Andrea Indini's Blog, page 71

August 26, 2020

August 22, 2020

Quelle donne dai corpi tatuati che sfidavano religione e leggi

Andrea Indini



Per molto tempo in Giappone i tatuaggi sono stati visti come il simbolo del male. Poi qualcosa è cambiato...


“Kenzo non poteva vedere il viso del tatuatore, che gli dava le spalle, ma riusciva a distinguere il movimento preciso delle mani. Con il pollice e l’indice della mano sinistra tendeva la pelle, mentre nel medio e l’anulare della stessa mano stringeva tre pennelli. Servendosi poi del polpastrello sinistro come di una leva, con la destra faceva penetrare nella pelle uno dopo l’altro, su e giù, gli aghi raccolti in un mazzo, producendo una specie di lievissimo scoppiettio”.


Nel secondo dopo guerra gli irezumi, i tatuaggi tradizionali, sono ancora vietati per legge in tutto il Giappone. Solo gli uomini della yakuza, le donne di malaffare e, più in generale, le classi sociali più basse sono disposti ad arrischiarsi in uno studio illegale per farci incidere tutta la schiena. Ed è in una Tokyo sordida, ancora devastata dai bombardamenti è resa insicura dalla povertà, che viene ritrovato in una stanza chiusa dall’interno il cadavere di una donna bellissima. È stato fatto a pezzi e ne sono rimasti solo gli arti. Il tronco, prima completamente ricoperto da un serpente e da un Orochimaru.


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Il drammatico omicidio di Kinue è solo il primo di una lunga scia di sangue che si dipana nel romanzo di Takagi Akimitsu (1920-1995): Il mistero della donna tatuata (Einaudi). “Pochi al mondo conoscono la bellezza dell’irezumi - il tatuaggio. E ancora meno sono coloro che subiscono il fascino insito nel gesto di imprimere una vita segreta su un corpo umano. Quell’ignoranza è probabilmente dovuta a tenaci pregiudizi”. Akimatsu, che dopo la laurea decise di fare lo scrittore seguendo la profezia che gli fece un indovino divenendo uno dei più importanti e famosi autori di gialli giapponesi, ci porta in un mondo in cui questo pregiudizio è violentissimo. La maggior parte delle “persone perbene” dà “per scontato che a farsi tatuare sia soltanto la feccia della società”. Questo perché per i giapponesi educati dal pensiero confuciano credono che il corpo ricevuto dai genitori debba essere preservato intatto. Così accade, nell’immediato dopo guerra, che gli irezumi inizino a “contagiare” gli occidentali che si trovano in Oriente. È l’esercito di occupazione che inizia a portarne disegni e tecnica negli Stati Uniti ed è qui che iniziano a tenersi i primi concorsi per eleggere il disegno più bello a cui partecipano anche le persone più in vista. Al concorso organizzato dal Circolo tatuati di Edo, che Akimatsu descrive nel romanzo pubblicato nel 1948, partecipano solo avanzi di galera. E tra questi pure una ventina di donne, il peggio del peggio. La vincitrice è proprio Kinue, figlia di un grande tatuatore Hori’yasu. Troppo sfrontata, troppo bella, troppo disinibita. Così succede che qualcuno la ammazza con qualche goccia di cianuro nascosto in un bicchiere di birra e le deturpa il corpo nel modo peggiore.


Il caso viene affidato all’ispettore capo Matsushita che finisce per indagare nei bassi fondi di Tokyo. Qui entra in contatto con spietati uomini d’affari, che fanno i soldi nel mercato nero che prolifera sulle macerie del conflitto mondiale, violenti uomini della yakuza, che entrano ed escono dal carcere, maniaci appassionati di irezumi, che sono disposti a pagare per “strappar via” la pelle tatuata da un cadavere, e una maledizione che grava sulla stessa Kinue e sui suoi due fratelli, anche loro completamente disegnati.


Nonostante lo stigma del Confucio e della legge quello che Akimatsu fa emergere in un racconto tanto veloce quanto asciutto è la bellezza di una tecnica e di una una cultura che non può essere relegata nei bassi fondi. Perché soffrire e spendere tanto per poi essere additati da tutti? Nella regione del Kansai l’irezumi viene chiamato anche gaman, ovvero pazienza, perché chi decide di farlo sa che dovrà sopportare sia la spesa sia il dolore. Le sedute dei tatuaggi tradizionali sono molto brevi e l’infezione che ne consegue porta sempre a puntate di febbre a 39 gradi. Eppure molti sono disposti a sfidare tutto questo per avere addosso un disegno che li segnerà per sempre. Tutto questo perché, secondo un noto psicologo, il tatuaggio è un istinto umano primordiale: l’incarnazione perfetta della libido. “Da una parte - spiega - abbiamo un ago acuminato, dall’altra l’epidermide perforata, e il liquido che sgorga. C’è chi dà e chi riceve: si possono chiaramente vedere, in quest’atto, le due facce di una stessa medaglia”. È forse per questo che, quando in Giappone sembrava che la legge è il sentire comune fossero riusciti a sradicare l’irezumi, ecco che questo è risorto dalle sue stesse ceneri. Come la Fenice.





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Published on August 22, 2020 23:52

August 16, 2020

Accecato dal dogma buonista, il governo "prepara" l'invasione

Andrea Indini



Il boom di sbarchi nel 2020 segna la Caporetto del governo. Ma, anziché cambiare strategia, Conte & Co. si preparano ad allargare le maglie e aprire i porti a tutti i migranti


I numeri dovrebbero parlare da soli. Dovrebbero, infatti, bastare a fotografare l'emergenza in cui è stato precipitato il Paese dopo un anno di gestione giallorossa. Dal primo gennaio al 30 giugno 2020, stando ai dati resi pubblici ieri dal Viminale, sono sbarcati in Italia ben 6.812 migranti, quasi il triplo dei 2.508 registrati nello stesso periodo del 2019. E non è niente a confronto con lo scorso luglio, quando si è registrato un vero e proprio picco degli arrivi. Eppure al ministero dell'Interno non sembrano preoccuparsene. Luciana Lamorgese, a Milano per il tradizionale appuntamento del Comitato per la sicurezza di Ferragosto, non solo ha detto che questi numeri "non sono elevatissimi", ma ha anche confermato l'intenzione del governo di andare avanti con il decreto Immigrazione, una misura tesa a smontare i dl Sicurezza.


Ogni giorno le coste italiane vengono travolte dagli sbarchi di clandestini che cercano fortuna nel nostro Paese. Dal primo agosto dell'anno scorso al 31 luglio di quest'anno il Viminale ne ha registrati più di 21mila. Un aumento drammatico se si considera che nel 2018-2019 erano stati 8.691. Ancora peggio se si sposta l'orologio all'inizio del 2020: oltre 15mila contro i 4mila dello stesso periodo di un anno fa. "Il fallimento di questo governo è nei numeri - denuncia Matteo Salvini - mentre il ministro Lamorgese si vanta di aver controllato più di 20 milioni di italiani durante l'emergenza coronavirus". Viene dunque da chiedersi: cosa non permette al premier Giuseppe Conte e alla sua maggioranza di non leggere con imparzialità questi numeri? Perché nessuno di loro si accorge che il problema c'è e va risolto al più presto? Al momento abbiamo, infatti, a che fare con sbarchi di piccoli natanti, gommoni e barchini che portano poche decine di disperati, ma le navi delle Ong internazionali hanno già messo le proprie navi in acqua e non aspettano altro che l'esecutivo "ammorbidisca" i decreti Sicurezza per riprendere in pompa magna le operazioni nel Mar Mediterraneo Centrale. Non che fino a qui si siano mai fatti problemi, ma con misure più blande e una ripresa dell'abbuffata buonista hanno già pronti i mezzi per piazzarsi a poche miglia dalle coste libiche, farsi carico dei clandestini in partenza e portarli nei nostri porti.


Da quando l'estate scorsa il governo ha cambiato colore e il Partito democratico è entrato nella maggioranza, Nicola Zingaretti ha subito passato il dossier immigrazione nelle mani di Conte. In cima a tutto ha messo, appunto, l'abolizione dei decreti Sicurezza. È bastato questo annuncio a far riprendere le partenze dalle coste libiche. Non solo. Col passare dei mesi anche i porti tunisini hanno iniziato ad affollarsi di disperati disposti a tutto pur di raggiungere il Vecchio Continente. I numeri snocciolati ieri dalla Lamorgese segnano della Caporetto del governo sul dossier immigrazione. Ma anziché far correre tutti ai ripari, sono stati resi (se possibile) ancor più allarmanti dall'annuncio dello stanziamento di un numero maggiore di navi e caserme per far fare la quarantena ai clandestini appena arrivati e, soprattutto, dell'abolizione dei due decreti tanto invisi alla sinistra. "È una resa pericolosa e un attentato alla sicurezza e alla salute degli italiani", sintetizza bene il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri. In questi mesi il governo non si è, infatti, dimostrato in grado di blindare le acque territoriali italiane, gli approdi portuali e gli stessi immigrati che, una volta sbarcati, hanno bellamente eluso i controlli e si sono dileguati nel nulla in barba alle misure per il contenimento dei contagi. "In questo modo - fa notare il leghista Roberto Calderoli - non solo entrano indisturbati nel nostro Paese ma diventano pure mine vaganti che possono diffondere il virus ovunque alimentando focolai".


È il dogma buonista dell'accoglienza che sta spingendo i giallorossi ad andare avanti su questa linea pericolosissima. In autunno, quando la maggioranza voterà il nuovo decreto, si chiuderà il cerchio. Gli ultrà dell'immigrazione saranno contenti perché, in questo modo, riprenderà quel business che Salvini aveva provato a troncare. L'Italia tornerà ad essere l'hotspot d'Europa, esattamente come lo è stata quando a Palazzo Chigi sedevano i vari Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. A Bruxelles, intanto, tireranno un sospiro di sollievo perché tutto il carico dell'emergenza rimarrà in capo a Roma. Come è sempre stato.





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Published on August 16, 2020 01:42

August 15, 2020

Così la morte è diventata tabù

Matteo Carnieletto
Andrea Indini



Un tempo l'uomo accettava la morte. Oggi la modernità ci spinge a dissimularla sino a trasformala un tabù. E nonostante il dolore e i rimpianti nessuno si spinge più a chiedere: perché


La morte è drammatica. Ma, troppo spesso, la vita lo è ancora di più. Lungo gli sconfinati viali dei cimiteri che oggigiorno mettono in linea le lapidi - una dietro l'altra, in un mare di promesse di vita eterna - fino a perdersi nel grigiore delle cinte di cemento, si zittiscono i sogni, si incenersicono i ricordi e si lascia spazio solo al dolore. Lo spaesamento, che la società moderna riflette su un argomento diventato ormai tabù perché antitetico alla frenesia del quotidiano, può essere toccato con mano soprattutto nelle grandi città. Per questo farsi trascinare da Valérie Perrin nel camposanto di Brancion-en-Chalon diventa quasi un viaggio catartico in un mondo che non si vuole più vedere perché, come spiegava Massimo Fini in La ragione aveva torto, nulla deve distrarre dall'eternità dell'oggi.


Quando l'Unione europea stentava ad uscire dall'epidemia e quotidianamente si ritrovava a fare i conti con le vittime che non riusciva nemmeno a seppellire tanto erano congestionati gli obitori degli ospedali in cui tiravano l'ultimo respiro, Michel Houellebecq aveva messo il mondo davanti a un'ovvietà che molti non vogliono vedere. E cioè che questo nuovo, maledetto virus non ha fatto altro che renderci peggiori. "Abbiamo le utopie che meritiamo", spiegava. "Sarebbe altrettanto falso affermare che abbiamo riscoperto il tragico, la morte, la finitezza, etc". E, citando Philippe Airès, ricordava come la tendenza dall'epoca moderna sia di "dissimulare la morte" il più possibile. La pandemia non ha fatto altro che radicalizzare questo credo. I malati morivano, da soli, nelle terapie intensive degli ospedali o nelle case di riposo. I loro corpi venivano cremati in fretta e furia, senza che nessuno potesse recitare per loro un'ultima preghiera. "Morte senza che se ne abbia la minima testimonianza - scriveva Houellebecq - le vittime si riducono a una unità nella statistica delle morti quotidiane, e l'angoscia che si diffonde nella popolazione mano a mano che il totale aumenta ha qualcosa di stranamente astratto".


Cambiare l'acqua ai fiori (Edizioni E/O) è un romanzo che non può lasciare tranquilli, anche se la Perrin lo scrive con garbo e grazia. In prima battuta sembra un inno alla vita, alle "cose semplici" che questa ha da offrire, anche durante le avversità. Poi, però, se vai a scavare nel profondo, la protagonista, Violette, porta il lettore a tu per tu con la morte. Lei, che di mestiere fa la guardiana del cimitero di Brancion-en-Chalon, non può che averne un punto di vista privilegiato. "Credo di ricevere più confidenze da parte della gente di passaggio di quante ne riceva padre Cédric nel confessionale", ammette con candore. E sono queste confidenze, gli incontri, i flashback, i diari e le corrispondenze a comporre un caleidoscopio di anime smarrite che si intrecciano, si amano, si fanno del male e infine si perdono nel nulla, sotto un pugno di terra bagnata. Il racconto è delicato, a tratti persino comico, ma non risparmia tutta l'amarezza di cui sa essere intrisa la vita. Perché nulla risulta mai facile e l'abbandono fa sempre male, sia se lascia un vuoto verso chi rimane sia per chi non ha nessuno disposto a chinarsi a piangere sulla sua tomba. E così l'urto della morte lascia, infine, spazio ai rimpianti, ai ricordi che si fanno sempre più lontani e sbiaditi, alle ferite che nemmeno il tempo riesce a cicatrizzare e, soprattutto, a quella domanda che nessuno sembra più avere il coraggio di porsi: perché?


La bravura della Perrin, il cui libro in Francia ha venduto oltre 140mila copie e in Italia continua dominare in classifica rendendolo un vero e proprio caso editoriale, è tentare una via di fuga da tanto dolore. Perché, dopo aver messo il lettore dinnanzi alla crudeltà della morte, lo accompagna in un cammino difficile, fatto di piccoli gesti come quelli, appunto, di curare le piante dell'orto o cambiare l'acqua ai fuori.





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morte
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Published on August 15, 2020 23:00

August 14, 2020

L'assalto dei terroristi del virus: spingono verso un altro lockdown

Andrea Indini



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Published on August 14, 2020 01:46

August 13, 2020

Il coltello al collo e le minacce: così Mohamed Zin ha attaccato la guardia giurata

Giuseppe De Lorenzo
Andrea Indini



L'egiziano è regolare ma non ha fissa dimora. Vive di furti e ha precedenti penali. Così ha eluso i controlli e preso in ostaggio l'agente


"Getta il coltello a terra". Le intimazioni degli agenti cadono nel vuoto. Mohamed Zin non li sta ad ascoltare. Lì, nel retro coro del Duomo di Milano, brandisce un coltello e lo punta contro una guardia giurata. Pochi minuti prima si trovava davanti alla basilica e ora è pronto a far scorrere del sangue. La situazione è trascesa nel giro di breve e l'incubo si è subito materializzato dinnanzi agli occhi dei poliziotti che cercavano di calmarlo e di liberare l'ostaggio prima che l'egiziano decidesse di affondare la lama su di lui (guarda il video).


Un senza fissa dimora con precedenti penali

Non sappiamo molto di Mohamed Zin. Il nome completo è Mohamed Zin Elaabdin Elhosary Mahmoud, è egiziano, ha ventisei anni e ha il premesso di soggiorno di lungo periodo. È regolare, dunque, non è uno dei tanti fantasmi che si aggirano a Milano e di cui si sa poco e niente. "Viveva in un paesino della Liguria...", ci fanno sapere. Ma la residenza a Finale Ligure è fittizia. Da un paio di anni a questa parte si era, infatti, trasferito nel capoluogo lombardo dove viveva di espedienti e furtarelli. "Di fatto - ci spiegano - è senza fissa dimora". E nella sua vita non mancano certo piccoli precenti penali che lo rendono dei tanti volti già noti alle forze dell'ordine milanesi. Che qualcosa non vada per il verso giusto, se ne accorsono subito i poliziotti che pattugliano il sagrato del Duomo. Mancano pochi minuti all'una. Quando gli chiedono di favorire i documenti, l'immigrato va in escandescenze: si getta contro una guardia, che si trova all'ingresso della basilica, e dopo averla fatta cadere a terra varca di corsa il portone. In mano brandisce già il coltello ed soprattutto questo particolare che getta in allarme le forze dell'ordine presenti sul posto.


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Il coltello puntato al collo e la liberazione

La folle corsa porta Mohamed Zin a percorrere tutta la navata centrale del Duomo. Arriva fino a dietro l'altare ed è qui che si trova a tu per tu con la guardia giurata che viene afferrata alla maglietta e si ritrova con il coltello puntato dritto al collo. "Devi rimanere seduto!", gli urla addosso. Passano pochi minuti e non è più solo. Il reparto mobile è stato pronto a intervenire. E davanti all'aggressore ci sono diversi agenti che lo tengono sotto tiro. Le pistole sono sguainate. Lui non sa che non sparerebbero mai - non possono rischiare che le pallottole rimbalzino sul marmo e finiscano per colpire un innocente - ma sente la pressione addosso. Cercano di stabilire un conttato facendolo parlare. L'obiettivo è riportarlo alla calma e convincerlo a liberare l'ostaggio. Ma non è facile. "Questo coltello me lo avete dato voi", continua a ripetere in una nenia infinita. È visibilmente fuori di sé. Non solo per le frasi sconnesse che pronuncia ma anche per lo sguardo fisso nel vuoto. Più passano i minuti più Mohamed Zin dirada le parole. I due agenti che si trovano alla sua destra aspettano il momento buono per disarmarlo. Ce la fanno grazie a un'azione ben coordinata ma anche grazie a una dose di fortuna che permette ai due agenti di cavarsela "solo" con sette giorni di prognosi a testa. Durante l'intervento uno dei due si taglia infatti con il coltello, l'altro si fa male alla spalla. Niente di grave, per fortuna. Sarebbe potuta andare molto peggio. Sapevano che intervenendo in questo modo, con l'ostaggio seduto a terra e quindi lontano dal rischio di ricevere una coltellata, avrebbero attirato su loro stessi gli eventuali fendenti dell'egiziano.


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Il corpo a corpo degli agenti con l'aggressore

"Il coltello è una delle armi più pericolose che ci sono attualmente in giro", ci spiega una nostra fonte. Non solo è di facile reperibilità, ma fa molti danni quando viene affondato un colpo. Quando un agente decide per il corpo a corpo sa benissimo dei rischi (alti) che corre nel farlo. Per questo non si può che lodare l'intervento dei due poliziotti-eroi che ieri pomeriggio hanno liberato la guardia giurata dalle grinfie di Mohamed Zin. Per loro è un film che rivovono tutti i giorni: sacrificare la propria vita per uno stipendio che certamente non vale il rischio di rimanere gravemente feriti se non addirittura di perdere la vita. "L'intervento di Milano, conclusosi nel migliore dei modi, ha consentito a tutti di osservare con quale elevata professionalità, prontezza e cura operano quotidianamente i poliziotti", ci fa notare Valter Mazzetti, segretario generale dell'Fsp Polizia di Stato. "Queste sono qualità che contraddistinguono questo lavoro ovunque ogni giorno - continua - ma si deve anche capire che ogni intervento ha in sé delle variabili, dei rischi, dei fattori imprevedibili che non consentono di stabilire a priori cosa accadrà. Per questo - conclude - è assurdo pensare di giudicare o peggio contestare un poliziotto solo dal buon esito della miriade di interventi che si affrontano quotidianamente, nelle condizioni più disparate e con soggetti diversissimi".


Dopo essere stato immobilizzato, Mohamed Zin è stato arrestato per reati di sequestro di persona e resistenza a pubblico ufficiale e portato al carcere di San Vittore. Dovrà rispondere anche per i reati di false attestazioni ai pubblici ufficiali e porto di armi e oggetti atti a offendere. Oggi gli è stato pure tolto il permesso di soggiorno. La revoca è avvenuta su segnalazione del questore milanese e a procedere è stata la Questura di Savona che aveva rilasciato il documento. Sul caso sta comunque indagando la Digos per chiarire meglio i contorni dell'aggressione e i legami dell'egiziano.





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Published on August 13, 2020 06:29

"Se ci fosse stato il taser...". L'incubo degli agenti nel Duomo di Milano

Giuseppe De Lorenzo
Andrea Indini



Sette giorni di prognosi ai due agenti che hanno immobilizzato l'immigrato. Ma sarebbe potuta andare peggio: ecco perché


"Se ci fossero stati i taser, non ci sarebbe stata tutta quella pantomima...". Il pensiero, negli ambienti di Polizia, è comune, condiviso dalla maggior parte degli agenti che hanno assistito al blitz dell'egiziano che ieri pomeriggio ha minacciato con un coltello una guardia giurata nel Duomo di Milano (guarda il video). I due poliziotti del reparto mobili che, dopo essersi nascosti dietro il confessionale, hanno placcato e atterrato l'immigrato hanno sette giorni di prognosi a testa: uno si è tagliato mentre cercava di togliergli l'arma, all'altro invece è uscita la spalla. "I colleghi si sono comportati molto bene - ci spiega una fonte - e ne sono venuti fuori con le proprie mani...". Ma il timore che la situazione sarebbe anche potuta trascendere non lascia sereno nessuno e rimette al centro la necessità di dotare tutte le forze dell'ordine degli strumenti giusti per potersi e poterci difendere da simili minacce.


L'attacco nel Duomo di Milano

Momenti tanto drammatici, all'interno del Duomo di Milano, non si era mai visti. L'egiziano, armato di coltello e pronto a far correre il sangue proprio vicino all'altare, sotto allo sfavillio delle vetrate colorate incastonate nel marmo, si è avventato sulla guardia giurata, l'ha obbligata a inginocchiarsi e le ha puntato la lama contro. Sono stati attimi di paura, minuti che correvano veloci e che potevano addirittura avvicinare l'ostaggio all'inevitabile anche se l'immigrato, un 26enne con regolare permesso di soggiorno, è stato immediatamente circondato da un gruppo di poliziotti. Uno di loro si è messo in ginocchio: gli ha puntato contro la pistola e l'ha tenuto sotto tiro affinché non potesse ferire la guardia giurata senza prima essere fermato. Gli agenti non hanno perso di vista un solo movimento dell'aggressore, lo hanno provato più volte a convincere di mettere giù il coltello e di liberare l'ostaggio e hanno atteso l'istante giusto per entrare in azione. È stato quando le parole hanno iniziato a farsi sempre più scarne che i poliziotti gli sono saltati addosso, lo hanno atterrato e, infine, disarmato. In tutto, come documentato nel video pubblicato in esclusiva ieri dal Giornale.it, l'azione è durata poco più di una decina di minuti. Abbastanza per far capire alle forze dell'ordine presenti sul posto che il rischio è stato altissimo e che sarebbe anche potuta andatre peggio.


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L'allarme sicurezza

Sono bastate poche ore al pm Alberto Nobili, guida dell'antiterrorismo, per stabilire che la questione non è di sua competenza. "Più che aggressivo, sembrava confuso", ha riferito ieri sera un inquirente all'agenzia Agi. Al di là delle competenze, le immagini che ci arrivano dal Duomo di Milano rimettono sul tavolo del Viminale un problema che andrebbe affrontato al più presto. E cioè l'utilizzo del taser. "Se quegli agenti lo avessero avuto - ci spiega una fonte - nel giro di pochi secondi sarebbero riusciti a neutralizzare l'aggressore. C'erano tutte le condizioni per intervenire con il taser e salvare una persona da salvare da un coltello, una persona che - ci tiene a sottolinearlo - avrebbe anche potuto essere sgozzata nel Duomo di Milano".


Guardando le immagini circolate già ieri pomeriggio, in molti si sono chiesti per quale motivo ci sono voluti tanti minuti per fermare l'egiziano. Gli agenti sul posto hanno valutato ogni mossa e hanno sicuramente agito al meglio perché, come ci spiega Massimiliano Pirola, "in un posto dove c'è tanto marmo non puoi proprio sapere dove va a finire un colpo di pistola". C'è, infatti, il rischio che questo rimbalzi e colpisca un'altra persona. "L'unica opzione - continua il segretario del Sap milanese - è immobilizzarlo quanto prima perché più passa il tempo più soggetti come questo perdono il controllo". È la stessa dinamica che i poliziotti devono affrontare quando intervengono negli appartamenti e devono calmare "squilibrati" con cui non è più possibile ragionare. "Il rischio - ci fa, poi, notare - è che si mettano a menare fendenti a destra e a sinistra...". Analizzando il video, infatti, c'è una sequenza in cui si vede molto bene che, quando l'agente si avventa su di lui per placcarlo, l'immigrato è pronto a colpirlo. "Noi abbiamo le nostre tecniche - ci confida Pirola - ma non possiamo andare sempre a fare il corpo a corpo per fermare questa gente qua che, in molti casi, ha pure ingerito droghe e sono più fuori del solito...".


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Il braccio di ferro sui taser

"Gli strumenti ci sono...", ce lo ripetono tutti. E Matteo Salvini, quando sedeva al ministero dell'Interno, lo sapeva bene. Tanto che aveva avviato la sperimentazione del taser. Poi i giallorossi hanno bloccato tutto. La direttiva, inviata dal Viminale alla Direzione centrale per gli affari generali della polizia di Stato per ritirare le armi a impulsi elettrici, è della fine di luglio. E, sulla base di quel foglio, tutti i taser devono essere bloccati e custoditi nelle armerie delle Questure "fino a nuove disposizioni". Il leader del Carroccio aveva subito addossato tutte le responsabilità di questo passo indietro al governo. Tanto più che, come faceva notare anche il leghista Nicola Molteni, una scelta del genere arrivava negli stessi giorni in cui la maggioranza aveva iniziato a ragionare su come cancellare i decreti Sicurezza che inaspriscono le condanne per chi aggredisce le forze dell'ordine. "Ma cosa ci vuole a fare un bando di gara serio e affidare l'appalto?", si chiede oggi Pirola. Giusto ieri è stato annunciato il nuovo bando di gara per la fornitura alle forze dell'ordine (Polizia di Stato, Carabinieri e Guardia di Finanza) di 4.482 pistole ad impulso elettrico. Una operazione da 10 milioni e 385mila euro. "È davvero vergognoso che nessuno pensi mai agli operatori in strada - conclude - ieri è capitato in Duomo e ci sono le immagini che stanno facendo il giro dei siti, ma i nostri uomini assistono a scene come questa ogni giorno". E non è affatto facile arrivare a sera senza farsi del male.





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Published on August 13, 2020 01:43

August 12, 2020

Le regole? Valgono solo per gli altri

Andrea Indini



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Published on August 12, 2020 02:31

August 11, 2020

ilGiornale.it al fianco del Libano

Matteo Carnieletto
Andrea Indini



Una raccolta fondi per aiutare un popolo colpito da anni di guerre. E messo in ginocchio dall'esplosione del porto di Beirut


Forse, le pagine più drammatiche della storia mediorientale sono state scritte in Libano. Una nazione martoriata, come l'ha definita il grande inviato dell'Independent Robert Fisk. Tutto è iniziato nel 1948, con quella che gli arabi chiamano nakba, ovvero l'esodo palestinese in seguito alla nascita dello Stato di Israele. Gli arabi si diressero a nord, verso il Libano appunto, ad est verso la Siria e a sud verso la Giordania. Ma fu il Paese dei cedri ad essere maggiormente destabilizzato da questo evento storico. Non solo per il grande numero di profughi che si riversò nei suoi confini, ma anche perché poi, Yasser Arafat, il leader dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina, si traferì in Libano insieme ai quadri del movimento, scatenando la preoccupazione di Israele e pure dei cristiani che temevano che questo movimento potesse in qualche modo alterare i fragili equilibri politici e religiosi del Paese. E fu così.


Nel 1975, infatti, la tensione aumentò. In seguito a un attentato contro Pierre Gemayel, leader delle Falangi, iniziò la guerra civile. Beirut, spaccata in due, viene martoriata da entrambe le parti. Dopo sette anni di massacri, Israele interviene, costringendfo l'Olp di Arafat a rifugiarsi in Tunisia. Il conflitto fratricida, però, andò avanti fino al 1990. Quindici anni lunghissimi, dai quali il paese uscì faticosamente. Venne poi la guerra del 2006 tra Israele ed Hezboollah, dove la parte meridionale del Paese divenne macerie.


Pochi anni di pace e di relativa calma. Negli ultimi tempi, infatti, quella che veniva chiamata la Svizzera del Medio Oriente è stata investita da una nuova ondata di migranti, questa volta siriani. Li accolse nello stesso modo in cui fece con i palestinesi: con generosità. La crisi economica e politica, accompagnata da corruzione crescente, hanno però piegato il Libano. L'esplosione del 4 agosto scorso ha fatto il resto, facendo crollare, insieme alla gran parte dei palazzi della capitale, anche il briciolo di speranza che era rimasto ai libanesi.


Ma a volte bisogna sperare contro ogni speranza. Per questo, ilGiornale.it ha deciso, insieme a PiccoleNote, di lanciare una raccolta fondi per aiutare il popolo libanese attraverso monsignor Charles Georges Mrad, vicario patriarcale dell’eparchia di Beirut dei siro cattolici:


LB17007500000001140A72559800


Causale: L'Italia per il Libano
Nome del titolare: Charles Georges Mrad
Nome della banca: Bank of Beirut
Indirizzo: Bob - Palais de Justice Branch
SWIFT: BABELBBE





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Libano
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Published on August 11, 2020 03:27

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Andrea Indini
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