Andrea Indini's Blog, page 75

June 12, 2020

Tre ore davanti alla pm di Bergamo. Le falle nella difesa di Conte

Giuseppe De Lorenzo
Andrea Indini




Tutti lo avevano avvisato su cosa stava succedendo. Ma Conte ha perso tempo. E adesso vuole scaricare le colpe su altri


Tre ore di faccia a faccia con la pm di Bergamo Maria Cristina Rota. Durante l'audizione a Palazzo Chigi per far luce sulla mancata zona rossa in Val Seriana, il premier ha ribadito quanto detto in questi mesi e quanto fatto trapelare sui giornali. E cioè che Regione Lombardia avrebbe potuto agire in autonomia, se solo lo avesse voluto. E che se il governo non si mosse, fu solo perché stava per chiudere l'intera regione. Ma per quanto provi a scaricare le colpe sul Pirellone, non basterà al premier trascinare con sé Attilio Fontana o Giulio Gallera negli abissi della giustizia per sottrarsi da una eventuale incriminazione per "epidemia colposa". C’è una falla nella strategia difensiva di Giuseppe Conte. E questo l'avvocato del popolo deve sicuramente saperlo.


La linea del presidente del Consiglio si dipana infatti lungo due direttive: da un lato sostiene che "in caso di urgenza e necessità la Regione poteva procedere autonomamente, come effettivamente è avvenuto in seguito e come hanno fatto altre Regioni"; dall'altro mette agli atti che si decise di aspettare perché "intanto era maturata una soluzione ben più rigorosa, basata sul principio della massima precauzione, che prevedeva di dichiarare 'zona rossa' l'intera Lombardia e tredici Province di altre Regioni". In fondo, la sua ricostruzione dei fatti Conte l'aveva già "consegnata" il 6 aprile al Fatto Quotidiano in una intervista pubblicata pure sul sito della Presidenza del Consiglio destinata a infuocare la polemica politica. Per quanto riguarda la decisione di non intervenire, Conte disse: "La sera del 3 marzo il Comitato tecnico scientifico propone per la prima volta la possibilità di una nuova zona rossa per i comuni di Alzano Lombardo e Nembro. Ormai vi erano chiari segnali di un contagio diffuso in vari altri comuni lombardi, anche a Bergamo, a Cremona, a Brescia. Una situazione ben diversa da quella che ci aveva portato a cinturare i comuni della Bassa Lodigiana e Vo' Euganeo. Chiedo così agli esperti di formulare un parere più articolato: mi arriva la sera del 5 marzo e conferma l'opportunità di una cintura rossa per Alzano e Nembro. Il 6 marzo, con la Protezione civile, decidiamo di imporre la zona rossa a tutta la Lombardia. Il 7 marzo arriva il decreto". Nella stessa occasione tentò, infine, di scaricare la colpa su Regione Lombardia che "non è mai stata esautorata dalla possibilità di adottare ordinanze proprie, anche più restrittive, secondo la legge 833/1978".


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Il punto è che il premier dovrà trovare argomenti più sostanziosi per convincere la Rota a non indagarlo. In una nota, infatti, la pm di Bergamo ha spiegato che la Procura in una prima fase cercherà di ricostruire quanto accaduto (per questo sono stati ascoltati come persone informate sui fatti sia i ministri sia gli amministratori locali); e poi punterà ad "accertare se vi sia stato nesso di causalità tra i fatti come ricostruiti e gli eventi e, in caso affermativo, stabilire a chi fanno capo le responsabilità". Tradotto: se dovesse emergere che la Val Seriana, sulla base dell'andamento epidemiologico, andava chiusa per evitare la strage, bisognerà capire di chi era il compito di prendere una decisione del genere. Certo, Conte tenterà (ancora una volta) di appellarsi al fatto che "anche" la Lombardia avrebbe potuto istituire la zona rossa (cosa tutta da dimostrare, visto che anche per la pm quella era "una decisione governativa"). Ma questi sono scaricabarili che valgono in politica, non in Tribunale. Perché, anche qualora i magistrati ritenessero doveroso indagare pure Fontana, alla sbarra dovrebbe comunque finire anche il governo. Se infatti oggi vi sono ancora fortissimi dubbi sul fatto che il Pirellone potesse blindare Alzano Lombardo e Nembro, è ormai appurato che quel potere il governo lo aveva eccome. Non solo perché attraverso il Viminale gestisce le forze dell’ordine. Ma anche perché governativa fu la decisione di chiudere Codogno e il basso Lodigiano. Se quindi quel fascicolo per epidemia colposa, per ora a carico di ignoti, dovesse trasformarsi in qualcosa in più, allora Conte potrebbe davvero uscirne con un avviso di garanzia. Con o senza Fontana.


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Se ripercorriamo a ritroso quei giorni terribili, emerge infatti come tutti quanti abbiano cercato di far capire in lungo e in largo a Conte che la Val Seriana andava chiusa. Gliel'ha messo per iscritto il 2 marzo l'Istituto superiore di sanità, consigliandogli di intervenire anche su Brescia. Glielo ha ribadito il giorno dopo, il 3 marzo, il Comitato tecnico scientifico spiegandogli che ormai, in quelle zone, "l'R0 è sicuramente superiore a 1" e che questo basta a credere abbastanza alto il "rischio di ulteriore diffusione del contagio". E glielo hanno ripetuto a non finire i vertici di Regione Lombardia che, nelle continue telefonate a Palazzo Chigi, continuavano a segnalare situazioni al limite nel Lodigiano, in Val Seriana, nel Bresciano e nella provincia di Cremona. Il 4 marzo però il premier ha ulteriormente temporeggiato, inviando al Cts una richiesta di approfondire i motivi della loro richiesta di istituire una zona rossa. Brusaferro ha risposto il giorno dopo, il 5 marzo, in una nota: "Pur riscontrandosi un trend simile ad altri Comuni della Regione - scriveva - i dati in possesso rendono opportuna l’adozione di un provvedimento che inserisca Alzano Lombardo e Nembro nella zona rossa". Che il governo fosse indeciso lo dimostrano sia le richieste di Conte di "ulteriori elementi per decidere se estendere la zona rossa" sia l'invio di trecento uomini all'imbocco delle valli bergamasche. I militari erano pronti a chiudere tutto, ma poi sono stati richiamati indietro. Dove sta, dunque, la verità su quella settimana di black out? Dove stava guardando il premier? Perché ha tentennato tanto? I numeri li aveva lì, sul suo tavolo a Palazzo Chigi, ma non si è mosso.





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Published on June 12, 2020 07:09

La verità sulle "zone rosse": ​ecco tutti gli errori di Conte

Andrea Indini




Una sequela di ritardi, una caterva di allarmi rimasti inascoltati e il rimpallo di responsabilità. Ecco tutti i buchi di Palazzo Chigi


Chi vuole mettere la Regione Lombardia sul banco degli imputati probabilmente è in cattiva fede oppure non sa di cosa parla. I giorni a cavallo tra la fine di febbraio, quando ci siamo trovati a gestire i primi casi di contagio, e l'inizio di marzo, quando ci siamo accorti che stava crollando tutto, sono stati segnati dal caos. Un caos che ha travolto, innanzitutto, le corsie degli ospedali, a cui non bastavano i posti letto, i respiratori nelle terapie intensive, i dispositivi di protezione individuale (Dpi), i governatori di Regione, che si sono trovati a gestire un'emergenza sanitaria senza un manuale che spiegasse come intervenire, e il governo che, tramortito dai campanelli d'allarme che, di ora in ora, si accendevano qua e là colorando di rosso la cartina del Nord Italia, ha procrastinato decisioni che avrebbero dovuto essere prese in tempo zero. Ed è qui che si annida l'errore. In Val Seriana, come nel resto della Lombardia. Perché le polemiche che stanno montando nella Bergamasca potrebbero travolgere il premier Giuseppe Conte per le mancate "zone rosse" a Cremona e a Brescia. E che dire di Piacenza dove i numeri di contagi e decessi sono altrettanto drammatici.


L'indecisione di Palazzo Chigi

Chi avrebbe dovuto decidere, non lo ha fatto. O meglio: lo ha fatto con un ritardo spaventoso. La catena di errori, per quanto riguarda le valli che abbracciano Bergamo, inizia il 2 marzo. Già allora, come svelato da Tpi, l'Istituto superiore di sanità sapeva dei rischi che si stavano correndo nei Comuni bergamaschi di Alzano Lombardo e Nembro e in quello bresciano di Orzinuovi. Rischi tanto elevati da spingerlo a consigliare la creazione di nuove zone rosse. In quelle ore anche la Regione Lombardia faceva la sua parte chiedendo a Palazzo Chigi misure più stringenti. "C’è un nuovo focolaio a Bergamo". L'indomani anche il Comitato tecnico scientifico, come riportato dal Corriere della Sera, arrivava alla stessa conclusione: "I due Comuni si trovano in stretta prossimità di Bergamo e hanno una popolazione rispettivamente di 13.639 e 11.522 abitanti. Ciascuno dei due paesi ha fatto registrare attualmente oltre venti casi, con molte probabilità ascivibili ad un’unica catena di trasmissione. Ne risulta pertanto che l'R0 è sicuramente superiore a 1, il che costituisce un indicatore di alto rischio di ulteriore diffusione del contagio". Le telefonate tra Roma e Milano erano incessanti. Ma a Palazzo Chigi ancora non si convinceva a chiudere tutto. Dai tecnici voleva "ulteriori elementi per decidere se estendere la zona rossa" ai Comuni-focolaio del Bergamasco perché, come trascriveva in un memo pubblicato poi da Repubblica, "il quadro epidemiologico dei giorni 3 e 4 marzo restituiva una situazione ormai critica in diverse aree della Regione Lombardia". In quei giorni i numeri erano, infatti, allarmanti un po' ovunque: "Il contagio era ormai esteso nel territorio lombardo - si legge - al 3 marzo, a Bergamo risultavano 33 casi; a Lodi, 38; a Cremona, già 76; a Cremona, 27; nel Comune di Zogno, 23; nel Comune di Soresina e in quello di Maleo, 19, e comunque in molti altri comuni della Lombardia si registrano numerosi casi di Covid-19".


Le accuse alla Regione Lombardia

Oggi Conte sarà sentito dai pm per spiegare quale motivo, quando si è trovato davanti al bivio, ha tentennato così a lungo. In una intervista al Tg3 il procuratore facente funzione di Bergamo, Maria Cristina Rota, ha già fatto sapere che, da quello che le risulta, la decisione di istituire una zona rossa "è una decisione governativa". D'altra parte, durante un estenuante braccio di ferro con un'altra Regione, le Marche, era stato lo stesso governo a intimare i governatori a non fare di testa loro. Si arrivava da giorni dove le tensione (politica) era salita alle stelle, soprattutto con il Veneto che aveva deciso di strappare e di andare per la propria strada contravvenendo alle regole stilate dal ministero della Salute sui tamponi. L'idea di Conte, poi, era di non istituire altre "zone rosse". In presenza di un contagio ormai tanto diffuso, preferiva l'idea di chiudere tutta la Lombardia e le aree limitrofe che erano state attaccate dal virus. Alla fine, però, aveva decisi di non battere nemmeno questa soluzione. Tanto che, quando il 4 marzo aveva firmato l'ennesimo Dpcm, si era limitato a contemplare soltanto misure da applicare "sull’intero territorio nazionale". E anche il 5 marzo, quando il numero uno dell'Iss Silvio Brusaferro cerca di spronarlo a fare un passo in avanti, rimaneva tutto immobile. Anche i soldati mandati ad Alzano e a Nembro per blindare la Val Seriana che, come riporta Fausto Biloslavo sul Giornale in edicola oggi, restavano tre giorni con le braccia conserte e poi gli davano l'ordine di rientrare.


Un ritardo colpevole

Il premi aveva rotto gli indugi nella notte tra il 7 e l'8 marzo. Una conferenza stampa che passarà alla storia: un decreto pasticciato fino all'ultimo, la fuga di notizia, la corsa alle stazioni ferroviarie per salire sull'ultimo treno verso il Sud Italia e il mancato dialogo con il territorio. Tutta la Lombardia, insieme ad altre quattordici province di Veneto, Emilia Romagna, Piemonte e Veneto, diventava "zona rossa". Nessuno poteva più entrare e uscire. Ora si tratta di capire il perché di un ritardo tanto colossale.





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Published on June 12, 2020 01:35

June 8, 2020

L'odio contro la Lombardia ​per attaccare il centrodestra

Andrea Indini




Sinistra e Cinque Stelle montano una campagna contro i lombardi. Dietro c'è un preciso disegno politico per attaccare la Regione guidata dal centrodestra


È un odio violento, atavico, a lungo taciuto e in questi mesi, complice l'epidemia di coronavirus che ha piegato il Nord Italia, esploso con una virulenza senza precedenti. Un odio che ha investito in particolar modo i lombardi e la Lombardia, non solo in quanto tali, ma per quello che rappresenta: da sempre fortino del centrodestra e, negli ultimi anni, capitanata da governatori leghisti. Nonostante i morti, che contiamo a migliaia, e nonostante la fatica a combattere un nemico tanto piccolo quanto letale, la sinistra e i Cinque Stelle si sono scagliati (senza alcun rispetto) per biechi fini politici. Se, all'inizio, quando l'Italia si è ritrovata - con il fiato sospeso - nella morsa della quarantena, i colpi bassi erano più radi, non appena è scattata la "fase 2" l'odio è esploso con un vigore senza precedenti, fino a immaginare cimiteri pieni di morti con il centrodestra al governo.


L'odio è iniziato in sordina. Sembravano semplici scaramucce politiche. Come quando il 26 febbraio, meno di una settimana dopo la scoperta del "paziente 1" a Codogno, il governatore Attilio Fontana pubblica su Facebook un video in cui annuncia il contagio di una collaboratrice. Il suo viso è coperto da una mascherina chirurgica, verde. In quei giorni non se ne vedono tante in giro. È probabilmente il primo politico italiano a indossarne una in pubblico. È un messaggio, certo. Un messaggio a tutti i lombardi affinché prendano le precauzioni necessarie per evitare il più possibile occasioni di contagio. "Da oggi qualcosa cambierà perchè pure io mi atterrò a quelle che sono le disposizioni dell'Istituto Superiore di Sanità per cui per due settimane vivrò in una sorta di auto quarantena - spiega - oggi ho già passato la giornata indossando la mascherina e continuerò a farlo nei prossimi giorni". Gli sono subito saltati tutti al collo. I primi ad attaccare sono stati quelli del Partito democratico. Da Matteo Orfini, che arriva addirittura a negare l'utilità di metterla in Aula alla Camera ("È un gesto inutile e dannoso per il messaggio che diffonde"), a Maurizio Martina che lo accusa addirittura di "alimentare il panico" e di "danneggiare i cittadini e il Paese". I grillini (ovviamente) non sono da meno. "Sono immagini che non aiutano perché spaventano ed espongono l'Italia al rischio di un isolamento economico che non ha alcuna giustificazione", tuona Danilo Toninelli. "Il panico deve essere assolutamente arginato, non alimentato in alcun modo - conclude - serve una corretta informazione, che non faccia inutili allarmismi, un linguaggio equilibrato e altrettanto deve valere per i gesti".


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Sin dai primi giorni il Prirellone si trova in forte contrasto con Palazzo Chigi. In Regione Lombardia si accorgono sin da subito che a Roma non stanno capendo la gravità della situazione. E così, mentre i vari Nicola Zingaretti, Beppe Sala e Giorgio Gori fanno campagne per tenere aperto, sono costretti a rimboccarsi le mani e fare da soli. Non solo. Devono pure "parare" le apre critiche del premier Giuseppe Conte, che prova ad addossare all'ospedale di Codogno le colpe del focolaio nel Lodigiano, e ingaggiare un estenuante braccio di ferro sempre con la presidenza del Conisglio per allargare al più presto la "zona rossa" alla Val Seriana e al Bresciano, dove già il 2 marzo - dati alla mano - appare chiaro che la situazione è ormai sfuggita di mano. Non ci riuscirà. La chiusura della regione arriverà troppo tardi e Fontana & Co. dovranno pure sorbirsi le critiche per non essersela fatta da soli, quando anche anche il procuratore facente funzione di Bergamo, Maria Cristina Rota, ha messo in chiaro ai microfoni del Tg3 che tale decisione spettava all'esecutivo. Se non è la polemica sulle "zone rosse" mancate, sono le critiche al sistema sanitario regionale che fatica a reggere l'urto del Covid-19. Il 15 aprile, in un articolo apparso su Le Monde, Roberto Saviano non perde occasione per tirare in ballo "il territorio di Silvio Berlusconi" e si erge sul piedistallo per impartire ai lombardi "la debolezza insita nel credersi invincibili". A sinistra è un sentimento diffuso.


Sono molti, infatti, quelli che credono che il coronavirus abbia dato una lezione al Pirellone e che soprattutto il centrodestra non sia stato all'altezza di gestirlo. Per dimostrarlo vengono montati ad arte teoremi sulla gestione del sistema sanitario, vengono scomodati (senza nemmeno leggere le ordinanze della Regione che sono identiche, in tutto e per tutto, a quelle emanate da altri governatori iscritti al Pd) gli anziani morti nelle Rsa, viene screditata la costruzione dell'ospedale in Fiera (quando è stato il governo Conte a chiedere alle Regioni di aumentare del 50 per cento il numero dei posti letto). Il 21 maggio, durante l'informativa del premier sulla "fase 2" alla Camera, si viene quasi alle mani quando il grillino Riccardo Ricciardi se ne esce con accuse senza precedenti (guarda il video). "Chiedono collaborazione alle opposizioni e poi vengono qui a prendere per il culo sui morti? Ecco, prendersela coi morti anche no", sbotta Giancarlo Giorgetti invitando il ministro della Salute Roberto Speranza a tenere a bada i Cinque Stelle. "Tira male, io ve lo dico, qui finisce male. Qualcuno deve metterli in riga, coi morti che ci sono stati. Non si può chiedere collaborazione alle opposizioni e poi venire in aula a provocarci sui morti". Il punto è che anche all'interno di Liberi e Uguali, partito a cui è iscritto Speranza, la pensano allo stesso modo. Qualche settimana più avanti Pierluigi Bersani se ne andrà in televisione a dire che "se avesse governato questa gente qua (il centrodestra, ndr) non sarebbero bastati i cimiteri". E non ci si deve, poi, stupire se ci ritroviamo i muri di Milano lordati dagli antagonisti con la scritta choc "Fontana assassino". Lo stesso slogan urlato dai sindacati scesi in piazza ai primi di giugno.


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La campagna (mediatica) di denigrazione tocca proibabilmente il suo apice con il falso scoop di Report, poi ripreso dal Fatto Quotidiano, in cui si fa passare una donazione di materiale sanitario per un conflitto di interessi. Un "attacco politico vergognoso", come lo ha definito lo stesso Fontana, che ora finirà in aula di tribunale. L'odio politico, però, si mischia all'odio regionale. E così sono troppi quelli che stanno portando avanti una vera e propria campagna contro i lombardi. Lo fa persino chi, come lo scrittore Massimo Mantellini, dovrebbe preservare il Paese dalla violenza verbale. Conte lo ha, infatti, voluto nella task force governativa (una delle tante) per epurare il web dall'odio dilagante. Nei giorni scorsi se ne è uscito con un post a dir poco delirante: "La dico piano: chiudiamo i lombardi in Lombardia. Almeno per questa estate". Lo stesso che vorrebbero fare alcuni governatori di sinistra per sminuire gli sforzi che dal 20 febbraio il Pirellone sta compiendo per vincere la partita contro il coronavirus. Sicuramente Regione Lombardia, come anche il governo, ha fatto errori. Li ha fatti perché si è trovata a dover combattere una battaglia senza precedenti. Usarli, ingigantirli e distorcerli per fini politici è una bieca camapagna di disinformazione che non rende giustizia a tutti quei morti che stiamo ancora piangendo.





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Attilio Fontana
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Published on June 08, 2020 01:28

June 5, 2020

La scuola-galera della Azzolina: i nostri figli dietro muri di plastica

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Andrea Indini




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Published on June 05, 2020 09:05

June 4, 2020

Virus, Bersani choc: "Col centrodestra al governo non sarebbero bastati i cimiteri"

Giuseppe De Lorenzo
Andrea Indini




Le parole choc di Bersani in tv contro il centrodestra. L’ira della Meloni: "Vergogna, questo è l'odio ideologico della sinistra"


Chiudete gli occhi. Tornate con la mente a quelle fotografie di Giorgo Gori al ristorante, agli apertitivi di Luca Zingaretti, agli hashtag sognanti di Beppe Sala e la sua "Milano-non-si-ferma". Poi riapriteli, e leggete le frasi choc scagliate da Pier Luigi Bersani dal salotto di Bianca Berlinguer: "Il messaggio che il centrodestra sta dando da fuori e da dentro il Parlamento è una coltellata al Paese. E questa gente qua, lo lasci dire a uno di Piacenza, viene il dubbio che se avessero governato loro non sarebbero bastati i cimiteri". Quando il brivido che vi è corso lungo la schiena è passato, chiudete ancora gli occhi e tornate con la mente alla carovana di camion dell'esercito che portano via le salme da Bergamo, perché i forni crematori non riescono a stargli dietro. Ripensate alle 150 candele accese nella chiesa di San Lorenzo per ricordare le anime di Manerbio o all'ultimo saluto di padre Mario alle 45 bare allineate nella sua chiesetta di Seriate. Ora riapriteli e rileggete quanto detto da Bersani. Se l'Italia non fosse un Paese al contrario, uno potebbe pensare ad un macabro scherzo. Invece è tutto vero.


Il ragionamento di Bersani parte dalla manifestazione dello scorso sabato contro il governo giallorosso. Il centrodestra, che si è presentato compatto in piazza a Roma, è stato accusato di non aver rispettato le regole del distanziamento sociale. Accuse strumentali per cercare di far passare sotto traccia l'allarme lanciato da piazza del Popolo. Da qui l'accostamento strampalato con i cortei dei gilet arancioni guidati dal generale Antonio Pappalardo. Le dichiarazioni, rilasciate due sere fa dal deputato di Liberi e Uguali, sono passate sotto traccia finché Giorgia Meloni, giustamente indignata, non ha denunciato "l'odio ideologico della sinistra che non si ferma nemmeno di fronte ai morti". La leader di Fratelli d'Italia parla di parole "vergognose", ed è difficile darle torto. Non solo, o non tanto, perché rischiano di mandare alle ortiche la sbadierata unità nazionale tra maggioranza e opposizione auspicata ieri dal premier Giuseppe Conte. Ma anche perché dimostrano di dimenticare quanto successo due mesi fa, poco dopo il primo contagio di Codogno.


L'odio ideologico della sinistra non si ferma nemmeno davanti ai morti. Ascoltate queste vergognose dichiarazioni di Bersani pic.twitter.com/7aqv0piGcp


— Giorgia Meloni (@GiorgiaMeloni) June 4, 2020


È forse il caso, allora, di rinfrescare qualche memoria. Quando Attilio Fontana cercava di far capire al Paese (e al governo) la criticità della situazione pandemica, i colleghi di maggioranza di Bersani lo sbertucciavano per aver indossato la mascherina in diretta tivù. Per Matteo Orfini era un "gesto inutile e dannoso per il messaggio che diffonde", cioè di eccessivo allarmismo. E Maurizio Martina invitava il leghista a non "alimentare panico per non danneggiare ulteriormente i cittadini e il Paese". Sono solo due esempi, ma ce ne sarebbero a bizzeffe. I primi a minimizzare all'indomani dei primi contagi (e dei primi morti) sono sì gli scienziati, ma i politici non sono certo da meno. A Milano, per esempio, il sindaco Beppe Sale lancia sui social l'inziativa "Milano non si ferma" e si fa addirittura ricamare lo slogan su una t-shirt bianca. E che dire del segretario piddì, Nicola Zingaretti, la cui gestione dell'emergenza da governatore della Regione Lazio non è stata brillantissima, che posta fotografie sui social mentre brinda alla movida meneghina. "Ho raccolto l'appello di Sala - scrive su Twitter - non perdiamo le nostre abitudini, non possiamo fermare Milano e l'Italia". Un'euforia che ha pagato con qualche settimana a letto a causa del virus. E ancora: mentre il Pirellone chiedeva a Conte di estendere la zona rossa alla Val Seriana (e riceveva solo porte in faccia), il sindaco piddì Giorgio Gori cenava con la moglie al ristorante e invitava i bergamaschi a fare altrettanto.


Non saperemo mai quanti morti avrebbe pianto l'Italia in caso di governo di centrodestra. Sappiamo però quanti ne sono deceduti col governo giallorosa: 33.601, almeno quelli certificati fino a oggi. Più di Francia, Spagna, Germania e via dicendo. E conosciamo cos'è successo con la mancata zona rossa in Val Seriana, con i ritardi nell'acquisto delle mascherine, con il caos dei respiratori o con quelle dirette tivù del premier che provocarono una fuga in massa dalla Lombardia. È tutto realmente successo. E in questo caso sì - ma per davvero - a volte i forni crematori non sono bastati.


Le parole dell'ex segretario del Pd scatenano una bufera politica. "Dichiarazioni disgustose. A me sembra una dichiarazione di un cretino... - attacca Salvini - Ci sono 30mila morti e si scherza su questo. Davvero c'è qualcuno che non sta bene. Quando si fa polemica sui cimiteri, vuol dire che non stai bene". Duro anche Calderoli, che invita Bersani a "chidere scusa". Ma il deputato di Leu non fa marcia indietro: "Chiaro che ho usato un'iperbole. Ma un ex ministro dell'interno che ridicolizza mascherine e distanziamento dopo che a pochi giorni dalla prima zona rossa chiedeva di aprire tutto si espone a un giudizio che, ripeto, per iperbole, confermo assolutamente".





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Published on June 04, 2020 09:12

June 2, 2020

L'ultima balla della sinistra: il Covid fa risorgere il fascismo

Andrea Indini

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Published on June 02, 2020 01:59

May 21, 2020

Coronavirus, tutte le bugie dei 5S sulla Lombardia

Giuseppe De Lorenzo
Andrea Indini




L'attacco alla Camera del grillino Ricciardi è ideologica e infarcita di errori. Così i 5S scordano le falle del governo


"Qui finisce male...". In Aula, questa mattina, Giancarlo Giorgetti era una vera furia. E non solo perché l'intervento del deputato Cinque Stelle, Riccardo Ricciardi, dopo l'informativa del premier Giuseppe Conte sulla "fase 2", lo ha chiamato in causa in prima persona, ma perché quelle parole hanno infagato la Regione Lombardia, che più di tutte ha combattuto in prima linea l'epidemia da coronavirus, e le migliaia di morti che sta ancora piangendo. Il punto è che l'invettiva del grillino a Montecitorio non solo è ideologica, ma è pure infarcita di bugie.


Il tono è quello sprezzante che contraddistingue in Cinque Stelle. Sono sempre i primi a puntare il dito. Oggi lo hanno fatto contro il "modello Lombardia", panacea - a detta loro - delle vittime del coronavirus. Un'accusa talmente assurda e campata per aria che ha scatenato una durissima reazione da parte de parlamentari di centrodestra, i leghisti in primis. "Buffone buffone!", hanno urlato contro il pentastellato. "Giù le mani dalla Lombardia!". In Aula si è quasi sfiorata la rissa a causa delle bugie raccontate dal grillino (guarda il video). Prima se l'è presa con l'ospedale costruito in Fiera a tempo di record quando la pressione dell'emergenza sanitaria era alle stelle. "Hanno speso 21 milioni per 25 pazienti - ha tuonato - ecco come sono stati spesi i soldi delle tasse e dei cittadini lombardi! E non li ha spesi Roma ladrona, li ha spesi la Lombardia". Peccato che era stato proprio il governo, con una circolare del 1 marzo del ministero della Salute, a chiedere a tutte le Regioni di aumentare del 50 per cento i posti in terapia intensiva. Sul territorio tutti avevano fatto la propria parte: dagli Spedali Civili di Brescia al San Matteo di Pavia, dal Papa Giovanni XXIII di Bergamo al nosocomio di Cremona, sono tutti corsi ad aumentare i posti letto in terapia intensiva, a recuperare i ventilatori e a fare incetta dei dispositivi di protezione individuale (Dpi). In campo sono scesi anche le cliniche private, con 334 posti in rianimazione e altri 8.383 letti per i casi acuti. Eppure sembrava tutto inutile o comunque insufficiente. Anche quando a Cremona i pazienti Covid erano 600 e i posti di terapia intensiva erano stati aumentati a 58 (otto di questi messi nell'ospedale da campo creato in tre giorni dai volontari della Samaritan's Purse), la situazione era al collasso. Tanto che erano stati disposti trasferimenti extra regione.


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Per Ricciardi l'emergenza in Lombardia va ricercata nelle politiche dell'ex governatore Roberto Formigoni, che ha "tagliato, in poco più di vent'anni, 25 mila posti letto pubblici, assegnando il 40 per cento delle risorse alla sanità privata". E i ritardi causati dagli errori contenuti nelle carte del governo? Gli standard (sbagliati) sulla tipologia di paziente a cui fare il tampone? Il divieto di fare autopsie sulle vittime del coronavirus? Senza queste direttive, forse, all'ospedale di Codogno avrebbero scoperto qualche giorno prima che Mattia Mestri era stato contagiato. Forse, i medici lombardi, che combettevano in prima linea, avrebbero capito prima l'importanza dell'eparina per sconfiggere le trombosi causate del coronavirus. E che dire delle mancate zone rosse nei Comuni bergamaschi di Alzano Lombardo e Nembro e in quello bresciano di Orzinuovi? Eh sì che l'Istituto superiore di sanità li aveva avvertiti già all'inizio di marzo che la situazione si stava mettendo davvero male. I ritardi dell'esecutivo hanno procrastinato una decisione già scritta di almeno una settimana. D'altro canto, come rivelato da Repubblica, nel governo i grillini erano i più riottosi all'idea del lockdown.


L'ultima balla di Ricciardi ha investito la gestione delle Rsa. "Allora, la delibera della regione Lombardia ad inizio marzo, il presidente Luca Degani, parole sue, l'associazione di categoria che mette insieme circa 400 case di riposo, ci chiede di ospitare pazienti con i sintomi Covid-19, è stato come accendere un cerino in un pagliaio...". Peccato che anche questa lettura sulle case di riposo sia quantomeno fantasiosa. Intanto la deliberazione del Pirellone è frutto dell'emergenza, e aveva lo scopo di "liberare rapidamente posti letto di Terapia Intensiva e Sub Intensiva" per evitare altre ecatombi. Forse questo dettaglio andrebbe ricordato, prima di puntare il dito. Inoltre la Regione chiedeva all'Ats di individuare solo ed esclusivamente le Rsa con "strutture autonome dal punto di vista strutturale (padiglione separato dagli altri o struttura fisicamente indipendente) e dal punto di vista organizzativo". Non tutte, quindi. Nessun cerino in un pagliaio. Lo dimostra il fatto che le Rsa incapaci di garantire i requisiti richiesti non ha ospitato alcun infetto, come la "Gerosa Brichetto" di via Mecenate a Milano. Ne ha accolti invece la struttura di Cremona Solidale, nella città guidata dal centrosinistra, il cui sindaco ha prima criticato la gestione lombarda delle Rsa e per s'è ritrovato in pancia un'azienda cha seguito alla lettera la tanto criticata direttiva di Gallera&Co. Non era tutta colpa di Fontana&co?


All'onorevole Ricciardi va però dato atto che il M5S non è incappato in nessuna polemica sulla gestione regionale dell'emergenza. È vero. Ma il motivo è semplice: i grillini non ne governano neppure una. "Solo chi fa sbaglia", diceva un vecchio adagio. E loro a livello regionale non hanno "fatto" e quindi non hanno "sbagliato". Sono però al governo. E lì di errori se ne possono contare a bizzeffe.





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Published on May 21, 2020 08:25

May 18, 2020

Virus, intrighi e colpi bassi. La guerra nella sanità veneta

Giuseppe De Lorenzo
Andrea Indini




Il "modello veneto" ha contenuto il virus. Ma esplode la lite sui meriti. L'intervista di Zaia, le frasi non dette: cosa c'è dietro


Spesso il diavolo sta nei dettagli. Aforisma valido per molti aspetti della vita, così come in politica. Sabato scorso i più attenti non si saranno fatti sfuggire l’intervista a Repubblica con cui il governatore del Veneto, Luca Zaia, rivendicava di aver inventato il metodo Veneto del tamponamento di massa contro il coronavirus. Il merito "è della mia squadra, Andrea Crisanti è arrivato dopo", ha detto il leghista, mettendo un freno alla vulgata popolare che da giorni incorona il professore dell'Università di Padova come "salvatore" del leone di San Marco. Un'intervista che però pecca di imprecisione e che in qualche modo nasconde quello che ai più appare come il tentativo di sedare una rivolta all’interno del gruppo di esperti della sanità veneta, guidata dal direttore generale Domenico Mantoan, contro l'esposizione mediatica del "virologo di Vo'" arrivato dall'Imperial College di Londra.


[[nodo 1862186]] Gli indizi del malcontento sono almeno tre, e seguono la cerimonia di consegna del sigillo di Padova a Crisanti. Lunedì scorso il Corriere pubblica un articolo da cui trapelano alcune insofferenze per l'eccesso di tamponi cui è sottoposto l'ospedale padovano. Poi a stretto giro arriva l'intervista di Zaia che ridimensiona il ruolo del virologo ("È arrivato dopo", dice, ma "noi eravamo pronti da un mese grazie alla dottoressa Russo, una catanese che dirige il Dipartimento di prevenzione"). Infine ieri appare un articolo su Libero che incensa proprio Francesca Russo, "dipendente, non una esterna" (!), capace di far "breccia nel cuore del leghista" e di predisporre i tamponi di massa e l'isolamento fiduciario. Insomma: sarebbe lei, e non Crisanti, la madre del modello Veneto.


È tutto vero? IlGiornale.it è in grado di ricostruire nel dettaglio il processo che ha portato alla nascita della via veneta alla lotta al coronavirus. Vero è che, come detto da Zaia, le decisioni di sottoporre l'intera popolazione di Vo' a tampone e di chiudere l'ospedale di Schiavonia vengono prese prima che Crisanti appaia sulla scena. Mossa importante, e va dato atto al governatore di averla fatta non solo contro le indicazioni dell'OMS, ma anche contro "la volontà" della task force che lo consigliava. Bravura o fortuna? Sarà la storia a deciderlo. Quel che però appare chiaro è che gli esperti della sanità veneta non si accorgono subito dell'importanza di quanto appena realizzato a Vo' e non sembrano intuire il significato scientifico ed epidemiologico di quanto emerso dalla ricerca.


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La svolta avviene alla fine della prima settimana di marzo. In quei giorni Crisanti contatta Zaia per suggerire una più incisiva politica di sorveglianza attiva, andando a cercare i casi attorno ai focolai già conosciuti, testando a raffica la popolazione e isolando contatti e infetti. Il Veneto è ancora incerto sulle strategie da adottare. Basti pensare che quando il 7-8 marzo Palazzo Chigi decide di rendere zona rossa l'intera Lombardia e altre 14 province, tra cui Venezia, Padova e Treviso, una relazione del Comitato tecnico scientifico regionale scriveva che "non si comprende il 'razionale' di una misura che appare scientificamente sproporzionata all'attuale andamento epidemiologico". Per Crisanti, intanto, l'unico modo per bloccare l’infezione è quello di creare unità mobili per raccogliere i campioni, potenziare i laboratori che fanno test (a lui si deve l’acquisto di un macchinario che ne processa 9mila al giorno) e per ogni positivo identificato sottoporre a tampone i parenti e tutti gli abitanti nel raggio di 100 metri.


[[nodo 1861202]] A convincere il professore della bontà di questa strategia sono i risultati che arrivano dal secondo campionamento di Vo', chiesto al governatore proprio da Crisanti e realizzato alla fine del periodo di isolamento della zona rossa. I dati dicono che nella piccola cittadina focolaio, identificando i positivi, è stata bloccata la diffusione del virus, passando da un 3% di infetti a circa il 2,5 per mille. Il virologo si accorge che scovando gli asintomatici e mettendoli in isolamento si riduce anche l'incidenza dei casi gravi, cioè di quelli che finiscono in terapia intensiva, e si favorisce l'accelerazione del tasso di guarigioni. È a quel punto che Crisanti suggerisce di esportare in tutto il Veneto il "Modello Vo'", raddoppiando la capacità di Padova e Schiavonia di eseguire tamponi, attivando laboratori nelle altre province, testando tutti i sintomatici lasciati a casa senza diagnosi e anche le categorie a rischio come polizia, carabinieri, personale sanitario. Un'azione che vuole far emergere il virus "nascosto", che necessita di 10mila tamponi al giorno e che alla fine si rivelerà vincente.


È vero quindi che senza la decisione di testare tutta Vo' subito dopo il primo caso, il 22 febbraio, nessuno avrebbe potuto scoprire gli asintomatici. Appare però altrettanto vero che senza le intuizioni di Crisanti probabilmente il "Modello Veneto" non sarebbe mai nato. Anche se i mugugni interni ai vertici della sanità veneta, è evidente, non la pensano così.





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Published on May 18, 2020 01:11

May 15, 2020

Bergamo ferita e abbandonata: "Avevamo paura, ora tanta rabbia"

Giuseppe De Lorenzo
Andrea Indini




Azzerati i ricoveri in rianimazione. Ma bruciano ancora i ritardi del governo. "Abbiamo il diritto di sapere perché è successo"


Bisogna vederla la Val Seriana per capire cosa è successo. A salir su, da Bergamo città, sono una sfilza di paesini, uno attaccato all'altro, quasi a non distinguere in confini. Qui vivono oltre ottantamila persone. Qui è divampato uno dei focolai più terribili d'Italia. "In questo periodo chiaramente i ragionamenti si fanno sui dati ufficiali - ci racconta una insegnante della zona - ma la situazione, qui a Bergamo, è stata molto peggiore di quei numeri". A Nembro e ad Alzano Lombardo, come in tutti i paesi della Val Seriana, a parte gli ospedalizzati, moltissime famiglie erano chiuse in casa a lottare per la vita. "Anche se non ci hanno colpiti direttamente, sentiamo il peso di tutti quei lutti e, purtroppo, ora che la situazione sta lentamente migliorando e la mente è più lucida, iniziano a emergere grandi domande su come è stata combattuta questa emergenza".


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Ieri, a dieci giorni dalla riapertura, i pazienti Covid nelle terapie intensive delle Asst Bergamo Est e Bergamo Ovest si sono azzerati. Il peggio sembra passato. Nei giorni di picco i malati ricoverati erano circa duecento. "Abbiamo vissuto giorni tremendi a contare i morti nei nostri quartieri - racconta ancora l'insengnate - a vedere ambulanze e feretri presentarsi sotto casa e per chi dei nostri condomini fossero venuti…". A molti, per esempio, non è ancora del tutto chiaro perché, in piena emergenza, il sindaco Giorgio Gori invitava i suoi concittadini a condurre una vita normale. O perché, nononstante i contagi continuassero ad aumentare, nessuno a Roma si decideva a chiudere gli impianti sciistici. Negli occhi dei bergamaschi sono ancora vivide quelle fotografie che immortalano le loro montagne, affollate di sciatori sotto il sole primaverile, nello stesso fine settimana in cui il governo disponeva ulteriori restrizioni per evitare che il contagio dilagasse. Sono stati anche questi atteggiamenti sconsiderati a portare il virus pure nelle altre valli, la Val Brembana e la Val di Scalve. "Prima avevamo tutti paura, adesso abbiamo tanta rabbia - ci spiega l'insegnante - bisogna andare a fondo di questa vicenda: sicuramente non cambierà il nostro dolore né servirà a cercare un qualche responsabile da mettere in croce, ma abbiamo il diritto di sapere come è potuta accadere questa strage".


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I numeri, appunto, sono quelli di una strage. Il mese scorso L'Eco di Bergamo ha condotto un'indagine tra i Comuni bergamaschi per cercare di svelare il numero esatto delle persone morte nel solo mese di marzo: "Sono 5.700, di cui 4.800 riconducibili al coronavirus. Quasi sei volte in più di un anno fa. I numeri ufficiali, invece, dicono che al 31 marzo erano 2.060 i decessi certificati positivi al Covid 19". Un'ecatombe, insomma. Nelle ultimi mesi in molti si sono concentrati sull'ospedale di Alzano Lombardo e hanno puntato il dito contro la Confindustria locale accusandola di aver fatto pressioni sul governo perché non facesse la "zona rossa" in Val Seriana. In realtà, gli imprenditori hanno fatto gli imprenditori. I politici, invece, non hanno fatto i politici. E, in un rimpallo di responsabilità, l'esecutivo ha perso tempo fino all'8 marzo, quando tutta la Lombardia è divenuta zona rossa. Troppo tardi per evitare questa strage.


Bergamo, Milano, Roma. È su questa direttiva che si è giocata la drammatica partita bergamasca. "Ricordo quei momenti, ricordo una situazione comprensibilmente discussa. Maneggiavamo tutti delle incertezze: noi tecnici stavamo dando un consiglio che non avremmo mai voluto dare e chi ci governa doveva prendere decisioni che non avrebbe mai voluto prendere", racconta una fonte della task force di Regione Lombardia. Chi doveva agire, però, alla fine non lo si è mosso. "Se fossimo stati più convincenti, forse avremmo guadagnato anche solo tre o quattro giorni nella decisione del governo e avremmo limitato i danni".


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Mentre in molti cercavano il capro espiatorio, non ci si è accorti veramente del dramma vissuto dai bergamaschi. È, per esempio, passato sotto traccia il lavoro incessante, non sufficiente e, probabilmente, nemmeno adeguatamente protetto delle pompe funebri. Alcune persone hanno dovuto attendere fino a quattro giorni prima di veder arrivare qualcuno a ritirare la salma. Nel frattempo, a Seriate come a Bergamo, i preti accoglievano le bare in chiesa per un'ultima benedizione prima che i camion dell'esercito le portassero nei forni crematori fuori dalla regione. Chi ha vissuto il dramma di quei giorni ci racconta anche di quanto fossero poche le bombole di ossigeno a disposizione: "Ad un certo punto questo ha portato alcune persone a telefonare alle famiglie dei defunti per sapere se per caso gli era avanzata mezza bombola".


In questi mesi di buio, però, i bergamaschi hanno potuto contare sul lavoro di medici e infermieri che non solo hanno lottato con tutte le proprie forze per salvare quante più vite possibile ma, con estre umanità, hanno anche permesso a chi stava rimettendo l'anima a Dio un'ultima videochiamata ai propri cari. Nessuno potrà mai dimenticare i sette giorni in cui artigiani, aplini, semplici volontari e ultrà hanno costruito l'ospedale da campo, una sorta di succursale del Papa Giovanni XXIII ormai congestionato. Una cosa resta evidente a qualunque cittadino di Bergamo. "Tutta l'Italia è stata colta impreparata dal coronavirus - ci raccontano - ma Bergamo è stata una terra abbandonata a se stessa che se l'è cavata alla bene e meglio grazie alla generosità e buona volontà di tutti".


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Published on May 15, 2020 23:14

May 14, 2020

"Mettete i casi Covid nella rsa?". La scelta che imbarazza il Pd

Giuseppe De Lorenzo
Andrea Indini




A Cremona boom di decessi nelle case di riposo. Perquisizioni nelle Rsa, indagano le procure. Il caso dell'azienda del Comune dem: ospitati i pazienti Covid esterni


Anche una struttura di Cremona ha accolto pazienti Covid-19 dimessi dagli ospedali lombardi. Detta così può sembrare una storia come un'altra, forse simile all'ormai noto "Pio Albergo Trivulzio", se non fosse che la Cremona Solidale è un’Azienda speciale comunale il cui Cda viene nominato dal primo cittadino sostenuto dal Pd. E se non fosse che il sindaco in questione si chiama Gianluca Galimberti, esponente di rilievo del centrosinistra regionale, tra i firmatari ad inizio aprile di una lettera di fuoco contro Attilio Fontana e la gestione lombarda dell'emergenza.


La vicenda ha origine dalla deliberazione emessa dalla Regione Lombardia l'8 marzo di quest’anno, nel pieno del collasso ospedaliero da coronavirus. Per alleggerire la pressione sui nosocomi, il Pirellone chiede ad Rsa e strutture sanitarie (su base volontaria) di istituire reparti appositi in cui ospitare pazienti stabilizzati in via di guarigione. La nota passa sotto traccia finché non esplode il caso della Baggina (è il 4 aprile) e la giunta viene accusata di aver spedito infetti al fianco degli anziani, provocando l'ingresso del virus nelle strutture assistenziali. Tra i più critici c’è ovviamente il Pd locale, che cavalca la polemica e per bocca del segretario regionale, Vinicio Peluffo, afferma: "È stato come buttare un cerino in un pagliaio". In pratica una strage.


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In quei giorni il sindaco di Cremona va a Porta a Porta e in un faccia a faccia con Fontana lamenta la mancanza di "strategia" sulle Rsa regionali. Intanto però anche nelle strutture cittadine il contagio dilaga e miete vittime. Come in tutta Italia. Alla Cremona Solidale a metà aprile si calcolava un +165% di decessi rispetto all'anno scorso. Tanto che anche la procura sta indagando sui decessi avvenuti "in numero eccezionale". "A un certo punto", racconta Saverio Simi, consigliere di Forza Italia, "un amico mi segnala che dall'ospedale gli avevano chiesto se era d'accordo a inviare un parente nella struttura in questione". L'opposizione allora inizia a domandarsi: non è che nell'azienda comunale hanno accolto pazienti Covid esterni? Il 18 aprile Cremona Solidale pubblica un dettagliato comunicato in cui assicura che "in sintonia con l’Amministrazione comunale abbiamo deciso, dopo le necessarie verifiche ed approfondimenti, di non rispondere positivamente alla richiesta che Regione Lombardia ha fatto di accogliere nelle palazzine delle Rsa pazienti Covid dimessi da altre strutture". Poi però in un secondo fumoso passaggio precisa che occorre fare un "discorso diverso" per la l'area "deputata alla Cure Intermedie, in cui - già ora ed a seguito dei tamponi eseguiti – è stato attivato un nucleo speciale Covid". Cosa significa? Quella zona è dedicata solo agli infetti interni o ha accolto soggetti positivi dall'esterno? La questione può apparire secondaria, ma non lo è dal punto di vista politico. Se così fosse, l'azienda su cui il Comune (a guida Pd) ha compiti di "indirizzo" e "vigilanza", avrebbe seguito la tanto criticata (dallo stesso Pd) direttiva di Gallera&Co. Un cortocircuito.


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I nodi arrivano al pettine pochi giorni dopo. "Il 21 aprile in Ufficio di Presidenza al sindaco chiesi se all'interno della struttura venivano ricoverate persone provenienti da strutture sanitarie della città e mi fu risposto di no, che si sarebbe valutato in futuro", racconta Carlo Malvezzi, capogruppo di Forza Italia. "Poi nove giorni dopo ad un'altra riunione il direttore generale di Cremona Solidale ci ha invece spiegato che già dal 31 marzo erano arrivate due persone dall'esterno, poi diventate 13 dopo un mese". Le date sono importanti. "La delibera di Regione Lombardia - ricostruisce Malvezzi - è uscita l'8 di marzo. Il 9 di marzo il Cda ha fatto un consiglio nella quale sostanzialmente ha aperto alla prospettiva di accogliere all'interno della struttura socio sanitaria persone Covid positive. Tanto è vero che l'11 di marzo la direzione di Cremona Solidale ha incontrato i referenti della Asst per valutare la possibilità di accogliere all'interno della struttura persone positive". Da lì la "disponibilità ad accogliere" infetti esterni. "Nessuno critica la scelta della direzione - precisa Malvezzi - Ma il sindaco si è trovato prigioniero della sua campagna contro la Regione mentre veniva smentito dall'atteggiamento degli amministratori che lui stesso ha nominato".


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Manco a dirlo, Galimberti e la minoranza danno una lettura diversa della questione. "I pazienti Covid provenienti dall'ospedale non sono nella Rsa - ha scritto su Fb Galimberti - Ci siamo sempre opposti a questa richiesta di Regione Lombardia e così è stato. Alcuni pazienti Covid dimessi dall'ospedale sono nella palazzina delle cure intermedie, gestita sempre da Cremona Solidale, ma struttura diversa, sia fisicamente sia come funzione". Lo specchio è scivoloso. Lo stabile in questione, infatti, è sì separato da quello dell'Rsa, ma - per dirla con le parole del capogruppo Pd Roberto Poli - si trova "nello stesso contesto". Questione di lana caprina, insomma. "Noi abbiamo condiviso la scelta di acconsentire il passaggio di pazienti che andassero lì e soltanto lì - spiega il consigliere dem - in una struttura specifica a sé stante, con protocolli specifici e preso atto che purtroppo c'erano già tantissimi pazienti positivi, quindi il reparto non era più Covid free". Anche l'azienda precisa che è esclusa "qualsiasi commistione con gli ospiti delle RSA". Ma non è questo il punto. Perché creare una sezione a parte è proprio quanto auspicato dalla Regione nella tanto criticata delibera. Il Pirellone non ha mai invitato nessuno a mescolare anziani e infetti, anzi: chiedeva alle Rsa di mettere a disposizione “strutture autonome dal punto di vista strutturale e organizzativo”. Proprio come fatto dall’azienda del Comune Pd.





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Attilio Fontana
Gianluca Galimberti







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Cremona
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Published on May 14, 2020 23:03

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Andrea Indini
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