Andrea Indini's Blog, page 64
November 26, 2020
"Ci hanno mandati a morire". Il dossier che inchioda il governo
Andrea Indini

In Italia mancava un piano di comunicazione del rischio per il Covid. L'analisi del Comitato Noi Denunceremo di Bergamo
Cinquanta pagine di dossier. Una più cruda dell’altra. È la ricostruzione delle mancanze, degli errori, dell’informazione caotica in questa maledetta pandemia da coronavirus. Lo ha realizzato Robert Lingard, fondatore di un'agenzia di pubbliche relazioni a Londra, familiare di una delle vittime di Bergamo e membro del Comitato "Noi Denunceremo". Tanti gli interrogativi. L’Italia aveva un piano per la comunicazione del rischio? Ha gestito al meglio le notizie da dare in pasto ai media e ai cittadini? E, soprattutto, il governo è stato trasparente come prescritto dai manuali dell’Oms o ha tenuto irrazionalmente nascosti dati e “piani segreti” di vario tipo?
Partiamo da qui: secondo l’Oms, un piano pandemico nazionale deve includere anche un piano di comunicazione. Il motivo è di facile comprensione: la corretta informazione svolge un “ruolo di mitigazione fondamentale nel consentire alla popolazione di intraprendere comportamenti preventivi necessari alla salvaguardia della loro salute, ma anche delle conseguenze sociali ed economiche che potranno scaturire da una pandemia non propriamente contenuta”. Nel lontano 2005, Jong-wook Lee, ex direttore generale dell’Oms, diceva che "la comunicazione è tanto fondamentale per il contenimento di un focalaio quanto lo sono analisi di laboratorio o epidemiologiche”. Bene. Ma se per l’Oms un piano di comunicazione è così importante, si chiede Lingard, come è possibile che in Italia "a fine febbraio molte autorità istituzionali e la quasi totalità della popolazione italiana stessero ancora pensando che il coronavirus fosse una banale influenza?”. E come mai il premier e i suoi ministri in tivù tessevano le lodi di un Paese "prontissimo" a gestire l'emergenza, quando non lo era?
Secondo Lingard a gennaio l’Italia non disponeva “di un piano di comunicazione del rischio”, proprio come era sprovvista - ormai è noto - di un piano pandemico aggiornato. Per dimostrarlo, Lingard mette a confronto la strategia comunicativa svizzera con quella nostrana. Mentre il “Piano pandemico" dell’Italia dedica alla comunicazione del rischio solo mezza paginetta, in quello elvetico si trovano otto succose pagine ben dettagliate. Le indicazioni vanno dalla creazione di un Comitato ristretto che gestisca le informazioni fino alle strategie comunicative in base alla fase pandemica, passando ovviamente per la lotta alla disinformazione e lo sviluppo dei canali alternativi ai media tradizionali, come i social network. Direte: logico e razionale. Perché allora l’Italia non lo aveva così dettagliato? E perché il governo ha affidato le conferenze stampa oggi a Borrelli, domani all'Iss, dopodomani a Arcuri? E le dirette del premier Conte a notte inoltrata, con ore di ritardo sull'annunciio, si possono configurare come scelte comunicative azzeccate?
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E pensare che l’Oms sul tema aveva realizzato anche delle linee guida. Il tutto ben prima dell’arrivo di Sars-CoV-2. "Già nel 2005 - scrive Lingard - l’OMS pubblica un vero e proprio manuale intitolato Effective Media Communication During Public Health Emergencies, e focalizzato sulla gestione mass mediatica della comunicazione in situazioni di emergenza sanitaria”. Un documento dettagliato, dove tra le altre cose “vengono addirittura elencate le 77 domande chieste più frequentemente dai giornalisti durante una emergenza”. Nel 2017, peraltro, l’OMS aggiorna le linee guida per includere nei modelli anche i social media. L’Italia l’ha fatto? “Anche in questo caso la risposta è no”, scrive Lingard. E infatti sono passati mesi prima che il governo si decidesse a coinvolgere i vari Ferragnez.
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Ma a meritare particolare attenzione è soprattutto il capitolo “trasparenza”. Checché ne dicano gli esperti del Cts, che hanno più volte chiesto riservatezza sul “piano segreto” realizzato in seno al Comitato, le linee guida dell’Oms prescrivono la massima limpidezza. Certo sono ammesse deroghe, ma solo nel caso in cui la diffusione di informazioni durante un’epidemia possa “compromettere la sicurezza nazionale”, violi la privacy o possa portare alla stigmatizzazione di “specifici gruppi etnici o regioni geografiche”. Non pubblicare il “piano segreto” anti Covid, dove erano previsti migliaia di contagi e di morti, rientra in queste casistiche? Non secondo Lingard, che aggiunge: “Se gli scenari avevano un potenziale così catastrofico, erano già disponibili il 20 di gennaio ed era bene lavorare per contenere il contagio. Come mai allora la prima prima guida di carattere preventivo viene pubblicata in quattro video sul sito del ministero della Salute per la prima volta solo il 20 di febbraio?”.
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Non è un caso, dunque, se il Global Health Security Index, che valuta la sicurezza sanitaria e le capacità di risposta di 195 Paesi, sulla comunicazione del rischio mette l’Italia nella parte bassa della classifica. Con un punteggio di 25/100, il Belpaese si colloca al 76esimo posto. “Le prove disponibili - scrive il GHS Index - non indicano che l'Italia abbia un piano nazionale di risposta alle emergenze sanitarie autonome, incorporato in un unico documento programmatico. Il sistema di protezione civile italiano ha una politica di comunicazione del rischio ben sviluppata, ma è focalizzato sulle calamità naturali”. Secondo Lingard, proprio la mancata trasparenza è alla base dei vari aperitivi di Zingaretti, delle cene di Gori, delle dichiarazioni di Salvini e dei video #Milanononsiferma o #Bergamoisrunning. Se il “piano segreto” fosse stato reso noto o condiviso almeno con le Regioni, forse il Paese si sarebbe risparmiato quei (pericolosi) balletti. “I leader delle opposizioni erano informati della rincorsa del Cts alla costruzione di un piano operativo per contrastare l’epidemia? - si chiede Lingard - E i sindaci?”. Evidentemente no, altrimenti avrebbero parlato all’unisono. “Se non sono stati informati, per quale motivo non sono stati messi al corrente della gravità della situazione? Perché si è omesso il tentativo di coinvolgere i rappresentati di tutto il mondo istituzionale in tutta trasparenza allo scopo di fare in modo che la popolazione adottasse comportamenti preventivi?”.
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Alle tante domande per ora mancano le risposte. Come aleggiano non pochi dubbi su quel mese a cavallo tra fine gennaio e il caso di Codogno. Il 30 gennaio, infatti, Speranza si presenta alla Camera per una informativa sul virus “cinese” e si dimostra consapevole dei rischi, tanto da assicurare che Sars-CoV-2, “pur essendo classificato di tipo B in quanto a pericolosità”, verrà trattato come se fosse la peste. Perché allora ci siamo ritrovati schiantati a terra? Per Lingard è colpa del “mese di ritardo sull’attivazione dell’intera macchina organizzativa”. “Chi ha scelto di non comunicare in maniera chiara e trasparente la gravità della situazione non poteva certo dire di non sapere. Era, dunque, molto probabilmente mosso da ben altre intenzioni. Quali potevano essere queste intenzioni? Non disattendere le pressioni provenienti da una parte del mondo produttivo? Non mettere alla luce l’inadeguatezza della pianificazione italiana in tema di pandemie?”. Tutti quesiti che fanno dire a Lingard, consapevole della durezza di quanto afferma, che bergamaschi e bresciani durante la prima ondata “sono stati mandati a morire”. E che forse si poteva fare qualcosa in più per salvare decine di vite.
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Tag:
Covid-19
Speciale:
Coronavirus focus
Persone:
Giuseppe Conte
Roberto Speranza
Luoghi:
Bergamo
Quando il ministero "invitò" i pm a non far autopsie sui casi Covid
Andrea Indini

La circolare del ministero della Salute
Perché il governo vietò le autopsie e i tamponi sui morti? Perché invitò giudici e direzioni sanitarie a fare altrettanto? Il giallo della circolare del ministro Speranza
È sulla circolare 11285 del ministero della Salute che grava uno dei più inquietanti punti interrogati che il governo ancora non ha voluto dipanare. È stata emanata lo scorso primo aprile (nel pieno della "fase 1", dunque) e dà disposizioni sul settore funebre, cimiteriale e di cremazione. Al paragrafo "c", però, affronta anche il tema degli esami autoptici e dei riscontri agnostici (leggi qui). E così stabilisce: "Per l'intero periodo della fase emergenziale non si dovrebbe procedere all'esecuzione di autopsie o riscontri diagnostici nei casi conclamati di Covid-19, sia se deceduti in corso di ricovero presso un reparto ospedaliero sia se deceduti presso il proprio domicilio". Non solo. All'autorità giudiziaria "concede", in un cortocircuito costituzionale, la facoltà di "limitare l'accertamento alla sola ispezione esterna del cadavere". Come è stato possibile che in Italia, nel XXI secondo, si verificasse quello che un gruppo di medici legali non si è fatto troppi problemi nel definire il "lockdown della scienza"?
L'importanza delle autopsie
"La mancanza di indagini post mortem - si legge in un articolo pubblicato a fine maggio sul Journal of clinical medicine - non ha permesso una definizione della causa esatta del decesso, utile per determinare i percorsi di questa infezione". Non tutti si piegano al diktat del ministero della Salute. All'ospedale Papa Giovanni XXII, per esempio, come ricostruito nel Libro nero del coronavirus (clicca qui), il direttore del dipartimento di Medicina di laboratorio e Anatomia patologia, Andrea Gianatti, decide di fare di testa sua. E, insieme a Aurelio Sonzogni, si mette a fare autopsie già dal 23 marzo. "È stato chiaro abbastanza presto che questa malattia si stava manifestando in forma diverse, multiple". Per capire il comportamento del virus gli mancava ancora qualche tassello. La necessità di capire lo porta a infrangere le regole e a scoprire l'utilità dell'eparina contro le trombosi. "L'idea di intervenire sulla coagulazione a livello empirico - rivela a QN Gianatti - è partita dopo aver visto il quadro tromboembolico, e usare il cortisone nella virata infiammatoria vascolare". Quando, però, l'evidenza clinica, supportata dagli esami autoptici, inizia a dimostrare che i malati muoiono "non tanto per insufficienza polmonare grave, quanto per embolia polmonare massiva o altri gravi fenomeni trombo-embolico", è ormai troppo tardi. I decessi sono già a migliaia e l'onda d'urto della pandemia si è abbattuta inesorabilmente sull'Italia.
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I dubbi sulla circolare
Nonostante al governo sia stato più volte rinfacciata la caterva di errori fatti durante la "fase 1", il ministro della Salute Roberto Speranza non ha mai motivato il contenuto della circolare 11285. Ora, però, l'avvocato Giancarlo Cipolla sta cercando di vederci chiaro sui ritardi e sulle omissioni nella lotta dell'esecutivo al coronavirus. Il 5 novembre scorso la procura generale di Brescia ha avocato a sé l'indagine che nei mesi precedenti era, però, già stata archiviata dai giudici di Cremona. Le ipotesi di reato (per ora contro ignoti) vanno dall'epidemia colposa all'omicidio colposo e lesioni colpose, fino ad arrivare poi all'abuso d'ufficio e omissione di atti d'ufficio. Nell'esposto del legale, che assiste Giovanna Muscetti, una manager milanese, si menzionano anche il divieto di eseguire autopsie sui cadaveri delle vittime del Covid-19 e il divieto di eseguire il tampone orofaringeo per avere la conferma se il morto era stato contagiato o meno. "Dai pareri dei medici citati nel nostro esposto - ci spiega Cipolla - il problema principale dei decessi non è il virus, ma la reazione immunitaria che distrugge le cellule infettate dal virus". Molti pazienti, infatti, finiscono in rianimazione per tromboembolia venosa generalizzata, soprattutto polmonare, e pertanto l'intubazione serve a poco se non si prevengono le tromboembolie. "Se ventili un polmone dove il sangue non arriva, non serve - spiega il professor Sandro Giannini della clinica Rizzoli di Bologna - il problema è cardiovascolare, non respiratorio. Sono le microtrombosi venose, non la polmonite a determinare la fatalità".
I punti critici
I punti uno e due del paragrafo "c" della circolare numero 11285 sono tesi a scoraggiare tout court qualsiasi analisi che potrebbe, invece, aiutare la scienza a fare passi avanti nella conoscenza del Covid-19 e quindi nello studio di una cura efficace. Al punto uno si dice chiaramente che "per l'intero periodo della fase emergenziale non si dovrebbe procedere all'esecuzione di autopsie o riscontri diagnostici nei casi conclamati di Covid-19, sia se deceduti in corso di ricovero presso un reparto ospedaliero sia se deceduti presso il proprio domicilio". Come se non bastasse al punto due si conferisce all'autorità giudiziaria la facoltà di "valutare, nella propria autonomia, la possibilità di limitare l'accertamento alla sola ispezione esterna del cadavere in tutti i casi in cui l'autopsia non sia strettamente necessaria". Analogamente per quanto riguarda le Direzioni sanitarie di ciascuna Regione si dice che gli verranno date "indicazioni finalizzate a limitare l'esecuzione dei riscontri diagnostici ai soli casi volti alla diagnosi di causa del decesso, limitando allo stretto necessario quelli da eseguire per motivi di studio e approfondimento". In questo modo il ministero inaugura la stagione delle concessioni con dubbia, interpretazione (come rilevato da molti studiosi) dei principi costituzionali realativi alla separazione dei poteri (giudiziario, esecutivo e legislativo) e dell'autonomia ed indipendenza della magistratura.
Difficile dire se l'indagine della procura di Brescia porterà a incriminazioni e condanne. Vedremo. Resta però la domanda: perché nel XXI secolo impedire l'esame autoptico? Una risposta ci deve pur essere. E qualcuno prima o poi dovrà fornirla.
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Tag:
autopsia
Speciale:
Coronavirus focus
Persone:
Roberto Speranza
November 25, 2020
Esclusi e odiati dai radical chic: i traditi del "sogno americano"

La deindustrializzazione, la globalizzazione e le droghe: ecco l'America depressa e sconfitta a cui nessuna dà voce. Lo hanno fatto J.D. Vance (con un libro) e Ron Howard (con un film)
C'è un'America depressa che il mainstream non si sforza mai di raccontare. È un'America contadina, ai piedi degli Appalachi, che la new economy e la deindustrializzazione hanno messo in ginocchio gettandola in una spirale di povertà e disagio sociale senza precedenti. A ovest, nel Kentuky, è tutta colorata di rosso repubblicano. Lì, il proprio voto, anche dalle ultime elezioni presidenziali, l'hanno dato in massa a Donald Trump. Credono ancora nel miraggio dello slogan "Make America great again" e, al netto della disperazione e della rabbia, hanno ancora la forza di sperare in un futuro migliore. In pochi riescono a spezzare queste catene, ma per i radical chic della East Coast, che bazzicano la Yale University e i cui nomi danno lustro ai grandi studi di New York, rimangono sempre e comunque dei "bifolchi". C'è un termine che usano per additarli. È hillbilly. In quella parola c'è lo stesso disprezzo con cui venivano chiamati okie le persone che durante la grande depressione fuggivano dall'Oklahoma. A dar voce a tutta questa disperazione ci ha pensato nel 2016 J. D. Vance con un libro che si intitola Elegia Americana e da cui Ron Howard ha tratto l'omonimo film da ieri disponibile su Netflix.
Quando nel giugno del 2016 esce il libro di Vance, l'editore HarperCollins non ci crede granché. "Dei bei bozzetti buoni per il genere local - dice - ne tiriamo 10mila copie ed è già troppo". Non crede che l'autobiografia di un giovane del Midwest possa vendere, ma inaspettatamente la reazione del pubblico lo smentisce. Nel giro di mesi le vendite crescono e Elegia americana si trova in cima alle classifiche. Un miracolo letterario? Non proprio. Qualche mese dopo un altro scossone smuove gli Stati Uniti: in barba a tutti i sondaggi, Trump sbaraglia Hillay Clinton e vince le elezioni. Nonostante il fiume di denaro versato a industrie in via di estinzione, Barack Obama non era riuscito a risollevare le sorti di questa "gente di collina" che con sprezzo viene bollata come "spazzatura bianca". In quelle terre la globalizzazione ha schiacciato le attività che davano lavoro. Le miniere di carbone, che hanno drenato il terreno per decenni, sono un ricordo lontano. La disoccupazione ha portato povertà e la povertà ha fatto dilagare l'alcolismo e l'eroina. "Io sono bianco, ma non wasp (white anglosaxon protestant, ndr)", scrive Vance nel libro. "Mi identifico con i milioni di operai bianchi discendenti da scozzesi e irlandesi che non sono andati a scuola. Per questa gente la povertà è la tradizione famigliare, i loro antenati erano operai nel Sud schiavista, e poi braccianti, artigiani e operai. Gli americani ci chiamano hillbilly, redneck o white trash. Io li chiamo vicini, amici, la mia famiglia".
Non sentite mai parlare di loro. Nessuno scende in piazza per dargli un futuro migliore. Vance lo ha fatto lottando con i denti. Tre lavori per pagarsi l'università. E, dopo qualche anno trascorso a San Francisco, quell'impegno a Columbus, a pochi chilometri da dove è nato e cresciuto. Perché deve tutto alla sua famiglia che, nonostante la povertà e le disgrazie, lo hanno tirato su e lo hanno fatto studiare. E poi c'è il corpo dei Marines che gli ha insegnato a stare al mondo. "L'eperienza in Iraq - spiegava anni fa in una intervista a Venerdì di Repubblica - mi ha fatto vedere che comunque sono nato fortunato, perché al mondo c'è molta gente più povera del più povero degli hillbilly". Nel libro, reso in modo magistrale su pellicola da Ron Howard, anche grazie alle bravissime Glenn Close e Amy Adams, la famiglia diventa il centro di tutto. "La famiglia è l'unica maledetta cosa che conti", urla la nonna Mamaw al 14enne J. D. per spiegargli che nulla gli darà una madre migliore e che nulla potrà mai allontanarlo da quel legame di sangue con quelle persone e con quella terra. È attraverso il confronto di tre generazioni che Vance e Howard destrutturano il sogno americano. Quella del nonno (che un lavoro ce l'aveva) e della nonna, fiaccata da una gravidanza adolescenziale, dalle continue violente liti e dall'alcolismo; quella della madre Bev sprofondata in un paesino sconfitto dalla modernità, resa opaca dal continuo uso di antidolorifici, oppioidi ed eroina e soprattutto abbandonata dal marito a combattere contro una vita su cui non ha mai la meglio; quella di J. D. e della sorella Lindsay che non si arrendono e nel loro piccolo riscattano se stessi e la propria famiglia. "Non ci sono personaggi buoni o cattivi nel film - ha spiegato il regista alla Lettura del Corriere della Sera - la madre di J. D. è una persona sostanzialmente buona in un mondo complicato. Questo è un film sulle difficoltà della vita, sulla lotta per la sopravvivenza".
Tag:
Elegia americana
Persone:
Ron Howard
Odiati e illusi dai radical chic: i traditi del "sogno americano"

La deindustrializzazione, la globalizzazione e le droghe: ecco l'America depressa e sconfitta a cui nessuna dà voce. Lo hanno fatto J.D. Vance (con un libro) e Ron Howard (con un film)
C'è un'America depressa che il mainstream non si sforza mai di raccontare. È un'America contadina, ai piedi degli Appalachi, che la new economy e la deindustrializzazione hanno messo in ginocchio gettandola in una spirale di povertà e disagio sociale senza precedenti. A ovest, nel Kentuky, è tutta colorata di rosso repubblicano. Lì, il proprio voto, anche dalle ultime elezioni presidenziali, l'hanno dato in massa a Donald Trump. Credono ancora nel miraggio dello slogan "Make America great again" e, al netto della disperazione e della rabbia, hanno ancora la forza di sperare in un futuro migliore. In pochi riescono a spezzare queste catene, ma per i radical chic della East Coast, che bazzicano la Yale University e i cui nomi danno lustro ai grandi studi di New York, rimangono sempre e comunque dei "bifolchi". C'è un termine che usano per additarli. È hillbilly. In quella parola c'è lo stesso disprezzo con cui venivano chiamati okie le persone che durante la grande depressione fuggivano dall'Oklahoma. A dar voce a tutta questa disperazione ci ha pensato nel 2016 J. D. Vance con un libro che si intitola Elegia Americana e da cui Ron Howard ha tratto l'omonimo film da ieri disponibile su Netflix.
Quando nel giugno del 2016 esce il libro di Vance, l'editore HarperCollins non ci crede granché. "Dei bei bozzetti buoni per il genere local - dice - ne tiriamo 10 mila copie ed è già troppo". Non crede che l'autobiografia di un giovane del Midwest possa vendere, ma inaspettatamente la reazione del pubblico lo smentisce. Nel giro di mesi le vendite crescono e Elegia americana si trova in cima alle classifiche. Un miracolo letterario? Non proprio. Qualche mese dopo un altro scossone smuove gli Stati Uniti: in barba a tutti i sondaggi, Trump sbaraglia Hillay Clinton e vince le elezioni. Nonostante il fiume di denaro versato a industrie in via di estinzione, Barack Obama non era riuscito a risollevare le sorti di questa "gente di collina" che con sprezzo viene bollata come "spazzatura bianca". In quelle terre la globalizzazione ha schiacciato le attività che davano lavoro. Le miniere di carbone, che hanno drenato il terreno per decenni, sono un ricordo lontano. La disoccupazione ha portato povertà e la povertà ha fatto dilagare l'alcolismo e l'eroina. "Io sono bianco, ma non wasp (white anglosaxon protestant, ndr)", scrive Vance nel libro. "Mi identifico con i milioni di operai bianchi discendenti da scozzesi e irlandesi che non sono andati a scuola. Per questa gente la povertà è la tradizione famigliare, i loro antenati erano operai nel Sud schiavista, e poi braccianti, artigiani e operai. Gli americani ci chiamano hillbilly, redneck o white trash. Io li chiamo vicini, amici, la mia famiglia".
Non sentite mai parlare di loro. Nessuno scende in piazza per dargli un futuro migliore. Vance lo ha fatto lottando con i denti. Tre lavori per pagarsi l'università. E, dopo qualche anno trascorso a San Francisco, quell'impegno a Columbus, a pochi chilometri da dove è nato e cresciuto. Perché deve tutto alla sua famiglia che, nonostante la povertà e le disgrazie, lo hanno tirato su e lo hanno fatto studiare. E poi il corpo dei Marines che gli ha insegnato a stare al mondo. "L'eperienza in Iraq - spiegava anni fa in una intervista a Venerdì di Repubblica - mi ha fatto vedere che comunque sono nato fortunato, perché al mondo c'è molta gente più povera del più povero degli hillbilly". Nel libro, reso in modo magistrale su pellicola da Ron Howard, anche grazie alle bravissime Glenn Close e Amy Adams, la famiglia diventa il centro di tutto. "La famiglia è l'unica maledetta cosa che conti", urla la nonna Mamaw al 14enne J. D. per spiegargli che nulla gli darà una madre migliore e che nulla potrà mai allontanarlo da quel legame di sangue con quelle persone e con quella terra. È attraverso il confronto di tre generazioni che Vance e Howard destrutturano il sogno americano. Quella del nonno (che un lavoro ce l'aveva) e della nonna, fiaccata da una gravidanza adolescenziale, dalle continue violente liti e dall'alcolismo; quella della madre Bev sprofondata in un paesino sconfitto dalla modernità, resa opaca dal continuo uso di antidolorifici, oppioidi ed eroina e soprattutto abbandonata dal marito a combattere contro una vita su cui non ha mai la meglio; quella di J. D. e della sorella Lindsay che non si arrendono e nel loro piccolo riscattano se stessi e la propria famiglia. "Non ci sono personaggi buoni o cattivi nel film - ha spiegato il regista alla Lettura del Corriere della Sera - la madre di J. D. è una persona sostanzialmente buona in un mondo complicato. Questo è un film sulle difficoltà della vita, sulla lotta per la sopravvivenza".
Tag:
Elegia americana
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Ron Howard
Covid, il piano della Merkel pronto il 16 gennaio. Perché Conte ha tardato tanto?
Andrea Indini

Mentre l'Italia si apprestava a redigere il "piano segreto", Berlino ne stava già applicando uno. E il sistema sanitario ha retto
L'Italia un piano pandemico contro il coronavirus lo ha avuto solo il 2 marzo, dieci giorni dopo l'esplosione del contagio. La Germania, invece, lo aveva pronto già dal 16 gennaio. Un mese e mezzo prima. Le date in questo caso non sono dettagli, fanno la differenza. E forse hanno salvato vite (tedesche). Lecito dunque chiedersi: perché Berlino era preparata e Roma invece no? Nella lunga serie di interrogazioni parlamentari depositate dal deputato di FdI Galeazzo Bignami, è contenuto anche un interrogativo che riguarda l'ormai noto "piano segreto" anti Covid. Un documento riservato, tenuto nascosto anche alle Regioni, di cui è stata negata l'esistenza e ancora oggi non divulgato ufficialmente. Sul tema si attende una sentenza del Tar del Lazio, che potrebbe costringere il ministero a renderlo pubblico. Ma ora a tenere banco non è tanto la sua esistenza o meno. Quanto le tempistiche con cui si è arrivati a redigere un dossier nato troppo "tardi" per essere utilizzato al meglio contro l'avanzata del morbo.
A ricostruire nel dettaglio quanto successo in quei giorni è il Libro nero del coronavirus, già arrivato alla prima ristampa. Il 31 gennaio, come noto, il governo delibera lo Stato di emergenza dopo il test positivo di due turisti cinesi. Qualche giorno prima, il 22 gennaio, al ministero della Salute si era riunita la prima task force che aveva scoperto l'inesistenza di un Piano pandemico aggiornato. Gli esperti avevano deciso di elaborare uno studio sui possibili scenari e l'eventuale impatto del Covid sul Ssn. Si trattava di precauzione, visto che nessun italiano a quel tempo sapeva di essere infetto. Insomma: il governo aveva giocato (quasi) d'anticipo rispetto all'epidemia. Ma poi qualcosa si inceppa non appena la palla passa nelle mani del Comitato tecnico scientifico. Le tempistiche di produzione del dossier, infatti, non sono rapide: il 12 febbraio un matematico, Stefano Merler, presenta i suoi calcoli al Cts che decide di creare un "gruppo interno" per produrre una "prima ipotesi di piano operativo"; tra il 19 e il 20 febbraio gli esperti si incontrano e presentano una prima bozza a Speranza; poi il Cts torna a valutarlo il 24 febbraio, cioè tre giorni dopo Codogno; e arriverà a una versione definitva solo il 9 marzo. Cioè a epidemia conclamata. Ovvero troppo tardi per essere davvero utile.
Le domande che Bignami rivolge a Speranza sono due. Primo: per quale motivo l'Italia non aveva un piano pandemico aggiornato, "come prescritto dalle fonti normative e internazionali", ed è stata costretta a realizzarlo in corso d'opera? Secondo: perché mentre la Germania già dal 16 gennaio esistevano protocolli per la valutazione del rischio e linee guida per testare, tracciare e gestire il contagio", l'Italia non aveva tra le mani un documento su cui basarsi per gestiore il morbo?
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Il modello tedesco, in effetti, su questo si è dimostrato ben più preparato del sistema italiano. In un articolo pubblicato sulla piattaforma Exemplars in Global Healt e su Our World in Data (un progetto di alcuni ricercatori dell'Università di Oxford), emerge che a Berlino "le valutazioni dei rischi e le linee guida tecniche per i test, la ricerca dei casi, la ricerca dei contatti, l'igiene e la gestione delle malattie, nonché vari altri documenti, erano disponibili dal 16 gennaio". Lo stesso giorno i ricercatori del Centro tedesco per la ricerca sulle infezioni dell'Università Charité avevano anche sviluppato il primo test diagnostico per rilevare il "nuovo coronavirus cinese", oggi utilizzato da quasi tutto il mondo per effettuare i tamponi. E questo ben 10 giorni prima che il 27 gennaio scoppiasse il primo focolaio in Baviera. La differenza con l'Italia sta tutta qui: "Il governo tedesco - si legge nell'articolo - è entrato nella pandemia con un dettagliato piano pandemico nazionale. Insieme ai piani di preparazione generici e ad altri piani e documenti specifici per malattie (ad esempio, per MERS), questo piano di risposta dettagliato ha consentito al governo di attivarsi rapidamente, senza sprechi di tempo in controversie relative a governance, contabilità o costi".
A Roma, invece, il 22 gennaio abbiamo scoperto di essere disarmati. Ma abbiamo approvato un "piano" solo un mese e mezzo dopo. Quando ormai lo tsunami si era abbattuto sulla Penisola. Perché?
Tag:
Covid-19
Speciale:
Coronavirus focus
Persone:
Galeazzo Bignami
Giuseppe Conte
Luoghi:
Germania
November 24, 2020
Il dossier sugli errori di Conte & Co. finisce al tribunale dei ministri
Andrea Indini

I tamponi non requisiti, il "buco" dei reagenti e il divieto di fare le autopsie: si muove l'inchiesta che tenta di far luce sugli errori del governo Conte e del Cts
La conferma arriva il 19 marzo, il giorno dopo che una carovana di settanta camion dell'esercito ha attraversato Bergamo per portar via le salme da far cremare. "Ci sono elementi multipli per fare il test - spiega a Repubblica il generale Paul Friedrichs - I primi sono i tamponi che servono a raccogliere i campioni dalle persone, poi c'è il liquido dove svilupparli. Questo è ciò che abbiamo portato dall’Italia". Tre giorni prima è atterrato all'aeroporto di Memphis un cargo C-17 d'emergenza della Guardia nazionale americana decollato dalla base americana di Aviano. A bordo non c'erano persone ma "mezzo milione di tamponi per la rilevazione del Covid-19 prodotti da un'azienda di Brescia", la Copan Italia Spa. "In quel periodo in Italia si registrava una grave carenza di tamponi e di reagenti di vitale importanza per arginare l'epidemia e per salvare le vite delle persone infettate", denuncia l'avvocato Giancarlo Cipolla che per conto di Giovanna Muscetti, una manager milanese, ora sta cercando di vederci chiaro su eventuali ritardi ed omissioni nella lotta al coronavirus.
La carenza di tamponi e reagenti
Il 5 novembre scorso la procura generale di Brescia ha avocato a sé l'indagine sollevata da Cipolla che nei mesi precedenti era, però, già stata archiviata dai giudici di Cremona. Nel mirino c'è anche il volo del 16 marzo. "L'esportazione di così tanti tamponi - denuncia l'avvocato - è stata possibile anche grazie al fatto che per questa tipologia di prodotti non era prevista alcuna restrizione all'esportazione come invece accadeva per altri prodotti necessari alla prevenzione ed alla cura del Covid-19". Va subito detto però che in quelle settimane la Copan aveva già distribuito in Italia oltre un milione di kit di prelievo. E se i test effettuati erano in numero inferiore, spiegava Lorenzo Fumagalli, il responsabile dell’ufficio legale dell'azienda bresciana, era perché "le forniture" erano "in quantità superiore alle capacità di svolgere gli esami nei laboratori italiani". Sin dall'inizio dell'emergenza il commissario straordinario Domenico Arcuri si trova a dover affrontare un problema non da poco: ai primi di maggio è riuscito sì a mettere insieme 4 milioni di tamponi ma non i reagenti. "Appare evidente che 4 milioni di tamponi, senza reagenti, non risolvono le esigenze del Paese - fa notare Cipolla - e, comunque, se mai in Italia ci fossero stati reagenti a sufficienza, 4 milioni di tamponi servirebbero a testare appena il 7% della popolazione". E questo senza considerare che, al tempo, ad ogni malato venivano destinati tre tamponi, uno per accertare il contagio e due successivi per verificare la guarigione.
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Il mancato intervento del governo
L'11 maggio, quasi quattro mesi dopo l'esplosione dell'epidemia in Italia, Arcuri si decide a indire una gara per acquistare i reagenti. "In questa situazione emergenziale - riferisce Cipolla - appare incomprensibile che nessuno si sia avvalso della facoltà di esercitare il legittimo potere di requisizione di tutti i reagenti rinvenibili sul mercato nazionale". Ma è troppo tardi. Chi come la Regione Veneto ha fatto da sola, è riuscito a uscirne in piedi. "Noi fin dall'inizio abbiamo fatto la scelta di non affidarsi a dei fornitori ma di fare noi la maggior parte dei reagenti...", ha ammesso il professor Andrea Crisanti, padre del miracolo di Vo' Euganeo. Tutti gli altri sono andati in difficoltà e l'intero sistema è letteralmente collassato. Viene, dunque, da chiedersi: perché quando il 31 gennaio il premier Giuseppe Conte delibera lo stato di emergenza, non presenta nel concreto le misure da mettere in atto per contrastare l'emergenza? Perché, come rivelato nel Libro nero del Coronavirus (clicca qui), ancora ai primi di aprile il ministro della Salute Roberto Speranza invita a limitarsi a eseguire il tampone solo a chi presenta una "infezione respiratoria acuta o grave che richieda il ricovero ospedaliero"? Perché attendere, appunto, fino all'11 maggio per decidersi a investire in tamponi e reagenti e, quindi, iniziare a tracciare la popolazione in modo più "massiccio"?
Le conseguenze sui malati
Cipolla chiede quindi di accertare se "la mancata esecuzione del tampone e, quindi, il mancato accertamento della malattia in tempi tempestivi e i ritardi nella prestazione della cura siano le cause" di molti decessi da coronavirus. A sostegno della propria tesi il legale ha portato i pareri di diversi medici secondo i quali uno stato febbrile che non viene curato correttamente per una decina di giorni, espone il malato alla formazione dei trombi. "La gente va in rianimazione per tromboembolia venosa generalizzata, soprattutto polmonare", spiega il professor Sandro Giannini della clinica Rizzoli di Bologna. "Non servono a niente le rianimazioni e le intubazioni perché innanzitutto devi sciogliere, anzi prevenire queste tromboembolie - continua - se ventili un polmone dove il sangue non arriva, non serve". Il problema, infatti, non è respiratorio ma cardiovascolare. "Sono le microtrombosi venose, non la polmonite a determinare la fatalità". Un'evidenza che è diventata tale solo quando ci si è messi a fare, tardi e contro le norme in vigore, le autopsie sulle vittime del Covid. Il primo aprile il ministero della Salute le aveva infatti vietate con una circolare che impediva persino di eseguire il tampone orofaringeo per avere la conferma delle cause del decesso.
L'inchiesta di Brescia
Se i magistrati di Cremona non hanno ravvisato "condotte penalmente rilevanti", derubricando i provvedimenti di Conte & Co. a "scelte politiche dettate dalla situazione emergenziale" pertanto "non idonee a configurare fatti di reato", i magistrati della procura generale di Brescia non solo vogliono andare più a fondo ma già ipotizzano "determinate fattispecie criminose". Si va dall'epidemia colposa all'omicidio colposo e lesioni colpose, fino ad arrivare poi all'abuso d'ufficio e omissione di atti d'ufficio. "Gli esposti in esame costituiscono una 'notizia di reato' - si legge nell'atto di avocazione firmato il 5 novembre dal procuratore generale Guido Rispoli e dal sostituto Rita Anna Emilia Caccamo - e non si limitano a proporre una indefinita ipotesi di reato". Ora, trattandosi di atti e provvedimenti del presidente del Consiglio e del ministro della Salute, il fascicolo verrà trasmesso al tribunale dei ministri. E tra non molto sapremo se la magistratura potrà o meno portare Conte e Speranza alla sbarra.
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Speciale:
Coronavirus focus
Persone:
Giuseppe Conte
Angelo Borrelli
November 20, 2020
Ecco i 10 errori di cui deve rispondere Conte
Andrea Indini

Le mascherine sprecate, l'ospedale da campo non attivato, il piano pandemico non aggiornato: ecco tutti i più gravi errori fatti dal governo durante la "fase 1"
Una valanga di interrogazioni urgenti, dieci in tutto, per mettere alle corde il governo e ottenere, una volta per tutte, una risposta chiara sugli errori commessi nella gestione dell'emergenza sanitaria ed economica scatenata dalla pandemia. Dieci domande, quelle presentate dal deputato di Fratelli d'Italia Galeazzo Bignami, che esigono dal premier Giuseppe Conte e dal ministro della Salute Roberto Speranza altrettante risposte. Si passa dalle mascherine sprecate, quando se ne aveva maggiore bisogno, e si arriva all'ospedale da campo della Nato non attivato, quando molti ospedali del Nord Italia erano al collasso in una concatenazione di sviste, errori e passi falsi che hanno contribuito a peggiorare l'impatto della pandemia in Italia.
lo scorso 16 febbraio, dopo aver decretato lo stato di emergenza a fine gennaio e aver assicurato che l'Italia era "prontissima" a fronteggiare una eventuale pandemia, il governo ha inviato 2 tonnellate di mascherine in Cina. "Avrebbe dovuto essere chiaro già allora - fa notare Bignami - che, se persino il principale produttore ed esportatore al mondo di mascherine si trovava in difficoltà, forse era il caso di evitare di privarsi di scorte preziose". Nemmeno due settimane dopo, infatti, l'Italia aveva chiesto l'attivazione del Meccanismo europeo di protezione civile in quanto aveva già terminato tutte le scorte. Erano passati appena sette giorni dalla scoperta del "paziente 1". "Chi ha deciso l'invio di tutte quelle mascherine in Cina?", chiede ora il deputato di Fratelli d'Italia. "Sulla base di quali presupposti è stata presa una decisione del genere?"
sin dall'inizio in città come Bergamo, Brescia, Cremona e Piacenza è subito apparso chiaro che i dispositivi di protezione individuali fossero del tutto insufficienti. A mancare non erano solo le mascherine e il materiale medico, ma anche i respiratori a cui attaccare i malati più gravi. A Taranto c'era un ospedale da campo della Nato, utile a fronteggiare una situazione come quella in cui ci trovavamo in quei giorni. Il Lussemburgo ne ha fatto richiesta e nel giro di ventiquattr'ore era già operativo. "Perché il governo italiano non ne ha chiesto l'attivazione? - vuole sapere Bignami - chi avrebbe dovuto presentare la richiesta?" [[foto 1863016]]
non solo l'Oms, ma anche l'Unione europea hanno invitato gli Stati membri a dotarsi di un piano pandemico nazionale che deve essere costantemente aggiornato. Anche l'Italia se ne è dotata. Lo ha fatto nel 2006. Ma non lo ha mai aggiornato. Eppure, dal 2009 a oggi, gli appelli a migliorarlo sono stati molteplici. "Perché non si è proceduto a un aggiornamento puntuale del piano pandemico che avrebbe consentito di dare una risposta cogente e attuale alla pandemia in atto?", chiede Bignami
secondo Stefano Merler, l'assenza di un piano pandemico aggiornato ha comportato gravi conseguenze in termini di decessi e di conseguenze economiche. "Per quale motivo non si è provveduto ad adeguare il piano pandemico come prescritto dalle fonti normative e internazionali sopra citate? - si legge nell'interrogazione urgente presentata mercoledì scorso - quali iniziative siano state assunte nei confronti dei soggetti tenuti alla predisposizione e all'aggiornamento del piano che hanno mancato in questo compito?"
il mancato aggiornamento del piano pandemico ha comportato conseguenze drammatiche che sono state evidenziate dallo stesso Comitato tecnico-scientifico. Peccato che lì siedono esperti che avrebbero dovuto aggiornare quello stesso piano. Quando a marzo l'Italia si è ritrovata in ginocchio, come si legge in un articolo pubblicato da Jama Network e tra i cui firmatari c'è anche Walter Ricciardi, "sia il contact tracing sia i test di laboratorio erano molto limitati" e il lockdown è stato adottato da Conte come "ultima misura cieca di disperazione". L'interrogazione di Bignami punta ora a far emergere le conseguenze causate dall'assenza di un piano aggiornato e a capire perché l'esecutivo ha deciso di coinvolgere nella gestione dell'emergenza quelle stesse persone che hanno esposto il Paese a un tale pericolo
rileggendo i documenti prodotti dall'Italia appare chiaro che dal 2006 in poi non è mai stato fatto nulla per farci trovare pronti a un'eventuale pandemia. Eppure le primissime mosse erano state fatte dopo la prima epidemia di sindrome respiratoria acuta grave (Sars). "Per tre lustri - fa notare Bignami - si sono limitati a mere riconferme". Perché non si sia andati oltre resta un mistero. Persino il coordinatore del Cts, Agostino Miozzo, ha dovuto ammettere che sono stati fatti "sforzi ciclopici per fare entrare la conoscenza scientifica in questioni" di cui nessuno si era mai occupato. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: importantissimi parametri, che fissavano per esempio i numeri di operatori sanitari e posti letto, si sono rivelati inattuali. Perché, come evidenziato anche dall'Oms, "la pianificazione è rimasta più teorica che pratica"?
il 17 gennaio si sarebbe tenuta una riunione convocata dal Centro europeo di prevenzione e controllo per le malattie infettive con i rappresentanti dei ministeri della Salute di tutti i Paesi europei. L'obiettivo era redarre un piano comune di misure preventive per contenere la diffusione dei coronavirus nel continente europeo con un focus particolare sulla gestione degli aeroporti. A quell'incontro, secondo un retroscena del Guardian, il rappresentante italiano non si sarebbe presentato in quanto non avrebbe letto la mail di convocazione. Se è vero che, come rivelato dal Fatto Quotidiano, l'uomo di Speranza era Francesco Maraglino, Bignami vuole sapere perché, "nonostante questa rilevante e grave mancanza, risulta essere componente del comitato tecnico-scientifico". "Quali iniziative di competenza intenda assumere in relazione a questa assenza?", chiede quindi sia a Conte sia al ministro piddì [[foto 1903968]]
il 13 agosto ha fatto molto rumore un articolo del Guardian in cui si parlava di uno studio indipendente sulla cattiva gestione italiana della pandemia apparso sul sito dell'Oms il 13 maggio e scomparso nell'arco di ventiquattr'ore. Bignami vuole sapere da Conte se è vero che a fare pressioni affinché quello studio, poi ritrovato dai familiari delle vittime, sparisse nel nulla sarebbero stati dirigenti e funzionari del governo italiano. "Per quale motivo si è ritenuto di agire in questo modo?"
nel manuale di gestione delle pandemie pubblicato nel 2017, l'Oms spiega che un piano pandemico aggiornato non serve solo a salvare delle vite ma anche a contenere quelle che possono essere conseguenze sociali ed economiche nel lungo termine. "In assenza di una pianificazione efficace - si legge - gli effetti di una pandemia a livello nazionale potrebbero eventualmente portare a perturbazioni sociali ed economiche, minacce alla continuità dei servizi essenziali, minore produttività, difficoltà nella distribuzione e carenza di forniture e di risorse umane". Perché, dunque, il governo non si è impegnato a "rendere minimi il disagio sociale e l'impatto economico della pandemia"? Perché il ministero della Salute non ha fissato come "tassativi" questi obiettivi che si era dato?
secondo le linee guida dell'Oms, "la trasparenza nella comunicazione è essenziale se si vuole che il pubblico si fidi delle autorità incaricate di gestire un'epidemia". Tuttavia, come ricorda Bignami, diversi sindaci delle zone più colpite dalla pandemia hanno avviato o appoggiato campagne contro il lockdown. "Appare evidente che né le istituzioni territoriali né la popolazione - scrive il deputato di Fratelli d'Italia - erano state adeguatamente informate sulla situazione che si stava delineando". Ancora oggi i verbali del Ctc su cui si fondano i Dpcm emanati dal governo possono essere consultati solo 45 giorni dopo. E questo benché i Dpcm abbiano una durata massima di trenta giorni. "Se il governo era a conoscenza della situazione di rischio verso cui si andava incontro - chiede quindi Bignami - per quale motivo non si è ritenuto di informare sul modo in cui l'Italia si stava approcciando alla pandemia?".
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Speciale:
Coronavirus focus
Persone:
Giuseppe Conte
Roberto Speranza
November 19, 2020
Le storie Covid mai raccontate. Ecco come si resiste al virus
Chi sopravvive e perché: venti racconti per capire come fare ad uscire dall'incubo del nuovo Coronavirus
coronavirus
Andrea Indini
Marco Gualazzini

Coronavirus focus
Url redirect: https://it.insideover.com/reportage/s... storie Covid mai raccontate
Come si resiste alla pandemia
November 18, 2020
"Se qui si scatena l’inferno...". Parte un'altra inchiesta sul Covid
Andrea Indini

L'ammissione: “Non eravamo preparati...”. A Brescia i pm puntano al governo: il caso va al tribunale dei ministri
Il 20 marzo scorso muore Mariagrazia Casanova. Il suo nome potrà suonare sconosciuto, forse insignificante. È, o meglio era, la cassiera dell’IperSimply di via Vallecamonica a Brescia. La donna di Frontignano di Barbariga aveva iniziato ad accusare una forte tosse solo 48 ore prima. Si era chiusa in casa dove due giorni dopo ha esalato il suo ultimo respiro. Il punto vendita viene immediatamente chiuso perché si sospetta un contagio da coronavirus. Misura precauzionale intelligente, ovviamente. Ma a Mariagrazia non verrà mai effettuato il tampone per capire di cosa sia morta. Come lei, tanti altri nel Bresciano sono andati all’altro mondo senza un perché. E senza sapere se il male che li ha strappati alla vita si chiamasse coronavirus o cos’altro. “Non siamo riusciti ad arginare i focolai - ha ammesso il sindaco Emilio Del Bono - a introdurre ‘zone rosse’ dove c’erano i segnali, a fare tamponi nelle famiglie che convivevano con i positivi e in quarantena”.
La storia di Mariagrazia torna di attualità oggi che le notizie accendono di nuovo i riflettori sul treno che ha investito Brescia, Cremona e le altre città del “quadrilatero della morte”. Il 5 novembre scorso, infatti, la procura di Brescia ha avocato a sé un’indagine (archiviata a Cremona) su eventuali ritardi ed omissioni nella lotta a Covid-19. Tutto parte da un esposto presentato dall’avvocato Giancarlo Cipolla per conto di Giovanna Muscetti, una manager milanese. Nel mirino c’è un volo che il 16 marzo decolla dalla base militare di Aviano in direzione Memphis con a bordo mezzo milione di tamponi acquistati dagli Usa da un produttore italiano con sede a Brescia. La notizia in quelle ore fa il giro del web. Va detto però che l’azienda in quelle settimane aveva già distribuito in Italia oltre 1 milione di kit di prelievo. E se i test effettuati erano in numero inferiore, spiegava Lorenzo Fumagalli, il responsabile dell’ufficio legale della Copan Diagnostic, “è perché le forniture” erano “in quantità superiore alle capacità di svolgere gli esami nei laboratori italiani”. Dove, è noto, mancavano i reagenti e non i cotton fioc.
L’avvocato e la manager si chiedono però per quale motivo la Protezione civile o il governo non abbiano emanato un’ordinanza con cui requisire quei tamponi così da impedirgli di volare oltreoceano. Non solo. Nel mirino ci sono anche le circolari del ministero della Salute con le indicazioni su chi sottoporre al test e quelle che invitavano a non realizzare autopsie. Al contrario dei pm di Cremona, la procura bresciana ipotizza (per ora contro ignoti) i reati di epidemia colposa, omicidio colposo, lesioni colpose, abuso d'ufficio e omissione di atti d'ufficio. “Trattandosi di atti e provvedimenti del presidente del Consiglio e/o del ministro competente”, riporta Askanews, il fascicolo verrà trasmesso al tribunale dei ministri.
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Difficile dire se una inchiesta potrà dipanare la nebbia che a marzo cala su Brescia. Come rivelato nel Libro nero del coronavirus (clicca qui), sono due le immagini che raccontano la sofferenza della città. La prima è il trend di contagi. Per giorni le curve di Bergamo e Brescia si sfiorano proprio come i confini dei due territori. Crescono allo stesso ritmo. Poi l’8 aprile arrivano addirittura a toccarsi e Brèsa, così la chiamano in dialetto, raggiunge Bèrghem. Infine la supera: 10.122 contagi la prima, 10.043 la seconda. L’altra fotografia sono due container frigorifero parcheggiati di fronte al tempio crematorio della città. La processione dei feretri raggiunge il cimitero di Sant’Eufemia ma i forni non riescono più a tenere il ritmo di morte del coronavirus. Prima di essere avvolti dalle fiamme, i corpi devono aspettare anche due settimane nei depositi. Troppo tempo con il caldo afoso di quei giorni, e così le bare vengono stipate in quelle celle frigorifero che tanto ricordano la carovana di mezzi militari che, la notte del 18 marzo, attraversano Bergamo. I numeri sono quelli di una strage. Già nella prima settimana di aprile l’Istat calcola che, rispetto all’anno precedente, i morti a Brescia città si sono già moltiplicati: da 134 nel 2015-2019 a 381 nel 2020. Lo stesso vale per tutta la provincia: nei Comuni, che rientrano nelle statistiche dell’istituto, si passa dai 466 decessi di marzo 2019 ai 1345 nei primi tre mesi del 2020. Tutti questi paesini, che di solito vedono morire una sola persona al mese, si ritrovano con undici, dodici, venti lutti. A Corte Franca, per fare un esempio su tutti, l’incremento è addirittura del 1900 per cento.
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Francesca Serughetti, anestesista degli Spedali Civili, sapeva che prima o poi il virus sarebbe arrivato a Brescia. “Eravamo accerchiati”, racconta in esclusiva nel Libro nero del Coronavirus (pubblicato da Giubilei Regnani e già prima ristampa). Francesca il 24 febbraio è in sala operatoria con un politraumatizzato che ha la febbre. In quelle ore sono già scattate tutte le indicazioni di prevenzione. Il paziente va intubato, la mascherina Ffp3 sarebbe obbligatoria. Ma non ce n’è nemmeno una. “Non eravamo ancora preparati…”, ammette. Il politrauma infatti arriva nel reparto operatorio seguendo un percorso normale, ma rimane bloccato lì per almeno un paio d’ore. Di mascherine ne servono due: una per l’anestesista e una per l’infermiera che la deve assistere. Lo stallo fa sì che ci sia il rischio di farlo incrociare con un altro paziente che deve essere operato nella seconda sala. “In quelle ore – ci spiega – non sapevamo ancora come gestire quella promiscuità. Quando, poi, sono tornata a casa ricordo di essermi chiesta: ‘Se qui si scatena l’inferno, cosa facciamo?’”.
L’inferno, nel giro di pochi giorni, si scatena con una potenza inaudita. Ai primi di maggio la città sfiora i mille morti. Il 12 maggio si celebra una Santa Messa al cimitero Vantiniano per le trecento urne cinerarie collocate in chiesa. A Manerbio, paesino che cresce lungo il fiume Mella, il parroco di San Lorenzo, don Alessandro Tuccinardi, accende un lumino per ogni abitante che si è spento negli ultime mesi. Su un totale di circa 13 mila abitanti, nei primi due mesi di epidemia si registrano oltre 150 morti. E, in chiesa, le 150 candeline bruciano per ricordarli. Sono allineate sopra gli inginocchiatoi, una dopo l’altra. La fiamma si muove appena, accarezzata – di tanto in tanto – da un alito di vento che filtra lungo la navata principale. Ovunque c’è silenzio. E pace. Ma il dolore si tocca con mano. In paese quel giorno i Covid-positivi sono solo trenta, almeno ufficialmente: chissà se altre scelte politiche avrebbero permesso di tracciare più infetti. E magari salvare qualche vita.
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Coronavirus focus
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Brescia
November 17, 2020
Covid, la farsa dei super tecnici
Andrea Indini

Il caos in Calabria è l'ultimo degli errori del governo. Durante la pandemia fioccano le nomine, ma senza risultati
Se ancora avessimo avuto bisogno di una prova del fallimento della stagione dei super tecnici, ecco che il brutto pasticcio consumato sulla pelle dei calabresi ce l'ha fornita. Negli ultimi dieci giorni, mentre la regione sta lottando contro il dilagare del contagio e la conseguente emergenza sanitaria, sono saltate tre teste. Una dopo l'altra. Giù come birilli. Così, dopo le dimissioni di Eugenio Gaudio (nominato appena ventiquattr'ore prima), la Calabria si è ritrovata nuovamente senza commissario alla Sanità in un momento in cui non può certo permettersi un passo falso di questo tipo. "Ora attendiamo se ne vada pure Speranza...", ha commentato nelle ultime ore Matteo Salvini sparando contro il ministro della Salute. Al centro della bufera, però, finisce anche Palazzo Chigi che sin dall'inizio della pandemia ha deciso di mettersi nella mani dei tecnici augurando così una lunga stagione di gaffe, passi falsi, polemiche e buchi nell'acqua.
Lo "scippo" delle competenze
Alla fine di gennaio, quando inizia a essere chiaro che le "polmoniti atipiche" registrate a Wuhan sono più gravi di quanto non si immaginasse, il dossier finisce sulla scrivania del ministero della Salute. Ed è da lì che escono le prime, caotiche circolari che dicono tutto e il contrario di tutto. Speranza mette il suo vice, Pierpaolo Sileri, su un aereo e lo spedisce in Cina per gestire il rientro degli italiani bloccati a Wuhan. Nonostante i primi passi falsi, la pratica rimane nelle sue mani anche quando a Roma vengono scoperti due turisti cinesi positivi. Poi, però, qualcosa si inceppa. Ancora prima che a Codogno venga scoperto il "paziente uno", come ricostruito nel Libro nero del coronavirus (clicca qui), il ministro finisce dietro le quinte. Il 31 gennaio, dichiarando lo Stato di emergenza, il premier Giuseppe Conte decide di togliergli dalle mani il dossier e di affidarlo ad Angelo Borrelli. Al capo della Protezione civile, sebbene del tutto inesperto in ambito medico e sanitario, vengono dati poteri speciali e diretti per gestire l'emergenza. Difficile ipotizzare il motivo di questa scelta. Secondo Sileri, Speranza non ha mai voluto fare il commissario. "Non è nel suo carattere...", ha rivelato il viceministro. Sta di fatto che in quel momento il premier decide di affidare le sorti del Paese a una task force di tecnici che aumenterà di giorno in giorno senza produrre mai risultati apprezzabili.
Andrea Crisanti, direttore del dipartimento di medicina molecolare dell'Università di Padova, ha individuato subito il nocciolo del problema. "C'è un problema di Cts non tanto nella composizione, quanto nell'assenza. Possibile che non ci siano le migliori menti delle università italiane?". Da quando Conte ha affidato la gestione dell'emergenza a Borrelli, abbiamo assistito a un imbarazzante e repentino moltiplicarsi di poltrone, incarichi e deleghe che, come dicevamo, non ha portato a grandi risultati. Nel giro di un paio di mesi accanto al capo della Protezione civile, chiamato a coordinarne e organizzarne il lavoro, ecco spuntare fuori Domenico Arcuri, a cui viene affidato l'approvvigionamento delle forniture sanitarie. Da subito soprannominato "mister Mascherina" per i pasticci inanellati, viene percepito come una sorta di anti Borrelli. Una sorta di commissario del commissario. Difficile capire il perché dello sdoppiamento delle figure. Sta di fatto che al super commissario vengono affidati i dossier più spinosi: dalle mascherine ai ventilatori, fino ai "banchi a rotelle" per riportare gli studenti in classe. I risultati della sua gestione vengono bocciati ripetutamente dalle opposizioni che in più di un'occasione ne chiedono le dimissioni, ma Conte continua ad affidarsi a lui. Tanto che Arcuri si troverà a dover gestire anche la pratica dei vaccini.
Le meteore
A luglio, per dare una "mano" di rosa alle innumerevoli task force che aveva creato, Conte aveva fatto un'infornata di donne. Del tutto inutile. Aldilà del rispetto delle "quote rosa", non è dato infatti sapere se queste nomine abbiano prodotto un risultato. Ma non dobbiamo stupirci. Non è certo l'unica trovata del governo a finire in un buco nell'acqua. Che dire, per esempio, dei sessantaquattro esperti infilati nella task force tecnologica voluta dalla ministra all'Innovazione Paola Pisano? E che dire di Vittorio Colao? Quest'ultimo è stato chiamato a guidare la squadra che doveva accompagnare il Paese nella "fase 2" ponendo le basi per il rilancio del sistema economico. Aldilà dei bonus e delle mancette non si è visto molto di più. Tra le meteore, a cui il governo ha legato il proprio destino e il destino dell'Italia, non possiamo non annoverare anche i tre commissari chiamati a gestire la sanità in Calabria. Prima è toccato a Saverio Cotticelli che, in un'unica intervista alla trasmissione di Rai3 Titolo V, ci ha svelato di non aver la benché minima idea del numero dei letti in terapia intensiva e di non sapere di essere il responsabile del "piano Covid" della regione. Chiuso con lui, ecco subentrare per pochi giorni Guglielmo Zuccatelli, padre di una tesi alquanto insolita sull'inefficacia delle mascherine: "Non servono a un cazzo, ve lo dico in inglese stretto. Sapete cosa serve? La distanza. Perché per beccarti il virus, se io fossi positivo, dovresti baciarmi per 15 minuti con la lingua in bocca". Dulcis in fundo, Speranza si affida a Gaudio (già indagato dalla procura di Catania) per uscire dal pantano. Ma quest'ultimo li gela: "Mia moglie non ha intenzione di trasferirsi a Catanzaro". Ultimo schiaffo al Paese che cerca di uscire dalla pandemia. Nonostante le task force.
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