Andrea Indini's Blog, page 76

May 13, 2020

May 12, 2020

"Il focolaio non era Codogno" Le rivelazioni sulle zona rosse

Giuseppe De Lorenzo
Andrea Indini




Codogno, Cremona e la Val Seriana. Il retroscena sulle chiusure mancate. E quei sintomi molto tempo prima del paziente 1


Non è partito tutto da Codogno. Non è esploso a fine febbraio. E chissà se le "zone rosse" avrebbero cambiato il corso degli eventi. La storia dell’epidemia da coronavirus in Italia è tutta da scrivere, e molti capitoli restano ancora oscuri. Ma quel che ormai appare chiaro è che le convinzioni sin qui radicate, sia sull’evoluzione temporale del contagio che sui luoghi colpiti dal coronavirus, sono probabilmente da rivedere. Se ci basiamo infatti sui dati ufficiali riportati dalla Protezione Civile, la storia dell’epidemia italiana sembra avere una data di inizio (il 20 febbraio) e un luogo preciso (Codogno). È la cronaca che tutti conosciamo e che abbiamo osservato ogni giorno seguendo le (inutili) dirette del commissario Angelo Borrelli. Eppure esiste un prequel oscuro che ci costringe a volgere lo sguardo più indietro.


Nello studio intitolato "The early phase of the Covid-19 outbreak in Lombardy, Italy", un gruppo di scienziati ha studiato i "primi 5.830 casi confermati in laboratorio" in Lombardia e ha scoperto che "l'epidemia in Italia è iniziata molto prima del 20 febbraio 2020". "Al momento del rilevamento del primo caso Covid-19 - si legge - l'epidemia si era già diffusa nella maggior parte dei comuni del sud-Lombardia". Gli analisti hanno chiesto alle persone sottoposte a tampone e positive al coronavirus di provare a ricordare quando erano sorti i primi sintomi e i risultati sono sorprendenti. Non solo l'epidemia era "in corso prima dell'identificazione del paziente 1", ma addirittura il primo caso di coronavius è del 1 gennaio 2020, un mese e mezzo prima l'esplosione del focolaio a Codogno. A dire il vero, i test sierologici di questi giorni stanno spostando la lancetta addirittura all'ultima decade dello scorso anno. Quel che è certo, comunque, è che tra il 24 gennaio e l'inizio di febbraio in Italia comparivano numeri sempre più consistenti di persone con sintomatologia da Covid-19. Tanto che, quando il 20 febbraio l’Italia scopre il caso nel Lodigiano, circa 1.200 di persone soffrivano già tutti i sintomi da infezione da coronavirus.


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È da qui che occorre partire per valutare le scelte del governo in quei primi drammatici giorni e capire se i vari lockdown sono stati tempestivi oppure no. La prima decisione è quella di blindare dieci Comuni nel Lodigiano (Bertonico, Casalpusterlengo, Castelgerundo, Castiglione d'Adda, Codogno, Fombio, Maleo, San Fiorano, Somaglia e Terranova dei Passerini) e Vo' Euganeo in Veneto. La speranza è di contenere l'infezione e di circoscrivere i contagi, ma in poche ore comincia ad apparire evidente che bisogna fare qualcosa in più. "Noi avevamo chiaro che il problema si stava diffondendo anche oltre Codogno - racconta una fonte nella task force lombarda - e in sede tecnica avevamo fatto tantissime ipotesi su come agire". All'inizio, come il Giornale.it è in grado di ricostruire, si pensa di allargare le zone rosse nel Lodigiano. "Avevamo pensato di includere tutti i Comuni che avevano avuto almeno due casi, poi quelli confinanti, in modo da creare una corona un po' più ampia. Questa ipotesi però è stata scartata quando le inchieste sul paziente 1 hanno evidenziato che l'infezione si era ormai propagata e iniziavano ad emergere i primi casi a Bergamo". In quel momento gli epidemiologi ancora non lo sanno, ma in Val Seriana, a Cremona e a Piacenza i contagi si stavano già moltiplicando da giorni. Senza che nessuno se ne accorgesse.


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Gli studiosi lo capiranno solo diverse settimane dopo, quando le analisi dimostreranno che Codogno non sarebbe neppure il luogo d'inizio della tragedia. Andando a ritroso, la task force lombarda ha infatti scoperto che i primi segnali dell'epidemia sarebbero sorti ad Arese e a Conegliano Laudense, due Comuni di 20mila e 3mila abitanti. E solo in un secondo momento l'infezione si sarebbe allargata alle zone del Lodigiano (il 24 gennaio), di Bergamo e di Cremona (il 31 gennaio). "Se il focolaio fosse stato Codogno - dice la fonte - penso che saremmo riusciti a bloccarlo. Invece una cosa che ormai ci è chiara, ma in quei giorni lo era un po' meno, è che la nostra velocità di analisi della catena di contagio era insufficiente rispetto a quella del virus".


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Quello che molti si chiedono è perché, una volta appurato che l'infezione era ormai sfuggita dalla cittadella lodigiana, non si sia deciso di chiudere anche le altre aree più colpite (Bergamo, la Val Seriana o Brescia) non appena queste si "accendevano" come nuovi focolai. La successione degli eventi è ormai nota: la Lombardia chiede a Roma di istituire nuove zone rosse, il governo chiede lumi al comitato tecnico scientifico e poi temporeggia. Il 2 marzo, come rivelato da Tpi, l'Istituto superiore di sanità consiglia a Conte di estendere la serrata ai comuni bergamaschi di Alzano Lombardo e Nembro e a quello bresciano di Orzinuovi. Ma Palazzo Chigi non si muove. Perché? Difficile dirlo. Sono ore convulse. Anche gli epidemiologi navigano a vista. Quel che è certo è che la decisione andava presa nell'immediato. Tanto che dopo pochi giorni di attesa (tra il 27 febbraio e l'8 marzo), gli esperti iniziano a capire che è già troppo tardi e che l'unica soluzione è chiudere l'intera Lombardia. "Quando è venuto il ministro speranza a Milano (il 4 marzo, ndr), la relazione della task foce già affermava che le zone rosse probabilmente non avevano più senso e che ormai bisognava fermare tutto". Quattro giorni dopo arriverà il Dpcm che chiuderà l'intera Lombardia e altre 14 province del Nord.


I tentennamenti di quelle due settimane hanno avuto effetti nefasti, permettendo al virus di insinuarsi nei treni stipati di pendolari, nei pronto soccorso degli ospedali affollati da pazienti in crisi respiratoria convinti di avere una "banale influenza", negli uffici e nelle residenze per anziani. "Sulle zone rosse - dice la fonte nella task force - penso che se anche l'avessimo realizzata non credo che avremmo ottenuto risultati sul contenimento dell'infezione. Ma sicuramente avrebbe permesso di spegnere quei focolai un po' più in fretta, come successo a Codogno. Forse se io e i miei colleghi fossimo stati più convincenti, magari avremmo anticipato anche solo di 3 o 4 giorni la decisione del governo e forse avremmo limitato i danni".


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Published on May 12, 2020 23:02

May 10, 2020

Gli errori nelle carte del governo: così Covid è dilagato in Italia

Giuseppe De Lorenzo
Andrea Indini




Il piano segreto, le direttive agli ospedali, il divieto di fare autopsie e i pochi tamponi: tutti i buchi del "modello italiano"


Sono casi fotocopia. L'insorgenza del virus, le difficoltà nel riconoscerlo e poi l'ondata di morte. In tutti i Comuni focolaio, nelle prime ore del contagio, i medici si scoprono senza armi. Sebbene il governo sappia da settimane i rischi a cui il Paese sta andando incontro, le direttive ministeriali sono farraginose, le mascherine Ffp3 sono introvabili e i respiratori adatti a tenere in vita i casi più gravi di Covid insufficienti a far fronte allo tsunami sanitario che ci sta travolgendo. Al netto di tutte le polemiche, che seguiranno nelle settimane successive alla scoperta del "paziente 1" a Codogno, il vero vulnus, che alla fine di febbraio fa precipitare la situazione, è l'inazione del governo.


Perché, sebbene il 20 gennaio abbia già in mano un documento tanto allarmante da preferire di non divulgarlo per "non spaventare i cittadini", rimane con le mani in mano? "Non c'è stato alcun vuoto decisionale - assicura al Corriere della Sera il direttore generale della Programmazione sanitaria, Andrea Urbani - già dal 20 gennaio avevamo pronto un piano secretato e quel piano abbiamo seguito. La linea è stata non spaventare la popolazione e lavorare per contenere il contagio". Si tratta di uno studio ipotetico, per carità. Ma già in quelle 55 pagine si capisce che il rischio per il Paese è altissimo. Eppure nessuno si muove. Le direttive ministeriali non vengono aggiornate. Tanto che a fine febbraio è ancora in vigore quella approvata il 27 gennaio che considera "casi sospetti" solo quelle persone con una "infezione respiratoria acuta grave" che siano anche state in "aree a rischio della Cina", che abbiano lavorato o frequantato "un ambiente dove si stanno curando pazienti" colpiti da Covid-19 o che abbiano avuto contatti stretti con un "caso probabile i confermato da nCoV". Sulla base di queste linee guida, mai e poi mai si farebbe il tampone a Mattia, il 38enne ricoverato all'ospedale di Codogno con una polmonite che non risponde alle cure convenzionali. È grazie all'intuito di un'anestesista che, assumendosi la responsabilità di fargli il test "anche se i protocolli italiani non lo giustificano", sblocca la situazione e apre gli occhi al governo e all'intero Paese.


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C'è anche un'altra direttiva del ministero della Salute che, se applicata alla lettera, non permetterebbe mai di arrivare a scoprire l'utilità dell'eparina per sconfiggere il coronavirus. È quella che dispone di non fare autopsie sui pazienti uccisi dal Covid-19. Il motivo è evitare di "perdere tempo" con casi di cui si conosce già l'esito. Ma all'ospedale Papa Giovanni XXII, come raccontato dal Corriere della Sera, il direttore del dipartimento di Medicina di laboratorio e Anatomia patologia, Andrea Gianatti, decide di fare di testa sua. E, insieme a Aurelio Sonzogni, si mette a fare autopsie già dal 23 marzo. "È stato chiaro abbastanza presto che questa malattia si stava manifestando in forma diverse, multiple", spiega. La necessità di capire li porta così a scoprire l'utilità dell'eparina contro le trombosi.


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L'altra grande ferita riguarda i tamponi. In molti ormai si sono persuasi all'idea che per frenare il contagio serva un tamponamento di massa per scovare anche gli asintomatici. Ma su questo tema il governo (e gli esperti dell'Iss) hanno sempre sostenuto la tesi opposta. Il 27 febbraio Angelo Borrelli e il direttore dell'Iss, Franco Locatelli, annunciano che da quel momento in poi solo i sintomatici verranno sottoposti al test per il coronavirus. L'Iss lo mette per iscritto in un documento in cui spiega come non sia "scientificamente giustificabile" realizzare esami a tutti, visto che "nella larghissima maggioranza dei casi risulteranno essere negativi". Inoltre, secondo gli esperti il contributo degli asintomatici alla diffusione dell'epidemia "appare limitato". Meglio quindi non sprecare i materiali. Ed è per questo che l'Italia nella prima fase dell'epidemia deciderà di realizzare pochi, pochissimi test.


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L'unica Regione a muoversi diversamente è il Veneto, che sin da subito applica la regola del "tampone a strascico". Tradotto: sottoporre alle analisi quanti più cittadini possibile, in modo da contenere il contagio. I numeri oggi ci dicono che la strategia veneta era azzeccata. Dunque viene da chiedersi: perché non l'ha adottata sin da subito anche il governo? I motivi sono almeno due. Il primo è di natura "politica": in un primo momento, per evitare che l'Italia venisse disegnata come il grande lazzaretto d'Europa, si è preferito "vedere" meno contagi. Il secondo è invece pratico: il Belpaese non era (e non è) attrezzato per realizzare tanti tamponi quanti ne servirebbero. A dirlo è lo stesso ministero della Salute, che in una circolare del 3 aprile certifica le "carenze nella disponibilità di reagenti necessari per l'esecuzione di questi test" e suggerisce di dare la priorità ad alcune categorie più a rischio (ricoverati, operatori sanitari, anziani), isolando "tutti gli altri individui che presentano sintomi", ma senza sottoporli a "test supplementari". Cioè lasciandoli nell'incertezza. Intanto però il virus circola. Contagia. E uccide.





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Published on May 10, 2020 23:04

May 7, 2020

Coronavirus, il metodo che evita la strage: "Nessun paziente è morto"

Giuseppe De Lorenzo
Andrea Indini




Piacenza inondata di contagi. I primi morti. Poi l'idea del dottor Luigi Cavanna: la cura casa per casa. "Così i pazienti guariscono"


"Ricordo un tardo pomeriggio al pronto soccorso. Parlavo con i miei colleghi. Avevamo le maschere, i caschi, il sibilo dell'ossigeno che arrivava all'orecchio. Sembrava di vedere una cortina di fumo. Faceva paura". Piacenza, febbraio 2020. Se chiudiamo gli occhi e torniamo a quei giorni, i ricordi possono farsi confusi. È tutto così frenetico: i primi contagi, l'allarme coronavirus, la chiusura, le riaperture, gli ospedali pieni, le bare. La morte. Nel marasma della provincia emiliana al confine con la Lombardia, la più colpita in Italia in proporzione agli abitanti, gli operatori sanitari combattono una battaglia ad armi impari. I reparti vengono trasformati in zone Covid, le sale operatorie in terapie intensive. I nosocomi nelle aree periferiche devono essere riconvertiti. I ricoveri si contano a centinaia. Mentre le vittime cadono una dietro l'altra, un medico piacentino ha un’illuminazione: perché continuiamo ad ammassare i pazienti in ospedale, perché li facciamo arrivare in pronto soccorso quando ormai gli manca l’aria, invece di aggredire prima la malattia?


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Luigi Cavanna, primario di Oncologia, oggi è conosciuto come il padre del "metodo Piacenza". Voce pacata, eloquio ordinato. Riesce a rendere chiaro anche quello che a molti appare oscuro. "All’inizio si pensava fosse una infezione virale, forse più brutta dell’influenza, ma nulla di così rilevante. Poi ci siamo resi conto che invece è una malattia drammaticamente seria". In poche parole il suo rivoluzionario approccio al coronavirus può essere riassunto così: "Il paziente deve essere trattato tempestivamente e questo vuol dire che va curato a casa". Semplice, eppure piuttosto complesso. Soprattutto se devi inventarlo quando, nei primi istanti dell’epidemia, la scienza medica si sta dirigendo in massa nella direzione opposta. "Se torniamo indietro nel tempo, ricorderete che tutte le televisioni, nazionali o locali, facevano questa raccomandazione agli italiani: state a casa e non andate al Pronto soccorso. Il problema è che diverse persone hanno seguito il consiglio assumendo solo tachipirina e alla fine non riuscivano più a respirare, chiamavano il 118 e arrivavano di corsa in ospedale". A quel punto i medici si trovavano di fronte ad un malato ormai quasi irrecuperabile. "Il virus - spiega Cavanna - all'inizio si moltiplica, poi innesca una risposta immunitaria dell'organismo che determina una infiammazione che distrugge gli alveoli dei polmoni". In poco tempo gli organi si lacerano per sempre. "Quando il danno è fatto, è difficilmente recuperabile. È per questo che poi tante persone non ce l’hanno fatta".


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Di necrologi le pagine dei quotidiani piacentine sono piene. Soprattutto nelle prime due settimane. "Lavoro in oncologia ed ematologia, reparti abituati a confrontarsi con la sofferenza e la morte - racconta Cavanna - Ma in quei giorni ho avuto l'impressione ci trovassimo di fronte a qualcosa mai visto prima. Faceva paura, talmente tanti erano i malati in quei lettini di fortuna. Le ambulanze arrivavano in fila a portare altri pazienti, io mi guardavo intorno, incrociavo gli occhi dei colleghi. Avevamo la percezione di non farcela". È in quello stato di impotenza che sboccia l'idea di cambiare approccio. "Nelle riunioni cercavamo sempre di aumentare i posti nelle emergenze e nelle rianimazioni, ma poi abbiamo capito che questa è una infezione virale che ti lascia del tempo per intervenire. Non è un ictus, un infarto o un arresto cardiaco che colpiscono in pochi minuti o in pochi secondi: ti lascia una settimana o anche 10-15 giorni". C’è quindi spazio per agire prima che il quadro clinico si aggravi. Il ragionamento è logico: se il paziente in ospedale viene sottoposto a un trattamento basato su un antivirale e sull'idrossiclorochina (un antimalarico), tutti farmaci che si assumono per via orale, cosa ci impedisce di iniziare la cura all'insorgere di primi sintomi? "Ci siamo detti: cerchiamo di andare nelle case, non solo per la semplice visita ai malati, ma con tutto l’occorrente per curare la malattia tempestivamente".


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Così il 1° marzo Cavanna e un infermiere iniziano il loro tour a domicilio. Sono spedizioni diverse da quelle realizzate da altre Unità speciali (Usca) in Italia. Non vanno solo a visitare il paziente a casa o a fare il tampone, sono lì per curarlo come se fossero in ospedale. Con loro portano i Dpi, un termometro, i palmari per realizzare l’ecografia sul posto, un saturimetro, il tampone e un kit di farmaci già pronti all'uso. Compresa l’idrossiclorochina, già usata contro Sars e malaria. "Se l'ecografia toracica è dubbia e mostra polmoniti interstiziali - racconta l'oncologo - dopo aver chiesto il consenso del paziente, consegniamo i farmaci e gli diciamo: 'Lei inizi la terapia, anche in attesa del risultato del tampone'. Alle persone che presentano polmoniti severe lasciamo anche l'ossigeno. Poi ogni giorno i pazienti ci comunicano i dati della propria saturazione, in modo da poterli monitorare dall'ospedale".


[[nodo 1853103]] I primi esperimenti Cavanna li porta avanti (quasi) da solo. Poi dal 15 marzo l'Ausl piacentina si organizza e mette in pieni alcune Usca dedicate allo scopo. "La prima fu una paziente oncologica, una signora che vive da sola", ricorda Cavanna. "Era entrata al pronto soccorso con la febbre, la tac aveva evidenziato una polmonite interstiziale, ma lei aveva atteso lì per dieci ore. Poi aveva firmato la cartella, chiamato un taxi e si era fatta portare indietro. Il giorno dopo mi ha chiamato dicendomi: 'Io sono a qui, da sola, sto male. O mi venite a visitare a casa o io muoio'. Lei cosa avrebbe fatto?". Domanda retorica. "Il dramma di questa infezione è che ha abituato gli italiani a morire da soli. Veder arrivare due sanitari a portare dei farmaci, che lasciano un numero di telefono da chiamare, un saturimetro e ti spiegano cosa fare, per loro era già una mezza salvezza. A me questo ha messo in crisi, perché i malati in un Paese evoluto non dovrebbero mai avere la percezione di sentirsi abbandonati". In Italia, purtroppo, è andata così.


La cura "precoce" e "a domicilio" si rivela da subito molto efficace. "Le persone non peggiorano, guariscono prima e soprattutto non muoiono". Presto i risultati degli studi sul "metodo Piacenza" saranno pubblicati su una rivista per dare informazioni alla comunità scientifica. Ma le analisi che a fine aprile Cavanna anticipa al Giornale.it sono straordinarie: "Su 250 pazienti curati a domicilio, le posso dire che nessuno di loro è morto. Né a casa né in ospedale. Di questi, è stato ricoverato meno del 5% e tutti sono tornati a casa, di cui la metà entro pochi giorni". Si tratta di dati "veri", "rilevanti" e "rincuoranti", su cui occorrerà fare delle riflessioni. "Per tanto tempo si è discusso di aumentare i posti in terapia intensiva, una strategia criticabile - dice Cavanna - Ma quando un malato va in rianimazione lo dobbiamo vedere come il fallimento della cura. Dovrebbe essere l'ultima spiaggia: la malattia virale va aggredita precocemente". Solo così si può sconfiggere il Sars-Cov-2, "ridurre gli accessi al pronto soccorso" e "bloccare la storia naturale" del morbo. Evitando un fiume di vittime.


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Published on May 07, 2020 22:55

I 5S si inchinano ai renziani: ecco la sanatoria dei migranti

Andrea Indini




Arriva la maxi sanatoria del governo: con la scusa dell'emergenza, corrono a regolarizzare gli irregolari. Non solo i braccianti


Alla fine i Cinque Stelle hanno dovuto soccombere ai diktat degli alleati. Ancora una volta, non appena i renziani hanno minacciato fuoco e fiamme, si sono trovati a dover digerire una misura che causa mal di pancia soprattutto nell'ala più di destra del movimento. Nel decreto aprile, che a furia di slittare è ormai diventato decreto maggio, è infatti spuntato un articolo per regolarizzare (anche se a tempo) i lavoratori "invisibili", cioè gli immigrati irregolari. Una misura fortemente divisiva che non solo crea una violenta spaccatura in parlamento, ma che genera un forte malcontento in un Paese già dilaniato dall'emergenza sanitaria e dalla crisi economica.


"È una follia!", tuonano i parlamentari della Lega. "Il nostro Paese non ha bisogno di nuovi schiavi senza tutele, senza diritti e con stipendi da fame", denuncia il deputato Nicola Molteni, sottosegretario all'Interno quando Matteo Salvini sedeva sullo scranno del Viminale. Da quando al minisero dell'Interno non c'è più il leader del Carroccio, molto è cambiato in tema di accoglienza e immigrazione. La sanatoria degli irregolari arriva, infatti, dopo mesi di lassismo nei confronti degli sbarchi che ha portato nell'ultimo mesi a un aumento degli arriva di circa il 350%. E, sebbene il colpo di spugna voluto dai renziani sia stato inizialmente osteggiato dai grillini, alla fine il ministro alle Politiche agricole, Teresa Bellanova, con la sue minacce di dimissioni riesce ad avere la meglio. Tanto che, dopo il faccia a faccia a Palazzo Chigi tra la delegazione di Italia Viva e il premier Giuseppe Conte, la misura subito inizia a trapelare in ambienti giornalistici.


La misura è già stata ribattezzata "ius Covid". Dopo aver fallito l'approvazione dello ius soli nella precedente legislatura, la sinitra tenta di sanare i lavoratori in nero con la scusa dei pomodori che nessuno può raccogliere e che quindi rischiano di marcire nei campi. La bozza del decreto, visionato dall'agenzia Adnkronos, punta, infatti, a sanare non solo i braccianti, ma anche le colf e le badanti, regalando loro permessi temporanei da quattro mesi o fino al termine della durata del contratto. "Prima la sinistra dal 2012 al 2018 ha aperto le porte a 700 mila immigrati irregolari lasciandoli vivere come fantasmi senza integrazione e alimentando caporalato, sfruttamento e lavoro nero a 3 euro all'ora - commenta Molteni - ora, in barba al decreto flussi, li regolarizza alla faccia dei cittadini italiani e degli stranieri perbene".


L'articolo, che è stato messo a punto dal ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese, in stretto contatto con Palazzo Chigi, si trincera dietro alla scusa di "garantire livelli adeguati di tutela della salute individuale e collettiva, in conseguenza dell'eccezionale emergenza sanitaria connessa alla diffusione del contagio da Covid-19", per regalare il permesso di soggiorno a chi attualmente non lo ha. In una prima parte della bozza, come fa notare l'Adnkronos, non viene indicata la durata definitiva. C'è un generico "della durata di mesi XX". Poco sotto, però, si legge che, "se il cittadino esibisce un contratto di lavoro subordinato nei settori" interessati dalla nuova norma, "il permesso viene convertito in permesso di soggiorno per motivi di lavoro della durata minima di mesi quattro o per il periodo di lavoro contrattuale se superiore ai quattro mesi".


Per Giorgia Meloni dal governo giallorosso arriva "un brutto segnale". "Così - spiega la leader di Fratelli d'Italia - noi diciamo che chi non ha rispettato le regole ha trovato lavoro ed è stato regolarizzazione". Non solo. Secondo il deputato leghista Paolo Grimoldi, la misura rischia di togliere "centinaia di migliaia di posti di lavoro ai disoccupati italiani".





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Published on May 07, 2020 09:26

May 5, 2020

Se il governo sana i clandestini (e ci lascia alla deriva del virus)

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Andrea Indini







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Published on May 05, 2020 07:44

April 29, 2020

Lo schiaffo di Conte al Nord ferito

Andrea Indini




Dopo due mesi di silenzi, il premier si fa rivedere in Lombardia. Nessun mea culpa sulle mancate zone rosse e toni sprezzanti contro chi chiede verità


Solo tra Bergamo e Brescia, anche se non ufficialmente, il virus ha strappato la vita a 10mila persone. È probabilmente la strage più violenta di tutto il Paese. Eppure Giuseppe Conte non si è mai degnato di far sentire la propria vicinanza alla Lombardia, la grande malata d'Italia che ha affrontato l'epidemia portando le sofferenze e i lutti sulle proprie spalle, in silenzio. Ora che i morti hanno iniziato a calare, il premier si è organizzato una due giorni di passerelle in queste terre martoriate da un morbo che ti soffoca il respiro fino a ucciderti. L’ennesimo schiaffo a una terra che ha già sofferto troppo.


A Bergamo, lunedì sera, Conte si è presentato alle 23:10. Lo attendevano dalle 20:30. La visita a Brescia, poi, è slittata addirittura alle due di notte. Può succedere, d'altra parte è il presidente del Consiglio e, poco prima, si è fatto vedere pure a Milano. Ma, quando è arrivato si è rifiutato di rispondere alle domande dei giornalisti bergamaschi che lo aspettano da oltre un'ora. “Ho già parlato a Milano...”, si è limitato a dire non riuscendo nemmeno a evitare la penosa figuraccia di non ricordare i nomi di Alzano Lombardo e Nembro. Li ha genericamente definiti “i piccoli comuni del bergamasco”. E sì che ai primi di marzo, quando la Regione Lombardia gli chiedeva di estendere le “zone rosse", i nomi di quei due paesini gli sono stati fatti più è più volte. Una cronista ha provato pure a strappargli la verità su quei drammatici giorni. Voleva sapere, come tanti altri cittadini della Val Seriana, cosa è andato storto. Ma lui ha replicato stizzito: “Guardi, se lei un domani avrà la responsabilità di governo, scriverà tutti i decreti ed assumerà tutte quante le decisioni”.


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La freddezza con cui ha trattato la cronista di Tpi sembra ribadire, con maggiore violenza, quello che qualche ora prima ha confidato in una intervista alla Stampa. E cioè che sarebbe disposto a rifare tutto quello che ha fatto fino ad oggi. È l’incapacità di ammettere di aver sbagliato. Forse si è dimenticato che in quelle terre migliaia di persone hanno recentemente perso i propri cari, stroncati in casa o, soli, in un letto di terapia intensiva. Lì hanno visto i camion dell'esercito incedere lenti mentre, nel cuore della notte, portavano via i cadaveri da far cremare. Lì hanno sopportato, più che altrove, il peso di questa drammatica pandemia.


Conte non ha certo fatto meglio ieri, nella seconda giornata di tour in giro per la Lombardia. Prima, incalzato dalla Lega, ha evaso le domande sulla "mancata zona rossa a Piacenza". In quella provincia, con un defunto ogni 354 abitanti, è stato pagato uno dei conti più alto in termini di vittime da Covid-19. In totale si parla di 800 morti e circa 4mila contagiati. E pensare che il 24 febbraio il ministro alle Infrastrutture, Paola De Micheli (piacentina), aveva detto che la città non rientrava nella zona rossa perché non si erano registrati contagi autoctoni e tutti i casi in carico all'ospedale erano collegati al focolaio lodigiano. "I piacentini non hanno bisogno di sfilate - hanno tuonato alcuni consiglieri del Carroccio - ma reclamano risposte e aiuti che fino ad oggi non sono arrivati".


Gli stessi aiuti sono stati reclamati dai sindaci del Lodigiano che, ieri pomeriggio, si sono visti arrivare il premier nell'ultima tappa del suo tour lombardo. "Siamo contenti di aver incontrato Conte dopo più di due mesi e svariate richieste, ma noi a Lodi e nel lodigiano siamo abituati ai fatti, non alle parole, e anche oggi di risposte concrete non ne abbiamo avute", ha spiegato al Giornale.it il sindaco di Codogno, Francesco Passerini. Con lui, fuori dalla Prefettura di Lodi, c'era pure un pugno di gente infuriata col governo. Poche persone rispetto a quelle che, in tutta la Lombardia, stanno soffrendo a causa del coronavirus e che il premier, con le sue parole e i suoi silenzi, ha nuovamente ferito.




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Published on April 29, 2020 00:06

April 28, 2020

La terribile gabbia della fase 2

fase 2




Andrea Indini







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Published on April 28, 2020 02:02

April 22, 2020

Dalle macerie del coronavirus nasce un nuovo ordine mondiale

Usa, Cina e Russia: così l'emergenza coronavirus ha cambiato lo scacchiere politico internazionale. Ma come sarà il mondo di domani?






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Matteo Carnieletto
Andrea Indini







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Published on April 22, 2020 22:59

April 20, 2020

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