Andrea Indini's Blog, page 66

October 29, 2020

Il terrorista della cattedrale di Nizza era sbarcato giorni fa a Lampedusa

Andrea Indini



L'islamista ha ucciso tre persone con un coltello. Sarebbe arrivato a Nizza dopo essere sbarcato giorni fa in Italia


Dalla Tunisia a Lampedusa, attraversando il Mediterraneo Centrale illegalmente. E poi da lì verso Nord, valicando il confine italofrancese, fino a Nizza. Brahim Aouissaoui, il sanguinario islamista che questa mattina ha brandito il coltello, ha sgozzato due persone e ne ha ammazzata una terza all'interno della cattedrale, sarebbe un immigrato tunisino arrivato di recente in Francia dopo essere sbarcato al porto di Lampedusa. Il primo a rivelare l'inquietante particolare è stato il deputato francese dei Republicains, Eric Ciotti, dopo aver partecipato all'unità di crisi con il presidente Emmanuel Macron. "Durante l'incontro - ha spiegato - ho appena chiesto a Macron di sospendere tutti i flussi migratori e tutte le procedure di asilo, soprattutto al confine italiano".


"Mentre veniva medicato dopo essere stato ferito dalla polizia - ha riferito il sindaco di Nizza Christian Estrosi - continuava a gridare senza interruzione Allah Akbar". Che sull'attacco alla cattedrale di Nizza ci fosse il marchio del terrorismo islamico è apparso chiaro agli inquirenti sin dall'inizio, nonostante la fatica iniziale a ricostruirne l'identità. Le sue impronte digitali non era, infatti, state ancora inserite dalla polizia francese nelle liste dei potenziali sospetti. Questo perché, come rivelato dal deputato Ciotti, il tunisino era arrivato in Francia da pochi giorni, dopo essere sbarcato al porto di Lampedusa ai primi di ottobre. L'indiscrezione rivelata da Ciotti, che ora chiede all'Eliseo la sospensione "tutte le procedure di asilo e l'emissione di visti dai paesi a rischio", ha trovato riscontro nei servizi di intelligence che in queste ore si sono messi al lavoro per ripercorrere al contrario i passi che hanno portato il 21enne Aouissaoui in Italia e poi in Francia. Un documento della Croce Rossa Italiana ritrovato nelle sue tasche li ha subito messi sulla giusta strada per fare questo lavoro.


L’assaillant de l’attentat de Nice est un tunisien arrivé il y a très peu de temps par Lampedusa.


Avec la crise sanitaire et sécuritaire, plus aucune entrée ne doit être tolérée !


Suspendons toutes les procédures d’asile et la délivrance de visa depuis les pays à risque !


— Eric Ciotti (@ECiotti) October 29, 2020


Non è la prima volta l'Italia risulta il crocevia di un'immigrazione clandestina che porta nei Paesi dei Vecchio Continente la jihad. Era sbarcato a Lampedusa, per esempio, anche Anis Amri, il terrorista tunisino che il 19 dicembre 2016, a Berlino, si era lanciato con un tir contro un mercatino di Natale e aveva ucciso dodici persone. Fuggito dalla Germania aveva poi ripiegato nuovamente in Italia, dove era stato freddato in un conflitto a fuoco con due poliziotti alle porte di Milano. Anche Aouissaoui aveva trovato una via facile per entrare in Italia: il porto di Lampedusa. Lì è sbarcato il 29 settembre. Qualche settimana dopo (è il 9 ottobre, dopo essere stato messo in quarantena sulla nave "Rapsody", è stato portato a Bari dove è stato schedato dalle forze dell'ordine italiane per "illecito ingresso in territorio nazionale". Quindi è stato lasciato in libertà "insieme ad altri 800 immigrati" irregolari. "A chi non è stato messo nei centri per l'identificazione - hanno spiegato fonti investigative al Giornale.it - gli abbiamo consegnato l'allontanamento del questore con ordine di lasciare il territorio entro sette giorni". Invece Brahim si è spostato in Francia per uscire nuovamente dall'oscurità solo qualche ora fa brandendo un coltello e colpendo all'impazzata contro chiunque gli capitasse a tiro all'interno della cattedrale di Nizza.


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Se in Francia la notizia ha riportato all'ordine del giorno l'opportunità di chiudere i confini con l'Italia, nel nostro Paese è riesplosa la polemica politica contro il governo e in particolar modo contro il ministro dell'Interno Luciana Lamorgese. Contro quest'ultima si è subito scagliato Matteo Salvini chiedendone immediatamente le dimissioni. Giorgia Meloni ha, invece, preteso dal premier Giuseppe Conte di riferire su quanto accaduto. "Perché non sono stati fatti adeguati controlli? Il terrorismo non si combatte con l'accoglienza indiscriminata", ha denunciato la presidente dei senatori di Forza Italia Anna Maria Bernini. "Falle di questo tipo non sono accettabili - ha poi commentato Mariastella Gelmini - e rappresentano un pericolo concreto per i cittadini italiani ed europei".


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Published on October 29, 2020 08:03

"Presidente, faccia come a Vo'". ​Ecco gli sms di Crisanti a Zaia

Giuseppe De Lorenzo
Andrea Indini



La lite alla corte di Zaia. Come è nato il "modello Veneto"? Quei messaggi del professore nella notte al governatore


Un modello decantato in tutta Italia non poteva non far nascere gelosie. E così è successo. Anche in Veneto, anche alla corte di Luca Zaia. Forse sarebbe bastato attribuirsi un po’ di merito a testa, senza litigare. Invece all’ombra di San Marco si sta combattendo una guerra a colpi bassi tra Andrea Crisanti, padre (?) del “Metodo Vo’”, Francesca Russo, direttrice della Prevenzione, e l’intero vertice della sanità veneta.


L’ultimo scontro risale a ieri, quando emerge la lettera che la Russo ha spedito alla rivista Nature per “smentire” la ricostruzione di Crisanti sulla vicenda di Vo’. Ma i dissapori vengono da lontano come rivelato con contenuti esclusivi nel “Libro nero del coronavirus”, già arrivato alla prima ristampa (clicca qui), di cui qui pubblichiamo alcuni stralci.


Le missive e i primi dissidi

Bisogna tornare al 29 di gennaio. Il virus è ancora solo un lontano pericolo cinese quando il direttore del dipartimento di Microbiologia dell’Università di Padova invia una lettera per invitare studenti, ricercatori e docenti italiani rientrati dalla Cina a sottoporsi ad un tampone “anche in assenza di sintomi”. Nessuno fino a quel momento lo ha mai fatto. E non lo prevedono né le direttive dell’Oms né le indicazioni del ministero della Salute, che riserva i test solo ai sintomatici. Crisanti però lo fa, ne parla ai giornali e riceve una lettera "di diffida" da Domenico Mantoan, braccio destro di Zaia e direttore generale della sanità veneta. Alla missiva il professore risponde cospargendosi il capo di cenere, sostenendo che le sue dichiarazioni erano state “travisate dalla stampa” e rassicurando sulla totale adesione “alle direttive ministeriali” (leggi qui). In qualche modo però lo scambio di missive diventa pubblico proprio il giorno dopo il primo contagio in Veneto. A sollevare la polemica sono i Cinque Stelle (“scienziati inascoltati, il contagio si poteva evitare”, dicono) imboccati da chissà chi. L’Ufficio stampa della Regione risponde, in pochi ci fanno caso e la partita sembra finire lì. Ma la bomba deve ancora esplodere.



Il focolaio di Vo'

Il 20 febbraio intanto ad esplodere è il contagio. All’ospedale di Schiavonia vengono trovati due positivi. A Vo’ muore Adriano Trevisan, prima vittima del Covid in Italia. Ed è qui che Zaia ha un’intuizione geniale: prima ordina di sbarrare l’ospedale con dentro tutti pazienti e medici, poi dispone il tamponamento di massa per gli abitanti di Vo’. Un merito che più tardi anche Crisanti riconoscerà al governatore. In quel momento i due non si conoscono. E non ve ne sarebbe motivo. Finché un bel giorno il professore telefona a Zaia per chiedergli di effettuare un nuovo giro di test nel paesino che, dal 23 febbraio, è stato dichiarato “zona rossa”. L’intento è accademico: il 2 marzo si svolge un incontro in assessorato e la Regione decide di finanziare con 150mila euro la ricerca. Lo stesso giorno Crisanti viene nominato nel Cts del Veneto. Tutto rose e fiori.


Ma chi è allora il padre del “Modello Veneto”? Va detto che in quei giorni la strategia della Regione è già improntata al massimo tracciamento degli infetti per metterli in isolamento fiduciario. Lo dimostra il servizio del tg regionale del 5 marzo in cui Francesca Russo spiega le basi del protocollo veneto sull’indagine epidemiologica. Si parla però di “contatti stretti”, quando il merito del “Modello Veneto” sarà invece quello di dare la caccia a tutti. Anche agli asintomatici e ai contatti dei contatti.


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Il "metodo Vo'"

Il 6 marzo inizia il secondo giro di tamponi a Vo’. Ci vogliono alcuni giorni per elaborarli, ma la notte dell’8 marzo - come rivela il “Libro nero del coronavirus” (clicca qui) - Crisanti invia un sms a Zaia per anticipargli alcuni risultati. “Penso che in Veneto con una politica aggressiva di sorveglianza attiva – scrive – cioè andandoci a cercare i casi attorno ai tre quattro focolai che abbiamo, testando la popolazione e isolando i contatti e infetti possiamo bloccare l’infrazione (sic). Bisognerebbe creare un numero sufficiente di unità mobili e potenziare i laboratori che fanno test”. Il governatore non risponde, ma ormai il dado è tratto e il microbiologo insiste: “Queste misure di sorveglianza attiva funzionano insieme alla quarantena. A Vo’ ha funzionato". Via via che veniva fatto il test a tutta la popolazione, infatti, le fonti di infezione vengono messe in quarantena. "I dati che stiamo analizzando di Vo' indicano che identificando i positivi abbiamo bloccato il diffondersi dell’infezione", dice Crisanti e "cosa interessante, bloccando la circolazione del virus è diminuita anche l’incidenza di casi gravi per ragioni che stiamo analizzando”.


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Gli sms di Crisanti a Zaia

Crisanti è convinto che quanto fatto a Vo’ (testare tutti, scovare i positivi e chiuderli in casa) sia “un successo senza precedenti, un modello che può essere esportato a tutti i focolai senza necessariamente chiudere tutto”. L’11 marzo, è un mercoledì, di prima mattina annuncia a Zaia via sms che nel pomeriggio gli avrebbe fatto recapitare un “progetto” su come affrontare il virus. “La mia idea – scrive Crisanti – è raddoppiare la capacità di fare tamponi a Padova e aprire un laboratorio a Schiavonia. Per ogni positivo identificato faremo il tampone a parenti, contatti e tutti gli abitanti in un raggio di 100 metri. Il fatto che ora le persone si muovono meno faciliterà la nostra azione. Potremmo arrivare a fare 10mila tamponi al giorno, e poi nel giro di una settimana ne portiamo uno in ogni provincia o potenziamo quelli esistenti”. Zaia non risponde. Passano cinque lunghe ore di silenzio. E Crisanti torna alla carica: “Signor Governatore, abbiamo completato le analisi dei campioni di Vo’ che confermano un drammatico calo delle nuove infezioni, con una caduta di 10 volte, passando dal 3 per cento a circa il 2,5 per mille. Questo 2,5 per mille è generato da sette nuove infezioni in individui totalmente asintomatici che sono stati posti in isolamento. Inoltre, l’interruzione della trasmissione ha accelerato notevolmente il tasso di guarigione che a 10 giorni è vicino al 70% attribuibile possibilmente alla ridotta probabilità di infezioni”. Crisanti ha già in mente una strategia per l’intero Veneto: “Per estendere questo approccio a tutta la Regione – scrive – suggerisco le seguenti azioni: raddoppiare la capacità di Padova e mettere Schiavonia nelle condizioni di eseguire tamponi. Creare la capacità di fare tamponi in tutte le province del Veneto. Iniziare a testare tutti i cittadini che lamentano sintomi che ora sono lasciati a casa senza diagnosi. In caso positivo testare i contatti ed estendere il test a tappeto per un raggio di cento metri”. Il professore invita inoltre a “testare le categorie a rischio”, come polizia, carabinieri, personale sanitario e tutti gli operatori dei servizi pubblici, così da far emergere “la parte sommersa dell’infezione che inizialmente farà aumentare la casistica ma nel giro di pochi giorni incominceremo a vedere i risultati”. “Se il modello Vo’ fosse stato applicato dall’inizio”, è il ragionamento, “oggi festeggeremmo”. A quel punto Zaia risponde e invita Crisanti a sentire direttamente la dott.ssa Russo per definire il programma. È in questo momento che nasce il “modello Veneto”?


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Le liti alla corte di Zaia

Non secondo la dottoressa Russo. La sua lettera inviata a Nature è categorica e accusa Crisanti di aver “alterato i fatti, distorcendo la realtà e mistificando quanto è accaduto a Vo'”. Il motivo? “Tutte le decisioni rilevanti su come affrontare il focolaio hanno avuto origine dall'Ospedale di Schiavonìa” e “sono state assunte dal Presidente della Regione del Veneto” insieme alle autorità sanitarie. “Tutto questo è accaduto ancor prima che lo studio di Vo' fosse concepito” dice Russo, che ci tiene a sottolineare come la pandemia sia stata “affrontata con largo anticipo rispetto a uno studio progettato e intrapreso a posteriori che non ha avuto il minimo impatto sulle scelte strategiche di sanità pubblica”.


Dove sta la verità? Probabilmente nel mezzo. È vero, come visto, che il Veneto stava già realizzando molti più tamponi delle altre Regioni (anche grazie alla macchina da 9000 test al giorno scovata da Crisanti). Ma è anche vero che l’11 marzo il professore presenta a Zaia un'idea per allargare il tracciamento “a strascico”, il governatore lo invita a parlarne con la Russo “per definire il programma” e solo cinque giorni dopo, il 17 marzo, arriverà il “Piano” vero e proprio della Regione. Si tratta del programma per “interrompere la circolazione del virus” attraverso “l’individuazione di soggetti ‘positivi paucisintomatici ed asintomatici” allargando “l’isolamento domiciliare fiduciario attorno al caso ‘positivo’”. Una strategia che procede per “cerchi concentrici” allargando la ricerca non solo ai “contatti stretti (familiari e lavorativi)”, ma anche ai “contatti sociali/occasionali (anche definiti come “non stretti” o a basso rischio)”. Con tamponi a domicilio agli asintomatici anche solo lontanamente “collegati ad un cluster”. Una rivoluzione assoluta, in quel momento. Un po’ come ipotizzato da Crisanti.


Quindi? Quindi bravi tutti. Bravo Crisanti a pensarci, Zaia ad andare contro alle indicazioni dell’Oms e la sanità veneta ad organizzare tutto (pure con un software ad hoc). Peccato per le liti. Quelle sì, come dice il governatore, “una vicenda dolorosa”.





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Published on October 29, 2020 01:39

October 28, 2020

"Alterati i fatti e distorta la realtà". Bomba mediatica su Crisanti

Giuseppe De Lorenzo
Andrea Indini



Il virologo pubblica uno studio su Nature e si arroga i meriti del miracolo di Vo'. Scoppia la guerra: "Le decisioni sul focolaio prese da Zaia". Le accuse della Regione Veneto


Trovare la verità è difficile. Bisogna fare un salto indietro, o forse più di uno. Sono in giorni di fine febbraio, quando il Nord Italia si trova ad avere a che fare con i primi focolai di coronavirus. Gli occhi puntati di Palazzo Chigi e del ministero della Salute sono puntati su una decina di Comuni del Lodigiano e su un paesino in provincia di Padova, Vo' Euganeo. È da lì che viene Adriano Trevisan, un pensionato padovano di 78 anni, originario di Monselice. Era ricoverato nella terapia intensiva dell'ospedale di Schiavonia ma i medici che lo avevano in cura non hanno potuto far nulla per salvarlo. Le sue condizioni sono apparse da subito critiche. La sera del 21 febbraio (non erano ancora le 23) ha esalato l'ultimo respiro. Da quel momento in poi la curva dei contagi, in Lombardia e in Veneto, prenderà a salire in modo vertiginoso. Fino a un certo punto andranno di pari passo, poi le curve si allontaneranno. La Regione guidata dal governatore Luca Zaia, strappando platealmente con le linee guida del governo, intraprenderà una politica aggressiva per arginare i contagi. Una linea che vedrà nel tracciamento dei contagi attraverso tamponi nasofaringei a pioggia il proprio caposaldo.


Chi ci sia dietro questa linea è ormai impossibile a dirsi. Inizialmente Andrea Crisanti, ordinario di Microbiologia dell'Università di Padova, si era preso tutto il merito. Era stato addirittura rinominato il "papà" del modello Vo'. Definizione che ha fatto innervosire i vertici della Regione. Come avevamo già scritto sul Giornale.it lo scorso maggio, nella sanità veneta è in corso da mesi una lotta intestina per attribuirsi i meriti di un miracolo (riconosciuto in tutto il mondo) che non solo aveva arginato sin da subito il diffondersi dei contagi ma aveva addirittura liberato l'intera "zona rossa" sui Colli Euganei dall'incubo del coronavirus. "Il merito è della mia squadra - ci ha sempre tenuto a ribadire Zaia - Crisanti è arrivato dopo". Come ricostruito poi nel Libro nero del coronavirus, ora già alla prima ristampa (clicca qui), il malcontento degli esperti guidati dal direttore generale Domenico Mantoan ha radici profonde, almeno da quando il virologo arrivato dall'Imperial College di Londra ha iniziato a essere onnipresente su quotidiani, talk show e trasmissioni radiofoniche. "Noi eravamo pronti da un mese grazie alla dottoressa Francesca Russo, una catanese che dirige il Dipartimento di prevenzione", facevano trapelare mesi fa dall'entourage del governatore leghista.


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A far traboccare un vaso già colmo di risentimento è stato uno studio apparso recentemente sulla rivista scientifica Nature. A firmarlo è stato proprio Crisanti, accusato di essersi attribuito la paternità della strategia usata per "tamponare" tutta Vo' e poi appplicata da Zaia in tutta la regione. Davanti a quello che in molti hanno vissuto come un affronto la Russo ha preso carta e penna e ha scritto a Nature per raccontare un'altra versione dei fatti. Nella lettera, che Bruno Vespa ha riportato nel suo libro Perché l'Italia amò Mussolini (Mondadori), non vengono usati mezzi temini: "La pubblicazione ha alterato i fatti, distorcendo la realtà e mistificando quanto è accaduto a Vo'. Tutte le decisioni rilevanti su come affrontare il focolaio hanno avuto origine dall'ospedale di Schiavonia, dove sono stati ricoverati i primi due pazienti residenti a Vo' positivi per Sars-CoV-2, e sono state assunte dal Presidente della Regione del Veneto di concerto con la Direzione Prevenzione e Sanità Pubblica della Regione e con le autorità sanitarie dell’ Azienda Ulss 6 Euganea. Tutto questo - ha, quindi, precisato - è accaduto ancor prima che lo studio di Vo' fosse concepito". La direttrice del Dipartimento di prevenzione ha, infatti, ricordato che "l'effettuazione dei tamponi è iniziata dopo che l'ospedale era già stato evacuato e dopo che fosse disposto l'isolamento e il lockdown del Comune di Vo'" e che "il lockdown era ancora in corso al momento del secondo campionamento".



Una vera e propria bomba mediatica. Per la Russo, infatti, molti dei fatti riportati nella ricerca di Crisanti (pagata da Zaia con uno stanziamento di 150mila euro) non corrisponderebbero a verità. Tanto per cominciare non sarebbe vero che sono state condotte due indagini sui residenti di Vo' a meno di due settimane di distanza in modo da indagare sull'esposizione della popolazione al Covid-19 prima e dopo il lockdown. Come non sarebbe vero che lo studio "ha guidato la strategia adottata dalla Regione del Veneto" e che poi "questa strategia di testing and tracing ha avuto un impatto notevole sul corso dell'epidemia in Veneto rispetto alle altre regioni italiane". "Il caso di Vo' - è la stoccata finale della Russo - ha avuto un impatto strategico minimo sull'approccio della Regione del Veneto nell'affrontare l'epidemia, dal momento che conta, finora, solo 5 morti e 83 casi positivi nel comune mentre altri focolai sono simultaneamente scoppiati in comunità molto più grandi e la strategia di testing and tracing era già in atto".


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Published on October 28, 2020 07:32

October 26, 2020

Tutte le assurdità nei Dpcm: ​da Conte solo contraddizioni

Andrea Indini



Perché chiudere palestre e piscine se rispettano le norme imposte dal governo? Perché lasciare a casa i liceali se i focolai nelle classi sono solo il 3,5%? Perché punire i ristoranti dove il distanziamento è garantito e lasciar circolare metro stipate?


Tre Dpcm nel giro di nemmeno due settimane. Massimo Cacciari lo ha definito un "delirio normativo". Il risultato è un'infilata di contraddizioni senza alcun senso che spiazzano il Paese e finiscono per penalizzarlo pesantemente a livello economico e sociale. A leggere l'ultima lenzuolata di restrizioni firmata dal premier Giuseppe Conte non possono, infatti, sfuggire incongruenze e incoerenze disarmanti. Per esempio: perché sono state chiuse le palestre e le piscine dopo che solo pochi giorni fa gli era stato chiesto di mettersi a norma per poter continuare l'attività e loro lo avevano fatto mettendo mano, per l'ennesima volta, al portafoglio? Perché i cinema e i teatri, che comunque hanno sempre rispettato il distanziamento imposto dal Cts, sono considerati luoghi pericolosi mentre i vagoni delle metropolitane stipati all'inverosimile no? Perché un ristorante è ritenuto un posto sicuro in pausa pranzo mentre non lo è a cena? E ancora: perché un ragazzino di terza media può sedere al banco, mentre un quattordicenne di quarta ginnasio si deve sorbire la didattica a distanza?


"Io ho sempre pensato che laddove c'è un protocollo e dove il protocollo viene rispettato con rigore e severità il rischio contagio è sicuramente molto basso". Quello che dovrebbe essere un'ovvietà, oggi è importante sottolinearlo con maggiore vigore. Per questo le dichiarazioni dal viceministro per la Salute, Pierpaolo Sileri, risultano ancora più importanti a fronte di un governo che giorno per giorno sta chiudendo il Paese in un altro devastante lockdown. "Su queste misure io non ero pienamente d'accordo - ha ammesso ad Agorà - non sono, a dire il vero, pienamente d'accordo". Il punto è che la maggior parte delle scelte prese dall'esecutivo sembrano non aver alcuna evidenza scientifica. Prendiamo la scuola, per esempio. A lungo il ministro dell'Istruzione Lucia Azzolina ha assicurato che il virus non si propaga nelle classi. "Nelle scuole - ha giustamente rassicurato - i focolai vanno dal 3,5% al 3,8%". Eppure ecco i liceali sono stati di fatto messi in quarantena. Torna così l'incubo della dad, la ditattica a distanza.


Che dire, poi, dei quattro commensali che potranno sedersi al tavolo di un ristorante? Perché quattro? Difficile a dirsi. Avevamo provato a dare una spiegazione al "sei" usato per inquadrare il numero massimo di persone per una cena in casa e non ci eravamo riusciti. Persino il Comitato tecnico scientifico alla fine aveva dovuto ammettere che non c'era alcuna evidenza scientifica. Anche perché, all'interno dello stesso decreto, veniva garantita la possibilità di avere trenta invitati alle cerimonie e ai ricevimenti. Forse perché qui la situazione è maggiormente sotto controllo? Ma non la considerano tale a cena in un ristorante dove non c'è alcuna interazione tra i vari tavoli. E che dire dei teatri e dei cinema? Non c'è stato alcun focolaio degno di nota, eppure la scelta è stata inesorabile. "Perché, invece, le messe sono autorizzate?", si è chiesto l'ex ministro ai Beni culturali Walter Veltroni.


Leggendo gli ultimi Dpcm appare molto chiaro che il governo stia cercando di tutelarsi restringendo genericamente le libertà degli italiani anziché prendersi la responsabilità di interventi mirati ed efficaci a contrastare la diffusione del contagio. Pur essendo infatti ormai chiaro che la fascia debole è quella degli ultrasettantenni (l'età media dei decessi è salita a 82 anni e il 62,9% dei morti presenta tre o più patologie), viene da chiedersi per quale motivo Conte non si sia prodigato per proteggere gli anziani piuttosto che chiudere in casa i più giovani. È vero che il coronavirus circola diffusamente anche tra questi ultimi, ma è anche vero che ci troviamo a che fare molto spesso con asintomatici o paucisintomatici. Per questo il governatore della Liguria Giovanni Toti ha ipotizzato una separazione della popolazione su base anagrafica. "Sarebbero più utili misure per proteggere o lasciare a casa le persone più fragili, gli anziani e chi convive con varie patologie", ha spiegato in una intervista alla Stampa. La proposta è ovviamente caduta nel vuoto: l'esecutivo ha, infatti, preferito le maniere forti.


Il risultato dell'ultima stretta è un lockdown mascherato che andrà a indebolire ulteriormente la nostra economia. Per ristoranti, bar, pizzerie ed enoteche la chiusura alle 18 è una vera e propria mazzata, soprattutto dopo gli investimenti fatti negli ultimi mesi per adeguarsi alle restrizioni imposte dal governo. Quando gli è stato chiesto che venissero distanziati i tavoli per garantire il metro di distanza tra un cliente e l'altro, sono corsi ad adeguarsi. Quando gli hanno imposto una continua igienizzazione dei locali, non hanno battuto ciglio. Hanno persino piazzato gel in ogni angolo e differenziato porte di entrate e porte di uscita con tanto di linee a terra per evitare il benché minimo contato fortuito. Quando gli è stato proposto di aumentare i tavoli all'aperto, hanno acquistato i fughi per il riscaldamento da esterno. Ma non è bastato. E così è calata su di loro la mannaia. Con la beffa: possono servire a colazione e a pranzo ma un minuto prima che inizi l'aperitivo giù le serrande. Eh sì che solo qualche giorno fa i tecnici ci avevano garantito che un coprifuoco alle 23 era quel che bastava per contenere i contagi. Tutte congetture. Perché a corredo dei vari Dpcm non vengono mai allegati studi scientifici che supportino le misure prese.


Il grande assente è sempre e comunque il trasporto pubblico. Nelle grandi città i treni, le metropolitane e gli autobus vengono quatidianamente presi d'assalto da chi deve andare al lavoro e non può permettersi il lusso dello smart working. Non solo la capienza è stata alzata all'80%, ma non è stato nemmeno incrementato il numero delle corse né sono stati eliminati i balzelli, come l'Area C, che devono essere pagati per entrare nel centro storico. E che dire dei vigili? Sono in giro a dare multe. Scoraggiato il viaggio in automobile, i lavoratori si riversano tutti sui mezzi pubblici. Sebbene non ci sia uno solo a muoversi senza la mascherina, il governo crede davvero che una metropolitana strapiena sia meno rischiosa di un ristorante i cui tavoli sono ben distanziati o di un campetto da calcio dove alcuni ragazzini tirano quattro calci al pallone e si allenano per la partita della domenica? Forse, anziché spaccare il capello in quattro per capire chi fa jogging e chi cammina o sprecare carta per spiegare cos'è "attività motoria" o cosa non lo è, qualcuno a Palazzo Chigi dovrebbe concertarsi maggiormente su interventi che contengano davvero il virus senza farci morire di fame.





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Published on October 26, 2020 03:34

Così è nato il "piano segreto": ecco chi c'era seduto al tavolo

Giuseppe De Lorenzo
Andrea Indini



Il piano nasce nella task force di Speranza. Poi tutto passa al Cts. Ma qualcosa non torna: Le famiglie delle vittime di Bergamo: desecretate gli altri verbali


I familiari delle vittime di Bergamo non si sono accontentati della desecretazione dei verbali del Comitato tecnico scientifico. Certo, lì dentro ci sono documenti essenziali. Ma non è tutto il malloppo di atti prodotti nelle prime fasi dell’emergenza coronavirus. Perché prima di Borrelli, prima del Cts e prima ancora che il virus colpisse l’Italia, una task force già si riuniva agli ordini del ministro Speranza. E’ in quegli incontri che viene ideato il piano segreto per fronteggiare la pandemia, così come ricostruito nel Libro nero del Coronavirus (clicca qui). È a quel tavolo che si iniziano a studiare le contromosse. E sono quindi i verbali di quelle riunioni che il Comitato “Noi denunceremo” chiede a gran voce. Per ora inascoltato.


Di questo benedetto “Piano” conosciamo la storia di aprile, agosto e settembre (leggi qui), quando emerge l’esistenza di quel documento ed esplode il caso politico. Sappiamo che dal ministero per settimane hanno cercato di ridurre la portata del documento derubricandolo a banale “studio” (leggi qui) . Ma cosa accadde tra fine gennaio e il 9 di marzo, quando cioè il “Piano” prese forma?


Il 22 gennaio il ministro dell'Istruzione Roberto Speranza annuncia la nascita della task force. Sono giorni di assoluta tranquillità. L’Italia è convinta di essere fuori dal pericolo e gli incontri servono più a “prevenire” che per “curare”. A quella riunione partecipano la Direzione generale per la prevenzione, i carabinieri del Nas, l’Istituto Superiore di Sanità, gli esponenti dello Spallanzani, l’Umsaf, l’Agenzia italiana del farmaco, l’Agenas e pure il consigliere diplomatico. I presenti si vedranno spesso, anche nei giorni successivi. Nelle fotografie si riconoscono in particolare Silvio Brusaferro (presidente Iss), Giuseppe Ippolito (direttore scientifico Spallanzani) e Andrea Urbani (Direttore Generale della programmazione sanitaria). A volte partecipano Agostino Miozzo, della Protezione civile, e Ranieri Guerra, delegato dell’Oms. Un consesso di rilievo, insomma, di cui Speranza è più che orgoglioso. “Il SSN è dotato di professionalità, competenze ed esperienze adeguate ad affrontare ogni evenienza”, dice alla fine del primo incontro convinto che “tutto andrà bene”. I fatti lo smentiranno molto presto.



Durante i lavori della task force, infatti, gli esperti scoprono che l’Italia non ha un Piano pandemico aggiornato. Decidono allora elaborare uno “studio su possibili scenari dell’epidemia e dell’impatto sul SSN, identificando una serie di eventuali azioni da attivare” per contenere “gli effetti” di una possibile epidemia. Non è chiaro se l’esigenza sorga durante la prima riunione o in quelle successive, quel che è certo è che al lavoro si mettono l'Iss, lo Spallanzani e la Direzione programmazione del ministero. Sono gli albori del “piano segreto” di cui Urbani rivelerà l’esistenza ad aprile in una (incauta) intervista. Il progetto a dire il vero prende corpo lentamente visto che in quelle ore il virus appare solo una remota malattia cinese. Il 5 febbraio, però, alla sede dell’Iss si presenta un certo Stefano Merler, ricercatore della Fondazione Bruno Kessler, convinto - al contrario di molti altri - che il virus possa investire l’Italia e combinare disastri. Le sue previsioni (leggi qui) verranno poi riportate in un dossier dal titolo Scenari di diffusione di 2019-NCOV in Italia e impatto sul servizio sanitario, in caso il virus non possa essere contenuto localmente. Sono ipotesi drammatiche, che forse fortificano la convinzione della task force che un “Piano” serva eccome. Così i lavori continuano.


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Nel frattempo però accadono due fatti inattesi. Il 31 gennaio, a causa dei due turisti cinesi positivi, il governo proclama lo stato di emergenza e decide di nominare un Commissario straordinario. Tutti pensano che sarà il ministero della Salute a prendere l’incarico, magari nominando il viceministro Sileri o un uomo di fiducia di Speranza. In fondo è nella task force ministeriale che, sin lì, la matassa coronavirus era stata gestita. Invece a sorpresa viene indicato Angelo Borrelli, che di infezioni sa poco o niente. Perché? Mistero. L’altro evento inatteso è invece la nascita del Cts, datata 3 febbraio. Il Comitato diventerà il fulcro di tutte le decisioni politiche sull’emergenza, in grado di indirizzare le scelte del governo su ogni aspetto. La cosa curiosa è che al Comitato vengono ammesse sostanzialmente le stesse persone che fino a poco prima sedevano nella task force. Ai due tavoli ci sono sempre Brusaferro, Ippolito, Urbani e Miozzo (che ne diventa coordinatore). In più al Cts compare pure Alberto Zoli, nominato da Stefano Bonaccini per rappresentare le Regioni. Per alcuni giorni, almeno fino alla metà di febbraio, i due organi continuano a lavorare in parallelo sebbene sovrapponibili. È a questo punto che la faccenda diventa fumosa. Quel che è certo, è che il “piano segreto” passa formalmente dalla task force al Comitato. E le sue tracce iniziano a scomparire.


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Il 12 febbraio, infatti, il Comitato invita Merler a presentare i suoi “Scenari di diffusione” del Covid. Il Cts ascolta colpito e, come si legge nel verbale della riunione, decide di dare “mandato ad un gruppo di lavoro interno al Cts di produrre, entro una settimana, una prima ipotesi di piano operativo di preparazione e risposta a diversi scenari di possibile sviluppo di un’epidemia da 2019-nCov”. Le parole sono importanti. Si tratta di un “Piano operativo”, e non di una banale analisi come verrà poi derubricato. Ma soprattutto sorge una domanda: perché ri-fare un lavoro che in teoria avrebbe già dovuto iniziare la task force della Sanità venti giorni prima? Dal verbale emerge che una “verifica” dei posti letto era stata effettuata, ma che mancavano ancora “i dati relativi a tre regioni”. Dunque forse il “Piano” si era impantanato. E il Cts si è fatto carico di concluderlo. Secondo il Corriere, gli esperti del “gruppo di lavoro” si riuniscono il 19 e il 20 febbraio, quando Zoli e Merler illustrano una prima bozza del dossier a Speranza. Nei verbali del Cts, invece, il Piano viene citato nuovamente il 24 febbraio, cioè tre giorni dopo Codogno: il documento deve ancora “essere completato” ma gli esperti già si preoccupano di tenerlo riservato “onde evitare che i numeri arrivino alla stampa”. In Italia in quel momento ci sono ancora solo pochi casi, ma i calcoli prevedono la catastrofe e non c’è più tempo da perdere. Il piano torna sul tavolo il 2 marzo per essere adottato “nella sua versione finale”, sottoscritto “da tutti coloro che hanno contribuito”, validato dal Cts e presentato al ministro Speranza. Poi verrà aggiornato il 4 marzo e, visto l’andamento epidemico, di nuovo il 9 marzo. Il tutto assicurando “segretezza” assoluta per tenerlo nascosto non solo ai cittadini (comprensibile in quelle fasi concitate), ma anche alle Regioni.


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Quel che appare strano è che, ad aprile prima e a settembre poi, Speranza negherà di aver mai avuto sotto mano un “Piano”. “Solo un semplice studio”, è la sintesi. In una nota di aprile il ministero sostiene di aver presentato la ricerca il 12 febbraio al Cts e poi di averla aggiornata fino al 4 marzo. Niente di più. Le domande però a questo punto si sprecano. I componenti della task force, infatti, in quanto membri anche del Cts, erano ben consapevoli che il Comitato stava predisponendo un vero e proprio “Piano operativo”. Perché allora quando il Copasir ne chiederà conto, Speranza dirà di avere solo uno “studio”? E perché quando i cronisti domandano il documento, fornirà loro solo lo studio di Merler? I due documenti sono simili. Forse uno ispira l’altro. Ma sono due atti distinti. E poi: se il 2 marzo il Cts dice di averglielo presentato ufficialmente, perché Speranza sostiene che non esista alcun “Piano”? Nel verbale del 4 marzo, il Comitato scrive testualmente che il “Piano” è stato “redatto dall’Iss d’intesa con il ministero della Salute e l’ospedale Spallanzani”. Possibile che Speranza non sapesse che i suoi uffici stavano realizzando un “Piano” con misure e indicazioni specifiche?


Un po’ di chiarezza in più, dicono i parenti delle vittime di Bergamo, potrebbe arrivare dalla desecretazione totale dei verbali. Non solo quelli del Cts, resi ormai pubblici. Ma anche quelli della task force. O magari basetrebbe condividere ufficialmente quel maledetto “Piano”. Perché ad oggi, per quanto governo e Cts insistano che non v’è nulla di segreto, né lo studio di Merler né le bozze del “Piano” sono state rese pubbliche. Almeno non ufficialmente.





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Published on October 26, 2020 01:36

October 23, 2020

Dai decessi alle terapie intensive ecco cosa dicono (davvero) i numeri

Andrea Indini



La media dei decessi si alza a 82 anni. Perché non si è fatto nulla per metterli al sicuro anziché rinchiudere tutti in casa. Ecco la verità su tamponi e terapie intensive


Il vocabolario ha una sua importanza altrimenti si rischia di generare malintesi. E i malintesi portano spesso all'ignoranza. Accanto alla guerra sanitaria per sconfiggere il Covid-19, è in corso uno scontro politico. Da una parte, dicono, ci sono i "catastrofisti", quelli che vedono nero, che vedono nel lockdown la soluzione principe per cavarsi fuori da ogni impiccio; dall'altra ci sono i "negazionisti", quelli che chiedono una diversa narrazione della pandemia, che leggono i numeri per quelli che sono (e cioè molto meno drammatici di quanto vengono pubblicizzati). Questi ultimi hanno la peggio sui quotidiani e nei talk show, vengono (erroneamente) equiparati ai no mask e tacciati di andare in giro a dire che il virus non esiste. Niente di più falso. Per i primi, visto che la dicitura "catastrofisti" non era troppo lusinghiera, è stata forgiata una categoria ad hoc, più coscienziosa: "rigoristi". Ma anche questa è un espediente mediatico con un chiaro disegno volto a influenzare l'ascoltatore.


Lo scontro (politico) sull'emergenza

"Io ho passato mesi a chiedere di attrezzarci e, soprattutto, a dire alla gente che questa è un'infezione che si può gestire a casa. Non è stato fatto. Si è detto alle persone che questo era un virus devastante, che dà complicazioni e che finiranno tutti intubati e così, non appena qualcuno ha un sintomo, corre in ospedale per farsi curare. Quello che è passato è che noi abbiamo lasciato a casa la gente a morire, ma non è vero". Sin dall'inizio di questa epidemia il professor Matteo Bassetti ha combattuto affinché il coronavirus venisse spiegato agli italiani senza drammatizzare la situazione. E per questo è stato più volte accusato di essere un "negazionista". "Ho ricevuto attacchi personali, contro la mia persona e la mia famiglia - ha raccontato al Giornale.it - nell'ultima settimana una certa stampa mi ha ammazzato. Quando finirà tutto questo, farò le mie riflessioni...". Non è certo l'unico a combattere affinché l'informazione non sia sbilanciata a favore di chi vuole drammatizzare l'epidemia. E tutti sono finiti alla gogna. Basti pensare cosa ha dovuto passare il professor Alberto Zangrillo dopo che quest'estate ha fatto notare che il virus era "clinicamente morto" perché i ricoveri si contavano ormai sulla punta di una mano. In una intervista al Giornale.it Maria Rita Gismondo spiegava che la visione di qualsiasi aspetto della vita è "sempre filtrata dal nostro modo di essere". "Ci sono pessimisti ed ottimisti - consigliava - bisogna cercare di non cedere ed essere obiettivi". Per esserlo, in modo da evitare uno scontro che non porta a nulla, proviamo a dare un'occhiata ai numeri.


I (veri) dati sui decessi

Partiamo dall'età media dei decessi. Se a marzo questa si attestava intorno agli 80 anni, l'ultimo report dell'Istituto Superiore di Sanità la rivede leggermente alzandola a 82 anni. "Al 4 ottobre 2020 sono 407, dei 36.008 (1,1%), i pazienti deceduti SARS-CoV-2 positivi di età inferiore ai 50 anni". Un dato importante che avrebbe dovuto suggerire sin dall'inizio che bisognava concentrarsi sulla protezione dei soggetti più fragili. Soggetti che il Sistema sanitario nazionale aveva già in cura per altre patologie. "Complessivamente - si legge nel report dell'Iss - il 3,6% del campione presentava zero patologie, il 13,6% presentava una patologia, il 19,9% presentava due patologie e il 62,9% presentava tre o più patologie". È su questa fascia di popolazione che il governo dovrebbe concentrarsi e fare di tutto per metterli in un a "bolla" al riparo dal contagio. In queste settimane, come ha spiegato al Giornale.it il presidente della Società italiana di virologia, Arnaldo Caruso, ci si sta concentrando sul stiamo tracciamento degli infetti, molti dei quali sono asintomatici e quindi non vengono ricoverati in ospedale. Una situazione probabilmente analoga a quella che avremmo trovato se ci fossimo messi a fare tamponi a tappeto a gennaio e a febbraio. "Se avessimo fatto una ricerca sul territorio - ci spiegava Caruso - avremmo trovato quello che c'è oggi, ovvero una buona percentuale che tende a salire nel tempo". Nei prossimi giorni, è la sua previsione, la curva esponenziale di diffusione sarà destinata a salire. "E da quel momento in poi arriverà a colpire tutti, anche i più deboli".


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Il (mancato) tracciamento dei positivi

A differenza dello scorso inverno, quando il coronavirus ha colto l'Italia e il mondo intero di sorpresa, il governo avrebbe avuto tutto il tempo necessario per farsi trovare pronto a parare questa nuova ondata. "La strategia per contrastare la seconda ondata non può essere la stessa adottata in primavera, l'Italia è in una situazione diversa rispetto a quella di marzo, anche se questa situazione si sta rivelando molto critica", ha spiegato il premier Giuseppe Conte illustrando alla Camera le misure adottate nell'ultimo Dpcm. "Le scelte compiute fino ad oggi - ha poi continuato - ci consentono di evitare chiusure generalizzate e diffuse sul tutto il territorio nazionale". Non la pensano così i 250 accademici che fanno parte di Lettera150. Tra questi c'è anche Andrea Crisanti, il microbiologo che ha affrontato, al fianco del governatore Luca Zaia, l'emergenza Covid in Veneto. A fine agosto aveva presentato al governo un piano che prevedeva il "tracciamento automatico di tutti gli appartenenti agli ambienti di vita dei positivi" e "tamponi diffusi, fino a 400mila al giorno se necessario, per spegnere sul nascere i focolai". È rimasto lettera morta, probabilmente chiuso in un cassetto.


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La condizione della terapie intensive

"Ora a distanza di quasi tre mesi vengono emanati nuovi decreti del presidente del consiglio, destinati ad impattare sulla nostra qualità della vita e sulle nostre attività lavorative", ha denunciato Crisanti criticando apertamente l'esecutivo. "Ancora una volta si persiste nell'errore di non chiedersi come, ridotto il contagio con misure progressivamente restrittive, si faccia a mantenerlo a livelli bassi. La mancata risposta a questa domanda ci condannerà a una altalena di misure restrittive e ripresa di normalità che avrà effetti disastrosi sull'economia, l'educazione e la vita di relazione". Ancora una volta i numeri ci aiutano a porci delle domande: perché in agosto, quando i contagi da tracciare erano pochi e si poteva più facilmente risalire a tutti i contatti stretti, ci si limitava a fare sì e no 50mila tamponi al giorno? È vero che negli ultimi giorni abbiamo avuto un'esplosione di nuovi casi, ma è anche vero che abbiamo più che triplicato il numero dei test. L'altro ieri, tanto per intenderci, ne abbiamo fatti 177mila. Lo scorso 27 marzo, quando si toccarono 6mila contagiati e quasi mille morti, facevamo sì e no 33mila tamponi. Un abisso che non permette di confrontare le due situazione. Anche l'allarmismo sulle terapie intensive non sembra giustificato. Il viceministro Pierpaolo Sileri ha fissato il punto di non ritorno a 2.500 letti occupati. Ma quanti sono in totale i posti letto? Prima della pandemia se ne contavano 5.179 ma in seguito al decreto Rilancio c'è stata una spinta ad aumentarli. L'obiettivo è di arrivare già nei prossimi mesi a 8.732. Per ora, però, i medici possono contare su 6.628 posti. "Ad oggi quelli quelli già occupati sono circa il 15%", si legge nel report settimanale del commissario straordinario Domenico Arcuri. "Questa percentuale scende all'11% - si sottolinea nel report - con gli ulteriori 1.660 posti letto attivabili con i ventilatori già distribuiti alle Regioni".


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Un'emergenza evitabile?

Se durante la prima fase della pandemia ci siamo fatti trovare impreparati anche per colpa dei ritardi del governo cinese e dell'Oms, ora il governo Conte avrebbe avuto tutte le carte in regola per tentare di parare il colpo. Così non è stato. Da settimane assistiamo a una chiamata alle armi che ci fa ripiombare a sei mesi fa. Si è partiti con il coprifuoco e già si parla di lockdown. Il messaggio che trapela è il seguente: preparatevi a passare un Natale da reclusi. La sensazione, come documentato da Crisanti, è che il premier non abbia altre carte da giocarsi. Ancora una volta le misure restrittive andranno a sopperire all'incapacità di gestire l'emergenza. Un'emergenza che, è bene ricordarlo all'infinito, era già scritta. Perché, per esempio, non si è corsi per tempo ad assumere medici e infermieri per far fronte alla seconda ondata? Perché non si è fatta incetta di vaccini antinfluenzali in modo da evitare che i malanni di stagione non vengano scambiati per Covid? E ancora: perché non sono stati tracciati i positivi quando era ancor più utile farlo? Perché non è stato implementato il protocollo di cura domiciliare, come richiesto da moltissimi medici clinici ospedalieri? Viene quasi il sospetto che un certo allarmismo venga usato per coprire le mancanze di un esecutivo all'ultima spiaggia.


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Published on October 23, 2020 04:39

Il piano segreto resta nascosto. Ecco le carte negate da Conte

Giuseppe De Lorenzo
Andrea Indini



Da mesi le vittime di Bergamo cercano la verità. Ma da Palazzo Chigi neppure una risposta. Cosa stanno nascondendo?


Il Comitato delle vittime di Bergamo è “in fiduciosa attesa” ormai dal 18 agosto scorso. Due mesi di silenzio che il governo non sembra ancora intenzionato a rompere. Dopo le rivelazioni contenute nel “Libro nero del coronavirus” (clicca qui), dopo il ricorso al Tar e l’interrogazione alla Commissione Ue, emerge ora anche un altro dettaglio sul “Piano segreto” anti-Covid mai reso pubblico ufficialmente. Lo scorso agosto, infatti, il Comitato “Noi denunceremo, Verità e Giustizia per le vittime del Covid-19” ha inviato una mail di posta certificata a Conte, Speranza e Mattarella per chiedere “che venga desecretato e reso pubblico il paino sulla gestione dell’emergenza pandemica del gennaio 2020”. Una richiesta ufficiale, redatta con tutti i crismi dall’avvocato Consuelo Locati, legale del comitato. Ma rimasta fino ad oggi del tutto ignorata.


Tutto nasce dall’intervista rilasciata ad aprile da Andrea Urbani, direttore al ministero della Salute e membro del Cts, in cui evoca l’esistenza di un “piano secretato” cui gli esperti si sarebbero ispirati per dare i suggerimenti nella prima fase del contagio. Un documento tenuto “riservato” perché pieno di numeri sui contagi drammatici. Troppo per non "spaventare la popolazione". Il “piano secretato”, subito dopo l’intervista esplosiva, diventa protagonista di un vero e proprio scontro istituzionale. Le Regioni, mai avvertite della sua esistenza, restano a bocca aperta. Le opposizioni altrettanto. E il Copasir convoca Roberto Speranza per avere informazioni in merito. Il ministro, invece di domandare a Urbani che è un suo stretto collaboratore, scrive al Cts per avere informazioni sul dossier. Ma dal Comitato gli rispondono che “nei verbali” e negli allegati “non è presente alcun documento di studio sulla risposta ad eventuali emergenze pandemiche”. Il “Piano” di cui tanto si sta parlando sarebbe solo “uno studio che ipotizza possibili differenti scenari nella diffusione” dell’epidemia. E così Speranza di fronte al Copasir “derubrica” il “Piano secretato” di Urbani ad una banale analisi accademica e ne deposita un paio di versioni.



Poco tempo dopo però la fiction si ripete. Stavolta con i giornali. Alcuni cronisti fanno un accesso agli atti (Foia) e domandano di quel famoso documento. Dal ministero prima dicono di non averlo, poi inviano uno “studio” realizzato da Stefano Merler, studioso della Fondazione Bruno Kessler. La sua analisi è il “Piano” di Urbani? No, ma per un po’ di tempo si confondono. Come ricostruito dal “Libro nero del Coronavirus”, tuttavia, i due dossier non sono la stessa cosa. Merler infatti viene invitato a presentare il suo studio al Cts il 12 febbraio, lo stesso giorno in cui il Comitato istituisce un gruppo di lavoro per realizzare - lo chiama proprio così - un “Piano nazionale sanitario in risposta a un’eventuale emergenza pandemica da Covid-19”. Il Cts lo approva nella sua “versione finale” il 2 marzo 2020 (poi aggiornato il 4 e il 9 marzo) per presentarlo, via Angelo Borrelli, al ministro Speranza. Ormai è troppo tardi, visto che il virus sta mietendo vittime. Ma il "Piano" esiste eccome, nonostante ad aprile il Cts - che per quel documento aveva chiesto più volte di "secretarlo" e che nei verbali chiama sempre "Piano" - lo trasformerà in un semplice "studio".


[[nodo 1896464]] A frittata ormai fatta, i parenti delle vittime vogliono capire come sono andate le cose. Per questo il 18 agosto hanno inviato una Pec indirizzata a ministero della Salute, presidente Conte, Quirinale e Commissione per gli accessi agli atti della Presidenza del Consiglio. L’avvocato nella mail “chiede, ad ad ogni effetto di legge ed in ottemperanza al principio di trasparenza degli atti [...], che venga desecretato e reso pubblico il piano sulla gestione dell'emergenza pandemica del gennaio 2020”. Una richiesta inviata anche a Mattarella “in virtù della carica pubblica” e del suo ruolo “nella coscienza comune”. “Confido - scrive Locati - nell’ottica della trasparenza e del rispetto dei cittadini, che tale documento venga reso pubblico nel testo che risulterebbe essere stato redatto nel gennaio 2020, prima della dichiarazione ufficiale dello Stato di emergenza”.


Per Conte e Speranza la patata si sta facendo bollente. Nei giorni scorsi due deputati di FdI, Galeazzo Bignami e Marcello Gemmato, hanno “trascinato il governo” di fronte al Tar per costringerlo a rendere noto il “Piano” (ma il ministero si è opposto al ricorso). La leghista Silvia Sardone invece ha interrogato la Commissione Ue per sapere se Conte condivise o meno con Bruxelles quel documento. E ora emergono le richieste (e le proteste) del Comitato, che da agosto confida in una risposta mai arrivata. “Ritengo sia un fatto gravissimo non aver degnato di alcuna risposta un Comitato che rappresenta 70.000 persone - dice Locati al Giornale.it - persone che hanno subito lutti e restrizioni della propria libertà e che ora vogliono sapere dai nostri ministri cosa è successo nei mesi decisivi e più tragici di questa pandemia”. La mancata risposta, insiste, “dimostra che non c’è alcuna considerazione dei cittadini” che il governo non ha “mai considerato né rispettato”. E’ “indignato e arrabbiato” anche Luca Fusco, presidente del Comitato, “per la completa mancanza di trasparenza evidenziata dal Ministero della Salute in ordine alla richiesta di pubblicazione di documenti. Credo che un governo che continui ad evitare il rapporto con i propri cittadini non rappresenti l'idea di democrazia che i padri fondatori della Carta Costituzionale aveva pensato per il nostro paese”.





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Published on October 23, 2020 00:32

October 21, 2020

"Siamo usciti senza tamponi". Il giorno in cui esplose il virus

Giuseppe De Lorenzo
Andrea Indini



La rivelazione sui primi giorni di contagio. Il buco all'ospedale di Alzano: "Sembrava dovessimo scappare..."


Pubblichiamo un estratto da Il libro nero del coronavirus (Historica Edizioni, 350 pagine, 20 euro), scritto da Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini.


Nei giorni successivi, all’ospedale di Alzano Lombardo, diventeranno positivi anche un primario e un caposala. Ed è proprio il pronto soccorso a finire nell’occhio del ciclone perché, dopo i primi allarmanti esiti dei tamponi, viene chiuso per la sanificazione, ma dopo solo un paio di ore viene riaperto. Succede tutto, nel giro di poche ore, la mattina del 23 febbraio. Delia, residente a Nembro, ha entrambi i genitori ricoverati in ospedale da diversi giorni. Passa a trovarli insieme al marito per dar loro una mano a mangiare. Giovanni, il padre, che da alcuni giorni ha la glicemia altissima, è in stato confusionale. Ad un certo punto sul cellulare di un compaesano, anche lui in reparto per assistere i propri cari, arriva un messaggio in cui si parla di un due casi di coronavirus nel nosocomio. Solo allora si accorgono che il via vai delle infermiere si è fatto sempre più frenetico e che la tensione sta aumentando di minuto in minuto. Quando il marito di Delia prova a tornare a casa, alla seconda rampa di scale viene fermato dagli infermieri e rimandato indietro. La comunicazione ufficiale tarda ad arrivare. Nel frattempo, però, le porte di uscita vengono sigillate e ai parenti dei malati vengono fornite mascherine chirurgiche. Fuori si può intravedere la calca di chi si presenta per le visite. Attraverso i vetri cercano di scambiarsi le poche informazioni che riescono a mettere insieme. Non hanno certezze. Ma, quando dalle finestre vedono giornalisti e cameraman aspettare davanti all’ingresso del Pesenti Fenaroli, capiscono che la situazione è davvero grave.



Verso le cinque di pomeriggio le infermiere piombano nelle stanze del reparto. «Tirate su tutta la vostra roba – intimano – e uscite di qui». Non c’è tempo nemmeno per salutare i parenti. Il marito di Delia prova a prendere tempo. «Non posso – spiega – c’è mio suocero in bagno». «Deve andarsene assolutamente – insistono – lo lasci lì che, appena abbiamo tempo, ce ne occupiamo noi». «Non siamo nemmeno riusciti a salutarlo...», ci confida con rammarico Delia che, insieme al marito, lascia il nosocomio senza alcun tipo di controllo. Non viene nemmeno formulata l’ipotesi di sottoporli al tampone. «Andate direttamente a casa – è il suggerimento che viene loro dato – lavate i vostri vestiti e fatevi una doccia». Gli infermieri si limitano unicamente a farli passare da un’uscita secondaria per evitare la ressa che, nel frattempo, si è formata all’ingresso. «Sembrava quasi dovessimo scappare...», ci raccontano. Ovunque regna il caos. Le sensazioni dei Morotti trovano conferma nella testimonianza di Nadeem Abu Siam, medico palestinese di 29 anni che il 23 febbraio dovrebbe fare il turno di notte. Alle 17 gli arriva la prima telefonata: «Siamo chiusi, non venire in ospedale». Due ore dopo il telefono squilla di nuovo. Gli comunicano che deve presentarsi al lavoro. «Appena entrato nessuno sapeva cosa fare – confida – il flusso dei pazienti era ancora fermo. Fino a quel momento non avevamo mai usato mascherine in modo generalizzato e in tutto avevamo una decina di tamponi».


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Nei tre giorni successivi, inoltre, Delia continua a fare avanti e indietro dall’ospedale per portare il ricambio a entrambi i genitori. Il 27 febbraio, poi, la madre 82enne viene dimessa perché il tampone è negativo. Il suo, però, risulterà un falso negativo. Il 28, invece, è il padre a risultare positivo al test. L’incubo della famiglia Morotti era cominciato, però, a inizio mese, intorno al 10 febbraio, quando Giovanni viene portato per la prima volta al pronto soccorso di Alzano. Ha la febbre e la tosse gli toglie il respiro. La radiografia ai polmoni riscontra un inizio di focolaio. Viene, tuttavia, dimesso con una cura antibiotica. Nel frattempo anche la moglie inizia a stare male e per lei viene subito disposto il ricovero al Pesenti Fenaroli. Anche le condizioni di Giovanni peggiorano di giorno in giorno, nonostante le medicine che sta prendendo. «Gli si è ammalata la bocca», ci spiega Danilo, fratello di Delia. Perde completamente il senso del gusto e una violenta candidosi gli toglie l’appetito. Il 21 febbraio tornano, quindi, in ospedale e qui a preoccupare i medici sono soprattutto i valori del diabete. Da questo la decisione di ricoverarlo.


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Delia e Danilo riescono a vedere il padre 85enne un’ultima volta il 9 marzo, la sera prima che muoia. «Vostro papà è gravissimo», dice il dottore in una telefonata arrivata nel cuore della notte. «Se volete potete dargli un ultimo saluto, ma non toccate nulla... nemmeno il letto». In testa non ha più nemmeno il casco, la C–pap. Ha solo la mascherina. «Ho provato a chiamarlo due o tre volte – ci racconta Delia – ma non mi ha mai risposto». I medici hanno già ini- ziato a somministrargli la morfina. «Morire per soffocamento non è degno di un essere umano», gli spiega con pazienza un dottore. «Sarebbe come morire annegati... quindi stia tranquilla che lo accompagneremo con la morfina». Per altre ventiquattr’ore andrà avanti a lottare tra la vita e la morte. «Secondo me – taglia corto Delia – di quel reparto lì, ne sono rimasti in vita davvero pochi...». Il 13 marzo anche la madre si aggrava. Questa volta l’ambulanza la porta al pronto soccorso dell’ospedale di Seriate. I medici non la porteranno nemmeno in reparto: morirà lì tre giorni dopo. «Nel frattempo mi sono ammalato io di polmonite bilaterale», ci racconta Danilo a cui non sarà mai fatto il tampone. «Non è necessario – gli spiegano – dal momento che non ha crisi respiratorie». Per guarire, oltre agli antibiotici, un medico dell’ospedale San Raffaele di Milano gli prescrive anche l’antimalarica che, nel giro di un paio di giorni, gli spegne la febbre. Pure Delia si ammala, ma in forma molto lieve. Insieme a lei anche l’altra sorella e la nipote.





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Published on October 21, 2020 22:35

Covid, la rivelazione sull'ospedale di Alzano: "Sembrava dovessimo scappare".




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Giuseppe De Lorenzo
Andrea Indini

La testimonianza esclusiva che apre di nuovo il capitolo sull'ospedale di Alzano Lombardo, il nosocomio in Val Seriana chiuso e riaperto nei primi giorni dell'emergenza coronavirus in Lombardia






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Published on October 21, 2020 22:35

Il grande show del coronavirus e l'ipocrisia del senso di colpa

Andrea Indini



Il Covid travolge anche il mondo dei vip: sui social è una gara a fare mea culpa tra chi ha contratto il virus. Ma così passa il messaggio del malato-untore da condannare


All'inizio dell'anno, quando la prima ondata di contagi si era abbattuta sull'Italia, in molti si erano chiesti come mai avesse risparmiato personaggi famosi. Alcuni, come spesso accade, si erano addirittura spinti a formulare teorie strampalate e del tutto prive di fondamento. La seconda ondata non ha lasciato indenni politici, cantanti, sportivi e vip vari. D'altra parte sono umani come tutti gli altri. Solo che, se sono loro a scrivere sui social della propria esperienza con il coronavirus, ecco che i post vengono immediatamente letti e condivisi da migliaia di persone, diventano immediatamente spunto per un articolo e si tramutano, in un secondo momento, in una intervista a qualche settimanale patinato.


I post dei volti noti hanno ben altro tenore rispetto a quelli della gente comune. Questi ultimi non si fiondano sulla tastiera per condividere il male che li obbliga chiusi in casa, magari reclusi in una camera da letto, ma per denunciare la latitanza dell'Ats, l'impossibilità di ottenere un tampone o il dramma di un proprio caro stroncato dal Covid-19. C'è sempre dolore nelle loro parole. E c'è pure un senso di impotenza per doversi confrontare con un sistema sanitario che non funziona. Un'impotenza che, dopo mesi persi dal governo a non decidere, a non prendere in mano la situazione, a non adottare misure ad hoc per farsi trovare preparati all'arrivo della seconda ondata, rischia di trasformarsi in ira. Nelle dirette social e nei post dei vip contagiati non c'è tutta questa rabbia. Li accomuna, tuttavia, un immotivato senso di colpa che li porta a doversi giustificare con i propri fan. "Credo di averlo preso a una cena perché al ristorante quando si mangia sono tutti senza mascherina", ha spiegato per esempio Nina Zilli. Dello stesso tenore le dichiarazioni di Valentino Rossi che, alla positività del secondo tampone, si è detto "triste e arrabbiato". "Ho fatto del mio meglio per rispettare il protocollo", ha assicurato il Dottore. Un trend che era iniziato già quest'estate con i pentiti della movida. "Abbiamo abbassato la guardia troppo presto", aveva fatto mea culpa Antonella Mosetti ammettendo di aver trascorso una serata al Billionaire ma anche di non poter essere sicura di essere stata contagiata lì.


Anche i politici giurano di essere sempre stati attenti, come se ammalarsi fosse un reato. "Sono stata molto attenta - ha spiegato la piddì Beatrice Lorenzin a Cartabianca - forse mi sono contagiata toccandomi gli occhi". Nei giorni scorsi anche l'ex ministro Nunzia De Girolamo ci ha tenuto a spiegare come abbia contratto il virus. "L'ho preso da mia madre, a Benevento, senza abbracciarla - ha assicurato - ma stando solo a cena insieme a casa". Poi ha lanciato l'appello a "tenere sempre la mascherina". "Tenete alta l’attenzione - ha poi rincarato - il virus c’è ed è subdolo. È davvero dura". In molti, caduti nelle grinfie del virus infimo, non mancano di lanciare suggerimenti sui social. "Mi raccomando - aveva detto già quest'estate Aida Yespica in una storia su Instagram - massime precauzioni e usiamo tutti le mascherine". Nei giorni scorsi, invece, Nina Zilli ha consigliato ai suoi fan di "non andare al ristorante, di non stare più in luoghi affollati" e, più in generale di "dismettere la vita sociale". "Ho fatto di tutto per non prenderlo, ve lo giuro - ha detto - ma sfugge al nostro controllo". Prenderlo, però, non è una colpa da espiare. Far passare questo messaggio è sbagliato e pericoloso.


Che la comunicazione filtri prima di tutto dai social lo sa benissimo anche Giuseppe Conte. È proprio per questo che nei giorni scorsi, anziché affidarsi ai guru del Comitato tecnico scientifico, ha deciso di convocare Chiara Ferragni e Fedez per lanciare un appello ai più giovani. "Il premier ci ha chiesto aiuto", ha ammesso il cantante. "Ci è stato chiesto un aiuto per esortare la popolazione, in particolare quella più giovane, ad utilizzare la mascherina". E così ha fatto: "Ci troviamo in una situazione molto, molto, molto delicata, l'Italia non si può permettere un nuovo lockdown. In qualche modo il destino e il futuro dell'Italia sono nelle mani della responsabilità individuale di ognuno di noi. Con un semplice gesto potremmo evitare lo scenario tra i più brutti che abbiamo vissuto nei mesi scorsi. Mi raccomando, ragazzi, usate la mascherina". La scelta di Palazzo Chigi ha diviso la politica tra favorevoli e detrattori. Al di là del giudizio la dice lunga sulla battaglia che si sta combattendo. Se però da una parte è giusta la sensibilizzazione al rispetto delle regole per preservare il bene comune, dall'altra è necessario anche trasmettere che i malati non sono appestati da trattare come untori, che non c'è nessuna colpa a star male, che nella stragrande maggioranza dei casi ci si cura e si guarisce.




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Coronavirus focus





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Giuseppe Conte
Chiara Ferragni
Fedez
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Published on October 21, 2020 03:22

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Andrea Indini
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