Andrea Indini's Blog, page 65
November 15, 2020
Da Vo' al tampone fai da te: così Zaia mette in ginocchio il virus
Andrea Indini

Oggi il Veneto fa da apripista con un nuovo piano per tracciare i contagi. Ma il tampone self-service è solo l'ultima di una lunga serie di innovazioni messe in campo da Zaia
Se volete capire più a fondo il fiume di gente che nelle urne dello scorso 21 settembre ha scritto il nome di Luca Zaia sulle schede da imbucare nell'urna, non vi basterà analizzare il buon governo della Regione degli ultimi undici anni. Se anche il popolo di sinistra si è spinto a riconfermarlo governatore è perché, da quando lo scorso febbraio è esplosa l'epidemia, il leghista non ha praticamente sbagliato una mossa. Prima c'è stato il "miracolo di Vo' Euganeo". Poi il tracciamento a tappeto dei contagi in tutto il Veneto. E ora l'implementazione dei controlli a tappeto con i test-fai-da-te. Una misura annunciata sabato pomeriggio durante il punto stampa sul coronavirus e già attiva in queste ore in tutta la regione.
Si parte con cinquemila test. Sembra poco ma non lo è. Quella che Zaia mette in campo è l'ennesima "rivoluzione" a un Sistema sanitario nazionale in difficoltà che il ministero della Salute non è riuscito a raddrizzare nonostante abbia avuto un'intera estate di "pausa" per correggere gli errori fatti durante la prima fase. Il tracciamento, ormai è sotto gli occhi di tutti, è andato a farsi benedire e il Comitato tecnico scientifico non riesce a più a star dietro ai campanelli d'allarme suonati dalle Regioni. A poco a poco l'Italia si sta colorando di rosso e i tecnici del premier Giuseppe Conte non sanno più come contenere un contagio che è arrivato a macinare oltre 40mila nuovi casi ogni ventiquattr'ore. Ma mentre a Roma sembrano pietrificati dall'emergenza, in Veneto si sono dati una mossa e sono corsi a cercare una soluzione. Ai test auto-diagnostici Zaia pensava già da un po' di tempo per ottenere uno screening di massa del territorio veneto aggirando così l'intasamento delle Asl. "Quando ne avevamo parlato le prime volte, ci davano degli sprovveduti", ha rivelato sabato scorso in conferenza stampa. Ora, però, che anche il direttore aggiunto dell'Oms, Ranieri Guerra, ha dato il proprio imprimatur a questi test rivoluzionari e che presto saranno distribuiti in farmacia, probabilmente in molti inizieranno a ricredersi sulla strategia del governatore leghista.
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A Otto e Mezzo Guerra li ha paragonati al test di gravidanza. I kit avranno al proprio interno test monouso simili a quelli per scoprire se si aspetta un bebè. L'Italia dovrà aspettare ancora un po' per vedere questa sperimentazione applicata a tappeto. Il Veneto no. Ha già messo il turbo. Ancora una volta farà da apripista. Già ai primi di ottobre Zaia aveva dato mandato al proprio staff di metterci la testa. "È il momento di evolvere la nostra capacità ci screening di massa e su questo il dottor Roberto Rigoli a Treviso sta facendo il possibile", aveva annunciato lo scorso 10 ottobre in una diretta Facebook. In quelle ore Rigoli, che è a capo del laboratorio di microbiologia di Treviso, stava infatti sperimentando i test-fai-da-te che si era fatto arrivare dall'estero con l'intenzione di usarli su tutto il territorio regionale dopo averne testato l'effettiva efficacia. Ora l'obiettivo è di accostare, almeno nella prima fase di sperimentazione, il test-fai-da-te al tampone molecolare. Una volta elaborato uno studio completo, i dati saranno sottoposti al via libera dell'Istituto superiore di sanità.
Potrà sembrare secondario, eppure l'ennesima rivoluzione veneta è solo l'ultimo tassello di una strategia che parte da lontano. Frutto di una politica sanitaria innovativa, seppur con qualche iniziale indecisione, e spesso in contrasto con le disposizioni varate dall'Oms. L'evoluzione è ricostruita nei dettagli nel Libro nero del coronavirus (clicca qui). Quando per esempio il primo cittadino di Vo' risulta positivo, Zaia fa due scelte importantissime: chiude l'ospedale di Schiavonia con medici e pazienti all'interno e investe migliaia di euro per sottoporre a test tutti gli abitanti di Vo'. Nessun protocollo lo prevede, ma l'idea è geniale: due settimane dopo, su invito di Crisanti, ripete pure l'esperimento, trasformando il paesino in un caso di studio unico al mondo in grado di rivelare l'importanza degli asintomatici nella diffusione del contagio. Se non vi basta, sappiate che il Veneto è l'unica Regione che non ha mai sofferto penuria di reagenti. E che sin dal 17 marzo ha impostato una strategia per indivuare a tappeto "soggetti positivi paucisintomatici ed asintomatici" sottoponendo a test contatti, parenti e semplici vicini di tutti i casi risultati positivi. Il tutto mentre il Cts predicava l'inutilità di testare chi non presentava sintomi.
Non è esagerato, insomma, affermare che quanto realizzato a Vo' e in Veneto è oggi il "paradigma" italiano, se non europeo, per la lotta al virus. Sempre un passo avanti agli altri, Zaia ha saputo gestire con intelligenza e inventiva l'epidemia. Ascoltando i suoi scienziati. Provando a sopirne gli scontri. E andando testardamente dritto per la sua strada. Anche quando le autorità sanitarie mondiali remavano contro. Fino al test-fai-da-te, ultimo primato veneto.
Tag:
Covid-19
Speciale:
Coronavirus focus
Persone:
Luca Zaia
Andrea Crisanti
Luoghi:
Veneto
November 14, 2020
La caduta nell'abisso di Vadim, antieroe tra viltà, sesso e cocaina

Uno scritto sconosciuto, un romanzo che da un secolo fa discutere e una storia devastante e allucinante. Gog riporta in libreria Romanzo con cocaina
"Vorrei trattenere questa notte, sto così bene ed è tutto così chiaro in me, sono così spropositamente innamorato di questa vita che vorrei rallentare tutto, mordere a lungo l'adorazione di ogni secondo, ma niente, si ferma, e questa notte corre via, con irresistibile rapidità". Quando tra le fessure degli occhi di Vadim Maslennikov piomba l'alba ci sono solo "vuoto e pesantezza". Il mondo, là fuori, è immobile e pesante e nella stanza è rimasta solo malinconia. Il ricordo della notte appena bruciata in euforia e cocaina è una vergogna che gli schiaccia il petto. Eppure nemmeno questa repulsione per se stesso lo frena dal cercare tra le carte da gioco che alla rinfusa sono state abbandonate sul tavolo. Cerca qualche cristallo avanzato dalla sera prima. Invano. "Solo un astuto diavoletto, in un profondo e remoto scompartimento segreto della mia coscienza, lo steso che continua a splendere e non si spegne sotto lo spaventoso uragano dei sentimenti, solo questo astuto diavoletto mi dice che devo mettermi l'animo in pace, che non devo pensare alla cocaina, e soprattutto alla presenza qui nella stanza, e questo mi eccita ancora di più, mi tortura ancora più dolorosamente".
Mosca. È il 1915. La rivoluzione non si è ancora compiuta. Ma il terremoto politico che travolgerà la Russia non sarà che un'eco lontana per tutto il romanzo. Niente di più. Seguiamo Vadim tra i banchi del ginnasio, accanto a compagni di classe molto più ricchi e più bravi di lui, e nelle fredde e vacue notti in cerca del calore di una donna. Lo seguiamo, guardandolo con disprezzo, mentre insulta e umilia ferocemente la povera madre e depedra i risparmi della domestica per "pagare" l'amore di una donna sposata. Quando nel 1934 alla redazione parigina della rivista Čisla viene recapitato il manoscritto di Romanzo con cocaina, sul plico spedito da Istanbul campeggia solo la firma di M. Ageev. Niente di più. Il contenuto è sconvolgente, profondo e violento. Viene subito dato alle stampe, ma a puntate. Poi se ne perde le tracce. Almeno finché Lydia Chwetzer non ne recupera una copia sgualcita su una bancarella. Siamo all'inizio degli anni Ottanta del secolo scorso e Pierre Belfond decide di dargli una seconda vita e farlo arrivare nelle librerie. "Ero ben consapevole come quell'incubo fosse stato scritto da un genio", spiegherà qualche anno dopo. Nel 1984 valica già i confini francesi e arriva in Italia in due versioni, una edita da Mondadori e una da E/O.
La casa editrice Gog ha da poco riportato Romanzo con cocaina sugli scaffali delle librerie. E, nonostante sia passato quasi un secolo dalla prima stesura, l'identità di Ageev resta ancora oscura. Qualche anno dopo aver inviato il manoscritto alla redazione della rivista Čisla, lo stesso autore firmerà il racconto Un popolo tignoso, pubblicato dalla rivista Vstreči, prima di essere del tutto inghiottito nel nulla. Alcuni hanno fantasticato (a torto) sulla possibilità di uno pseudonimo del giovane Vladimir Nabokov. Secondo la Chweitzer, invece, si tratterebbe di un ebreo in fuga dalla Russia travolta dalla rivoluzione di Ottobre. La verità è che questo scritto resta un'incognita e che anche questo contribuisce ad aumentarne il fascino. Quello in cui Ageev ci trascina è un viaggio verso il basso, un'inesorabile caduta nell'abisso. "L'astuto diavoletto, lo stesso che (se solo lo si ascolta) avvelena col dubbio i sentimenti più gioiosi, e che alleggerisce la più terribile disperazione con la speranza, questo astuto diavoletto, che non crede in nulla, mi diceva: 'Tutte le tue parole sono teatro, tutto è solo teatro: non sei caduto nell'abisso, e se stai male vestiti e va' all'aria: qui non c'è più nulla da fare'".
Il peregrinare di Vadim è una progressiva autodistruzione. Nelle sue azioni non c'è mai possibilità di redenzione. Il suo male non è la cocaina. O meglio: non è solo la cocaina. Lui stesso è il male: lo è come figlio, come amico e come amante. E, mentre tutt'intorno Mosca imbianca sotto la neve che continua a cadere e da lontano giungono notizie frammentarie dei soldati al fronte, Vadim continua a dissolversi in se stesso. Perché, come spiega Ernesto Valerio nella postfazione, "Vadim è un maestro nel comprendere le cose, ma un pessimo allievo nell'interpretarle correttamente".
November 10, 2020
"Hanno confuso gli italiani...". Ecco tutte le colpe dei virologi

Le posizioni che polarizzano di più sui social sono anche quelle che generano maggiore preoccupazione. E così tra gli italiani monta la paura
Si sono accapigliati sin dall'inizio. L'uno contro l'altro. E pure contro se stessi. Dieci mesi di dichiarazioni, smentite, retromarcia, zuffe. E loro, quegli uomini di scienza che si sono trovati faccia a faccia con il virus, sono diventati "prime donne" corteggiate dai media, seguiti da decine di migliaia di follower sui social e onnipresenti su radio, televisioni e quotidiani fino via via a polarizzarsi in uno scontro che troppo sbrigativamente è stato descritto tra "catastrofisti", che spingono per misure liberticide, e "negazionisti" che invece chiedono una narrazione diversa della pandemia e misure più adeguate a quanto sta realmente accadendo. Sul web stanno avendo la meglio i primi. Tanto che, come rilevato da Spin Factor, che per ilGiornale.it ha realizzato in esclusiva un'analisi sul sentiment degli italiani, nella wordcloud delle 50 parole più ricorrenti nelle conversazioni sul coronavirus accanto a Covid spicca paura.
Lo scontro costante tra scienziati
"La scienza ha bisogno di un confronto sereno e di ricercatori che hanno la modestia di poter cambiare opinione - spiegava tempo fa al Giornale.it Maria Rita Gismondo, direttrice responsabile di Microbiologia Clinica Virologia e Diagnostica dell'ospedale Luigi Sacco di Milano - chi ha usato la scena con insulti si è, di fatto, autoescluso dal dialogo scientifico". Il punto è che da quando in Italia è esplosa l'epidemia non abbiamo mai assistito a un "confronto sereno". Si è subito saliti sul ring. C'è un'intervista da cui partire e l'ha rilasciata Andrea Crisanti il 24 febbraio. Come ripercorso ne Il libro nero del coronavirus (clicca qui), che all'argomento dedica un capitolo sui "cattivi maestri", è da poco atterrato a Melbourne per partecipare a un congresso, ma di lì a poco tornerà al laboratorio dell’ospedale di Padova, centro di riferimento regionale per i test di individuazione del coronavirus. "Questo coronavirus è altamente infettivo – spiega – una sola persona ne contagia almeno altre quattro, forse pure cinque. Per altri virus è inferiore: uno, al massimo due". Rilette oggi queste dichiarazioni non fanno né caldo né freddo. Suonano come ovvietà. Ma in quei giorni, quando cioè il virus ha appena iniziato a colpire il Nord Italia mettendo in ginocchio il Lodigiano e la provincia di Padova, in ambienti accademici il mood è minimizzare il più possibile.
Una popolazione senza consapevolezza
"Nel corso di questi mesi abbiamo assistito ad una fortissima presenza mediatica da parte di virologi, esperti, responsabili di grandi strutture ospedaliere, che spesso hanno espresso opinioni contrastanti", spiega al Giornale.it Tiberio Brunetti, fondatore e amministratore di Spin Factor. "Questo - continua - non ha aiutato, soprattutto nella fase precedente la prima fase, a generare nella popolazione una consapevolezza esatta di quanto stava per accadere". Il paradosso tocca il suo apice nella scelta del governo di non inserire nemmeno un virologo nella folta schiera di tecnici che gli siedono accanto al premier Giuseppe Conte a gestire l'emergenza sanitaria. Anziché vederli in giro per le tivù, forse sarebbe stato meglio arruolarli nella task force del governo. E forse sarebbe stato anche meglio definire "virologo" chi virologo non è. "Voi giornalisti avete definito virologi tutti gli esperti intervistati, anche professionisti che nulla hanno a che vedere con la virologia", spiega Giorgio Palù, professore emerito dell'Università di Padova. "Questa non è stata una corretta informazione per la popolazione che incolpa proprio questi virologi di idee contraddittorie e di battibecchi sui media che confondono e disorientano".
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La confusione alleato del virus
Purtroppo il risultato di questi continui scontri tra uomini di scienza ha contribuito a sollevare un una polverone mediatico ingenerando tra gli italiani una forte confusione. E "la confusione - ci spiega Brunetti - è il principale alleato del virus". Per capire meglio l'impatto dei "virologi" sull'opinione pubblica, Spin Factor ha scandagliato i social network analizzando post e commenti. Sono state messe sotto la lente di ingrandimento oltre 400mila occorrenze dalle quali sono state estrapolate le opinioni in forma di sentiment positivo, neutro e negativo ed è stata stilata una sorta di classifica dei volti che impattano maggiormente sui social. Sul podio troviamo Andrea Crisanti col 38,1% di sentiment positivo, Pier Luigi Lopalco (36,5%) e Silvio Brusaferro (33,2%). In coda Fabrizio Pregliasco (27,8%), Roberto Burioni (27,3%) e Matteo Bassetti (24,8%). Ma attenzione a leggere queste percentuali. Perché, come spiega Brunetti, "non si tratta ovviamente di una classifica sull'affidabilità dei vari esperti, ma su quale percezione generano sugli utenti della rete". Chi crea maggiore ingaggio e quindi polarizza di più, è anche "chi genera più preoccupazione". Non a caso accanto a Covid, nella wordcloud delle 50 parole più riccorrenti, troviamo termini come paura, tamponi, casi, morti, emergenza, ospedali, decessi e così via.
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Un campanello d'allarme per Conte
"A maggio in poi, dopo una prima fase in cui le persone erano polarizzate sull'emergenza sanitaria, le persone si sono concentrate sull'emergenza economica", spiega Brunetti illustrando l'analisi condotta da Spin Factor. Con l'avvento della seconda ondata, gli italiani hanno ripreso a preoccuparsi per l'emergenza sanitaria. A breve, però, torneranno a guardare con preoccupazione alla crisi economica che sta divorando il sistema Italia. "E quello sarà il vero campanello d'allarme per la tenuta del Paese". Quanto rilevato sui virologi, si rflette anche sulla popolarità di Conte. Durante la fase 1, quando usava dichiarazioni molto più nette, il presidente del Consiglio aveva sfondato la soglia del 40%. Ora che la situazione è molto più complessa, con l'Italia colorata di rosso, arancione e giallo, il sentiment positivo nei suoi confronti è crollato. Un altro campanello d'allarme che dovrebbe mettere in guardia Palazzo Chigi.
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Speciale:
Coronavirus focus
November 5, 2020
Il "mondo fluttuante" del bello nelle tavole dei maestri giapponesi

Dove si nasconde l'eternità? Nei paesaggi di Hiroshige sicuramente. Ma anche nei volti delle "belle donne" immortalate dai maestri giapponesi e negli irezumi impressi sulle schiene degli affiliati della yacuza. La casa editrice L'Ippocampo ci accompagna in un viaggio dove l'effimero viene fermato per sempre
Un tuffo nella bellezza. A sfogliare le tavole di Hiroshige si ha subito la sensazione di essere catapultati in un mondo lontano eppure così famigliare. La potenza dei paesaggi giapponesi degli inizi dell'Ottocento racchiude il segreto di una natura mai doma che ancora oggi, a distanza di due secoli, non si fa assoggettare dalla modernità che divora costantemente ogni angolo. Per arrivare a questa perfezione, il maestro nato a Edo nel 1798 inizia a dipingere quando ha solo quattordici anni. Non smetterà mai di farlo. Andrà avanti, di anno in anno, a migliorarsi fino a carpire l'essenza di quel "mondo fluttuante" dove ogni singolo particolare compone i versi di una poesia che ha per scopo il canto della purezza. Per capirne il senso non possiamo che affidarci alle parole di Asai Ryoi: "Vivere solo il momento presente, dedicarsi totalmente alla contemplazione della luna, della neve, del fiore di ciliegio e della foglia d'acero".
Il mondo fluttuante
C'è una casa editrice indipendente, fondata a Milano cinque anni fa, che pubblica titoli di altissima qualità. Libri di altissima fattura capaci di ridare vita a mondi lontani, sia nel tempo sia nello spazio. Si tratta di Ippocampo. Con le sue pubblicazioni sul Giappone è riuscita in un'operazione davvero straordinaria. Prendiamo Hiroshige. Paesaggi celebri delle sessanta province del Giappone, libro fatto a leporello per racchiudere tutta l'audacia di quelle tavole verticali e inserito in uno straordinario confanetto insieme a un breve catalogo curato da Anne Sefrioui. Ci aiuta, per esempio, a capire come mai quando fra il 1853 e il 1858 vengono pubblicati, i lavori di Hiroshige vengono accolti subito con entusiasmo. In quesgli anni, ci spiega la Sefrioui, "il Giappone è un paese prospero e in pieno fermento: la rete stradale si è sviluppata, i mezzi di locomozione si moltiplicano, così come le locande e le stazioni di posta, e gli spostamenti, sempre più numerosi, coinvolgono mercanti e pellegrini, a cui si aggiungono coloro che viaggiano per semplice svago". Viaggio e sogno. Sogno e magia. E l'acqua, ovunque. Oggi come allora. Quello che quelle tavole raccontavano (e raccontano) - i ciliegi in fiore in primavera, le foglie d'acero mosse dai venti d'autunno, le vette sconosciute e le isole misteriose, la sacralità dei templi - è un insieme di bellezza e potenza che affonda le proprie radici nel paesaggio e nella natura. Nemmeno la morte potrà farlo desistere da questa eterna ricerca. "Parto per un viaggio - scriverà in una breve poesia funebre prima di andarsene - lasciando il mio pennelo ad Azuma [Edo] per visitare i luoghi celebri della Terra d'Occidente [il Paradiso della Terra Pura]".
Bellezza, seduzione ed effimero
Dalla purezza della natura alla purezza della donna. Sempre L'Ippocampo ha dato alle stampe un altro affascinante che celebra la bellezza delle donne, così importante nelle raffigurazioni giapponesi, attraverso un'ampia selezione delle più famose tavole del genere bijin-ga dipinte da maestri come Utamaro, Eisui ed Eishi a Hokusai, tanto per citarne alcuni. Il volume Geishe celebrate dai maestri della stampa giapponese racconta la seduzione femminile. Una seduzione che si declina in una moltitudine di atteggiamenti tanto eterni quanto effimeri. D'altra parte, come ci fa notare Amélie Balcou, che cura il breve catalogo allegato all'opera, cosa c'è di più effimero "dell'amore, della bellezza, della passione, del piacere"? Le tavole diventano così istantanee da sfogliare una dopo l'altra, fino a cogliere le infinite sfacettature della delicatezza femminile. Non ci sono solo i volti delle geishe. I maestri immortalano anche le madri che si intrattengono con i propri figli, le giovani mentre lasciano correre il pettine tra i capelli, le poetesse che si lasciano ispirare dalla fioritura dei ciliegi. E, mentre gli occhi dei lettori vengono rapiti dagli occhi corvini delle belle donne disegnate e dalla loro pelle percellana, la bravura dei maestri giapponesi esplode nei particolari dei kimono e degli ornamenti, nella acconciature e, più in generale, nell'estrema cura riposta nei colori scelti per dar vita a queste piccole poesie d'animazione. "Dal XVII secolo a oggi - fa notare la Balcou - sono le trasformazioni di un'intera società che possiamo cogliere e contemplare grazie a queste 'immagini di belle donne' (bijin-ga, appunto), brevi momenti effimeri catturati dagli artisti per diventare eterni".
La pelle come tavola da disegno
Cosa succede se gli stessi volti vengono trasferiti dalle tavole alla pelle? Se il disegno lascia il passo all'incisione? Si sprigiona la magia dell'irezumi, il tatuaggio tradizionale giapponese. Animali mitologici, come la fenice, la chimera o il drago-serpente, o personaggi mitologici, come i sette dèi della fortuna, i guardiani del Buddha o il cacciatore di demoni, prendono vita sulle schiene o sulle braccia degli amanti di un'arte che è stata a lungo osteggiata dalle istituzioni. Avvicinarsi a questo mondo da occidentali non è affatto facile. "Lungo tutta la mia carriera ho cercato di imparare il più possibile sull'arte del tatuaggio giapponese", racconta Jason Kundell, figura di spicco dell'arte del tatuaggio giapponese negli Stati Uniti. "Da americano. mi sono subito accorto che non sarebbe bastata una vita intera per le frustrazioni e le soddisfazioni che implica una missione del genere. Non c'erano scorciatoie e, per quanto potessi impegnarmi, non sarebbe mai stato abbastanza". Perché l'obiettivo finale di questo viaggio non era certo la meta, ma il viaggio stesso. Come spiega il maestro Osakan Horitoshi Izumi, l'irezumi (letteralmente "inserire l'inchiostro") è senza dubbio "un processo di apprendimento fondamentale per chi non è cresciuto in questa cultura", ma "una volta raggiunto un certo livello è importante che gli artisti seguano la propria visione". Per capire tutti questi processi, L'Ippocampo si è affidata al sapere di Yori Moriarty che nel 2005 ha iniziato a imparare quest'arte centenaria nello studio di Kundell. Il tatuaggio giapponese - Significati, forme e motivi è un'antologia completa e attenta delle immagini più inconiche che gli yakuza prima e la gente normale poi amavano farsi incidere sulla propria pelle.
Al termine di questo viaggio per immagini verrà forse da chiedersi: dove si nasconde l'eternità? Nei paesaggi di Hiroshige, sicuramente. Ma anche nei volti delle "belle donne" immortalate dai maestri giapponesi nel corso dei secoli. Ma anche negli irezumi impressi sulle schiene degli affiliati della yacuza. Perché in tutti e tre i casi l'effimero viene fissato in un punto, diventando così icone indistruttibili.
November 4, 2020
Sondaggisti, stampa mainstream e Finanza: i falsi profeti della vittoria di Biden

L'ennesimo flop dei sondaggisti scatena forti dubbi sull'uso politico delle rilevazioni. Doccia fredda anche per i media, che hanno nascosto il vero volto dell'America, e per la Finanza che ha scommesso contro il tycoon
L'onda blu di Joe Biden non ha spazzato via il "grande pericolo per la democrazia mondiale". Donald Trump è ancora in partita. E potrebbe anche vincere. Mentre negli Stati Uniti continua lo spoglio dei voti, un dato appare certo a tutti: ancora una volta, esattamente come nel 2016, sondaggisti, stampa mainstream e Finanza escono con le ossa rotte. La loro campagna elettorale costante a favore del candidato democratico, la loro fastidiosa sicumera nel dare il tycoon per morto e sepolto, i loro spocchiosi anatemi sulla sovranità popolare a rischio sono venuti a cadere nel giro di una notte. La notte della verità. E questa verità resterà tale anche qualora alla Casa Bianca dovesse arrivare un nuovo presidente. L'America non ha voltato le spalle a The Donald. Il ritratto che emerge dalle elezioni è quello di un Paese spaccato in due.
L'ennesimo flop dei sondaggisti
Quella di Biden avrebbe dovuto essere una vittoria schiacciante. Non è stato così . Eppure, se ci fermiamo a guardare indietro, rivediamo chi dava Biden avanti di sette punti. Tutto già scritto. Il 6 ottobre, in un eccesso di euforia, la Cnn aveva addirittura riportato una rilevazione della Ssrs che vedeva il candidato dem 16 punti sopra il presidente. In pochi prendevano le distanze da questi sondaggi. Solo una ricerca condotta dagli esperti di Expert.ai, una società con uffici a Modena e a Rockville, nel Maryland, che sonda le emozioni espresse nei post sui social media per capire il sentiment degli elettori, si era scostata dalla "massa" ipotizzando uno scarto inferiore allo 0,5%. In pochi gli avevano creduto (ilGiornale.it sì), nonostante sia gli stessi che sempre nel 2016 avevano pronosticato la Brexit. Delle due una: o chi elabora i dati non è più in grado di intercettare il sentire del popolo americano oppure tutte quelle percentuali vengono usate ad hoc come arma politica. È, infatti, possibile che dopo lo strafalcione di quattro anni fa, quando portavano in trionfo Hillary Clinton, sia stato ripetuto lo stesso grossolano errore? Solo qualche ora prima dello spoglio, ponderando la media di altre rilevazioni, RealClearPolitics aveva messo le mani avanti ammettendo che strada facendo il vantaggio di Biden nei quattro stati chiave (Iowa, Georgia, North Carolina e Ohio) si era assottigliato, fino a sparire. Tuttavia, nella stessa rilevazione, aveva assegnato ancora ala candidato democratico un vantaggio di 7,2 punti percentuali a livello nazionale.
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Doccia fredda per i media
Il giorno dopo ci siamo svegliati con un testa a testa. Si dovrà aspettare lo spoglio di tutte le schede, contea per contea, prima di arrivare a decretare il nuovo presidente degli Stati Uniti. E anche in quel caso non è detto che basterà agganciare la fatidica quota 270 per spegnere le polemiche. Trump ha già annunciato che si rivolgerà alla Corte Suprema. "Stanno cercando di rubarci le elezioni - ha denunciato su Twitter - non lo consentiremo". A infiammare il clima hanno contribuito certamente i sondaggisti, accaniti com'erano a demolire la popolarità del tycoon, ma anche la stampa mainstream ha sicuramente fatto la propria parte in questa violentissima campagna elettorale. Il to early to call, che rimbalzava nelle proiezioni di Ap, Cnn, Fox e New York Times, è stato una vera e propria doccia fredda per quei "tromboni" che hanno sempre dipinto gli americani come un popolo che aveva da tempo voltato le spalle a Trump. Nonostante i successi in politica estera (mai riconosciuti dai suoi detrattori), i media tradizionali hanno sempre fatto di tutto per dipingere il tycoon come un guerrafondaio. Eppure non ha mai mandato un solo soldato al fronte. E che dire dei ripetuti allarmi della democrazia in pericolo? In più di un'occasione è stato accusato di soffiare sul fuoco appoggiando i deliri di Qanon o le minacce di rivolta lanciate dall'estrema destra. Eppure a scendere in piazza ancor prima che iniziasse lo spoglio sono stati i manifestanti del Black Lives Matter in un sit in davanti alla Casa Bianca che non lascia presagire nulla di buono. Anche gli Antifa hanno già promesso proteste. Al fianco di tutti questi violenti si è sempre schierata la stampa mainstream che da un anno a questa parte sta usando l'emergenza coronavirus per screditare ulteriormente Trump. Anche qui delle due una: o chi racconta il Paese non è più in grado di capirlo oppure tutto quel fiume di inchiostro e parole è stato usato per modellare l'opinione pubblica a favore di Biden. È mai possibile infatti che, esattamente come con l'abbaglio di quattro anni fa, non siano stati in grado di capire quale piega stava prendendo il voto?
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Lo schianto della Finanza
"Sapevamo che sarebbe stata lunga ma chi avrebbe mai detto che saremmo arrivati fino qui". Probabilmente lo stesso Biden doveva aver dato retta ai titoli trionfalistici che quotidianamente campeggiavano su i media statunitensi. Alla fine, però, anche lui si è dovuto arrendere all'evidenza. "Dobbiamo portare pazienza, dobbiamo contare tutte le schede", ha ammesso spegnendo gli entusiasmi dei suoi sostenitori che si aspettavano una passeggiata. Tra questi anche gli investitori di Wall Street. Le loro aspettative si sono infrante. Nei prossimi giorni si vedrà, ma nelle primissime battute gli indici statunitensi hanno aperto contrastati. Nei mesi scorsi, esattamente come la stragrande maggioranza dei giornalisti mainstream occidentali, la Finanza aveva infatti scommesso sulla vittoria netta di Biden e oggi ha dovuto ricredersi. Difficile comprendere la loro scelta visti le ottime performance degli ultimi quattro anni. Anche grazie alle politiche economiche della Casa Bianca, il Nasdaq ha toccato vette da record che nemmeno l'emergenza Covid è riuscita ad affondare del tutto. Ma è proprio nel settore tecnologico che troviamo i peggiori nemici del tycoon. Tra Mark Zuckerberg e l'uccellino di Twitter si è scatenata una gara a chi censurava maggiormente i post del presidente statunitense danneggiando sempre di più la libertà di parola e di pensiero. E pensare che una delle balle più grandi inventate dai media è che la fortuna di Trump si nasconda nella sua capacità di usare e di condizionare i social network. In realtà, al netto di una vittoria o di una sconfitta, intercettare il feeling degli americani resta la sua più grande capacità. Tanto che se Biden dovesse avere la meglio gli toccherà ringraziare tutti i poteri forti per averlo sostenuto e avergli preparato il terreno per la Casa Bianca. Se invece a Trump riuscirà il bis, non potrà che complimentarsi con se stesso e ringraziare tutti quegli americani che non sono andati dietro alla narrazione mainstream che da quattro anni gli getta addosso solo fango.
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Speciale:
Elezioni USA 2020 focus
Persone:
Joe Biden
Donald Trump
November 3, 2020
Abbiamo scelto di non lottare. E così gli islamisti ci sottomettono

Da 20 anni le sigle del terrore attaccano indisturbate l'Occidente. Perché non reagiamo? Forse perché non ci sentiamo in guerra? Ma il numero dei nostri morti è quello di un vero e proprio conflitto
Guerra. I termini usati sin dall'inizio della pandemia sono quelli di un conflitto. Sebbene ci siamo trovati a dover combattere un nemico invisibile a occhio nudo, ma comunque letale per le fasce più deboli, siamo finiti ingabbiati dalla paura come in guerra. Le città in lockdown con le strade vuote, le serrande dei negozi abbassate e le lunghe code davanti ai supermercati non si proteggono più dai bombardamenti aerei. Le persone che girano con le mascherine non fuggono dall'invasione nemica, ma sembrano piuttosto proteggersi da un indeterminato attacco chimico. E davanti ai nosocomi spuntano le tende degli ospedali da campo con i militari e gli alpini che danno una mano a medici e infermieri non a curare i feriti ma i malati che cercano invano un repsiratore. Ce l'hanno dipinta così la guerra. La guerra contro il nuovo coronavirus. E, mentre siamo ancora impegnati su quel fronte, continua a infiammare un'altra guerra, quella del fondamentalismo islamico contro la nostra società. Ma sembra che non ce ne siamo accorti.
L'orrore nelle nostre città
Abbiamo chiuso gli occhi. Come sempre. E, mentre veniamo fiaccati da un'emergenza sanitaria che, oltre a ingolfare gli ospedali sta facendo a pezzi le fondamenta della nostra economia, continuiamo ad essere colpiti. Nizza, prima. Con il tunisino Brahim Aouissaoui, un clandestino sbarcato a fine settembre a Lampedusa, che entrato nella cattedrale brandendo un coltellaccio ha decapitato una donna, ne ha sgozzata un'altra e ne ha ammazzata una terza. Una carneficina. Ieri sera è toccato a Vienna. Una mattanza a pochi passi dalla sinagoga. Quattro morti. Un commando in azione. Ripiombiamo al 2015: lo stesso modus operandi di quando a Parigi sono stati attaccati, in due operazioni differenti, la redazione di Charlie Hebdo il 7 gennaio e il Teatro Bataclan il 13 novembre. Negli ultimi cinque anni il terrorismo islamico ci ha colto impreparati in continuazione. Il 2016 è stato sicuramente l'anno più devastante: il 22 marzo gli attacchi coordinati all'aeroporto "Zaventem" e alla stazione della metropolitana di Maelbeek a Bruxelles; il 14 luglio gli 87 innocenti falciati via dal tunisino Mohamed Lahouaiej-Bouhlel lungo la Promenade des Anglais a Nizza; il 26 luglio padre Jacques Hamel sgozzato sull'altare della chiesa di Saint-Etienne-du-Rouvray da Adel Kermiche e Abdel Malik Petitjean; il 19 dicembre le dodici persone schiacciate dal furgoncino di Anis Amri tra le bancarelle del mercatino di Natale di Berlino. E anche per tutto il 2017 le sigle del terrore islamista hanno continuato a colpirci: a Londra colpita in due occasione, il 22 marzo e il 3 giugno, in due attacchi che hanno visto morire 17 innocenti; a Manchester il 22 maggio quando Salman Ramadan Abedi si è fatto saltare in aria al termine del concerto di Ariana Grande; a Barcellona il 17 agosto quando Younes Abouyaaqoub fiondò un camioncino contro i passanti che camminavano lungo la Rambla.
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Una scia di sangue lunga 20 anni
Una scia di sangue infinita che porta fino a oggi, ma che non ha avuto inizio nel 2016. Nell'immaginario comune la guerra con l'islam radicale si apre l'11 settembre 2001. L'attacco alle Torri Gemelle, l'attacco alla superpotenza statunitense. 2.977 morti. Il più violento di tutti, sebbene poi ce ne siano stati altri altrettanto drammatici. Le esplosioni del 2004 a Madrid e del 2005 a Londra. 192 morti nel primo attacco, 56 nel secondo. Una lista infinita di caduti. L'Occidente in lutto costante. Anche quando non è in Occidente che i jihadisti colpiscono, le vittime sono comunque gli occidentali. Come i turisti massacrati il primo luglio del 2016 nel ristorante Holey Artisan Bakery di Dacca. Allora i terroristi liberarono chi conosceva le sure del Corano e seviziarono e ammazzarono tutti gli altri. E un anno prima quando Seifeddine Rezgui Yacoubi, travestito da turista, entrò nell'albergo RIU Imperial Marhaba di Susa (Tunisia) e fece fuoco con un kalashnikov ai bagnanti rilassati sotto l'ombrellone. Altri 39 morti. Cambiano le sigle del terrore, ma il nemico resta sempre lo stesso: l'islam radicale.
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La resa dell'Occidente
A metterli tutti in fila, gli attentati subiti negli ultimi vent'anni fanno davvero paura. Eppure l'Occidente si è sempre dimostrato debole nei confronti del proprio nemico. Forse non si è mai sentito davvero in guerra. Oppure, non riuscendo a identificarlo con precisione, non ha avuto il coraggio di adottare misure che avrebbero in qualche modo colpito anche chi con il jihad non ha nulla a che fare. Perché, per esempio, non è mai stato posto un freno ai barconi su cui i terroristi si infiltrano accanto ai disperati che partono alla volta del Vecchio Continente? Perché non sono stati aumentati i controlli nelle moschee e sugli imam e non sono stati chiusi luoghi di culto abusivi o centri culturali dove si insegna a odiare l'Occidente? Perché non sono stati smantellati i quartieri "ghetto" dove i musulmani proteggono e nascondono le cellule del terrore? Continuiamo a esporci e a dimostrarci deboli in una guerra che stiamo perdendo. Giorno dopo giorno.
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terrorismo islamico
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Vienna sotto attacco focus
November 2, 2020
Bassetti: "Ecco la verità su Remdesivir, eparina e cortisone"
Andrea Indini

Il professor Bassetti intervistato da ilGiornale.it: "Troppa confusione, ora servono linee condivise per fermare il virus"
Professor Bassetti, ad oggi il Covid-19 ha fatto oltre 38mila morti in Italia. C’è chi punta il dito contro i medici di base, che non avrebbero curato a dovere i propri pazienti, preferendo spedirli in ospedale. È davvero così?
Innanzitutto non è del tutto vero che i medici non vanno a visitare i pazienti a casa. C’è però una cosa da dire: la nostra organizzazione delle medicina territoriale non è fatta per gestire una pandemia. Un medico arriva ad avere 1500 assistiti. In una città come Milano, dove in questo momento c’è una grande circolazione del virus, è probabile che un medico abbia a casa anche il 10, 15 per cento dei pazienti con i sintomi del Covid-19. Un medico è in grado di gestire 150 persone insieme? Non è un problema dei medici, è un problema di organizzazione e di tagli che sono stati fatti negli ultimi trent’anni. Nessuno se n’è accorto sul momento, adesso però stiamo vedendo i risultati. Ora bisogna imparare la lezione e organizzare il futuro: ci vogliono investimenti pesanti e sostanziosi.
Cortisone ed eparina sono medicinali che potrebbero essere somministrati ai malati che sono a casa. Perché non vengono prescritti?
Bisogna stare attenti: lo studio “Recovery” dice che il cortisone ha un beneficio nelle forme gravi, in quelle dove il paziente ha la polmonite e un deficit di ossigeno. In questo caso funziona. Nei casi medio-lievi il cortisone potrebbe anche non essere la risposta corretta. Il problema è avere protocolli condivisi. Sapere cioè cosa fare quando un paziente ha la febbre, quando ha anche tosse e sintomi respiratori, se ha una grave (ma ancora non gravissima) insufficienza respiratoria, a chi posso dare l’eparina e a chi no. Sono tutte cose che sarebbe bene fossero in un protocollo nazionale.
Che attualmente però non c’è…
No, c’è molto disordine. Ognuno fa un po’ come gli pare. Ho saputo anche di soggetti asintomatici che sono stati trattati con eparina, cortisone e antibiotici. La gente sente questa confusione e va in ospedale, dove si presume ci sia un po’ più di ordine.
Arrivata in ospedale, come viene curata la gente?
Dipende dal quadro che ci troviamo davanti. Entro i dieci giorni dall’emergere dei sintomi si usa il cortisone a dosi sostenute, il Remdesivir che è stato approvato per chi ha deficit respiratori, l’eparina per evitare che si formino trombi e poi, per le forme più impegnative di polmonite, si aggiunge l’antibiotico.
Perché non viene regolarmente somministrato il Remdesivir?
Ci sono criteri molto chiari definiti dall’Aifa. Va usato solo se i sintomi hanno un esordio da meno di dieci giorni ed è quello che facciamo anche noi seguendo i criteri dell’Aifa.
Quando Trump ha preso il Covid è guarito nel giro di pochi giorni. Eppure era considerato un soggetto a rischio. Perché?
Hanno usato una cura sperimentale che attualmente non è in commercio - l’anticorpo monoclonale Regeneron - e che probabilmente ha dato buoni risultati. Ci sono dati preliminari che dicono che questo anticorpo potrebbe funzionare. Bisogna aspettare la conclusione dello studio: una volta che ci sarà, potremo dire qualcosa di più. Indubbiamente però uno degli anticorpi monoclonali in studio sembra essere promettente. È probabile che Trump abbia avuto una forma non troppo grave, ma è anche vero che per curarlo sono stati utilizzati il Remdesivir, l’eparina e l’anticorpo monoclonale.
Torniamo alle cure in casa. Il professor Cavanna è considerato il "padre" del modello Piacenza alla base del quale c'è l'uso della idrossiclorochina. Funziona?
C’è uno studio che dimostra che l’idrossiclorochina non funziona. Fino a che non ci saranno nuovi studi che dimostrano che il farmaco funziona, io non lo utilizzerei. C’è uno studio randomizzato che dimostra come coloro a cui è stata somministrata l’idrossiclorochina non hanno ottenuto alcun beneficio. Bisogna evitare di fare una medicina aneddotica. La medicina si fa con l’evidenza scientifica, che arriva dagli studi. L’unico modo che hai per dimostrarne l’efficacia è quello di fare uno studio randomizzato: se lo fa hai un’evidenza scientifica. Altrimenti hai solo un’opinione.
Si può dunque fare di più nella scelta dei medicinali e così diminuire il numero dei morti?
Ci sono alcune cose che si sarebbero dovute fare e che non sono state fatte. Primo: creare protocolli condivisi a livello nazionale, una sorta di linee guida italiane a cui le società scientifiche stanno lavorando. Io sono presidente della Società italiana di terapia anti infettiva, e abbiamo messo in piedi un gruppo di studio, insieme alla Società italiana di pneumologia, per stilare delle linee guida di trattamento del Covid. Con questo gruppo di lavoro cercheremo di produrre un documento che spieghi come trattare il Covid: quali farmaci utilizzare e quali no. Secondo: uniformare i criteri di ospedalizzazione. Chi deve essere ricoverato in ospedale? Chi deve essere curato a casa? Chi deve essere ricoverato in una struttura extra ospedaliera? Ci devono essere parametri precisi, che siano utilizzati da tutti. Ci devono essere anche criteri di dimissioni condivisi: una volta che il paziente sta bene, che non ha più bisogno di presidi ospedalieri, quando lo posso dimettere? Questo è importante perché permette un turnover maggiore di posti letto. Se riusciamo a far girare al meglio i pazienti, il sistema può reggere. Terzo: collegare l’ospedale e il territorio. La gente deve sentirsi sicura e sapere che i medici di base sono collegati all’ospedale in un certo senso si porta a casa l’ospedale.
Molti hanno affermato che la lattoferrina può essere un utile alleato contro il Covid. È davvero così?
Anche su questo non ci sono forti evidenze. La lattoferrina è un farmaco che non ha grandi effetti collaterali, quindi se uno vuole può usarlo, ma non ci sono evidenze così forti a suo favore. Ci sono delle esperienze aneddotiche, ma io lavoro con le evidenze. Se uno la vuole utilizzare può farlo, ma non credo entrerà nelle linee guida come farmaco che cambierà la storia del Covid.
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Covid-19
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Chiediamolo ai virologi focus
October 31, 2020
Un viaggio nel tempo profondo per scoprire il respiro dell'Universo

Cosa c'è sotto i piedi? Macfarlane ci porta nelle viscere della Terre per scoprire il nostro passato, comprendere meglio il presente e guardare (con sospetto) al futuro
Solo il 5 per cento della massa dell'universo è composto da materia che possiamo toccare con mano o comuqnue vedere. Il 68 per cento, invece, è composto da quell'"energia oscura" che, tramite una pressione negativa, sta alla base dell'espansione accelerata dell'universo. E il restante 27 per cento? È composto da particelle che non interagiscono mai con la materia barionica. Si tratta della "materia oscura" e per studiarla è stato costruito un laboratorio a quasi un chilometro, sotto la superficie dello Yorkshire, in una fascia di salgemma argenteo formatosi circa 250 milioni di anni fa. Ed è fin là sotto che Robert Macfarlane si è spinto per toccar con mano il respiro dell'Universo. "Ogni secondo (queste particelle, ndr) ci attraversano a trilioni il fegato, il cranio e le budelle", racconta Robert Macfarlane nel suo ultimo libro, Underland - Un viaggio nel tempo profondo (Einaudi). "I neutrini passano attraverso la crosta, il mantello e il solido nucleo di nichel e ferro del nostro pianeta senza toccare neanche un atomo sul loro cammino - continua - per queste particelle subatomiche i fantasmi siamo noi e il mondo invisibile è il nostro".
"Nel mondo di sotto riponiamo da sempre ciò che temiamo e desideriamo perdere e ciò che amiamo e desideriamo salvare". Cosa c'è sotto i nostri piedi? Pochi se ne preoccupano. Forse per indifferenza. "Guardate in alto in una notte serena - ci sfida Macfarlane - vedrete la luce di stelle lontane trilioni di chilometri, o scorgerete i crateri prodotti dagli impatti degli asteroidi sulla faccia della luna". E poi: "Guardate in basso e la vostra vista si fermerà al suolo, all'asfalto, alle dita dei piedi". Niente di più. Nelle 360 pagine, che sono già state insignite del National Outlook Book Award dell'anno scorso per la sezione National History Literature e che compongono quello che per il Guardian e il New York Times è sicuramente uno dei libri migliori del 2019, veniamo portati nel tempo profondo del nostro pianeta in un viaggio che ci aiuta non solo a capire da dove veniamo ma anche a guardare dove andremo. "Il mondo di sotto - ci avverte sin dall'inizio l'autore - custodisce bene i suoi segreti".
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Scoprire significa, infatti, riportare alla vista ciò che è stato relegato nelle profondità e nell'oscurità della Terra. Macfarlane lo sa bene: andare giù è "un'azione controintuitiva, in controtendenza rispetto alle inclinazioni della ragione e dell'anima". Non a caso al mondo di sotto è sempre stato affidato "ciò che non può essere detto o visto apertamente". Come il lutto. Riportare alla luce questo mondo "dimenticato" è una fatica non indifferente. I posti svelati dalo scrittore inglese, che insegna all'Emmanuel College di Cambridge e che con Einaudi ha già pubblicato Luoghi selvaggi e Le antiche vie, sono pressoché inaccessibili. Ed è solo grazie all'aiuto di scienziati e guide locali che può, infatti, raggiungere grotte inesplorate, città invisibili e fiumi senza stelle. Un po' come Enki, il servo di Gilgamesh, che per conto del padrone scende negli inferi, tra tempeste di grandine e onde violentissime, per recuperare un oggetto perduto.
Quello che Macfarlane riporta alla luce è uno scrigno di arcani segreti che svelano una bellezza senza tempo. Come il laboratorio di Boulby, dove gli scienziati a quasi un chilometro sotto la superficie terrestre cercano di captare la materia oscura dallo spazio, o le catacombe che si snodano sotto Parigi in un labirinto che è al tempo stesso claustrofobico e affascinante. Come i fiumi scavati nel calcare sotto l'altopiano del Carso o i misteriosi danzatori rossi dipinti nelle grotte marine delle remote isole Lofoten. "Underland è una storia di viaggi nell'oscurità, di discese alla ricerca della conoscenza", spiega lo stesso Macfarlane. "Segue un itinerario che va dalla materia oscura costituitasi alla nascita dell'universo fino ai futuri nucleari di un Antropocene prossimo venturo - continua - nel viaggio tra questi due estremi del tempo profondo, la linea narrativa non si allontana mai dal presente in perpetuo movimento".
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C'è una storia che compare sia nella tradizione cristiana sia in quella islamica e che racconta il lungo sonno dei sette dormienti di Efeso, noti anche col nome arabo di aṣḥāb al-kahf. È il 250 a.C. e questi, fuggendo da una persecuzione religiosa, trovano riparo in una grotta che li porta nel cuore di una montagna dove si addormentano senza più svegliarsi per centinaia di anni. Quando riapriranno gli occhi saranno passati ben tre secoli e fuori non ci sarà più alcun pericolo a metterli in apprensione.
Dai porti aperti al menefreghismo Ue: ecco le colpe dietro la barbarie di Nizza

I jihadisti arrivano in Europa sui barconi. Ora se ne accorgono anche all'Eliseo ma per anni hanno predicato all'Italia l'accoglienza. Ecco tutte le colpe della Lamorgese, della sinistra e di Bruxelles
C'era un tempo in cui all'Eliseo davano l'ordine di chiudere i confini con Ventimiglia per arginare l'emergenza immigrazione nel territorio italiano. C'era un tempo in cui la gendarmerie scaricava nottetempo i clandesini nei boschi piemontesi. C'era un tempo in cui Emmanuel Macron, in un sodalizio di ferro con Angela Merkel, intimava all'allora ministro dell'Interno Matteo Salvini di non "far correre rischi a donne e uomini in situazioni di vulnerabilità" e di accogliere chi "deve trovare rifugio". Che l'Italia sia da sempre un crocevia di violenti terroristi, lo sappiamo ormai da tanto. Non serviva certo la brutalità di Brahim Aouissaoui, che nella cattedrale di Nizza ha decapitato una donna, ne ha sgozzata un'altra e ne ha ammazzata una terza, per farci aprire gli occhi. Anche Anis Amri era arrivato a Lampedusa prima di finire a Berlino a fare una strage lanciando il proprio tir contro un mercatino di Natale. Eppure, nonostante l'elevato rischio di infiltrazioni di jihadisti sui barconi, l'Unione europea (con la Francia in prima linea) ha sempre portato avanti la linea dell'accoglienza. Tanto da mettersi di traverso quando, con Salvini al Viminale, la Lega aveva chiuso i rubinetti dell'immigrazione clandestina.
Adesso dall'Eliseo fanno trapelare insofferenza nei confronti dell'Italia. Ne ha dato notizia ieri Marco Antonellis su ItaliaOggi spiegando che Parigi avrebbe fatto arrivare, "riservatamente ma fermamente, forte irritazione per quanto accaduto". "Quel terrorista non sarebbe dovuto passare - avrebbe lamentato la Francia - l'Italia avrebbe dovuto fare da filtro". La tensione sull'asse Roma-Parigi è trapelata anche durante l'intervista rilasciata a Radio Rtl in cui il ministro dell'Interno Gaerald Darmanin ha rivelato l'intenzione di voler capire la ragione per cui, nonostante il foglio di via, Brahim Aouissaoui non sia stato riportato in Tunisia. Certo, tutte le procedure sono rese più difficili dall'emergenza Covid - e questo Darmanin lo capisce -, ma non è ammissibile che un clandestino venga lasciato a piede libero. "Non ce l'ho con il governo italiano - ha incalzato il ministro francese - ma qui si tratta di qualcuno che è stato registrato sul territorio italiano. Non ha fatto domanda d'asilo o di residenza in Francia, è venuto qui a commettere un attentato". Il problema è che o si applica la linea dura, fermando i clandestini che si accalcano sui barconi che vogliono attraccare nei porti italiani, oppure il rischio è di far entrare nel Vecchio Continente potenziali terroristi. Da anni Frontex avverte i Paesi europei: "I flussi di migranti irregolari possono essere utilizzati dai terroristi per entrare nella Ue". Lo diceva già nel 2016 dopo gli attacchi a Parigi. Due dei jihadisti erano, infatti, "in precedenza entrati nell’Ue attraverso Leros presentando alle autorità greche falsi documenti siriani".
Ora in Francia i Républicains pretendono da Macron la chiusura della frontiera con l'Italia. "Con la crisi sanitaria e della sicurezza, nessun ingresso dovrebbe essere tollerato", ha scritto in un tweet il deputato Eric Ciotti invitando l'Eliseo a sospendere "tutte le procedure di asilo e l'emissione di visti dai paesi a rischio", come appunto l'Italia. Che il nostro Paese sia un problema non è certo una novità. Da quando il premier Giuseppe Conte ha cambiato colore al proprio governo imbarcando democratici e renziani, si è passati dalla linea dura contro l'immigrazione clandestina alla politica dei porti aperti tanto cara agli ultrà dell'accoglienza. Al Viminale dal pugno di ferro di Salvini si è così passato alla linea morbida di Luciana Lamorgese. Le ong hanno ripreso a fare avanti e indietro dalle coste libiche ai nostri porti, i barconi carichi di clandestini non sono più stati fermati e soprattutto i decreti Sicurezza voluti dalla Lega sono stati smantellati. Il risultato? Presto detto: Brahim Aouissaoui è sbarcato a Lampedusa nella seconda metà di settembre; dopo aver trascorso la quarantena sulla nave "Rhapsody" è stato trasferito a Bari dove è stato identificato e gli è stato intimato di lasciare l'Italia entro una settimana; si è dileguato nel nulla per riapparire qualche settimana dopo nella cattedrale di Nizza brandendo un coltello e urlando "Allah Akbar".
La storia di Brahim Aouissaoui è il fallimento (definitivo) della politica dei porti aperti e del governo giallorosso. Salvini pretende le dimissioni della Lamorgese ("Il premier e il ministro dell’Interno italiani hanno la responsabilità morale di quanto successo in Francia"), mentre Giorgia Meloni chiede a Conte di venire a riferire su quanto accaduto. E alla Lamorgese che ha spiegato che il terrorista di Nizza è entrato da Lampedusa perché Lampedusa è la porta d'Europa, la leader di Fratelli d'Italia ha fatto notare che il problema è proprio quella porta: "Andrebbe chiusa e sorvegliata, non spalancata come fa la sinistra al governo, proprio perché è la porta d'Italia e d'Europa". Un concetto che dovrebbe essere chiaro anche all'Eliseo e a Bruxelles che hanno sempre scaricato sul nostro Paese il peso degli sbarchi lasciandoci soli nella gestione dell'emergenza e obbligandoci ad accogliere chiunque entrasse nelle nostre acque territoriali. L'unica strategia vincente è quella del contrasto dell'immigrazione clandestina in mare.
Tag:
immigrazione
terrorismo islamico
Speciale:
Francia sotto attacco focus
Persone:
Giuseppe Conte
Luciana Lamorgese
Emmanuel Macron
October 30, 2020
Il livello di segretezza era rinforzato. La rivelazione sul "Piano segreto" anti Covid
Andrea Indini

Dalla task force al gruppo ristretto di lavoro del Cts. Speranza sapeva tutto da 11 giorni. Tutto resta segreto finché...
Un “Piano pandemico” che non esiste, benché il ministro lo abbia letto 11 giorni prima della sua approvazione finale. Un documento mai secretato, sebbene avesse un livello di riservatezza elevato. Un banale “studio ipotetico”, nonostante sia il Cts che la task force del ministero della Sanità fossero a conoscenza del gruppo di lavoro che per giorni ha lavorato alla realizzazione del “Piano” anti-Covid.
Sono tante le zone d'ombra emerse in questi mesi di pandemia: dalla predisposizione del documento, alla sua segretezza ancora in vigore, passando per la confusione fatta dal ministero tra il “Piano” e l'analisi di Merler. Ombre che ora ilGiornale.it può chiarire avendo avuto accesso a informazioni riservate ed accreditate. Lo studio di Stefano Merler, ricercatore della Fondazione Bruno Kessler, e il "piano pandemico" elaborato dai tecnici nominati dal premier Giuseppe Conte sono due cose distinte. Sono concatenati l'uno all'altro, ma sostanzialmente diversi. Quello che Merler presenta il 12 febbraio al Cts è, infatti, una relazione composta sostanzialmente da proiezioni e studi matematici. Si fermava lì e non dava indicazioni. Niente a che fare, quindi, con le linee guida e gli scenari che verranno poi inseriti nel piano elaborato interno al Comitato tecnico scientifico. Quello che ne esce fuori (oltre due settimane dopo l'analisi di Merler), infatti, è un lavoro molto più complesso. Perché allora, quando i cronisti domandano di vedere il “Piano”, ministero e Protezione civile inviano loro lo studio di Merler? E perché il ministero confonde i due testi? Lo “studio” del matematico è stato solo prodromico alla composizione del piano pandemico. Merler era infatti considerato il matematico di riferimento del ministero ed è in questa veste che ha presentato ai tecnici di Conte le proiezioni su un'eventuale diffusione del coronavirus in Italia. Quel che è certo è che il suo lavoro non poteva essere assolutamente presentato come piano. Che infatti è stato realizzato solo in un secondo momento.
Il 12 febbraio, come emerge dai verbali del Cts, all'interno del Comitato nasce il gruppo di lavoro ristretto per la preparazione del "Piano". A quel tavolo sono presenti sette persone. Tra questi ci sono il direttore scientifico dell'ospedale Spallanzani, Giuseppe Ippolito, i presidenti dell'Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro e della Protezione Civile Agostino Miozzo, Claudio D'amario (segretario Generale del Ministero della salute, Giuseppe Ruocco (direttore generale della prevenzione sanitaria), Alberto Zoli (rapresentante della Conferenza delle Regioni) e un responsabile dell'Usmaf (Ufficio di sanità marittima, aerea e di frontiera). Secondo le indiscrezioni riportate nel Libro nero del coronavirus (clicca qui), il 20 febbraio la bozza del piano pandemico finisce nelle mani del ministro della Salute Roberto Speranza. Il documento prevede azioni da mettere in atto nel caso in cui fosse scoppiata un'epidemia di coronavirus in Italia, quando ancora il Belpaese è certo di poter controllare il contagio. Dopo aver avuto il via libera di Speranza, il documento finisce sulle scrivanie di tutti i componenti del Cts. È il primo marzo. Subito dopo ottiene l'ok definitivo anche dal Comitato tecnico scientifico. Speranza a quella riunione partecipa all’inizio, ma poi se ne va. Secondo quanto risulta al Giornale.it, infatti, quando il Cts approva qualche documento il ministro non è mai presente. E comunque aveva già avuto modo di vederlo 10 giorni prima.
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Già nei primi giorni di marzo appare chiaro che il virus, almeno nel Nord Italia, è del tutto fuori controllo. Il piano pandemico è il punto di riferimento a cui guardare per cercare di capire come gestire l'epidemia. Ne viene fatto ampio uso per orientare le scelte. Nessuno all'interno del Cts sente infatti il bisogno di produrre altri documenti simili. Le proiezioni e gli scenari strategici bastano a Conte per capire che deve correre se vuole fermare il numero dei contagi. Sono i giorni in cui la Regione Lombardia inizia a chiedere a gran voce di estendere la "zona rossa" in Val Seriana. Sono i giorni in cui i grafici che arrivano a Palazzo Chigi parlano di virus fuori controllo nelle province di Brescia e Cremona. E sono anche i giorni in cui l'epidemia valica il Po e dilaga in Emilia Romagna. I dati sono allarmanti ovunque. Eppure quel piano rimane segreto. Non viene mostrato a nessuno, neppure alle Regioni. È vero che la segretezza - apprende ilGiornale.it - era connaturata a tutti i lavori prodotti dal Comitato, ma nel caso del Piano pandemico a questo vincolo viene dato particolare risalto: non solo più volte il Cts mette a verbale l'obbligo di non portarlo all'esterno per evitare “che i numeri arrivino alla stampa”, ma in questo caso viene applicato un livello di riservatezza rinforzato. Segreto che verrà rotto non appena il gruppo verrà allargato a 26 persone. Finché si trattava di mettere a tacere sette persone, era semplice. Poi però quel cordone si è rotto. La sua esistenza oggi è nota. Ma nonostante siano passati otto mesi non è stato ancora reso ufficialmente pubblico.
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Tag:
Covid-19
piano segreto
Speciale:
Coronavirus focus
Persone:
Silvio Brusaferro
Roberto Speranza
Giuseppe Conte
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