Andrea Indini's Blog, page 72

August 11, 2020

Il "falco" che vuole affossarci incassa gli aiuti dalla Merkel

Andrea Indini



La Merkel tende la mano al falco Rutte: coprirà i costi dei pazienti olandesi curati in Germania. Ma se l'Aja è in difficoltà perché allora non fa ricorso al Mes?


Visto che anche l'OIanda faceva tanta fatica a decongestionare le terapie intensive, che ancora oggi traboccano di pazienti malati di Covid-19, verrebbe quasi da consigliare all'austero Mark Rutte di fare richiesta dei fondi messi a disposizione dell'Unione europea per rilanciare la sanità pubblica. Potrebbe magari spingere l'Aja ad accedere proprio al Fondo salva Stati che ha a lungo caldeggiato al governo italiano quando eravamo noi a trovarci con gli ospedali in ginocchio e senza respiratori a sufficienza a cui attaccare i casi più gravi. "L'Italia deve imparare a farcela da sola", diceva il premier olandese non più di qualche settimana fa in una intervista a 7, il magazine del Corriere della Sera. Eppure, quando il suo Paese si è trovato in affanno, eccolo accettare di buon grado la solidarietà della Germania che, come annunciato tre giorni fa, ha deciso di coprire tutti i costi dei pazienti olandesi che sono stati curati negli ospedali tedeschi.


La guerra all'Italia

Rutte non ha mai fatto sconti all'Italia. È sempre stato uno dei più violenti detrattori del Belpaese. Ci vede come dei spendaccioni. E probabilmente, visti i bonus a pioggia stanziati dal governo Conte negli ultimi mesi, ha tutte le sue ragioni per criticarci. Ma è anche vero che, quando si è trattato di costruire un'Europa più solidale, capace di affrontare l'emergenza sanitaria ed economica scatenata dalla pandemia, si è messo a capo di un manipolo di Stati, ribattezzati i frugal four (Paesi Bassi, appunto, Austria, Finlandia e Danimarca), per imporre a Roma clausole che rischiano di soggiogarla a Bruxelles. "Gli Stati i quali necessitano e meritano aiuto devono anche far sì che in futuro siano capaci di affrontare da soli crisi del genere in modo resiliente", spiegava tempo fa. Gli aiuti, però, nella mentalità di Rutte, non sono contributi a fondo perduto, ma prestiti. E come tuttii prestiti vanno resi, prima o poi. Da qui la cronaciata per rendere più stringente il Recovery Fund e soprattutto per legare i fondi ottenuti dal Mes agli investimenti in campo sanitario. Una condizione, quest'ultima, per cui l'Aja si è battuta sin dall'inizio.


I contagi in Olanda

Nelle ultime settimane l'Olanda stenta a tenere sotto controllo i nuovi focolai. Nella prima settimana di agosto, secondo l'ultimo report diramato dalle autorità sanitarie, vi sono stati 2.588 nuovi contagi, ben 1.259 in più rispetto a sette giorni prima quando le infezioni erano state 1.329. "Al momento - si leggeva nello studio - vi sono 242 cluster attivi nel paese e il maggior numero di contagi si riscontra nelle regioni di Rotterdam-Rijnmond, Amsterdam, Brabante occidentale e dell'Aja". Le amministrazione di Amsterdam e Rotterdam ha immediatamente imposto la mascherina nei luoghi affollati, ma a preoccupare il governo è soprattutto la pressione che potrebbe tornare a crearsi sulle terapie intensive degli ospedali. Per trovare una soluzione a questa emergenza, come riferito dal quotidiano online Nu, il ministro della Salute ha incontrato nei giorni scorsi il suo omologo tedesco Jens Spahn. I due hanno stabilito che "la Germania coprirà tutti i costi dei pazienti coronaropatici dei Paesi Bassi (e di altri Stati membri dell'Unione europea, ndr) che sono stati trattati in Germania". Un'operazione che agli olandesi fa "risparmiare" circa 2,3 milioni di euro.


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La "solidarietà" dei tedeschi

Va subito detto che non sarà solo Rutte a beneficiare della "solidarietà" della cancelliera Angela Merkel. Durante la pandemia, come ricostruito anche da De Telegraaf, Berlino si è fatta carico di pazienti dei Paesi più colpiti dal nuovo coronavirus. Anche italiani, certo. Dall'Olanda ne sono arrivati 58 pazienti, la maggior parte dei quali sono stati portati nel Nord Reno-Westfalia che si trova al confine con i Paesi Bassi. Per mesi li ha assistiti perché, come spiega la stampa locale, "le unità di terapia intensiva nei Paesi Bassi minacciavano di diventare sovraffollate". Attualmente la Germania non sta più ospitando pazienti olandesi all'interno delle proprie terapie intensive. L'ultimo è, infatti, morto ai primi di giugno. Nei giorni scorsi, però, i due governi hanno deciso di tirare una riga sui costi di tutta questa operazione. Berlino non chiederà un solo euro all'Aja. Che a beneficiare di questa solidarietà sia proprio l'austero Rutte, fa quantomeno sorridere e obbliga a porci alcune domande. Innazitutto, se anche la sanità olandese è andata in difficoltà, perché il governo non fa richiesta dei fondi del Mes per potenziarla? E soprattutto: perché la Germania sta vestendo i panni da potenza benefica? Si dimostra tanto indulgente con i Paesi dell'Unione europea a cui dà una mano... salvo poi imporgli, sempre e comunque, l'austerity senza la quale, probabilmente, gli Stati in difficoltà non avrebbero problemi a cavarsela da soli.





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Published on August 11, 2020 01:55

August 10, 2020

Così la società occidentale si riscoprì divisa e sofferente

Andrea Indini



Le tensioni sociali e gli scontri razziali, la sofferenza del lockdown e lo spaesamento delle città svuotate dalla pandemia. Così Zadie Smith ci fa conoscere l'America dilaniata dal virus


"Scrivere significa nuotare in un mare di ipocrisie, in ogni momento. Sappiamo di essere degli illusi, ma la cosa strana è che l'illusione è necessaria, almeno temporaneamente: serve lo stampo, quello in cui riversiamo tutto ciò a cui non riusciamo a dare forma nella vita". Lo dice subito, Zadie Smith, prima ancora che "un aprile senza precedenti arrivi a rendere insensata ognuna di queste frasi". Un "aprile di morte", quello segnato dall'inesorabile dilagare dell'epidemia di coronavirus negli Stati Uniti. Prima di questa ondata riesce ancora a farsi catturare dalla semplice bellezza di un mazzetto di tulipani bianchi striati d'arancione che prendono vita in un fazzoletto di terra facendo breccia "in un'estetica lungamente allenata, rigidamente e consapevolmente urbana". Dopo non più.


Il punto di frattura

Mettete da parte i suoi romanzi. Se decidete di leggere Questa strana e incontenibile stagione (Sur), sappiate che non troverete la poesia a cui la Smith vi ha abituato da sempre. Non vi perderete più nei quartieri multietnici di Londra come in Denti bianchi o in N-W né seguirete le folli avventure di un Uomo autografo; non vi farete travolgere dalle contraddizioni della middle-class americana come in Della bellezza o nel ballo fuori sincrono di due vite gemelle come in Swing. Preparatevi a un scritto duro che non nasconde l'ira in un momento in cui è troppo facile abbandonarsi ai sentimenti più radicali e violenti. Perché quello che viene fuori da questo breve saggio è il ritratto di un Paese lacerato, gli Stati Uniti, il cui presidente Donald Trump, con le sue posizioni schiette e tutt'altro che accomodanti, ha contribuito a polarizzare in uno scontro violentissimo. Certo, con tutto questo il tycoon ci gioca all'inverosimile. E l'intellighenzia dem non fa che cadere in questo tranello e alimentarlo all'inverosimile. Ne scaturisce un odio viscerale che si spinge tanto in là da non riuscire nemmeno a pronunciarne il nome, al pari dell'altro capo di Stato biondo che sta "sull'altra sponda dell'oceano".


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La guerra negli Stati Uniti

La Smith parte proprio da una citazione dell'innominabile. "Vorrei tanto riavere la nostra vita di prima. Avevamo l'economia più straordinaria che abbiamo mai avuto, e non avevamo la morte". La usa per ribaltarla, per dire che negli Stati Uniti la morte c'è sempre stata - non quella portata da un virus pandemico venuto da lontano, ma quella segnata dalla disuguaglianza, dal razzismo e dalla povertà. Il Covid-19 non ha fatto altro che, a suo dire, prolungare la stessa scia di sangue sulle stesse latitudini sociali: "Questa è senz'altro un'epidemia, ma le gerarchie americane, erette nell'arco dei secoli, non si lasciano abbattere tanto facilmente - scrive - in questa distesa di morte indiscriminjata, scorgiamo ancora alcune antiche distinzioni. Il tasso di mortalità fra i neri e gli ispanici è attualmente il doppio che fra i bianchi e gli asiatici. I poveri stanno morendo più dei ricchi. Più nei centri urbani che nelle campagne. La mappa del virus nei quartieri di New York diventa più rossa precisamente nelle stesse aree che si colorerebbero se la sfumatura di scarlatto misurasse non la diffusione del contagio e la mortalità ma le fasce di reddito e la qualità delle scuole. La morte prematura non è quasi mai stata un fenomeno casuale, in questi Stati Uniti - continua - in genere ha avuto una fisionomia, una collocazione geografica e un reddito molto precisi. Per milioni di americani la guerra c'è sempre stata". Non che tutto questo non sia vero ma è strumentale e fuorviante legarlo indissolubilmente al mandato di Trump. Altrimenti si rischia di cadere nello stesso errore ideologico dei Black lives matter, un movimento che ha canalizzato la rabbia scatenata dalla morte di George Floyd in un conflitto con la Casa Bianca, con la sperenza di deporne anzitempo il suo inquilino.


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La sofferenza nel tempo

Messa da parte la filippica politica, Zadie Smith affronta un tema che durante il lockdown è stato a lungo taciuto: la sofferenza. Non quella generata dai lutti, ma quella scatenata dall'eccesso di tempo e da una condizione di reclusione claustrofobica a cui nessuno ci aveva preparato. Il brano Soffrire come Mel Gibson è sicuramente il più vero perché, a mio avviso, si spoglia del preconcetto ideologico e affronta un dolore universale che negli ultimi mesi ha piegato l'intera società occidentale, a tal punto da spingerci a sognare "un isolamento dentro l'isolamento". E così, andando oltre lo scontro razziale, riesce a vedere quel male trasversale che ha colpito chiunque: gli uomini sposati si ritrovano "davanti l'infinita realtà delle loro mogli", i giovani muoiono "dalla voglia di essere toccati da qualcuno di sconosciuto", i figli di genitori separati "si muovono per le strade silenziose, scarrozzati avanti e indietro da un isolamento all'altro", e chi alterna le notti di lavoro ai giorni a crescere i figli finisce per non distinguere più il confine tra un giorno e l'altro, tra una settimana e l'altra. Ecco il vero affresco che fa emergere tutte le debolezze della nostra società. Debolezze che, presto o tardi, finiscono per schiantarsi contro il singolo in una sofferenza che agli altri sembra sempre un'inezia, ma a chi ce l'ha addosso può, in taluni casi, rivelarsi inestricabile. In questo mondo alla deriva a dissociati e schizofrenici sembra per la prima volta che la realtà gli venga incontro. Tanto da spingere i sani di mente a chiedersi: "come dev'essere avere una mente in fiamme in questo mondo? Ti senti ancora più distante dal mondo? O il mondo, in queste nuove condizioni estreme, gli è finalmente venuto incontro?".


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L'altro virus

Il saggio si conclude con una raccolta di ritratti. Zadie Smith li chiama Screenshot. Fermi immagine, in omaggio a John Berger, della follia generalizzata che, prima del lockdown, ha unito New York a Londra. Hanno il sapore di quei giorni e con poche pennellate riescono a far rivivere i momenti di sgomento prima dell'incubo da cui gli Stati Uniti non sono ancora venuti fuori. Un incubo probabilmente drammatizzato dai mass media, ma che sicuramente sta segnando tutti gli americani. Di questi screenshot l'ultimo è dedicato a un fatto che è avvenuto in pieno lockdown: la morte di George Floyd, l'afroamericano ammazzato da un poliziotto dopo essere stato fermato per un crimine da poco. Per la scrittrice è l'occasione per parlare di quell'altro virus, quello che non risparmia repubblicani e democratici e che spinge "chi guarda la siepe del proprio giardino" a vedere "un popolo di appestati: appestati dalla povertà, prima e più di ogni altra cosa". È il virus del disprezzo. "Un tempo pensavo che un giorno si sarebbe trovato un vaccino - conclude - ora non lo penso più".





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Published on August 10, 2020 22:55

August 9, 2020

Gismondo: "La tregua da Covid? Ecco quanto durerà"

Matteo Carnieletto
Andrea Indini



La virologa del Sacco spiega come sono andate davvero le cose. E mette in guardia per il futuro: "Dobbiamo prepararci"


"Negazionista". È questo l'ultimo appellativo usato per definire Maria Rita Gismondo, direttrice del Laboratorio di Microbiologia clinica, virologia e diagnostica delle bioemergenze del Sacco. Un appellativo - quello di negazionista - usato per screditare un convegno che si è tenuto al Senato lo scorso 27 luglio. Insieme a lei, oltre a diversi esponenti politici, molti medici e studiosi, come Matteo Bassetti, Giuseppe De Donno, Massimo Clementi, Giulio Tarro e Alberto Zangrillo (in diretta Skype). Esperti che in questi mesi di pandemia abbiamo imparato a conoscere. E qualcuno anche ad apprezzare. Medici e ricercatori che non hanno negato il Coronavirus - come invece qualcuno vorrebbe far credere - ma che non ci hanno nemmeno terrorizzato. Qualcuno di loro ha anche sbagliato, come la stessa Gismondo (ma allora perché non ricordare che Burioni disse che il rischio era zero?). Tutti, però, si sono rimboccati le maniche per cercare di capire, studiare e mettere nell'angolo il virus.


La lunga premessa per dire un po' di più dell'autrice, Maria Rita Gismondo, di Ombre allo specchio. Bioterrorismo, infodemia e il futuro della crisi (La Nave di Teseo). Un libro che cerca di fare un po' di chiarezza sulla vicenda Covid-19 a sette mesi dall'inizio ufficiale della pandemia e di tracciare possibili scenari per il futuro. Già perché, mentre in Italia l'epidemia sembra rallentare (poco più di 300 casi lievi al giorno) nel mondo il virus continua a diffondersi, soprattutto negli Stati Uniti e in Brasile. Cosa accadrà domani? Dobbiamo davvero temere il virus?


Partiamo da un presupposto, come ricorda la virologa nel suo libro: le malattie fanno parte della vita e della storia dell'uomo. Hanno decimato popolazioni e stroncato prematuramente vite, come nel caso della spagnola. Hanno cambiato il corso di battaglie, come fece la peste durante il conflitto tra Atene e Sparta. In poche parole, hanno plasmato il mondo. Ma noi ce ne siamo dimenticati. Per il mondo occidentale, infatti, le epidemie sono state a lungo un qualcosa di lontano. Certo, c'era stata la Sars, ma tutto sommato si era trattato di un fenomeno contenuto. Ebola e colera, invece, sono malattie che, con un certo cinismo, molti vedono lontane. Non ci toccano, dunque non esistono. Ma non è così, come abbiamo raccontato su queste pagine.


[[youtube DjUqFcizbAQ&feature=emb_logo]]


Il vero problema di questo virus è che ci ha colti impreparati. Il governo stesso, forse, non credeva al reale pericolo di Sars-Cov-2, come spiega la Gismondo: "Con la prima ordinanza si nominava, quale commissario con la responsabilità di gestire gli interventi necessari a superare la situazione di emergenza, Borrelli, già capo della Protezione civile. Viene da chiedersi quale sia stata la motivazione alla base di tale scelta. Tutti i compiti affidati alla Protezione civile sarebbero comunque stati svolti, con o senza nomina, con o senza stato di emergenza. E, benché Borrelli sia un professionista serio e preparato, per un'emergenza sanitaria ci saremmo aspettati una figura di spicco nell'ambito delle bioemergenze, con anche il supporto dell'Iss, organo ufficiale di consulenza del ministero della Salute. La realtà, secondo me, è che nessuno in quel momento credeva nella reale gravità della situazione e quelle decisioni sono state dettate da motivazioni molto più complesse, oltre che precauzionali. La scelta, probabilmente, mirava più che altro a far vedere alla nazione che il governo si stava organizzando con il supporto di persona autorevole, conosciuta dai cittadini per l'intervento su crisi precedenti (il terremoto nelle Marche) più che per la sua competenza in sanità".


Perché, per affrontare davvero questa emergenza sanitaria, sono necessari innanzitutto preparazione e quattrini, come è stato fatto per l'ospedale in Fiera a Milano (la cui utilità però la Gismondo mette in dubbio). L'Oms, che pure in questa pandemia non è sempre stato all'altezza del suo compito, negli ultimi otto anni ha messo sul tavolo 200 milioni di dollari per un progetto chiamato Pandemic Influenza Preparadness Framework (Pip). Nel 2018, ricorda la Gismondo, l'Oms ha pubblicato un documento intitolato Passi essenziali per lo sviluppo e l'aggiornamento di un piano nazionale di preparazione a una pandemia influenzale in cui si avvertiva: "Il mondo deve aspettarsi un'epidemia di influenza killer, e anzi deve essere sempre vigile e preparato in modo tale da poter combattere la pandemia che sicuramente si verificherà". E così è stato. Poco più di un anno e mezzo dopo, il nuovo coronavirus entrava in scena.


E dobbiamo abituarci a scenari simili in futuro, come ha spiegato più volte David Quammen, e come ricorda la Gismondo: "Se tutto andrà bene avremo otto, dieci anni di tregua". In un mondo sempre più globalizzato, infatti, le malattie si spostano più velocemente: "Passata questa epidemia, infatti, comincerà l'inevitabile countdown verso la prossima. Le condizioni globali, soprattutto l'allargamento dei centri urbani verso le foreste, fanno sì che aumentino i contatti tra l'uomo e gli animali selvatici di alcune aree, serbatoio di virus sconosciuti al nostro organismo. Inoltre l'aumento vertiginoso degli spostamenti della popolazione - da un lato graze ai viaggi aerei, dall'altro per colpa di esodi, guerre e siccità - giocherà un ruolo di acceleratore di possibili contagi".


La grande partita, come stanno giustamente dicendo tutti, si giocherà questo autunno, quando l'influenza stagionale si affiancherà al coronavirus, che certamente non ci avrà abbandonati: "Ciò che potrà riverlarsi una vera sfida - scrive la Gismondo - sarà la diagnosi precoce, perché le due infezioni si manifestano con sintomi sovrapponibili. L'errore diagnostico sarà sempre in agguato e avremo bisogno di test di laboratorio in grado di differenziare le due cause. Questi test esistono e sono molto attendibili e rapidi. Saremo in grado di averne a sufficienza? Si sta procedendo con l'identificazione di un percorso diagnostico e l'approvigionamento del materiale necessario?".


Questo lo scenario futuro. Senza paura, non ci resta che prepararci. Il conto alla rovescia è già iniziato.





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Maria Rita Gismondo
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Published on August 09, 2020 03:20

August 2, 2020

I migranti, la bomba sanitaria e i negazionisti della sinistra

Andrea Indini



Per dem e renziani il problema non sono i migranti positivi ma gli italiani. E al boom di sbarchi rispondono cancellando i dl Sicurezza e riproponendo lo ius soli. Così portano al collasso il Paese


La sinistra sta mettendo in atto l'ennesimo gioco al massacro: negare cioé che in Italia ci sia un'emergenza sanitaria legata all'immigrazione clandestina. Farlo non solo è pericoloso perché non procrastina qualsiasi intervento volto a risolvere una situazione ormai esplosiva, ma è anche dannoso per tutti quei cittadini che fino a oggi hanno rispettato tutte le regole imposte dal governo per arginare i contagi, minando così l'intero sistemo economico del Paese. Molti nuovi focolai sono "d'importazione", vengono da fuori. Eppure la maggioranza non lo accetta: anziché sventolare bandiera bianca, ammettendo di non essere in grado (ideologicamente parlando) di fermare gli sbarchi dei clandestini, di far rispettare la quarantena ai migranti, di effettuare i dovuti controlli alle frontiere, preferisce riversare (ancora una volta) sugli italiani le proprie attenzioni vessandoli e mettendoli in difficoltà.


La prima a ribaltare la realtà sulla portata dell'emergenza sanitaria legata ai continui sbarchi è stata Maria Elena Boschi. Nei giorni scorsi, in un'intervista al Corriere della Sera, ci teneva a precisare che "tecnicamente il coronavirus è stato esportato dagli italiani in Africa con gli aerei e non da loro con i barconi". Oggi, dalle colonne dello stesso giornale, è toccato al ministro per gli Affari regionali, Francesco Boccia, rincarare la dose rivendicando che "il 75% dei positivi sono italiani, contagiati da altri italiani". "I positivi stranieri salvati in mare vengono tutti sottoposti a test e tamponi e molti di loro ripartono immediatamente. Non mi pare il tema". L'eponente dem invita piuttosto a prendersela con "le feste senza regole" o con "l’imprenditore irresponsabile che, tornato dall'estero, è andato in giro con i sintomi". Certo, si tratta di atteggiamenti da condannare senza se e senza ma. Ma si tratta anche di girare la testa da tutt'altra parte perché la pressione a cui sono sottoposti i porti italiani nelle ultime settimane (solo nel mese di luglio sgli sbarchi sono aumentati di oltre il 400 per cento) e la situazione imbarazzante in cui versano i centri di prima accoglienza dovrebbero suggerire al governo Conte che la misura è colma e che rimandarne la situazione significa esporre l'intero Paese a rischi inutili.


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I campanelli d'allarme sono numerosi: i focolai all'interno della comunità bengalese di Roma, i ritorni "fantasma" dall'Est Europa con i pullman che evitano i controlli all'arrivo, gli sbarchi sulle coste del Sud Italia e le fughe dei migranti sulle spiagge, le strutture colabrodo a cui vengono destinati gli stranieri che dovrebbero stare in quarantena. Tutti questi casi messi insieme danno l'immagine di un governo incapace di far rispettare le regole e fanno temere che la situazione sia del tutto sfuggita di mano. Nei giorni scorsi, durante un evento di Forza Italia, Silvio Berlusconi aveva apertamente invitato il premier Giuseppe Conte a "vigilare sul rischio di una nuova ondata di coronavirus di importazione, che passa per gli immigrati che arrivano clandestinamente in Italia". "Mai come oggi - aveva avvertito - è necessario un controllo rigoroso delle frontiere". La risposta della maggioranza, al netto delle litigiosità interne, è stata diametralmente opposta: c'è chi sogna lo smantellamento dei decreti Sicurezza e, di conseguenza, la riapertura dei porti, e chi torna a cianciare di ius soli. L'esatto opposto di quello di cui avremmo bisogno. E, mentre il ministro degli Esteri Luigi Di Maio perde tempo nel proporre rimpatri veloci, che mai avverranno, e interventi contro le imbarcazioni dei trafficanti, al Viminale tutto tace e a nessuno della Difesa viene in mente di far blindare dall'esercito i centri migranti o le strutture per l'accoglienza per evitare altre fughe. "Si può sapere che cosa sta facendo il governo per arginare questo gravissimo fenomeno?", si chiede Giorgia Meloni. Il rischio, come detto, è che i giallorossi, in nome di quella che la leader di Fratelli d'Italia definisce una "spregiudicata politica immigrazionista", vanifichino tutti i sacrifici fatti sino a oggi dagli italiani. "Davvero in Italia chi arriva illegalmente è al di sopra della legge e può fare quello che vuole, anche mettere a rischio la salute e la vita dei cittadini? Basta: la misura è colma".


Il punto è che il Paese non può permettersi una seconda onda. Non può permetterselo sia dal punto di vista sociale sia economico. Per questo bisogna fare tutto quello che è necessario per fermare tutte le possibilità di nuovi contagi. Non solo. Al netto dell'emergenza legata alla diffusione del Covid-19, è importante anche riprendere in mano il dossier immigrazione. Per cinque anni, durante i governi Letta, Renzi e Gentiloni, trafficanti e Ong hanno avuto il "lasciapassare" per le nostre coste. Dopo la (breve) parentisi del pugno duro di Matteo Salvini, si è ritornati al vecchio malcostume e il business dell'accoglienza ha ripreso a galoppare senza sosta. Per il Nicola Zingaretti e i suoi non è ancora abbastanza: chiedono di allargare ulteriormente le maglie. Il loro sogno, con il beneplacito dell'Unione europea, è di trasformare il Paese in un gigantesco porto di approdo per tutti i disperati del terzo mondo. I risultati di questa politica scellerata sono sotto i nostri occhi e li abbiamo pagati a caro prezzo già negli anni scorsi.





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Published on August 02, 2020 02:59

August 1, 2020

Il Pd impari le buone maniere

Andrea Indini



La politica ridotta a reality show. La vicesindaco, tronfia della propria superiorità morale, insulta Salvini in spiaggia e se ne va. Poi, non appagata del gesto maleducato, posta il video e insulta di nuovo


Nel ghigno di Veronica Proserpio c'è tutta la superiorità morale della sinistra. Solo loro possono sentirsi tanto intoccabili da scadere nell'insulto e sentirsi degli eroi per averlo fatto, come se infangare l'avversario (anche in modo bieco) rientri nei loro doveri morali. Tanto che viene derubricata a "bravata" l'incursione della vice sindaco piddì che avvicinatasi a Matteo Salvini, mentre se ne stava tranquillo sotto l'ombrellone di Milano Marittima, se ne esce con "Rovini il nome di questa città" e se ne va via. Nel frattempo un suo sodale riprende l'accaduto e il video finisce sui social con tanto di dida boriosa: "Non ce l'ho proprio fatta. Mi avvicino sorridendo al cazzaro verde e gli dico di vergognarsi per le sue esternazioni..." (guarda il video).


La Proserpio è un'esponente del Partito democratico. A Proserpio, paesino di meno di mille abitanti in provincia di Como, è stata eletta come vice sindaco. Ha una carica istituzionale, dunque. Dovrebbe essere un esempio per i suoi cittadini e, perché no?, anche per tutti gli altri. E invece non lo è. E quel che è peggio è che questa maleducazione non desta più scandalo. Come siamo arrivati a questo punto? Sia chiaro: il dissenso è giusto e deve essere esternato, ma deve essere teso al confronto. Quello andato in scena sulla spiaggia di Milano Marittima è una baracconata degna di un bambino delle elementari. L'intento è chiaro sin dall'inizio. Altrimenti la piddina non avrebbe chiesto di farsi filmare. Chissà come l'ha pensata? Di sicuro si credeva una super eroina. Altrimenti non avrebbe nemmeno avuto il coraggio di spammare sui social una immagine di sé tanto decadente. Se avesse voluto il confronto, sarebbe andata da Salvini e gli avrebbe detto, anche in modo schietto, cosa non le andava giù della narrazione leghista. Il Capitano avrebbe poi risposto per le rime. Magari si sarebbero pure accesi un po' i toni, come accade quando parli di politica (o di calcio) sotto l'ombrellone o al bar. Sicuramente, i due sarebbero rimasti sulle proprie posizioni e magari, mi piace pensarlo, al termine del battibecco si sarebbero salutati con una stretta di mano, certi entrambi di essere in politica per fare del bene per il Paese.


Così non è stato.


"Rovini il nome di questa città", si è limitata a dirgli. E se la rideva. Era tronfia in viso per averlo fatto. Una brutta scena, lo ripeto. Come è molto brutto quel "cazzaro verde" su Facebook. L'epiteto, coniato da Andrea Scanzi per vendere il libro che ha scritto e fare la guerra al leghista sui social, (s)qualifica ulteriormente la dem che così facendo appare non solo del tutto priva di contenuti ma anche parecchio maleducata. È l'effetto della politica trasformata in reality. Salvini, che in questo genere di situazioni ci sguazza e spesso le cavalca (come lo scivolone con il presunto spacciatore di Bologna), non si è fatto troppi problemi a liquidarla con una battuta pronta: "Fatti un bagno che ti rilassi". Resta, comunque, l'amarezza. Perché difficilmente la sinistra capirà che è la sua supposta superiorità morale a rovinare il nome non di una singola città di mare, ma di tutto il Paese.


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Matteo Salvini
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Published on August 01, 2020 05:11

July 31, 2020

La giustizia secondo Pd e M5s? Clandestini liberi, Salvini a processo

Andrea Indini



Sbarchi record, centri migranti al collasso e continue fughe dalla quarantena. Il Paese è allo sbando. E il governo che fa? Manda a processo Salvini per aver difeso i confini e smonta i decreti sicurezza


Mentre il Senato impallinava Matteo Salvini, al termine di un processo farsa durato tutta la giornata, i banchi del governo erano penosamente vuoti. Hanno preferito non guardare negli occhi il leader leghista mentre la maggioranza armava i pm di Palermo. Forse perché avrebbero provato imbarazzo. Alcuni di loro, infatti, avevano controfirmato fino all'ultimo le misure messe in atto dall'allora capo del Viminale per fermare gli sbarchi degli immigrati clandestini e i soccorsi pilotati delle Ong internazionali. Di sicuro lo aveva fatto il premier Giuseppe Conte che di quanto accadeva al largo dei porti italiani veniva costantemente informato dagli uffici del ministero dell'Interno. E che dire di Luigi Di Maio che aveva uno dei suoi fidati al dicastero che gestiva proprio quei porti? Ora se ne lavano tutti le mani e scaricano ogni responsabilità sul Capitano. Con la stessa nonchalance voltano le spalle ai decreti Sicurezza da loro stessi votati e, dopo l'accordo trovato ieri, disposti ad affossare senza farsi troppi problemi di coscienza.


La nuova linea dell'esecutivo Conte, imposta dal Partito democratico a un Movimento 5 Stelle più debole che mai, sposa in toto l'ideologia dei "talebani" dell'immigrazione: porti aperti a clandestini e navi delle Ong. Il problema è che i giallorossi hanno deciso di forzare la mano in un momento molto delicato per il Paese. Ci troviamo, infatti, a combattere contro la possibilità di una seconda ondata di Covid-19 e ad affrontare una crisi economica senza precedenti. Sui giornali promettono tutti misure per fermare gli sbarchi. Nei fatti, poi, fanno l'esatto opposto. Lo dimostrano, per esempio, gli arrivi a Lampedusa proprio mentre il ministro dell'Interno Luciana Lamorgese si trovava sull'isola. O i clandestini potenzialmente infetti parcheggiati in alberghi, agriturismi o comunque strutture non controllate. Le fughe da questi centri dimostrano la totale incapacità (o il preoccupante disinteresse) del governo a proteggere i propri cittadini. Succede quindi che, in barba alla legge e al buonsenso, si permette a un gruppetto di migranti tunisini sorridenti, con tanto di cappellino di paglia calcato sul capo e un barboncino portato al guinzaglio, di sbarcare tra i flash dei presenti attoniti. Immagine perfetta di un Paese dai confini colabrodo in cui la maggioranza di sinistra processa il leader del maggior partito d'opposizione per aver sbarrato la strada a una nave che non aveva il diritto di entrare in un porto italiano. Situazione fotocopia in cui si è trovata invischiata anche la Lamorgese quando, nell'ottobre dell'anno scorso, ha tenuto in rada la Ocean Viking per undici giorni. Per lei nessuno ha sollevato alcuna obiezione.


Mentre i giallorossi perdono tempo a processare Salvini in Aula, gli sbarchi continuano a crescere. I dati di questo mese sono allarmanti, probabilmente i peggiori degli ultimi tre anni. L'aumento degli arrivi supera il 400 per cento. E pensare che solo un anno fa, grazie al pugno duro di Salvini, avevamo a che fare con numeri prossimi allo zero. Oggi, in una intervista al Corriere della Sera, Di Maio, costretto oggi ad appoggiare una linea diametralmente opposta a quella sposata quando era al governo con la Lega, torna a proporre un approccio "pragmatico e concreto" al problema. Come se questo può accadere quando ti trovi a dover affrontare un'emergenza come quella dell'immigrazione clandestina con la sinistra. Da quando il Pd è arrivato al governo, ha un solo chiodo fisso: abbattere i decreti Sicurezza. È diventata la loro ragione di vita. Un po' come lo era stato lo ius soli durante la precedente legislatura. Sulla cittadinanza facile agli stranieri hanno già sbattuto il muso contro il muro. Adesso sembrerebbe che siano riusciti a strappare ai Cinque Stelle il superamento dei due dl Salvini. Entro la fine dell'anno saranno carta straccia e le Ong potranno tornare a fare alla luce del sole quello che negli ultimi mesi non hanno mai desistito dal fare: traghettare clandestini da una sponda all'altra del Mediterraneo. Nel frattempo il governo continuerà a farsi prendere in giro dai migranti che se ne infischiano della quarantena e mettono a rischio la salute di un Paese intero.





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immigrazione







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Matteo Salvini
Luciana Lamorgese
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Published on July 31, 2020 03:00

July 29, 2020

Il governo degli sbarchi coccola i migranti che calpestano le leggi

Il voto in Senato svela la doppia faccia del governo: da una parte vuole processare Salvini per aver fermato gli sbarchi, dall'altra evita il pugno duro contro i clandestini che fuggono dalla quarantena


Andrea Indini



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migranti che calpestano le leggi
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Published on July 29, 2020 02:04

July 25, 2020

Il mistero del genoma umano: tracce di organismi primordiali

Matteo Carnieletto
Andrea Indini



Dopo aver anticipato i tempi raccontando l'incubo della pandemia, Quammen ci racconta l'albero intricato della vita e i misteri nascosti nel dna dell'uomo


Immaginate un albero, di quelli secolari. Alla base, il tronco affonda le proprie radici nella terra. Non puoi vedere fino a dove arrivano. Puoi immaginarlo. È da lì che viene. È da lì che succhia linfa vitale, giorno dopo giorno. Punti, poi, lo sguardo verso l'alto e la chioma è tanto grande da coprire la visuale del cielo azzurro che gli piomba addosso. È immobile, ma in continua mutazione. Da lontano sembra un tutt'uno ma, mano a mano che ti avvicini, puoi scorgere ogni diramazione dei suoi rami. Verrebbe da dire: proprio come la vita. Ma non è così. Questa poteva, infatti, essere un'immagine che andava bene per descrivere, anche se in modo sommario, l'intuizione che aveva avuto Charles Darwin quando, nello scrivere L'origine della specie nel 1859, illustrava quanto aveva appreso durante il secondo viaggio a bordo della HMS Beagle e metteva le basi alla teoria dell'evoluzione facendo così sgretolare il credo creazionista secondo cui la vita data da Dio è immutabile. Si trattò di una vera e propria rivoluzione per la biologia, ma ben presto anche l'idea secondo cui le informazioni ereditarie si trasmettessero solo verticalmente fu superata. La scoperta del trasferimento genico orizzontale ha, infatti, rivelato che in alcuni casi il materiale ereditario viene trasmesso lateralmente. Saltando da una linea all'altra.


Mentre eravamo chiusi in casa, obbligati dal lockdown imposto per contenere la pandemia da coronavirus, molti di noi hanno ripreso in mano un capolavoro uscito dalla penna di David Quammen, Spillover. L'evoluzione delle pandemie (Adelphi). Lo aveva scritto in tempi non sospetti, era il 2012 (in Italia sarebbe uscito un paio di anni dopo), ma già preconizzava quello l'inferno in cui ci siamo venuti a trovare quest'anno. Il salto di specie, dall'animale all'uomo, e la nascita di una malattia di cui non si conosce cura. "La zoonosi (il salto di specie, ndr) – ci metteva in guardia – è una parola del futuro, destinata a diventare assai più comune nel corso di questo secolo". Mentre correvamo a studiare quello che ci stava esplodendo in torno, il saggista statuniteste, autore anche del bellissimo Alla ricerca del predatore alfa, ci metteva davanti a un altro processo in atto da sempre: l'evoluzione della specie. In libreria è, infatti, arrivato da qualche settimana, sempre edito da Adelphi, L'albero intricato. Si tratta di un saggio puntuale (come lo sono sempre i suoi lavori), in alcuni tratti anche ostico, che ha il pregio di aiutare a capire quei processi millenari che da sempre plasmano la vita e che, grazie alla scoperta fatta da Carl Woese negli anni Settanta con il suo lavoro su batteri e archei, si è compreso essere molto più intricati di quanto non immaginassimo. "Woese era uno scienziato mosso dalla più intensa curiosità sulle domande più profonde riguardanti la vita sulla Terra - spiega Quammen in una recente intervista al Giornale - utilizzò la biologia molecolare per rispondere a quelle domande".


È stato Woese a scoprire che i geni non si spostano soltanto in senso verticale, passando cioè da una generazione alla successiva, ma anche lateralmente. Non solo. Possono addirittura attraversare i confini di specie o passare da un regno a un altro. L'uomo stesso è una sorta di mosaico composto da molteplici forme di vita. Siamo "l'equivalente genetico di una trasfusione di sangue". Per almeno l'otto per cento, infatti, il nostro genoma presenta residui di retrovirus che hanno intaccato il dna dei nostri antenati. Si chiama eredità infettiva. Alcuni di questi si sono riadattati e hanno inizato a svolgere funzioni a dir poco fondamentali. Ne è un esempio la sincitina 2, il gene produttore della membrana che, durante la gravidanza, si sviluppa fra la placenta e il feto per portare il nutrimento al nascituro e smaltire gli scarti. Senza di quello non sarebbe possibile la gravidanza.


L'albero descritto da Quammen è a dir poco intricato. E più ti spinge a guardare dove siamo arrivati, più ti obbliga a volgere lo sguardo verso dove tutto ha avuto inizio. Che, poi, è la domanda che muove tutto quanto. "Ci sono prove molecolari forti - spiega Quammen - secondo cui una cellula di archeo sia stata la cellula ospite del primo evento di endosimbiosi che ha condotto alla linea di discendenza di cellule complesse che, oggi, chiamiamo eucarioti, ai quali apparteniamo anche noi". Tra i "donatori" possiamo, infatti, ritrovare organismi primordiali che popolavano la Terra miliardi di anni fa. Oggi abitano in ciascuno di noi in una simbiosi che, come ci fa notare lo scrittore americano, dovrebbe spingerci a interrogarci sui concetti di specie e di individuo.





Persone: 

David Quammen
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Published on July 25, 2020 23:55

July 20, 2020

Porti aperti e quarantena bluff: così Conte gioca con la nostra salute

Andrea Indini




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Conte minaccia la nostra salute
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Published on July 20, 2020 01:13

July 19, 2020

Quando la Bardot divenne BB ​(e tutti caddero ai suoi piedi)

Matteo Carnieletto
Andrea Indini




Nel libro di Mauro Zanon, Brigitte Bardot. Una storia italiana, si ripercorre il legame tra il nostro Paese e l'attrice francese


La nostra non è la generazione BB. Siamo arrivati in ritardo, quando, dopo aver fatto perdere la testa al mondo intero, Brigitte Bardot si era già ritirata nella Madrague. Avevamo altre dee da venerare, altri corpi da ammirare. Eppure, la prima volta che, adolescenti, abbiamo visto l'attrice francese, non abbiamo avuto dubbi e l'abbiamo elevata a donna più bella di sempre. Abbiamo deciso di tifare per la squadra avversaria, quella francese, quando ancora molti si ostinano a tifare per Sofia Costanza Brigida Villani Scicolone, ovvero Sophia Loren. Senza neanche accorgercene ci siamo ritrovati "bardolatri". Perché BB colpiva e colpisce così: all'improvviso. Che fare? Tradire le nostre bellezze - invidiate da tutto il mondo - per sbirciare oltralpe?


Grazie a Dio ci è venuto incontro Mauro Zanon con il suo Brigitte Bardot. Un'estate italiana (Gog), pregiato libro con prefazione di un "bardolatra" come Giampiero Mughini, in cui vengono riproposti anche i bozzetti di Milo Manara su BB. Con un pizzico di orgoglio (e grazie a Zanon), oggi possiamo possiamo dire che fu l'Italia a scoprire BB quando oltralpe tutti (o quasi) non la consideravano. È lei stessa ad ammetterlo in un'intervista concessa negli anni anni Cinquanta e riproposta nel volume: "I miei primi film non sono stati un successo. E mi stavo convincendo che non avrei mai fatto nulla nel cinema. Poi però sono stata in Italia, e lì mi hanno fatto fare dei film che forse non erano bellissimi, ma dove sono stata fotografata bene, e per i quali è stata fatta una buona pubblicità. Ciò ha permesso alla Francia di rendersi conto che forse potevo fare qualcosa. E da quando sono rientrata dall'Italia ho cominciato a lavorare seriamente". Ma non solo. Fu Cinecittà a immaginarla bionda. È il 1955 e la Bardot sta interpretando Poppea nel film "Mio figlio Nerone" di Steno. A un certo punto un parrucchiere ha l'intuizione: BB deve essere bionda. Così fu. Così nacque il mito.


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La Bardot torna trionfante in Francia, dove inizia a fare sul serio e a girare film sempre più maliziosi. Tutti la guardano. Le donne vogliono essere come lei. Gli uomini sognano di stare con lei. Ma sono anni bigotti, in cui una spallina di troppo può valere la censura e il taglio della scena dalla pellicola. La Bardot viene dunque vista come il demonio, con quelle cosce in vista e i seni sodi. Ma soprattutto con il suo ammaliare e ammiccare. I vescovi corrono ad acquistare tutti i biglietti dei suoi film affinché i fedeli non cadano in tentazione e ne decretano il sucesso, come tutto quello che è proibito, del resto. La Democrazia cristiana la vede come il diavolo in sacrestia: "Troppe seduzioni, troppe corna, troppe gelosie, troppe passioni e soprattutto troppe nudità", fa notare Zanon a proposito de Gli amanti del chiaro di luna. Ma la censura non può fermare il mito. Anzi...


La Bardot è innamorata del nostro Paese. Lo gira da Nord a Sud: Cortina, Venezia, ovviamente Roma, poi Spoleto e Capri. Ma è a Venezia che Mario De Biasi, fotografo bellunese di Epoca, riesce a scattare una foto, che oggi diremmo iconica, e che spiega più di mille trattati cosa fosse BB in quegli anni. Scrive Zanon: "Dopo la conferenza stampa, BB si concesse agli obiettivi dei fotografi, ma non per la solita sessione di foto. Con i tacchi e un abito vaporoso si sdraiò su un prato, rotolandosi col ditino in bocca, incantevole e provocante. Subito fu circondata da una schirea di paparazzi, molti dei quali erano venuti al Lido solo per poter vantare una foto che la ritraesse nel loro portfolio. De Biasi, un po' defilato, osservava attentamente la scena. A un certo punto, mentre i suoi colleghi quasi si calpestavano per immortalarla, l''italiano pazzo' ebbe l'intuizione di fare il giro e mettersi alle spalle della Bardot. Di fronte al suo obiettivo aveva così la diva e la ressa dei fotografi impazziti che la divoravano con le loro macchine. De Biasi, da quell'angolo, non fotografò una bellissima fanciulla, come avevano fatto tutti gli altri: fotografò il mito, un mondo, un'epoca".


Lasciando la Laguna, Bb scrisse: "Addio Venezia, addio bellezza incompresa che un pubblico avido di foto oltraggia, calpesta infanga, senza sapere, senza vedere, senza comprenderne l'essenza. Venezia mi faceva pensare a me stessa". Anche la Bardot fu letteralmente mangiata dai paparazzi, che odiava, e infangata a causa della sua libertà dai moralisti di ogni risma incapaci di comprerne l'essenza. Per questo, a un certo punto, decise di sparire e di vivere nella sua Sain Tropez, dalla quale esce rararamente. A volte solo per andare a pregare nella piccola cappella della Garrigue. E magari sorridere con Dio del suo scandaloso passato.





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Brigitte Bardot
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Published on July 19, 2020 01:49

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Andrea Indini
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