macchinari efficienti.
Ristorante Dar Bruttone. Anche qui è simbolo, mangiare insieme è “mangiare nello stesso piatto”. Quando fu arrestato nel 2004 Morabito il Tiradritto e gli fu dato un panino da mangiare prima di portarlo in carcere il boss si alzò dal tavolo in caserma, tra magistrati e carabinieri, e lo mangiò faccia al muro. Non si divide la tavola del cibo con chi non si riconosce. “Dar Bruttone” in zona San Giovanni, qui il 23 luglio 2013 Domenico e Luca Gramazio, padre e figlio, ex senatore e capogruppo di Forza Italia in Regione, incontrano proprio Carminati. Serve un nome per la commissione Trasparenza del Campidoglio e la mafia capitolina vuole deciderlo: è quello l’organismo che deve controllare la regolarità degli appalti.
Amicizia. La parola “amici” compare nelle intercettazioni 186 volte, la parola “amico” 312. La parola nemico compare solo 8 volte. Roma è rapporti. Roma è amicizia. Tutti conoscono tutti, chi non conosce tutti non ce la fa, non procede. Si è amici anche di chi si detesta, si è amici di chi serve. Carminati chiama Luca Gramazio “l’amico mio” Per definire un politico o un amministratore disponibile l’espressione è “amico nostro”. Riccardo Mancini (ora ex) ad dell’ente Eur è chiamato “l’amico porcone”. Nelle telefonate Carminati risponde quasi sempre “eccomi amico mio” Quando Buzzi deve imporre a Figurelli, capo della segreteria della presidenza del consiglio comunale, il nome di Politano come responsabile dell’anticorruzione del Campidoglio, gli basta definirlo “un amico nostro”. Il mondo romano è invaso da amici. Amico è la parola in codice per tutti, perché dice Carminati: “Dall’amicizia nasce un discorso di affari insieme”
Signoria criminale. Il corrotto si muove per il danaro, il mafioso si muove per il potere: questo è il passaggio fondamentale per comprendere anche il diverso ruolo tra gli uomini di Mafia capitale e i corrotti. Carminati e Buzzi guadagnano, certo, ma il loro margine di utile è il potere. Questa l’espressione usata da Procura e carabinieri: “Signoria criminale”. Tutto quel che accade anche se non c’è lucro deve esser “autorizzato, permesso”. La Signoria agevola gli affari.
La mafia che non uccide è mafia? Questa è la domanda che aleggia sull’inchiesta. A Roma e Ostia gli omicidi ci sono, eccome. C’è un accordo, citato nel libro I Re di Roma, che racconta la logica della pax mafiosa: “La pax deve regnare esclusivamente dentro il territorio circoscritto dal Grande raccordo anulare”. Nel 2011 undici omicidi avevano destato attenzione mediatica e giudiziaria. I grandi numeri cui siamo abituati nelle faide delle mafie storiche non ci sono ancora perché stiamo parlando di una mafia autoctona agli albori. E poi Roma è sotto una luce costante: le questioni militari vanno risolte lontano.
Rockfeller. Cosa c’entra? Il 27 novembre del 1979 un commando di Nar assalta una banca, la filiale all’Eur della Chase Manhattan Bank. Carminati è l’autista, e verrà condannato per questo a tre anni e mezzo. Era la banca dei Rockfeller. Come può un condannato per rapina riuscire a muoversi con così agilità? La sua forza è proprio l’essere compromesso: gli dà titolo nel costruire una caratura criminale. Una persona sotto osservazione della magistratura o in odore di inchiesta, è considerata pericolosa da avvicinare. Chi invece ha già condanne alle spalle ed è chiaramente invischiato, è una garanzia: perché ha superato il problema, perché se ha ancora potere nonostante l’inchiesta ne viene addirittura rafforzato.
Cooperative. Oggi si ha bisogno di nomi puliti. Cooperativa rimanda a una tradizione nobile, sa di pulito, non desta sospetti. La battaglia mafiosa è anche una battaglia semantica. È qui la forza di Buzzi, l’ex detenuto che vende la sua storia di omicida redento. In un paese in crisi come l’Italia, dove non si produce (e quindi il racket boccheggia) e gli investimenti criminali si fanno all’estero, gli affari si realizzano con il terzo settore. Immigrati, appalti di servizi, rapporti pubblici: “Tu c’hai idea di quanto ci guadagno con gli immigrati? Il traffico di droga rende meno”. I messaggi di Buzzi confermano che il sistema cooperativo è il più esposto all’infiltrazione mafiosa.
Fondazioni. Sistema per finanziare la politica. Il meccanismo che ha sostituito le tangenti, immediate ma più rischiose. Il giorno successivo all’aggiudicazione dell’appalto sulla raccolta differenziata, le società riconducibili a Buzzi pagano in “tavoli alle cene” trentamila euro alla Fondazione Nuova Italia riconducibile a Panzironi e Alemanno. Lecito, in apparenza. Il sistema delle Fondazioni non rende chiaro il flusso di danaro. Come le coop, anche le fondazioni sono lo strumento semantico (il termine fondazione richiama un progetto culturale) e organizzativo più esposto alle mafie.
Facilitatore. È colui che sa consigliare come muoversi per ottenere un risultato istituzionale. Lobbista direbbero negli Usa. Luca Odevaine, ex capo di gabinetto di Veltroni, si difende definendosi il facilitatore di Buzzi, e per questo ne riceve uno stipendio (in nero). Perché accetta questi cinquemila euro al mese, una cifra che non giustifica la compromissione del suo patrimonio politico? Questo punto è il più importante per comprendere i fenomeni di corruzione italiani. Pannunzi, broker del narcotraffico mondiale, aveva una teoria sulla corruzione “leggera”: se paghi molto, per esempio, un agente della dogana perché chiudendo un occhio ti farà gudagnare milioni, questo non ci dormirà la notte per quei soldi, insospettirà i colleghi, la famiglia cambierà status. E il senso di colpa potrà portarlo o a confessare o a chiedere sempre più. Bisogna invece corrompere con poco. Un’utilitaria, biglietti per la partita: se corrompi con nulla, il corrotto sente di non star facendo nulla di male.
Metodo Pignatone. I magistrati Pignatone e Prestipino con la loro squadra (carabinieri, polizia ecc.) hanno cambiato il destino di Roma. Hanno messo insieme i pezzi di reati e negoziazioni che, singolarmente presi, sembravano semplici favori, piccoli scambi, tipiche pastette locali, e hanno avuto prudenza: in un’inchiesta del genere avrebbero potuto arrestare centinaia di persone e nomi eccellenti, per finire sotto i riflettori. Invece hanno investigato come si fa sui grandi gruppi mafiosi storici: comprendendone le dinamiche, i linguaggi e gli affari, i movimenti, usando le intercettazioni solo come traccia da cui partire (e non basandovi l’impianto accusatorio: la difesa di tutti gli intercettati, che per questo parlano impunemente senza troppi pudori, è “tutte millanterie”). Infine gli inquirenti hanno ricostruire il quadro generale.
La corte di Cassazione ha emesso il 10 marzo una sentenza storica sostenendo che si tratta di intimidazione di stampo mafioso anche quando l’organizzazione compromette il destino economico di un’azienda e una persona, non solo quando ne minaccia la vita con un’arma o con la violenza. La Cassazione è chiara: truccare appalti, tenere vincoli e gestire rapporti è già violenza. Non sono solo “mazzette”.
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June 19, 2015
Emergenza rifiuti in Calabria: in fondo allo Stivale la spazzatura si paga a peso d’oro
L’oro calabrese è la spazzatura. Il business dei rifiuti si chiama emergenza. Parte dalla Calabria si mescola con la ‘ndrangheta, semina sprechi e fa vincere le holding imprenditoriali. E non importa se si aprono e chiudono inchieste giudiziarie sulle società di raccolta, se le discariche sono sature e le opere non terminate. Non importa se si è speso un miliardo di euro in sedici anni di commissariamento ministeriale (due milioni solo per pagare gli stipendi di dirigenti e segreterie).
Il caso Calabria sarà determinante, già in estate, perché l’Italia subisca sanzioni da parte dell’Unione europea, per norme, in maniera ambientale non rispettate. In Italia, i rifiuti urbani smaltiti in discarica nel 2012 erano circa 12 milioni di tonnellate, con una riduzione dell’11,7% rispetto al 2011. La Calabria è in controtendenza. Che significa? Che la percentuale di rifiuti seppelliti in discarica è in crescita. I dati sono dell’Ispra e parlano chiaro. Non solo, secondo il decreto Ronchi, bisognava arrivare al 35% di raccolta differenziata già nel 2006, e invece sulla Punta dello Stivale si è fermi al 14% (Ispra del 2014).
In teoria il commissariamento ministeriale, dovuto all’emergenza, è stato chiuso nell’aprile del 2013. La raccolta, il riciclo, la gestione intera del sistema viene riaffidata dunque alla Regione che si prende un anno di tempo per riorganizzare il ciclo, creare (o meglio provarci) a strutturare gli Ambiti Territoriali con i Comuni (i cosidetti Ato) come prevede una legge nazionale, gli unici titolati a gestire il sistema di smaltimento.
Si comincia intanto, dopo il passaggio di consegne, con l’avviare le gare per riammodernare gli impianti esistenti. E, subito arriva la prima ordinanza “contingibile e urgente”. Si tratta di un atto d’emergenza. Il punto è che vanno utilizzati gli impianti che non hanno l’Autorizzazione Integrata Ambientale (in sigla Aia), che funzionavano per i poteri speciali (che aveva il commissario, nominato dal Ministero) e continuano ad oggi a lavorare, senza neanche uno straccio di manutenzione o ammodernamento e, per di più, senza permessi.
La Calabria però ci prova e, nei mesi, subito dopo la fine del commissariamento, si ricorre addirittura alla Campania per triturare spazzatura, si avvia un bando per esportare immondizia all’estero (la gara la prima volta va deserta, poi quando viene aggiudicata s’impantana tra i ricorsi delle società), insomma si fa di tutto per non ampliare le discariche e preparare le gare, anche perché da sedici anni sono sempre gli stessi i gestori degli impianti pubblici cui sono state affidate le strutture dal commissario, in maniera discrezionale.
“In emergenza”, parola magica. Appena finisce il commissariamento la Regione si attiva per i bandi, anche per risparmiare (il costo a tonnellata non dovrebbe essere più 180 euro, ma scendere almeno a 130). Solo che arrivano le elezioni, cambia di colore il governo regionale e muta anche la strategia d’azione. Continuano ad essere gli stessi però gli imprenditori che gestiscono gli impianti pubblici che sono stati loro affidati dal commissario in tempi d’emergenza. Nulla è cambiato. L’ultima ordinanza “contingibile e urgente” è stata firmata qualche settimana fa, durerà fino a novembre.Prevede come sempre l’utilizzo di discariche private, l’uso degli impianti senza Autorizzazione Integrata (Aia) e il ricorso ai privati per smaltire gli scarti.
Il sistema di smaltimento dei rifiuti in Calabria è antico, ma non è mai andato in funzione completamente: le macchine sono quelle del trattamento meccanico biologico (in sigla Tmb) e producono Cdr (combustibile derivato dai rifiuti) che finisce poi nel termovalorizzatore di Gioia Tauro. Gli scarti vengono seppelliti in discarica.
Sono 823mila le tonnellate di rifiuti all’anno che vomita la Calabria, con una produzione giornaliera di circa 2.300 tonnellate, ma l’attuale capacità di trattamento impiantistico è di 1.500 tonnellate al giorno. Per far entrare tutta (o quasi) la spazzatura nei tritovagliatori bisogna aumentare la capacità di trattamento negli impianti fino al 50%, diminuendo i tempi di maturazione del Fos (frutto di un biocompostaggio che modifica la natura dei rifiuti urbani). Ciò significa che gli scarti aumentano, le discariche si riempiono et voilà diventa fondamentale usare i siti privati.
Ecco, sintetizzato, il succo delle ordinanze urgenti, firmate negli ultimi anni che usano lo stesso metodo utilizzato dal commissario per l’emergenza ambientale, durato sedici anni. Non solo. Se si andasse a regime lo scarto dovrebbe essere minimo, pari al 15%, invece, essendo minori i tempi di maturazione del Fos, lo scarto è pari al 60% di ciò che arriva nella tritovagliatura. Si va avanti insomma, dopo che è finito il commissariamento, di emergenza in emergenza. Intanto si aspetta che si attivi la progettazione di un impianto a nord della Calabria (a Bisignano) già costata due milioni e 650mila euro, atteso da oltre dieci anni, ma sospeso d’incanto negli ultimi mesi. Ad oggi il sistema di smaltimento è basato sul circuito privato (discariche di Celico, Crotone e Pianopoli) mentre la sola discarica pubblica disponibile assorbe solo il 4% della totalità degli scarti di lavorazione. Per capire quanto grande è il business basti pensare che un imprenditore, con un sito dalla capacità di 650 tonnellate annue, ha un incasso di 50 milioni in dodici mesi. Ecco la spazzatura trasformata in oro.
Il nuovo governo regionale ha idee diverse da quello precedente, ma non pare puntare alla teoria di Paul Conett, professore della Lawrence University che cancella inceneritori e discariche e punta tutto alla trasformazione del rifiuto zero. La tesi invece è portata avanti, con vigore da anni, da associazioni ambientaliste e comitati, tra cui quello della Rete per la difesa del territorio “F. Nisticò” (il nome è di un militante morto nel 2009, per un malore, proprio durante una manifestazione contro la realizzazione del ponte sullo Stretto, a Villa San Giovanni).
La Regione oggi promette innovazione e tecnologia. Firma contratti con il Conai (Consorzio nazionale di imballaggi) per il riuso. Ma dimentica che, se si rispetta la legge, sono gli Ambiti territoriali (Ato) che devono fare le gare, ovvero i Comuni consorziati. Anche per ottenere gli 80 milioni di euro stanziati dal Cipe per il comparto bisogna fare i bandi, “addirittura” internazionali, e aprire la Calabria all’Europa. Difficile impresa.
Le società private appena due giorni fa hanno chiesto al governatore di inserire a pieno titolo (senza ordinanze d’emergenza) i siti privati nel piano dei rifiuti, di avviare le gare di appalto per riammodernare le strutture e ottenere la gestione per almeno sette anni, così da rientrare nelle spese e inoltre vogliono liberalizzare la realizzazione di impianti privati di recupero, anche per la frazione organica . Insomma che tutto resti in casa.
Il punto è che, se pur, in Calabria, la raccolta differenziata arrivasse a superare il misero e attuale 14 per cento dovrebbe scontrarsi con la mancanza di impianti per il trattamento della frazione organica, ad oggi infatti il 35% è gestito dal sistema pubblico e il 65% dai privati. Insomma gira e rigira il business è di un’oligarchia di imprenditori. E prima che si superi l’emergenza, qualunque sia il metodo scelto per smaltire, servono anni.
Non è finita. La discarica più grande della Calabria è privata ed è nel catanzarese, a Pianopoli, a fine giugno sarà satura, è in itinere la proposta di aumentarne ancora la capacità di 100mila metri cubi.
Intanto a inghiottire spazzatura si prepara (di nuovo) Crotone, dopo una sentenza a suo favore e una diffida del ministero, la Regione ha firmato l’aumento della capacità di abbanco a un privato che gestisce l’impianto. Crotone è stato riconosciuto come un Sin (sito d’interesse nazionale per le bonifiche), ed è la città che ha visto seppellire nelle sue fondamenta non solo l’antica Kroton, ma anche le polveri velenose di un’ex fabbrica, la Pertusola, da qui a poco si prepara a ingoiare altra monnezza. Lo dice la legge.
Per capire come tutto questo grumo di affari e ritardi nuoce non solo ad una delle terre più belle d’Italia va ricordato che, nel dicembre dello scorso anno, durante una seduta della commissione del parlamento europeo, si discusse del caso Calabria e della gestione dei rifiuti, richiamando la Regione Calabria che aveva un piano di gestione risalente al 2007. Senza sapere che qui anche gli impianti pubblici sono senza i permessi di legge e gli ambiti territoriali non sono mai entrati in funzione. Senza sapere che qui, dalla frazione organica alle discariche, è tutta emergenza e deroghe.
Va ricordato che appena sei mesi fa, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha condannato l’Italia a sanzioni pecuniarie per inadempienza in materia di direttive comunitarie sui rifiuti. I soldi? Tanti. La Corte ha inflitto una penalità di 42,8 milioni di euro per ogni semestre di ritardo nell’attuazione delle misure necessarie. Sono passati già sei mesi non è accaduto nulla. Intanto una valanga di spazzatura quest’estate si prepara a finire sulla Calabria (l’aumento della popolazione porterà al 30% in più di immondizia). Tutto oro che luccica. Si giustifica di nuovo l’emergenza. Le deroghe continuano, le strategie cambiano, il rifiuto trasformato in business è una certezza, come le sanzioni.
Andreana Illiano
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Dalla parte di Samar
Quando si parla di unioni, matrimoni e adozioni per coppie gay, spesso si scomodano la natura e Dio senza comprendere che l’introduzione di diritti civili non ha nulla a che vedere né con l’una, né con l’altro. Mi viene in mente questa cosa, che a molti apparirà banale, perché sul terreno dei diritti civili si combattono assurde battaglie politiche. Mi viene in mente perché l’opinione di un singolo – magari contrario a ciò che secondo lui non si trova nelle scritture sacre – finisce per essere determinante a fronte di una società che ha invece bisogno di introdurre diritti che tutelino nuove forme di unione, di convivenza, di amore.
Il diritto di voto per le donne non è un istituto presente in natura, come del resto non lo è per gli uomini, anche se per secoli si è creduto che quest’ultimo lo fosse. Il suffragio universale è ovviamente un artificio necessario per poter essere comunità, per potersi dare delle regole, per poter convivere e condividere spazi e risorse. La facoltà per una donna di poter scegliere chi sposare o chi non sposare (magari la persona con cui convivere) non è un istituto presente in natura così come non lo è il suo contrario, ovvero l’impossibilità a poter scegliere chi amare e l’obbligo a dover sposare chi la famiglia decida.
Sono esempi semplici che mostrano quanto sia fuori luogo parlare di naturalità di un comportamento o di volontà divina dietro ciò che crediamo possibile e ciò che non riusciamo proprio ad accettare. Sono esempi semplici che dovrebbero mostrare in maniera lampante come non può essere l’opinione del singolo a decidere cosa sia meglio per la comunità.
Un esempio. Samar Badawi è una donna di trentaquattro anni, nata in Arabia Saudita, un luogo dove tante cose naturali per noi occidentali non lo sono. Per noi è naturale che se un padre abusa di sua figlia sia lui a venire condannato e non la figlia per disobbedienza. Per noi è naturale che se una donna vuole sposare un uomo possa farlo anche senza il consenso dei propri genitori. Per noi non è naturale, e in Arabia Saudita invece lo è, che una donna di qualsiasi età abbia un tutore di sesso maschile, o che non possa guidare un’auto. In Arabia Saudita fino al 2011 le donne non potevano votare o candidarsi e questo lì era naturale. Samar Badawi e la sua storia, come del resto quella di molti altri attivisti, hanno dimostrato che tra natura, Dio e diritti civili non ancora acquisiti non c’è alcun nesso razionale e che tutto dipende da quanto siamo disposti a mettere in discussione le nostre certezze che molto spesso sono solo pregiudizi.
Va da sé che la società civile saudita ha al suo interno le forze che occorrono per cambiare le cose e di fatto lo sta facendo. Ci sono organizzazioni non governative, come la Human Right First Society, che si occupano di monitorare le violazioni di diritti civili e di denunciarle, soprattutto all’estero, poiché i movimenti di opinione internazionali sono da sempre fondamentali perché si accendano riflettori e si dia forza a chi vive in condizioni di disagio.
Samar Badawi dopo aver trascorso sette mesi in carcere nel 2010 per disobbedienza, dopo aver visto imprigionati suo fratello e suo marito, anche loro attivisti, non si è piegata e ha fatto della sua vita una missione. E soprattutto lo ha fatto in maniera rivoluzionaria, ovvero rivolgendosi a quelle stesse autorità che intendeva cambiare, dimostrando che mutare dall’interno si deve e si può. Ha fatto ricorso ai tribunali sauditi per ottenere il diritto di voto, per ottenere il diritto a poter guidare, così come aveva denunciato suo padre per “Adhl”, ovvero la costrizione a mantenerla nubile per tutta la vita. I tribunali non le danno ragione e trovano cavilli per rigettare le sue richieste, ma lei non demorde e questo la rende esemplare nella sua forza di volontà e nella dimostrazione che di naturale nella mancanza di diritti non c’è niente, solo la caparbietà di mantenere un’assurda idea di purezza.
Molti ritengono che l’Arabia Saudita sia assai vicina a quell’ideale di stato islamico da preservare contro la corruzione dell’Occidente. Molti ritengono che questo loro pensiero sia naturale e voluto da Dio. I danni che in tutto il mondo questa interpretazione sta producendo sono incalcolabili in termini di vite umane e di terrore. Ecco, spero di aver convinto chi, quando si parla di diritti civili fa appello alla natura e a Dio, che sta facendo qualcosa di decisamente abominevole e che la storia gliene chiederà conto.
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June 18, 2015
Ma non ci dicevano che sulla Terra dei Fuochi esageravamo?
A Calvi Risorta, in provincia di Caserta, nella cava ex Pozzi Ginori si sta scavando da giorni. Dalla superficie fino a nove metri e più di profondità, emergono rifiuti di ogni genere e color e ci sono materiali che si infiammano quando, scoperti, entrano a contatto con l’ossigeno dell’aria.
A scavare sono gli uomini del Corpo forestale su mandato della Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere che ipotizza il reato di disastro ambientale. Per il comandante regionale del Corpo Forestale Sergio Costa, siamo davanti alla più grande discarica di rifiuti tossici d’Europa: 2 milioni di metri cubi su 25 ettari di terreno contaminato.
A dare informazioni alla Procura, un anno fa, era stato un giornalista locale, Salvatore Minieri, che ha seguito altre inchieste sulle ecomafie in Campania, il cui lavoro ha consentito l’avvio delle indagini.
Là sotto c’è davvero di tutto, compresi fusti di vernice con i nomi delle ditte produttrici, contenitori con etichette che indicano la presenza di politilene/riblene. Alcuni vengono dalla Francia. Altri devono ancora essere classificati.
Eppure ci si dice sempre di essere prudenti. Eppure vengono sempre diffusi dati rassicuranti a fronte di un’emergenza ormai fuori controllo. L’invito alla cautela era arrivato direttamente dal ministro alla salute Beatrice Lorenzin secondo la quale la connessione diretta tra inquinamento da rifiuti tossici e incidenza del cancro nella popolazione dell’area non poteva essere dimostrato, invocando il rigetto di ogni “facile allarmismo”.
Mi chiedo quando arriverà il tempo dell’allarme, se non è bastato lo studio dell’ISS di cui ho parlato qui che rivela un eccesso di mortalità rispetto al resto della regione del 4-6 percento in provincia di Caserta e un tasso di ricoveri per tumori nel primo anno di età superiore del 68 percento, a far partire delle ricerche puntuali su queste connessioni.
Ci dicevano che stavamo esagerando e soprattutto, con un’affermazione che considero un insulto, che le malattie dipendono dalla cattiva alimentazione (ne ho parlato qui).
#Noncopriteildisastro urlano adesso i cittadini del comitato dell’Agro Caleno che sabato hanno previsto una manifestazione per contrastare il progetto che vorrebbe una centrale a biomasse proprio qui, in quest’area che adesso vomita fuori lo schifo accumulato in oltre trent’anni di malaffare.
Ora le procure hanno uno strumento, la legge sui reati ambientali. Il disastro ambientale è punito con il carcere da 5 a 15 anni. L’inquinamento ambientale prevede pene da 2 a 6 anni con multe da 10 mila a 100 mila euro. Sono previste aggravanti in caso di lesioni o morte di una o più persone, da 2 anni e 6 mesi fino a 7 anni, per lesioni che comportino più di 20 giorni di malattia; pene detentive da 3 a 8 anni per lesioni gravi e da 4 a 9 anni per lesioni gravissime. In caso di morte si rischia il carcere da 5 a 10 anni.
La politica non fermi la propria indignazione, la politica non tema di “esagerare”.
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June 17, 2015
La buona scuola esiste già, ma i bravi professori vanno sostenuti e difesi
Le tracce della maturità sono un segno della buona scuola che esiste già. Sono tracce belle e moderne. Quella su Malala è davvero una traccia necessaria, perché la sua storia ci trasmette il dovere di ricordare che l’istruzione va vissuta come un diritto, da non dare mai per scontato.
È un diritto per gli studenti, ma lo è anche per gli insegnanti che vogliono veder riconosciuto il proprio merito perché fanno con passione un lavoro che ha un valore sociale inestimabile. Il diritto allo studio non è un dato universale, ma va difeso e conquistato.
Quello che mi piace di queste tracce è che non si chiede allo studente di elencare la sua bibliografia, ma di mettere a disposizione gli strumenti che ha acquisito per capire e dare un’interpretazione propria alla realtà. La buona scuola è questa: quella che aiuta a far crescere dei cittadini.
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Racconto ai giovani cose molto serie. Con il loro linguaggio.
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June 16, 2015
Citizenfour, siamo tutti braccati. Snowden sa e ha le prove
La vicenda di Edward Snowden è di fondamentale importanza per capire il funzionamento degli equilibri tra governi e cittadini oggi.
Quello che apparentemente potrebbe essere il frutto di una “paranoia collettiva” che ci colloca tutti sotto l’occhio del Grande Fratello, è in realtà un sistema collaudato di cui Snowden ha rivelato i dettagli a rischio della sua stessa vita. Della sua storia avevo già parlato qui.
Ora un documentario bellissimo “Citizenfour” di Laura Poitras restituisce in presa diretta la più grande storia di spionaggio politico civile dell’umanità. In questo breve video spiego perché questo documentario va visto.
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June 15, 2015
La mia intervista con Diego Bianchi per Gazebo
Con Diego Bianchi a Gazebo ho scambiato alcune riflessioni su Mafia Capitale che considero solo la punta dell’iceberg di un sistema che presto rivelerà un’estensione più ampia.
Mancano ad esempio riscontri nel settore della sanità e del cemento, tasselli che è impossibile possano “chiamarsi fuori” visto che ormai è dimostrato che senza corruzione, non parte niente, non si fa alcun affare. Mafia Capitale ha scoperchiato il lato che riguardava burocrazia, politica e gestione dell’immigrazione, ma mancano tutti gli altri passaggi.
L’organizzazione romana ha tutti i caratteri della Mafia di cui ha adotatto il metodo, l’azione e la prassi militare ed economico politica. Vengono usati i codici mafiosi delle organizzazioni criminali.
Abbiamo toccato anche il tema delle elezioni regionali in Campania, dove resto dell’idea che per proporre nuove facce e nuove dirigenze politiche sia necessario rinunciare ai voti di scambio, accettando la possibilità di perdere.
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