Andrea Indini's Blog, page 62

January 20, 2021

Il (mal)governo dell'instabilità

Andrea Indini

Al Senato il premier incassa 156 sì. Non è abbastanza per tirare avanti. Ora cercherà di allargare. Ma per cosa? Continuare a far danni come nell'ultimo anno e mezzo

"Adesso stiamo a vedere se riescono a governare...". Tra i banchi di Italia Viva se lo sono detti subito. Non appena il governo Conte II si è salvato in extremis incassando a Palazzo Madama una fiducia stretta stretta, i renziani si sono dati di gomito sorridendo a quei 156 "sì". Per cinque voti l'avvocato del popolo non è riuscito a portare a casa la maggioranza assoluta. Si apre così la fase 2 della crisi, quella dell'instabilità e del logoramento. Giuseppe Conte si appresta, infatti, a percorrere una strada tanto dissestata da nascondere cadute e tonfi ad ogni curva. Nemmeno i vertici di Pd e Movimento 5 Stelle, che pure hanno fatto di tutto per sostenere questa nuova compagine raccogliticcia, sono sicuri di andare tanto in là. "Non c'era altra strada", dicono. "Ora, però, dobbiamo allargare...". Il mercato delle vacche, insomma, non è ancora finito.

La vera crisi inizia ora. "L'obiettivo è rendere ancora più solida questa maggioranza - ha twittato ieri sera Conte - l'Italia non ha un minuto da perdere". Dopo una settimana di offerte sottobanco e contrattazioni, come in uno squallido mercato rionale, l'estenuante tour de force del premier è terminato con un risultato al fotofinish che nemmeno la Var è riuscita a fugare da un'incertezza che ora si riverserà inevitabilmente addosso agli italiani. Il caos al termine della "chiama" e l'imbarazzante suspance in seconda serata sono gli (in)degni titoli di coda di un governo che, a dispetto di tutto e tutti, ha fatto combattuto solo per rimanere incollato alla poltrona. Per portare a casa il risultato si è appigliato a tutto: la decisione di Italia Viva di non votare contro ma di astenersi, abbassando così la soglia di salvezza, la stampella di tre senatori a vita (Liliana Segre, Mario Monti ed Elena Cattaneo), l'appoggio "provvidenziale" di una folta schiera di "voltagabbana" che in queste ore hanno cambiato casacca con estrema facilità e, dulcis in fundo, la riammissione al voto dell'ex grillino Lello Ciampolillo e del socialista Riccardo Nencini che col loro "sì" hanno allungato la vita a Conte. La politica trasformata in un film di serie B.

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Il day after vede uno scarico plotone di Italia Viva all'opposizione. Matteo Renzi, a cui non è riuscita la spallata al premier, dice di "starci d'incanto". Nencini non gli toglierà certo il simbolo di Italia Viva e non è detto che i renziani in futuro non daranno man forte al governo. Fuori da Palazzo Chigi, intanto, ci sarà la fila di chi adesso vuole passare all'incasso. In qualche modo Conte dovrà dare qualcosa a chi gli è andato in soccorso. La lista è lunga oltre a Ciampolillo e Nencini, abbiamo Gregorio De Falco, Luigi Di Marzio, Maurizio Buccarella, Tommaso Cerno, Sandra Lonardo, Andrea Causin e Maria Rosaria Rossi. Responsabili, costruttori, manovali per i giallorossi. Voltagabbana per tutti gli altri. A chi risponderanno in Aula? A nessuno. Rischiano di diventare schegge impazzite che il premier faticherà a controllare. Senza tener conto del fatto che i senatori a vita non ci sono sempre. Pertanto quel centocinquantasei è solo fumo negli occhi. "Occorre voltare pagina - ha già avvertito Nicola Zingaretti - rafforzare e ampliare la forza parlamentare di questo governo".

Le prossime mosse di Conte sono dunque scontate. In vista del rimpasto della squadra dei ministri, si riaprirà (l'hanno mai chiusa?) la ricerca di altri parlamentari che assicurino il proprio sostegno al governo. "Un governo è forte se può contare su almeno 170 senatori", fissa l'obiettivo il capodelegazione Pd, Dario Franceschini. La "tregua" che le Camere daranno a Conte durerà pochi giorni. Giusto il tempo per varare lo scostamento di bilancio e il decreto ristori. Poi ripiomberemo nel caos politico. E anche se ai giallorossi dovesse riuscirire l'impresa di agganciare un "centro europeista" corposo, che gli permetta di galleggiare per altri mesi, quale sarà il risultato? Un non governo. Un governo che non governa. Esattamente come è stato fatto sino ad oggi. Il disastro è sotto gli occhi di tutti: l'incapacità di gestire la pandemia, rendendo endemico lo stato di emergenza sanitaria; i continui schiaffi al tessuto produttivo del Paese abbandonato a se stesso mentre il lockdown perenne erode risparmi e ricchezze; gli scivoloni in politica estera (dall'assenza in Libia alla debolezza in Europa, fino alle alleanze discontinue con Washington e Mosca); l'abolizione ideologica dei decreti Sicurezza che ha trilplicato il numero dei clandestini sbarcati in Italia.

Qualora a Conte dovesse riuscire l'impresa di allargare la maggioranza, il governo non farà altro che andare avanti a far danni. Esattamente come ha fatto nell'ultimo anno e mezzo.

Persone:  Giuseppe Conte Matteo Renzi Nicola Zingaretti
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Published on January 20, 2021 03:24

January 17, 2021

"La regia spetta allo Stato". Una sentenza smaschera Conte

Giuseppe De Lorenzo Andrea Indini

Per la prima volta nella storia la Corte sospende d'urgenza una legge regionale. E mette nel mirino le responsabilità del governo

La regia è dello Stato. Lo dice la legge. Non ci voleva molto a capirlo, ma da mesi il premier Giuseppe Conte sta cercato di chiamarsi fuori dalle proprie responsabilità in quella che è una delle pagine più buie dell'emergenza sanitaria che da un anno a questa parte mette in ginocchio l'Italia: la mancata disposizione della zona rossa nella Val Seriana. A lungo il governo ha cercato di addossare le colpe dei ritardi (e quindi delle vite spezzate da certe scelte sbagliate) sul conto della Regione Lombardia e del governatore Attilio Fontana. A Bergamo i magistrati stanno cercando di vederci chiaro, ma giovedì scorso una sentenza della Corte Costituzionale ha stabilito (una volta per tutte?) che gli interventi che rientrano nella materia della profilassi internazionale sono "di competenza esclusiva dello Stato". Esclusiva, appunto.

La strategia (sbagliata) di Conte

L'ultimo caso, su cui la Consulta si è dovuta pronunciare, è quello della Valle d'Aosta che lo scorso 9 dicembre, in aperto contrasto con le scelte fatte da Conte, aveva varato misure più soft rispetto a quelle imposte dal governo. Con l'ordinanza depositata giovedì scorso, di cui è relatore il giudice Augusto Barbera, i "giudici delle leggi" hanno sospeso la direttiva regionale accogliendo l'istanza proposta da Palazzo Chigi nel ricorso contro la Valle d'Aosta. La decisione è stata presa "in via cautelare". Non è definitiva, insomma. La Corte Costituzionale ci tornerà su il 23 febbraio. Come fa notare l'agenzia Agi, è la prima volta che la Consulta decide di sospendere "in via cautelare". Una scelta dettata dall'urgenza di porre un freno ai presidenti di Regione che vanno per la loro strada. E questo non è solo un importante precedente per tutto quello che verrà legiferato nei prossimi mesi ma, come sottolinea Sabino Cassese sul Corriere della Sera, dimostra (finalmente) che "la strada imboccata dallo Stato fin dal marzo scorso è sbagliata". "Gli interventi resi necessari dalla pandemia non rientrano tra quelli nei quali Stato e regioni si spartiscono i compiti, ma tra quelli che spettano esclusivamente al governo, con cui le regioni debbono collaborare", spiega il giurista evidenziando che a questo punto il governo "dovrà reimpostare tutta la sua strategia". "Con un anno di ritardo - continua - ci accorgiamo che un fenomeno mondiale non può essere fronteggiato dividendosi. Il pluralismo anti-pandemia è una contraddizione in termini".

I poteri e i doveri del governo

La Corte Costituzionale non lascia ampi spazi. Dal momento che "sussiste altresì 'il rischio di un grave e irreparabile pregiudizio all'interesse pubblico' nonché 'il rischio di un pregiudizio grave e irreparabile per i diritti dei cittadini' (art. 35 della legge n. 87 del 1953)", i giudici hanno stabilito che "la pandemia in corso ha richiesto e richiede interventi rientranti nella materia della profilassi internazionale di competenza dello Stato". A regolare questo principio inderogabile è la Costituzione stessa all'articolo 117, secondo comma, lettera q. Secondo l'ex presidente della Consulta, Cesare Mirabelli, la sentenza non è importante soltanto perché sancisce la "competenza esclusiva dello Stato", ma perché, come ha spiegato ieri sul Messaggero, stabilisce che "le scelte dei governatori devono inscriversi nella cornice che fissa lo Stato". Insomma, "le regioni non possono andare per conto loro, ma occorre per quanto riguarda l'azione di contrasto della pandemia un'azione unitaria che, in base alla costituzione, spetta solo allo Stato. Questo - conclude - non significa che non possano esserci condizioni diversificate ma la cabina di regia deve essere unica e centrale". Questo principio non può dunque essere confinato al solo caso della Valle d'Aosta, dove, come fa notare sul Messaggero l'ex vice presidente della Consulta, Enzo Cheli, "l'uso di un potere esercitato per la prima volta dà la misura del pericolo paventato dall'Avvocatura dello Stato", ma deve essere allargato anche alle responsabilità che il governo deve prendersi e che da marzo a oggi non sempre si è preso.

Il precedente della Val Seriana

La sentenza della Consulta irrompe nel dibattito, mai sopito, sulla responsabilità della mancata istituzione della zona rossa in Val Seriana. Spettava a Conte o a Fontana istituirla? Il Cts, come rivelato nel Libro nero del coronavirus (clicca qui), invitò i decisori politici a sbarrare la Bergamasca. La giunta lombarda chiese misure drastiche. Sul posto vennero inviati carabinieri e forze dell'ordine. Tutto era pronto. Ma il governo decise di aspettare, rimandò la decisione, fino a non prenderla mai. Sarà un giudice a decidere se i fatti costituiscono reato. Ma politicamente la faccenda merita di essere risolta. Conte e il ministro Boccia hanno più volte cercato di addossare le colpe alla Lombardia, sostenendo che una legge del 1978 avrebbe permesso anche al governatore di disporre la zona rossa. A inchiodare il governo alle sue responsabilità, però, ci sono due fatti: da una parte la battaglia legale con le Marche; dall'altra, è l'ultima novità, la sentenza della Corte costituzionale.

Quando Luca Ceriscioli, del Pd, decise di fermare le attività scolastiche nella sua regione il governo impugnò il provvedimento per annullarlo. Ricordate? Conte voleva che tutti seguissero il sentiero battuto dallo Stato centrale. In rete si trovano ancora decine di dichiarazioni in cui i ministri invitano i presidenti a "non fare di testa propria": il governo aveva avocato a sé il potere decisionale in piena pandemia. Roma voleva decidere e lo fece capire ai governatori. Se Fontana avesse istituito la zona rossa, sempre che la Difesa avesse messo a disposizione i militari necessari, il governo avrebbe probabilmente impugnato l'ordinanza. Inoltre oggi sappiamo, dice la Consulta, che spettava a Conte gestire gli interventi di "profilassi internazionale": è "competenza esclusiva dello Stato". Dunque lo sono anche le responsabiltà sulla Val Seriana. Oneri e onori di chi governa.

Tag:  corte costituzionale Persone:  Giuseppe Conte
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Published on January 17, 2021 08:28

January 16, 2021

Il male all'origine di tutti i mali (così si difende la democrazia)

Matteo Carnieletto Andrea Indini

Pearl Harbor, JFK, le Torri Gemelle e l'assalto a Capitol Hill. Quattro date, quattro volte l'America sotto attacco. Ma cosa li lega davvero?

Un tweet. Quattro date. Una in fila all'altra. Il 7 dicembre 1941. Il 22 novembre 1963. L'11 settembre 2001. E il 6 gennaio 2021. L'indomani del blitz a Capitol Hill da parte di esagitati seguaci di Donald Trump, Alan Friedman ha affidato a un post semi muto, ma molto eloquente, il commento all'ultima puntata dell'addio alla Casa Bianca del tycoon. Si è parlato in lungo e in largo di un attacco alla democrazia. E così, seguendo questa scia di pensiero, il giornalista avrebbe accostato la pantomima dello "sciamano" Jake e degli ultrà in cerca di selfie e trofei - che, in un modo o nell'altro, è comunque costata vita a cinque persone, una delle quali ammazzata a bruciapelo - a quattro drammatici momenti (forse i peggiori) della storia americana: il brutale attacco condotto da una flotta di portaerei della Marina imperiale giapponese alla United States Pacific Fleet e le installazioni militari statunitensi di Pearl Harbor che si trovavano nell'arcipelago delle Hawaii; l'assassinio del presidente John Fitzgerald Kennedy mentre sfilava con la moglie Jacqueline per le vie di Dallas; gli attentati di al Qaeda alle Torri Gemelle. Un paragone avventato? Un'esagerazione? Probabilmente sì. Ma obbliga comunque a più di una riflessione.


December 7, 1941
November 22, 1963
September 11, 2001
January 6, 2021


— Alan Friedman (@alanfriedmanit) January 7, 2021


Per due volte nella sua storia, l'America si è trovata il nemico in casa. Il 7 dicembre 1941 e l'11 settembre 2001, come giustamente nota Friedman. Ma pure, anche se pochi lo ricordano, il 7 maggio del 1915. Quel giorno, infatti, il transatlantico britannico Lusitania fu affondato dai tedeschi. A bordo c'erano non solo parecchi cittadini americani, ma anche molto materiale bellico. Secondo molti - che però forse ne amplificano la portata - questo evento determinò la discesa in campo degli Usa nella Prima guerra mondiale. In questo caso, colme negli altri citati dal giornalista, gli Stati Uniti si sono lasciati prendere alla sprovvista e la reazione, per molti versi, è stata scomposta. Il clima che si è venuto a creare dopo il bombardamento di Midway rivive nelle pagine scritte da James Ellroy ormai sette anni fa. Perfidia (Einaudi) che - insieme a Questa tempesta (sempre Einaudi), andrebbe riletto nuovamente oggi - è un romanzo "triste e malinconico" perché, come ammette lo scrittore stesso, è "imbevuto di quel tradimento morale che è stato, in America", cioè l'internamento dei cittadini giapponesi all'inizio della Seconda guerra mondiale. Il titolo viene dalla canzone Perfidia di Glenn Miller che, in spagnolo, significa proprio tradimento. Un tradimento che, negli occhi dello scrittore americano, non investe soltanto la politica, ma anche la storia stessa degli Stati Uniti e quindi i suoi principi di libertà. L'omicidio della famiglia Watanabe a Los Angeles diventa così l'occasione per raccontare l'odio razziale, le trame della Quinta Colonna, i rastrellamenti di 120mila giapponesi, che vivevano in California ("Un’ingiustizia di merda verso tanti innocenti"), e i soldi sporchi fatti da poliziotti corrotti e malavitosi cinesi per "proteggere" le stesse persone che avrebbero dovuto internare. Con questo male gli americani vissero a lungo e non ne ebbero mai abbastanza. Tanto che, a guerra pressoché finita, vollero definitivamente umiliare il Giappone con due devastanti attacchi atomici. Il 6 agosto 1945, poco dopo le 8 del mattino, fu asfaltata Hiroshima. Tre giorni dopo tocò a Nagasaki. Il mondo guardò senza fiatare l'uso di queste armi di distruzione di massa (la prima e per il momento unica volta nella storia) che uccisero tra 100mila e 200mila persone (quasi tutti civili). D'altra parte, come ricorda lo stesso Ellroy all'inizio di Questa tempesta, "solo il sangue muove le ruote della storia". Parole prese in prestito da Benito Mussolini.

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Il racconto di quei momenti drammatici e, soprattutto delle vicende che portarono ad essi, è fornito da La bomba, la graphic novel di Didier Alcante, Laurent-Frédéric Bollée e Denis Rodier pubblicata recentemente da L'Ippocampo. "In principio non c'era nulla. Ma in quel nulla c’era già tutto!", si legge nell'incipit del libro. Un inizio che quasi ribalta il Vangelo di Giovanni: "In principio era il Verbo e il verbo era presso Dio". Con l'atomica non c'è più spazio per questo. C'è solamente il vuoto. Il nulla. "In pincipio non c'era nulla. Ma in quel nulla c'era già tutto".

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La bomba è un'opera corale perché corale è la strada che ha portato alla strage di Hiroshima e Nagasaki. Ci sono i volti e le storie di Einstein, Enrico Fermi, il presidente Harry S. Truman, Julius Robert Oppenheimer e il generale Leslie Grove, il capo del progetto Manhatan. Strade diverse che, a un certo punto, si sono unite per fondersi nella bomba. Non una bomba. Ma la bomba. Quella che ha cambiato il corso della storia. Quella che in pochi secondi ha sancito la fine di un conflitto - la Seconda guerra mondiale - e ne ha aperto un altro. Non c'era alcun motivo per sganciare l'atomica su Hiroshima e Nagasaki. Se non uno: inviare un messaggio all'Unione sovietica e iniziare così la Guerra fredda.

Ventidue anni dopo, un altro attacco. Questa volta in patria. A Dallas. Ci sono John e Jacqueline Kennedy: sfilano in un corteo di automobili "dentro il fuoco del mezzogiorno". In Libra (Einaudi), un altro romanzo da leggere e rileggere, Don DeLillo fissa quello che per il New Yorker è "il fotogramma di un istante tremendo". Un fermo immagine: Lee Harvey Oswald che dalla vetrata del Texas School Book Depository spara al presidente Kennedy. La Lincoln è scoperta. La traiettoria è precisa, taglia l'aria densa e calda e segue il bagliore di lampo che cambierà il destino del mondo portandosi dietro di sé un alone di mistero che la commissione Warren e la United States House Select Committee on Assassinations (HSCA) non riusciranno mai a dipanare. Perché Oswald è solo un burattino. E non è nemmeno l'unico a far fuoco. Questo è certo. In quel momento l'America, lacerata da una guerra interna tra la politica, frange deviate della Cia ed esuli cubani anticastristi ancora feriti dalla figuraccia fatta alla Baia dei Porci, perde un altro pezzo di sé. La guerra è in casa e rischia di destabilizzare l'intero impianto democratico.

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Se, però, oggi dobbiamo realmente pensare a un attacco all'America, probabilmente nell'immaginario di chiunque si materializzano le immagini delle Torri Gemelle che si sgretolano sotto i colpi dei due aerei lanciati dall'odio islamista. La fuligine che ricopre New York. Il dramma in mondovisione. Il male in diretta tivù. Ognuno di noi a boccheggiare, a sentire il crepitio delle fiamme, a pregare per quegli uomini che, per fuggire dall'incendio, si gettano giù dal grattacielo. L'odio contro la furia jihadista. "Non era più una strada ma un mondo, un tempo e uno spazio di cenere in caduta e semioscurità", racconta DeLillo nel bellissimo L'uomo che cade (Einaudi). "Cerano persone che gli correvano accanto tenendosi asciugamani sul viso o giacche sulla testa - si legge nell'incipit del romanzo - avevano fazzoletti premuti sulle bocche. Avevano scarpe in mano, una donna gli corse accanto, una scarpa per mano. Correvano e cadevano, alcuni, confusi e sgraziati, fra i detriti che scendevano tutt’intorno, e qualcuno cercava rifugio sotto le automobili". L'orrore. Ce lo ricordiamo. È ancora stampato nei nostri occhi. Fa ancora male. "Nell’aria c’era ancora il boato, il tuono ritorto del crollo - scrive ancora DeLillo - il mondo era questo, adesso. Fumo e cenere rotolavano per le strade e svoltavano angoli, esplodevano dagli angoli, sismiche ondate di fumo cariche di fogli di carta per ufficio in formati standard dai bordi taglienti, che planavano, guizzavano in avanti, oggetti soprannaturali nel sudario del mattino". L'America avvolta nel suo sudario.

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Le immagini dei soldati della Guardia nazionale mentre dormono all'interno del Campidoglio mostrano che gli Stati Uniti oggi sono deboli. Ed è per questo che i suoi soldati vengono schierati in patria (a Washington in questi giorni ce ne sono oltre 20mila) al posto che all'estero (attualmtente si contano solamente 5mila uomini in Afghanistan). E c'è chi invoca con ansia il Boogaloo. La seconda guerra civile americana.

Speciale:  Elezioni USA 2020 focus Persone:  Donald Trump
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Published on January 16, 2021 22:41

January 12, 2021

Ci tolgono la libertà

Andrea Indini

I social network e i motori di ricerca ci condizionano da sempre. E vogliono pure dirci chi può parlare e cosa possiamo leggere

Smettiamola pure di preoccuparci di un futuro senza più libertà. Quel futuro è presente, e non come realtà distopica alla George Orwell ma come grossolana quotidianità drammaticamente abituata senza battere ciglio a cedere porzioni di privacy e di indipendenza. Ce le stanno portando via, senza neanche troppi sforzi, concedendoci servizi gratuiti o garantendoci sempre più comodità. Così, appena abbiamo iniziato a chiederci qual è il prezzo di questo nuovo mondo iperconnesso, ecco che ci siamo accorti che forse è già troppo tardi per fare qualcosa.

Ci aspettavamo un incubo dai contorni avveniristici come in Blade Runner o Matrix. Invece è qualcosa di più simile a un episodio di Black Mirror. E così un giorno ci siamo svegliati e ci siamo resi conto che è già tutto segnato. Troppo tardi per tornare indietro. Nessuna pillola blu per risvegliarsi dall'incubo, nessuna pillola rossa per sganciarci dalle catene. La realtà è molto più banale. È tale e quale a quella di cinquant'anni fa (niente macchine che volano, per intenderci), ma con una grande differenza: un mondo etereo, internet, che conta molto pù di quello tangibile. Ed è lì dentro che ci stiamo affossando. Per colpa nostra. Perché il mezzo non è mai il male, dipende tutto dall'uso che se ne fa. Tanto per intenderci: se prendiamo una scopa, è più importante la chioma o il bastone? Alla maggior parte delle persone verrebbe probabilmente da rispondere la prima perché anche senza manico si riesce a pulire ugualmente. A fatica, ma si riesce. Scopare, invece, solo con il manico è impossibile. Ma David Foster Wallace butta la palla oltre e in La scopa del sistema (Einaudi) fa notare che dipende tutto dall'uso che se ne vuole fare: "Se la scopa ci serve per spaccare una finestra, allora la parte fondamentale è chiaramente il manico". Internet permette a tutti di essere connessi. Accorcia le distanze. Un bene, no? I social servono proprio a questo. Ma attenzione: cosa succede se regaliamo le nostre vite (i desideri, i gusti, i segreti, i sentimenti, le fotografie, la localizzazione nel mondo) a società private il cui unico scopo è generare profitti? Cosa succede se i servizi che ci offrono sono gratuiti e quindi devono trovare un altro modo per arricchirsi? Mark Zuckerberg e compagnia bella, per quanto ci tengano talvolta a passare per filantropi, non sono certo enti caritatevoli. Ma soprattutto non sono neutrali.

Negli ultimi giorni abbiamo assistito, in un pericoloso silenzio anestetizzato, alla cacciata di Donald Trump da Facebook, Twitter e Instagram. Era nell'aria da mesi. Probabilmente in molti lo agognavano dal giorno in cui il tycoon ha iniziato a marciare verso la Casa Bianca. Zuckerberg ha colto l'occasione dopo gli scontri dello scorso 6 gennaio (l'assalto a Capitol Hill tra pagliacci vestiti da sciamani, assurde teorie cospirazioniste e morti vere) per spianare gli account dell'ormai prossimo ex presidente degli Stati Uniti. Il giro di vite non si è fermato lì. Molti sostenitori dell'alt right hanno fatto la stessa fine. Hate speech l'accusa. Incitamento all'odio e alla violenza. Ma non solo: in 70mila sono saltati perché paladini della teoria cospirazionista Qanon. E, quando questi "profughi" sono sbarcati su Parler, Google e Apple hanno estromesso l'app dai propri negozi digitali mentre Amazon l'ha cacciata dai propri server rendendo in questo modo la piattaforma, che si stava imponendo come il Twitter di estrema destra, irraggiungibile. Nelle ultime ore le purghe dei big della Silicon Valley si sono abbattute anche su Ron Paul, figura di riferimento del movimento libertario statunitense che nell'ultimo mese aveva già ricevuto uno strike da YouTube per aver video pubblicato un comizio di Trump.

Dovrebbe essere chiaro a tutti il fatto che il problema sia molto più imponente di quello che potrebbe anche non apparire in primissima battuta. Chi si trincera dietro al fatto che le big tech sono aziende private, e che quindi possono fare quello che vogliono, rischia di prendere una grandissima cantonata. Anche colossi come Facebook o Twitter sono, infatti, chiamati a rispettare i principi costituzionali. E la libertà di espressione è un diritto costituzionale da difendere sempre e comunque. Per questo nelle ultime ore sta facendo rumore anche la temporanea limitazione dell'account di Libero su Twitter. Al di là di chi è coinvolto nella stretta, il giro di vite dovrebbe spingere tutti a un'attenta riflessione. "La possibilità di interferire nella libertà di espressione – ha dichiarato Angela Merkel – è data solo nei limiti stabiliti dalle leggi e non può venire dalla decisione autonoma di un’impresa privata". Che cosa significa togliere il diritto di parola? Quali sono i rischi e le conseguenze di questa limitazione? Le big tech si limiterà all'oscuramento dei profili o troveranno il modo di stringere ulteriormente i cordoni? Da sempre, per esempio, i motori di ricerca hanno il potere di "premiare" o nascondere una notizia. Quali sono i principi che sottendono l'algoritmo che regola cosa possiamo leggere e cosa no? E ancora: chi controlla i censori delle nostre libertà?

Quest'ultimo punto non è certo meno importante degli altri. Dobbiamo tenere, infatti, presente che mentre questi colossi decidono cosa farci leggere o comprare, mentre plasmano i nostri gusti, mentre indirizzano le nostre scelte, ingrassano anche grazie ai dati che noi stessi diamo loro. Se da una parte ci mostrano quello che vogliamo vedere (azzeccando sempre quello che ci piace), dall'altra compiono un soft power che con il passare del tempo permette loro di intervenire attivamente sui nostri interessi pilotando in questo modo le nostre scelte e, quindi, i nostri acquisti. È soprattutto dalla predizione dei nostri comportamenti futuri che traggono il loro vero potere. Il punto è che siamo noi stessi a permetterglielo. Lo facciamo non appena mettiamo piede in un social network e continuiamo a farlo ogni volta che flagghiamo una casella in più nelle sfilza di criteri che regolano l'utilizzo dei dati personali. Spuntiamo la casella "accetto" senza farci troppi problemi (e probabilmente senza nemmeno leggere quello che ci viene proposto) e gli consegniamo la nostra anima. Lo faremo anche con WhatsApp (anche questa di proprietà dell'onnipresente Zuckerberg) quando nei prossimi giorni ci chiederà di vidimare l'ultimo aggioramento dei diritti sulla privacy. D'altra parte è già così con tutti i social network che, oltre a immagazzinare miliardi di fotografie e video, stipano nei loro server un'infinità di terabyte di chat private. I big data sono la materia prima su cui si fonda quel "nuovo ordine economico" che, come spiega Shoshana Zuboff in Il capitalismo della sorveglianza (Luiss Edizioni), concentra "ricchezza, sapere e potere" in pochissime società. "Alcuni di questi dati – scrive la docente di Harvard – vengono usati per migliorare prodotti o servizi, ma il resto diviene un surplus comportamentale privato, sottoposto a un processo di lavorazione avanzato noto come ‘intelligenza artificiale’ per essere trasformato in prodotti predittivi in grado di vaticinare cosa faremo immediatamente tra poco e tra molto tempo".

Da sempre la tecnica punta a dominare la persona per concentrare nelle mani di pochi quante più ricchezze. Mai come oggi, però, c'è in gioco la nostra libertà. Non tanto quella che ci permettere di fare quello che vogliamo o di andare dove vogliamo. Quanto quella che ci permette di pensare e pertanto di agire come vogliamo. Per questo la cacciata di Trump dai social network ha in qualche modo a che fare anche con la nostra libertà.

Tag:  Facebook Speciale:  Big Tech e libertà focus Persone:  Donald Trump Mark Zuckerberg
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Published on January 12, 2021 05:59

January 9, 2021

Così l'arte e la filosofia del cibo hanno reso l'uomo più uomo

Matteo Carnieletto
Andrea Indini



Dall'homo sapiens ai giorni d'oggi, la cucina ci ha cambiato radicalmente. E ci ha spronati ad esser sempre migliori


In principio fu il fuoco. È infatti grazie ad esso che siamo diventati ciò che siamo oggi. È ciò che differenzia il nostro modo di mangiare da quello degli animali. Di più, nota Massimo Montanari in Il cibo come cultura (Laterza): "Il crudo e il cotto, a cui Claude Lévi-Struss dedicò un saggio giustamente celebre, rappresentano i poli opposti della contrapposizione - peraltro ambigua e per nulla semplice - fra Natura e Cultura". Il fuoco ha modificato non solo i nostri stomaci, ma anche i nostri volti. E, soprattutto, ci ha dato molto tempo libero. Sia lode al fuoco. Avete presente cosa fanno le scimmie nelle foreste o le mucche al pascolo? Masticano. Per ore. L'uomo no. Merito anche del fuoco. Come nota Michael Pollan, in un libro che non poteva che chiamarsi Cotto (Adelphi), "l'avvento del cibo cotto modificò il corso dell'evoluzione umana: fornendo ai nostri progenitori una dieta più facile da digerire e con una maggior densità di energia consentì al nostro cervello (un organo che, com'è noto, è un gran divoratore di energia) di diventare più voluminoso, e al nostro intestino di accorciarsi". Non solo: il fuoco detossifica e, così facendo, allarga (e non poco) le possibilità di nutrirsi.


Cucinare è qualcosa di magico. E non in senso romantico. Si prende una materia prima e la si trasforma, anche mettendola semplicemente sulla brace. Il suo colore e il suo sapore cambiano. Si arricchiscono. Ed è forse per questo che, nell'antica Grecia, c'era un solo termine per indicare il cuoco, il macellaio e il sacerdote: mageiros, una parola che ha la stessa radice etimologica di magia. Mettersi ai fornelli è dunque tutto questo. Anche se ce lo siamo dimenticati, nonostante il numero sempre maggiore di programmi di cucina.


Secondo i dati degli ultimi anni, infatti, gli italiani passano sempre meno tempo in cucina (lockdown a parte). Siamo attratti dal cibo, ma non abbastanza da dedicargli il tempo che si merita. Ci buttiamo così sul già pronto, senza renderci conto che, così facendo, diventiamo schiavi. Scrive giustamente Pollan: "Cucinare per il piacere di farlo, dedicare una parte del nostro tempo libero a questa attività, significa dichiarare la nostra indipendenza dalle industrie che cercano di di organizzare, così da farne un'ulteriore occasione di consumo, ogni nostro singolo istante di veglia (e a pensarci bene, non solo quelli: la pillola di sonnifero vi dice qualcosa?). Significa respingere, almeno fintanto che siamo a casa, l'idea che la produzione sia svolta meglio da qualcun altro, e che l'unico modo legittimo per impiegare il tempo libero sia il consumo: un'idea che ci sottrae forza. I venditori chiamano 'libertà' questa forma di dipendenza. Cucinare non ha soltanto il potere di trasformare piante e animali: trasforma anche noi, da meri consumatori a produttori".


Cucinare stimola la nostra intelligenza, oltre alla nostra creatività. E, soprattutto, ci permette di sopravvivere. Pensate alla Caesar Salad, per esempio. Siamo in pieno proibizionismo quando, il 4 luglio del 1924, il ristorante dello chef italiano Caesar Cardini viene preso d'assalto dai soliti turisti americani in cerca di alcolici. Lui, per cercare di sfamarli (e non far prendere loro una sonora sbronza), mette insieme gli avanzi che ha in cucina: lattuga romana, uova, crostoni, salsa Worcestershire, parmigiano, succo di limone e olio di oliva. È un successo, tanto che alcuni anni dopo Cardini deve brevettare questo dressing. Il suo smette di essere un piatto ed entra nella leggenda. La sua storia è raccontata in Quando un piatto fa storia. L'arte culinaria in 240 piatti d'autore (L'ippocampo). Che non è solo un libro di ricette - tranquilli, alla fine trovate anche quelle - ma un libro di storia della cucina, da Procopio Cutò ("l'inventore" del gelato) a Christophe Pelè. In questi quattrocento anni di storia trovate di tutto, dai voulevant di Marie Antoine Carême, il cuoco di Luigi XV, al Riso, oro e zafferano di Gualtiero Marchesi, lo chef che rivoluzionò la cucina italiana: "Per Marchesi - si legge in Quando un piatto fa la storia - la scena culinaria degli anni '70 era un imbarazzante sfoggio di romanticismo bucolico che brillava per assenza di tecnica. (...) Considerata il suo capolavoro, la ricetta sintetizzava i principi di Marchesi: non solo coinvolgeva il gusto in modo innovativo, ma suscitava anche una riflessione sul contesto storico e sulla tavola come autentica messa in scena. Coniugando i dualismi pericolo-attrazione e veleno-nutrimento, il piatto era al tempo stesso visivo, letterale, metaforico, spettacolare ed effimero. Se lo zafferano era ritenuto fin dal Medioevo la versione commestibile dell'oro, accompagnare il risotto con l'autentico metallo significava riconoscere che la tradizione culinaria si tramanda da una generazione all'altra arricchendosi nel corso del tempo".


Era dai tempi di Pellegrino Artusi che l'Italia non vedeva una rivoluzione simile in cucina. A proposito: La Nave di Teseo ha da poco ripubblicato La scienza in cucina e l'Arte di mangiare bene, il celebre volume dell'Artusi, oggi curato da Fabio Francione, che scrive: "Gli italiani ebbero da lui la loro cucina. Non che non l'avessero in precedenza, tutt'altro, ma era loro riconosciuta per regioni, particolareggiata per città e province e non come blocco unico a cui attingere liberamente anche nella commistione dei nomi e delle varianti locali. Ciò lo annovera a tanti altri scrittori italiani che hanno saputo inventare e dare nomi a mondi sconosciuti come ad esempio Pasolini". Nel libro, l'Artusi propone 790 ricette, la gran parte delle quali ancora attuali. È da qui che bisogna partire se si vuol cominciare a spadellare seriamente. Qui ci sono le basi, come le paste ripiene, gli arrosti e i bolliti (che sono un'altra cosa rispetto i lessi), che tutti dovrebbero conoscere.


Ma non solo. Sempre La Nave di Teseo ha dato alle stampe Pantagruel, una rivista quadrimestrale che, come scrive Elisabetta Sgarbi, "ha in sé una vocazione al disordine, alla voracità, alla fame e sete di un tutto mai veramente circoscrivibile. C’è un principio di anarchia e di sovversione, non gridato, non roboante ma silenzioso e persino pudico. Come La nave di Teseo". Pantagruel è una rivista per chi ha fame. Per chi è vorace. Non solo di cibo, ma anche (e soprattutto) di cultura. Ed è disposto a mettersi in gioco e a cambiare i piani, come ha fatto la stessa casa editrice. Il primo numero, lo zero, sarebbe dovuto essere infatti sulla filosofia del cibo e del vino. Ma così non è stato. Già perché, nel frattempo, Elisabetta Sgarbi si è imbattuta in Matera e nel suo pane e così ha cambiato tutto, dedicando il volume pilota proprio a questo alimento. "Partito prima, dunque, il progetto di 'Pantagruel - Filosofia del cibo e del vino' arriva in libreria dopo, con un tempo più lungo di gestazione, necessariamente più ricco del numero zero, che, tuttavia, mostrava la freschezza e l'auta che spettano agli inizi". Buona lettura dunque. O buon appettito (anche se non si dovrebbe dire). Ma questa è un'altra storia...

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Published on January 09, 2021 22:49

January 7, 2021

Test di massa, la bufala di Arcuri: dove sono i 300mila tamponi?

Giuseppe De Lorenzo
Andrea Indini



Gli errori della prima ondata ripetuti nella seconda. Der Kommissar promise migliaia di test, ma l'Italia è a ferma al palo


La prima volta la grande promessa trapela il 17 ottobre, poco dopo la riunione tra Domenico Arcuri e le Regioni. Le agenzie di stampa battono la disponibilità di Der Kommissar a “ricominciare gli acquisti centralizzati” di tutto l'occorrente per "arrivare a 300mila test al giorno”. Quella cifra magica diviene pochi giorni dopo un vero e proprio obiettivo ufficiale: in conferenza stampa il 29 ottobre Arcuri assicura che dal 2 novembre l’Italia sarà in grado di realizzare uno screening di massa con 200mila tamponi e 100mila test antigenici al dì. È andata davvero così? Oppure, come successo in estate, il Belpaese sta rincorrendo il virus perdendo la sfida del tracciamento dei contagi? Oggi, volgendo lo sguardo ai mesi passati, possiamo dire con una certa sicurezza: no, non è affatto andata come ci era stato promesso da Mister Mascherina.


L'abbaglio del governo

Sin da subito è stato un gran pasticcio. Il governo e i tecnici, su cui ha fatto affidamento per affrontare la crisi sanitaria generata dalla pandemia, non hanno saputo districarsi bene. E così il tracciamento è andato a farsi benedire e l'emergenza iniziale si è fanta endemica. Certo, quando il 20 febbraio Mattia Maestri risulta positivo al Covid-19, ancora nessuno sa che il virus dilaga ormai nelle principali regioni del Nord. Due giorni dopo il primo tampone positivo, come ricostruito nel Libro nero del coronavirus (clicca qui), l'Unilever di Codogno riunisce tutti gli impiegati entrati in contatto con il paziente 1. In coda, in infermeria, vengono sottoposti al test. Il giorno dopo tocca a tutta la fabbrica. Il 25 febbraio arrivano gli esiti: su 350 persone, dieci risultano positive. "Alcuni di questi, dopo pochi giorni, hanno avuto la febbre - ci racconta Stefano Priori, che oltre a lavorare al reparto separaqzione dove si produce la materia prima per fare i detersivi, è anche vice sindaco di Castiglione d'Adda - e almeno un paio di loro sono rimasti ricoverati in ospedale per oltre un mese. Fortunatamente nessuno ha perso la vita...". Il tracciamento all'Unilever serve a isolare i malati, ma non a interrompere la catena dei contagi. Perché? Perché ormai è troppo tardi. Ma va anche detto che governo non si mette certo a correre: l'approvvigionamento di tamponi e reagenti avviene a rilento e la mappatura dei contagi diventa impossibile. L'unico a riuscire a stare dietro a Sars-CoV-2 è Luca Zaia a Vo' Euganeo, ma in un contesto troppo piccolo per essere replicato in un Paese gestito da un esecutivo del tutto impreparato. Il risultato è già scritto: il premier Giuseppe Conte corre a decretare il lockdown del Nord Italia prima e dell'intero Paese pochi giorni dopo.


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Il tracciamento mancato

Se quindi nella prima fase, al netto dei ritardi, le difficoltà nel tracciamento sono in parte comprensibili, lo stesso non si può dire per la seconda ondata. Riportata l'asticella dei contagi a poche centinaia e forte della lezione appresa, Conte e soci avrebbero potuto applicare il "modello Vo'" mettendosi a tracciare il virus città per città. L'hanno fatto? Macché. Facciamo un salto indietro di un paio di mesi. A inizio ottobre, dopo un’estate di presunta retrocessione del virus, l’Italia si (ri)scopre vulnerabile e incapace di tenere a bada la trasmissione del morbo. Nonostante l’incremento delle capacità diagnostiche, la seconda ondata mette infatti in luce tutt i limiti del sistema seguito da Arcuri e soci: i laboratori sono sommersi dagli esami, ai drive in si creano code lunghe decine di metri e gli addetti al contac tracing non riescono a stare al passo con la diffusione del virus. Nel bollettino del 12-18 ottobre, l'Istituto superiore di sanità certifica che nella terza settimana di ottobre solo un caso su quattro “è stato rilevato attraverso attività di tracciamento”. Walter Ricciardi, consigliere di Roberto Speranza, ci mette il carico da novanta: le Asl, dice, “non sono più in grado di tracciare i contagi, quindi la strategia di contenimento non sta funzionando”. Queste difficoltà, peraltro, erano state già messe in conto dal ministero della Sanità in vista della stagione invernale: in uno studio del 12 ottobre sulla possibile ripresa dei contagi, infatti, in tre scenari su quattro viene annunciata la progressiva difficoltà nel “tenere traccia delle catene di trasmissione”. Come poi è avvenuto.



La promessa di Arcuri

Per far fronte alla "nuova" emergenza, Arcuri annuncia urbi et orbi 300mila test quotidiani (guarda il video). Il piano, a dire la verità, era stato proposto al governo qualche mese prima da Andrea Crisanti, lo stesso che in Regione Veneto aveva contribuito a pensare il (vincente) "modello Vo'". Peccato che nessuno se lo sia filato. Eppure il piano del professore era abbastanza semplice: ma per attuarlo era necessario “potenziare i laboratori” e muoversi “fin da subito”, cioè in estate, e non nel pieno della seconda ondata. Per farsi trovare pronti, disse Crisanti, “ci vogliono mesi: non basta ordinare dei tamponi per risolvere il problema”. Tradotto: Arcuri non può dire di aver fornito alle Regioni un numero sufficiente di cotton fioc e reagenti se poi non le ha aiutate a potenziare i laboratori di diagnostica.


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E infatti l’Italia è da tempo che non vede più quota 200mila tamponi al giorno. Nonostante le promesse del prode Arcuri, l’ultima volta che siamo riusciti a mantenere il livello del tracciamento di massa risale al lontano 4 dicembre. Oltre un mese fa. E non c’entrano i fine settimana o le festività. I dati parlano chiaro. Il report giornaliero della Protezione Civile ha registrato il superamento della fatidica soglia dei 200mila solo nel mese di novembre, festivi esclusi. Sono i giorni in cui il governo deve decidere se chiudere o meno di nuovo il Paese. Dopo il dpcm sulle zone rosse, datato 6 novembre, il maxi tracciamento va avanti fino al 4 dicembre tra alti e bassi. Poi si interrompe. Il 5 dicembre vengono realizzati solo 194mila test, e il numero va via via diminuendo senza più essere in grado di risollevarsi secondo le promesse del Der Kommissar. Ormai siamo ad un mese intero sotto la soglia. Non è troppo?


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Perché qui il rischio è quello di commettere lo stesso errore di questa estate e di inficiare tutti i sacrifici (economici e sociali) fatti dagli italiani negli ultimi due mesi. Nei mesi caldi avremmo avuto l’occasione imperdibile di tracciare con più facilità tutti i casi, investendo sullo screening di massa. I casi positivi erano pochi: se avessimo iniziato allora a fare oltre 200mila test al giorno forse avremmo scovato più focolai e avremmo potuto spegnerli prima che le fiamme divampassero nell’incendio di quest’autunno. Invece, se si vanno a leggere i dati viene lo sconforto. A giugno il giorno migliore è il 17, con appena 77.701 tamponi effettuati. A luglio ancora peggio, con il picco di 61.858 il 30 del mese. Per non parlare di agosto, dove solo negli ultimi giorni l’Italia è tornata a sfiorare quota 100mila analisi. Poche? Probabilmente sì. Soprattutto se si considera che il numero di tamponi non indica le persone effettivamente testate.


La verità sui numeri

Nel calderone dei "nuovi tamponi effettuati" finiscono sia le analisi di chi non è mai stato testato prima, sia i cosiddetti “tamponi di controllo”. Questi ultimi sono i test cui si devono sottoporre soggetti già risultati positivi per assicurarsi di essersi negativizzati. Se dunque osserviamo il trend delle persone testate, e non dei tamponi totali, il quadro si fa ancor più tragico: dopo il picco massimo di 144mila persone testate del 13 novembre, ormai dal 29 novembre non superiamo più quota 100mila. Nel Libro nero del coronavirus (leggi qui) ci eravamo lasciati con questo monito: gli errori della prima ondata non vengano ripetuti nei mesi a venire. Purtroppo il governo non ha imparato e siamo tornati punto e d’accapo. Nonostante le presunte capacità sovrannaturali del commissario Arcuri.


(Infografiche a cura di Alberto Bellotto)


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Published on January 07, 2021 09:12

December 23, 2020

Mangiar bene è una (vera) arte. Ecco il nostro menu di Natale

Matteo Carnieletto
Andrea Indini



Dai brodi fino agli arrosti: tutti i segreti della cucina italiana ne La scienza in cucina e l'Arte di mangiar bene (La Nave di Teseo)


Che cosa cucino a Natale? Questa è la domanda che, dal mese di dicembre in poi, si pone ogni italiano. Tutto è ormai pronto. Molti avranno già preparato i menù e fatto la spesa. I ritardatari (e qui in redazione ce ne sono parecchi) sono ancora in alto mare. Per aiutarli, ilGiornale.it presenta la sua idea di menù, basandosi sulle ricette di Pellegrino Artusi, il padre della cucina italiana. La Nave di Teseo ha infatti recentemente pubblicato La scienza in cucina e l'Arte di mangiar bene (impreziosito dalla cura editoriale di Fabio Francione), di cui pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore, ampi stralci. Chi pensa di trovare solamente un ricettario si sbaglia di grosso. Qui, infatti, non ci sono solamente dosi e ricette. C'è tanta storia. Tanta cultura che, nel nostro Paese, si è spesso fatta attorno alle quattro gambe di un tavolo.


Partiamo dunque dal pranzo di Natale. La carne è d'obbligo e, dopo un rapido giro di domande, si è scoperto che il cappone è il malcapitato che, con maggior frequenza, finisce sulle tavole della redazione. Abbiamo quindi scelto una delle versioni più ricche che fornisce l'Artusi. Cappone arrosto tartufato sia. Scrive il celebre gastronomo: "La cucina è estrosa, dicono i fiorentini, e sta bene perché tutte le pietanze si possono condizionare in vari modi secondo l’estro di chi le manipola; ma modificandole a piacere non si deve però mai perder di vista il semplice, il delicato e il sapore gradevole, quindi tutta la questione sta nel buon gusto di chi le prepara. Io nell’eseguire questo piatto costoso ho cercato di attenermi ai precetti suddetti, lasciando la cura ad altri d’indicare un modo migliore. Ammesso che un cappone col solo busto, cioè vuoto, senza il collo e le zampe, ucciso il giorno innanzi, sia del peso di grammi 800 circa, lo riempirei nella maniera seguente: Tartufi, neri o bianchi che siano poco importa, purché odorosi, grammi 250. Burro, grammi 80. Marsala, cucchiaiate n. 5. I tartufi, che terrete grossi come le noci, sbucciateli leggermente e la buccia gettatela così cruda dentro al cappone; anche qualche fettina di tartufo crudo si può inserire sotto la pelle. Mettete il burro al fuoco e quando è sciolto buttateci i tartufi con la marsala, sale e pepe per condimento e, a fuoco ardente, fateli bollire per due soli minuti rimuovendoli sempre. Levati dalla cazzaruola, lasciateli diacciare finché l’unto sia rappreso e poi versate il tutto nel cappone, per cucirlo tanto nella parte inferiore che nell’anteriore dove è stato levato il collo. Serbatelo in luogo fresco per cuocerlo dopo 24 ore dandogli così tre giorni di frollatura. Se si trattasse di un fagiano o di un tacchino regolatevi in proporzione. Questi, d’inverno, è bene conservarli ripieni tre o quattro giorni prima di cuocerli, anzi pel fagiano bisogna aspettare i primi accenni della putrefazione, ché allora la carne acquista quel profumo speciale che la distingue. Per la cottura avvolgeteli in un foglio e trattateli come la gallina di Faraone n. 546".


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Come accompagnarlo? Erbette? Legumi? Noi preferiamo i carciofi in teglia: "Anche questo è un piatto di uso famigliare in Toscana, di poca spesa e relativamente buono. Potendo servire da colazione, per principio o per tramesso in un desinare di famiglia, non so comprendere come non sia conosciuto in altri luoghi d’Italia. Preparate i carciofi nel modo descritto al n. 186, e dopo averli scossi dalla farina superflua, distendeteli in una teglia ove abbia cominciato a grillettare olio buono e in quantità sufficiente. Quando le fette dei carciofi saranno rosolate da ambe le parti, versate sulle medesime delle uova sbattute, ma avvertite di non cuocerle troppo. Il condimento di sale e pepe spargetelo parte sui carciofi e parte nelle uova prima di versarle. Invece della teglia potete servirvi della padella; ma allora otterrete una frittata il cui gusto riuscirà alquanto diverso e inferiore".


Anche se sarà tutto buonissimo, qualcosa avanzerà. Per cena quindi solo brodo e cappelletti. Per il primo una raccomandazione: non prendetelo già fatto. Lo tolleriamo (e ammettiamo anche noi di utilizzarlo) durante la settimana, quando il tempo è poco e la fame tanta. Per Natale prendetevi il vostro tempo. Del resto, scrive l'Artusi, "lo sa il popolo e il comune che per ottenere il brodo buono bisogna mettere la carne ad acqua diaccia e far bollire la pentola adagino adagino e che non trabocchi mai. Se poi, invece di un buon brodo preferiste un buon lesso, allora mettete la carne ad acqua bollente senza tanti riguardi. È noto pur anche che le ossa spugnose danno sapore e fragranza al brodo; ma il brodo di ossa non è nutriente. In Toscana è uso quasi generale di dare odore al brodo con un mazzettino di erbe aromatiche. Lo si compone non con le foglie che si disfarebbero, ma coi gambi del sedano, della carota, del prezzemolo e del basilico, il tutto in piccolissime proporzioni. Alcuni aggiungono una sfoglia di cipolla arrostita sulla brace; ma questa essendo ventosa non fa per tutti gli stomachi. Se poi vi piacesse di colorire il brodo all’uso francese, non avete altro a fare che mettere dello zucchero al fuoco, e quando esso avrà preso il color bruno, diluirlo con acqua fresca. Si fa bollire per iscioglierlo completamente e si conserva in bottiglia. Per serbare il brodo da un giorno all’altro durante i calori estivi fategli alzare il bollore sera e mattina. La schiuma della pentola è il prodotto di due sostanze: dell’albumina superficiale della carne che si coagula col calore e si unisce all’ematosina, materia colorante del sangue. Le pentole di terra essendo poco conduttrici del calorico sono da preferirsi a quelle di ferro o di rame, perché meglio si possono regolare col fuoco, fatta eccezione forse per le pentole in ghisa smaltata, di fabbrica inglese, con la valvola in mezzo al coperchio. Si è sempre creduto che il brodo fosse un ottimo ed omogeneo nutrimento atto a dar vigore alle forze; ma ora i medici spacciano che il brodo non nutrisce e serve più che ad altro a promuovere nello stomaco i sughi gastrici. Io, non essendo giudice competente in tal materia, lascierò ad essi la responsabilità di questa nuova teoria che ha tutta l’apparenza di ripugnare al buon senso".


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Ma l'uomo non vive di solo brodo. Lo si accompagni dunque con i cappelletti. Ovviamente all'uso di Romagna. Qui forniamo la ricetta per gli eroi armati di mattarello. I comuni mortali, come chi scrive, possono prenderli già fatti (ma per favore non prendete quelli industriali). Ma partiamo con ordine. "Ecco il modo più semplice di farli onde riescano meno gravi allo stomaco. Ricotta, oppure metà ricotta e metà cacio raviggiolo, grammi 180. Mezzo petto di cappone cotto nel burro, condito con sale e pepe, e tritato fine fine colla lunetta. Parmigiano grattato, grammi 30. Uova, uno intero e un rosso. Odore di noce moscata, poche spezie, scorza di limone a chi piace. Un pizzico di sale. Assaggiate il composto per poterlo al caso correggere, perché gl’ingredienti non corrispondono sempre a un modo. Mancando il petto di cappone, supplite con grammi 100 di magro di maiale nella lombata, cotto e condizionato nella stessa maniera. Se la ricotta o il raviggiolo fossero troppo morbidi, lasciate addietro la chiara d’uovo oppure aggiungete un altro rosso se il composto riescisse troppo sodo". Chiuderli non sarà facili, ma La scienza in cucina e l'Arte di mangiar bene ci viene incontro, accompagnando le parole a disegni precisi.


Questo è il nostro menù. Poche portate ma buone. E, soprattutto, che affondano le loro radici nella tradizione. Come ogni Natale che si rispetti.


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Published on December 23, 2020 02:14

December 21, 2020

"Hanno taciuto per tre mesi...". Il virus mutato e i sospetti su Londra

Andrea Indini



Dai primi di dicembre la circolazione fuori controllo nel Sud Est dell'Inghilterra. E Ricciardi inchioda Johnson: "Sapeva da settembre". Perché lo ha tirato fuori soltanto ora?


Sembra un brutto film già visto. Prima l'allarme: identificata a Londra una variante più contagiosa del Covid-19. Quindi, la decisione del ministro degli Esteri Luigi Di Maio di chiudere tutti i voli provenienti dall'Inghilterra (ma solo quelli provenienti dall'Inghilterra e non quelli in arrivo dall'Olanda e dalla Danimarca nonostante ne sia certa la circolazione in quei Paesi). Poi la doccia fredda (dopo pochissime ore): la mutazione è già presente in Italia, i medici dell’ospedale militare del Celio hanno sequenziato il genoma della nuova versione in una paziente. Infine il solito dibattito tra virologi che si dividono tra chi crede che non inciderà sull'efficacia del vaccino e chi invece teme che potrebbe metterlo a rischio.


La nuova variante del Covid-19

Questa mattina, intervenuto a Buongiorno su SkyTg24, il presidente del Consiglio superiore di sanità (Css), Franco Locatelli, si è congratulato con il governo per aver sbarrato la strada ai voli inglesi "in modo straordinariamente tempestivo". Ma è stato davvero così? La decisione, come sappiamo, è arrivata ieri pomeriggio dopo che nelle ultime ore Boris Johnson aveva optato per un nuovo lockdown totale al fine di frenare la nuova variante del Covid-19. "Non è possibile ignorare la velocità di trasmissione della nuova variante - aveva spiegato il primo ministro - quando il virus cambia il suo metodo di attacco, dobbiamo cambiare il nostro metodo di difesa". Che in Inghilterra circolasse una nuova forma di coronavirus molto più aggressiva, lo si sapeva da mesi. In un grafico pubblicato ieri dall'European Centre for Disease Prevention and Control (Ecdc) si vede molto bene l'impennata di ottobre. Tuttavia è stato solo dai primi di dicembre ad accendere l'interesse di Downing Street. Perché?


Lo scorso 14 dicembre il segretario alla Salute Matt Hancock aveva ammesso che già una sessantina di autorità locali avevano registrato infezioni da Covid-19 causate da questa nuova variante. Non solo. In quell'occasione Hancock aveva anche fatto sapere che non solo gli scienziati del laboratorio di Porton Down si erano già messi a fare nuovi, dettagliati studi ma che il dossier era stato inviato in modo tempestivo all'Organizzazione mondiale della Sanità (Oms). Interrogato sull'argomento lo stesso giorno, durante una conferenza stampa a Ginevra, Mike Ryan, capo delle operazioni di emergenza dell'Oms, aveva messo le mani avanti spiegando che "sono state segnalate molte varianti diverse di coronavirus". Quella inglese, quindi, era solo una in più da monitorare. "Ora la questione è - puntualizzava Ryan in quelle ore - è diffusa a livello internazionale? Rende il virus più serio? Interferisce con farmaci e vaccini? Al momento non abbiamo informazioni in questo senso - concludeva - dunque è importante studiare questa variante, per capire se è significativa".


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I silenzi di Boris Johnson

La notizia era circolata anche sulla stampa italiana. Il 14 dicembre ne aveva dato conto anche ilGiornale.it spiegando che l'area maggiormente colpita era quella del Sud-Est (due giorni dopo verrà infatti sottoposta a restrizioni più rigide, quelle di livello 3) e che aveva contagiato almeno un migliaio di persone. "Ad oggi non ci sono prove che si comporti in modo diverso dalle altre già note", spiegava Maria Van Kerkhove dell'Oms rassicurando che la pratica era stata affidata al Virus Evolution Working Group all'interno del più ampio studio delle mutazioni scoperte nei visoni in diverse parti del mondo. Capitolo chiuso. Fino al 19 dicembre quando Johnson aveva indetto una riunione d'emergenza con il suo gabinetto. A preoccuparlo erano state le conclusioni a cui era giunto il New and Emerging Respiratory Virus Threats Advisory Group (Nervtag) dopo aver analizzato i dati dei modelli preliminari della nuova variante e i tassi di incidenza in rapido aumento nel Sud-Est. Le misure erano state immediatamente alzate dal "livello 3" a "livello 4", prevedendo una "zona super-rossa" per limitare anche le riunioni di famiglia. Da quel momento la notizia ha ripreso a circolare anche sulla stampa italiana e a suscitare un qualche interesse del governo Conte. Quello che, però, Johnson non ha detto in quella riunione d'urgenza è che, come rivelato da Walter Ricciardi in una intervista al Messaggero, era a conoscenza di questa minaccia da almeno tre mesi. "Ciò che mi fa arrabbiare è che gli inglesi sapevano già da settembre che era in circolazione questa variante", denuncia il consigliere del ministro della Salute Roberto Speranza. "Hanno taciuto, non ci hanno avvertito...". Secondo il virologo Andrea Crisanti, la versione britannica del Covid-19 "è apparsa in Spagna" la scorsa estate e "da lì, probabilmente a causa dei flussi turistici, si è spostata in Gran Bretagna". Nessuno, però, ancora sa dirci perché si è diffusa in modo diverso.




Le misure tardive dell'Italia

In Europa il primo Stato a sospendere i voli dall'Inghilterra è stato l'Olanda. La decisione è arrivata sabato mattina. Nelle stesse ore il Belgio faceva lo stesso fermando anche i collegamenti ferroviari con la Gran Bretagna. Era però già tardi: oltre che nel Regno Unito la variante ormai circolava in Australia, Danimarca e Olanda. Per questo quando ieri mattina Di Maio ha deciso di sospendere solo i voli provenienti dall'Inghilterra, la misura è apparsa tardiva e inutile. Esattamente come era stato quando lo scorso gennaio aveva deciso di bloccare gli aerei provenienti da Wuhan senza pensare, come ricostruito nel Libro nero del coronavirus (clicca qui), che i cittadini cinesi potessero fare scalo in altri Paesi e quindi arrivare in Italia in altro modo. "Chiudere i voli con il Regno Unito è una buona mossa se lo fanno tutti gli altri Paesi - fa, infatti, notare Ricciardi nell'intervista al Messaggero - se lo fa solo uno non serve, bisogna farlo in tutta Europa". Non solo. Scoperto già il primo paziente contagiato dalla variante inglese viene da chiedersi quante possano essere le persone già arrivate in Italia dai Paesi indicati dall'Oms come luoghi di incubazione del Covid 19 "mutato". Secondo una stima del Giornale, abbiamo a che fare con circa 45mila possibili "untori". Non pochi vista la velocità con cui si diffonde il nuovo virus. Ma il punto non è questo o per lo meno non è solo questo: se si sapeva già mesi dell'esistenza di una variante più contagiosa, perché si è deciso di intervenire soltanto adesso? Ora tutti a cercare la stessa variante in Italia. Appena ci si sono messi hanno subito trovato un caso. "Più si cerca, più si trova", spiega Crisanti all'agenzia Agi facendo notare che "l'Inghilterra è il Paese in cui si fanno più sequenziamenti al mondo". Tutta la baraonda delle ultime ore, insomma, risulta parecchio difficile da spiegarsi. Anche perché la nuova mutazione (una delle tante) non solo non è più virulenta ma non inficerà nemmeno gli effetti del vaccino.


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Published on December 21, 2020 02:16

December 18, 2020

Covid, quanto sapeva Bruxelles? Giallo sulle carte fornite da Roma

Giuseppe De Lorenzo
Andrea Indini



Piano segreto, la Commissione Ue risponde ad una interrogazione. Ma il contenuto sorprende. E la Sardone inchioda Conte: "Troppe le ombre del governo italiano"


Non vedo, non sento, non parlo. Dico ma non dico. Un po' fingo di non capire. E rispondo con tante parole senza mai entrare nel merito. Deve essere stata questa la linea seguita dagli uffici della Commissione europea quando si sono messi alla scrivania per redigere la risposta all'interrogazione parlamentare presentata dall'eurodeputata Silvia Sardone. L'obiettivo della leghista era quello di avere un quadro più chiaro sull'ormai famoso "piano segreto" anti Covid annunciato urbi et orbi dal direttore generale del ministero della Salute, Andrea Urbani: "Il governo vi aveva fatto sapere qualcosa? - si era domanda l'onorevole - Oppure anche a voi ha tenuto nascosto il documento"?. La commissaria Stella Kyriakides, o chi per lei, si è allora seduta al tavolo, ha preso carta e penna e ha vergato 278 parole per non dire praticamente nulla: nessuna risposta precisa. Così ancora oggi restano gli stessi dubbi di prima. E forse pure qualcuno in più.


Eppure le domande erano chiare. L'Italia, dopo aver redatto il "Piano operativo di preparazione e risposta a diversi scenari di possibile sviluppo di un'epidemia da 2019-nCov”, lo ha fatto sapere all'Europa? Ha detto a Bruxelles che i calcoli degli epidemiologi prevedevano migliaia di infetti e di morti? Ha spiegato alla Commissione come avrebbe voluto agire, anche solo per aiutare le altre capitali Ue a rendersi conto del pericolo? Domandare è lecito, rispondere sarebbe in questo caso un dovere.


Per capire la replica dell'Ue partiamo da quanto chiesto due mesi fa dalla Sardone. Il testo dell'interrogazione era piuttosto limpido (leggi qui): "Nello scorso aprile - si leggeva - Andrea Urbani, membro del Comitato tecnico scientifico italiano, ha rivelato l'esistenza di un documento, redatto nei mesi precedenti, su cui gli esperti assicurano di essersi basati per guidare le scelte dell'esecutivo nei mesi più neri del contagio. Questo documento non è mai stato presentato in via ufficiale né ai cittadini né ai parlamentari italiani che lo hanno richiesto". Per rendere più chiaro il concetto, la leghista spiegava che "nel libro, dal titolo Libro nero del Coronavirus, di Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini, si parla della strana decisione del governo di tenere nascosto il 'piano' anche ai governatori delle Regioni e, allo stesso tempo, delle manovre per non divulgarlo alla stampa e al Parlamento italiano". Ciò premesso, voleva sapere: a) "I piani di gestione dell'emergenza degli Stati membri sono stati condivisi con la Commissione?"; b) "La Commissione ha mai inviato agli Stati membri delle linee guida su come affrontare la pandemia nei primi mesi dell'emergenza?". Più chiari di così si muore.



Ecco invece la replica europea (leggi qui). L'Ue ricorda che ogni tre anni gli Stati membri devono riferire a Bruxelles "in merito alle disposizioni relative alla pianificazione della preparazione e della risposta" alle gravi minacce transfrontaliere a livello sanitario. Le ultime relazioni risalgono al 2017. La Commissione spiega che "gli aggiornamenti sulla pianificazione della preparazione contenuti nelle relazioni trasmesse dagli Stati membri sono stati discussi dal comitato per la sicurezza sanitaria, anche nel contesto della pandemia". Cosa ne è emerso? Nella sua risposta l'Ue non lo dice. Però precisa di non avere il potere di "effettuare verifiche delle informazioni contenute nelle relazioni periodiche trasmesse dagli Stati membri". Come a dire: se Roma ci ha mentito, non potevamo saperlo.


Tutto bello. Ma che c'azzecca con l'interrogazione posta dalla Sardone? Che c'entra il "Piano segreto" realizzato tra febbraio e marzo con le relazioni del 2017? "Nulla", dice la leghista al Giornale.it. Nelle 278 parole della risposta Ue, infatti, non viene mai citato né il "piano" di Urbani né qualcosa di simile. L'unica rivelazione è che "all'inizio della pandemia da Covid-19" Bruxelles sostiene di aver "chiesto agli Stati membri di comunicare se fossero in corso aggiornamenti o revisioni dei rispettivi piani di preparazione alla pandemia". Bene. A quanto pare "la maggior parte dei paesi, compresa l'Italia, ha comunicato che erano in corso revisioni del piano per la pandemia di influenza o dei piani nazionali di preparazione". Ottimo. Vero è che in Italia ad aprile del 2019 alcuni gruppi di lavoro si riuniscono allo scopo di mettere a punto una "Revisione del piano nazionale di risposta ad una pandemia influenzale" (leggi qui). Ma questo riguarda il piano pandemico influenzale generico (quello, per intenderci, che l'Italia pare non avesse più aggiornato dal 2006), non il "piano operativo" contro il Covid di cui parlò Urbani. Si tratta di due documenti distinti. Le opzioni allora sono tre: o la Commissione non ha capito bene le domande (ne dubitiamo); o ha ricevuto il "piano segreto", ma non intende farlo sapere a nessuno; oppure il governo oltre alle Regioni e ai cittadini, ha tenuto all'oscuro di tutto pure l'Unione Europea.


“Finalmente ho ricevuto risposta da parte della Commissione Europea – attacca la Sardone – Peccato che la risposta sia molto evasiva: si parla di una revisione del piano per affrontare la pandemia di influenza da parte dell'Italia, anche se la mia richiesta era molto specifica, ovvero sapere se esiste un piano di gestione dell'emergenza condiviso con l'Unione Europea. Le cose sono due: o il famoso documento di cui ha parlato Andrea Urbani, membro del Comitato tecnico scientifico italiano, su cui gli esperti assicurano di essersi basati per guidare le scelte dell'esecutivo nei mesi più neri del contagio, non è mai stato trasmesso dall'Italia all'Ue oppure l'Ue non ne vuole parlare per chissà quale motivo. Una cosa è chiara: la gestione della pandemia da parte del governo Conte non è trasparente e molte sono le ombre. È grave il fatto che gli italiani non possano essere informati delle scelte del governo, specialmente vista la particolarità del momento”.





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Published on December 18, 2020 22:49

December 17, 2020

In Ue tira aria di patrimoniale: il M5s tenta il blitz ma fa flop

Andrea Indini



L'emendamento a sostegno di "un'imposta sul patrimonio netto" non passa ma incassa i voti grillini. Lega e Fdi: "Vogliono i risparmi degli italiani. Sono pericolosi"


L'abbaimo scampata per poco qui in Italia, ma il rischio patrimoniale è sempre dietro l'angolo. E non solo perché la sinistra è sempre pronta a tentare nuovi blitz per attaccarsi ai risparmi degli italiani. Adesso spinte in questa direzioni arrivano anche da Bruxelles dove ieri sera è stato votato un emendamento che, oltre a caldeggiare "l'introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie", rimarcava "l'importanza di introdurre un'imposta sul patrimonio netto". L'assalto, tentato al parlamento europeo, non è ovviamente passato ma desta comunque non poche preoccupazioni perché ha trovato il voto favorevole di numerosi eurodeputati grillini.


"Questa è la solita, insana passione della sinistra per le tasse...", tuonano Carlo Fidanza e Raffaele Fitto di Fratelli d'Italia. La polemica è scoppiata l'indomani del voto. Il dito è puntato contro gli eurodeputati del Movimento 5 Stelle che, nonostante il voto contrario da parte di tutto il loro gruppo, hanno votano a favore dell'emendamento 5, presentato dal greco Dimitrios Papadimoulis di Syriza e del francese Younous Omarjee a nome del gruppo di estrema sinistra Gue/Ngl, nella risoluzione sul "Quadro finanziario pluriennale 2021-2027". Da una parte la proposta di risoluzione "sottolinea le lacune relative all'introduzione vincolante e tempestiva di nuove risorse proprie, in particolare per quanto riguarda l'introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie", dall'altra rimarca "l'importanza di introdurre un'imposta sul patrimonio netto che contribuisca al finanziamento degli sforzi di ripresa, affronti le disuguaglianze patrimoniali e funga da espressione concreta di solidarietà nella lotta contro la pandemia di Covid-19".


"Ecco chi lavora in Europa contro gli interessi degli italiani - hanno denunciato in mattinata gli europarlamentari della Lega Marco Zanni e Marco Campomenosi - sono senza vergogna". Con la stessa scusa nei giorni scorsi il piddì Matteo Orfini e Nicola Fratoianni di Liberi e Uguali avevano tentato di allungare le mani sui risparmi degli italiani piazzando un'una tantum che andasse a razziare i patrimoni sopra i 500mila euro. Per ben due volte, prima alla Camera e poi al Senato, avevano provato a rifilarci un emedamento esplosivo. Per ben due volte era stato puntualmente respinto. "Adesso non si può applicare", ha ammesso persino Romano Prodi nei giorni scorsi. "C'è questa opinione pubblica...". Ma il rischio è nell'aria. In Europa sembra, infatti, predominare l'orientamento di introdurre nuove tasse anziché ridurle. Nelle ultime ore, come riportato da InsideOver, la lista dei balzelli targati Ue si è pericolosamente allungato. Tra questi, fortunatamente, non va ad aggiungersi l'imposta sul patrimonio netto proposta dall'estrema sinistra. Il voto a favore, "in piena pandemia, con famiglie, lavoratori e aziende in grande difficoltà", dimostra per la Lega la volontà dei Cinque Stelle di voler "mettere ulteriormente le mani nelle tasche dei cittadini".


Colti in fallo i grillini hanno provato a chiamarsi fuori dalla rissa spiegando che "la politica fiscale è ad appannaggio degli Stati membri" e che "quindi sono loro, eventualmente, a decidere se introdurre una patrimoniale". "L'emendamento voleva rafforzare le risorse proprie introducendo una tassa sulle transazioni finanziarie - hanno scritto in una nota congiunta Tiziana Beghin e Mario Furore - e sottolinea, e non obbliga come invece vogliono fare credere i leghisti, l'importanza di ridurre le disuguaglianza patrimoniali per aumentare la solidarietà nella lotta contro la pandemia". Al di là dei distinguo, l'impronta è stata data. E, come fanno notare Fidanza e Fitto, dimostra solo che "la sinistra ha da sempre un'insana passione per le tasse e non perde occasione per confermarlo". D'altra parte a dar voto favorevole all'emendamento ci ha pensato anche il dem Pierfrancesco Majorino, mentre mezza delegazione piddì anziché opporsi si è astenuta. Presto o tardi torneranno tutti quanti alla carica...





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Published on December 17, 2020 09:33

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