Andrea Indini's Blog, page 164

November 19, 2013

"I feti? Grumi di materia" Gli insulti della Ravera non indignano Zingaretti

"Grumi di materia che non possono essere chiamati bambino o bambina". Le parole dell'assessore alla Cultura della Regione Lazio Lidia Ravera, affidate a un post pubblicato nel blog ospitato dall'Huffington, non sono solo una bordata di cattivo gusto contro il sindaco di Firenze Matteo Renzi che, perfettamente in linea con l'aggiornamento del regolamento di polizia mortuaria risalente al 1969, ha annunciato di realizzato un cimitero dei bimbi mai nati. Sono graffi nel dolore di quelle famiglie che, inermi, hanno visto spegnersi una vita indifesa. Sono insulti verso tutte quelle donne che, per un motivo o per l'altro, non hanno potuto abbracciare il proprio piccolo o la propria piccola dopo nove mesi di attesa. Per la Ravera quelle mamme sono "donne che non sono riuscite a portare a termine il loro dovere di animali al servizio della specie". Dichiarazioni tanto violente che hanno innescato una serie di reazioni nel mondo della politica e sui social network.


"Nella nostra maggioranza non tutti hanno condiviso, anzi forse nessuno ha condiviso il contenuto di quell’articolo, e non tutti hanno in merito ai temi di cui stiamo discutendo le stesse opinioni e le stesse sensibilità". Dopo giorni di silenzio il governatore Nicola Zingaretti è intervenuto in Aula per prendere le distanze dalle dichiarazioni della Ravera. Settimana scorsa Angelo Zema, responsabile del settimanale Roma Sette, periodico della diocesi di Roma in edicola con Avvenire, aveva lanciato un appello netto al presidente della Regione per un suo intervento: "Da una donna e da una donna che rappresenta le istituzioni, non ci aspetteremmo tali affermazioni aberranti né silenzi assordanti di chi quell'istituzione rappresenta al vertice". In realtà, lo stesso Comune di Roma aveva già realizzato qualcosa di simile. L'amministrazione Alemanno, e in particolare l'ex vicesindaco Sveva Belviso, aveva riservato al Laurentino uno spazio per il Cimitero degli Angeli nel quale, a richiesta, i genitori possono seppellire il proprio figlio mai nato. D'altra parte rientra nel regolamento di polizia mortuaria che risale al 1969 e che disciplina le fosse per la sepoltura dei bambini mai nati realizzando, appunto, piccoli sepolcri. "Le affermazioni della Ravera offendono la sensibilità di chi crede nel valore della vita fin dal momento del concepimento - ha commentato l'ex sindaco Gianni Alemanno - e indignano perché a pronunciarle è un politico, a cui si richiede attenzione e prudenza nel non offendere sensibilità anche diverse dalla propria". 


Pur prendendo le distanze dalla posizione della Ravera, Zingaretti ha risposto all’interrogazione, presentata da Olimpia Tarzia della Lista Storace e sostenuta da tutti i gruppi di opposizione (tranne i pentastellati), respingendo le richieste di dimissioni che gli sono piovute sul tavolo. Anzi. Il governatore considera addirittura le opinioni dell'assessore alla Cultura "un valore e non un problema". "Se mettiamo in discussione il diritto degli individui a dire la loro opinione, allora non sono d’accordo", ha concluso lodando la Ravera per aver "riaperto un dialogo" che tenta di "costruire una posizione condivisa". Insomma, una toppa peggiore del buco. tanto che lo stesso Alemanno ha tuonato contro il presidente del Lazio accusandolo di "rozzezza intellettuale". Per quanto Zingaretti riesca a passar sopra agli insulti del "suo" assessore, le affermazioni restano indifendibili e incompatibili con il rispetto della dignità delle persone, in particolare dei soggetti più deboli. Lo stesso Huffington Post su cui era stata pubblicata la tirata della Ravera, aveva corretto il tiro ospitando i pareri del primario della clinica Mangiagalli di Milano, ginecologa non obiettore, Alessandra Kustermann, e della piddì Allegra Salvadori. Entrambe favorevoli al cimitero dei bimbi mai nati.


Renzi apre il cimitero dei bimbi mai nati. Ravera critica: "È per donne che non sono riuscite a portare a termine il loro dovere di animali"





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Andrea Indini

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Published on November 19, 2013 07:10

November 18, 2013

Il Pd minaccia Letta

Il vero nemico di Enrico Letta è il Partito democratico. Il cammino del premier è un campo minato che rischia di far saltare le larghe intense da un momento all'altro. A impensierire Palazzo Chigi, e il Quirinale, non c'è soltanto il futuro del dicastero della Giustizia, ma la votazione sulla legge di Stabilità e le riforme promesse agli italiani. E, mentre Letta sfoggia ottimismo al summit organizzato dal Financial Times, i vertici di via del Nazzareno si preparano a fargli la festa.


"La durata del governo, dopo la scissione del Pdl, dipende da noi". A margine di un incontro a Pordenone per le primarie del Pd, Pippo Civati torna ad alzare i toni dello scontro. Tra i democratici non mancano le fibrillazioni in vista delle primarie dell'8 dicembre. La posta in gioco è la leadership del partito, a spese di Letta che si trova a dover fronteggiare le spinte dei tre principali candidati alla poltrona. Non passa, infatti, giorno senza incursioni al soglio di Palazzo Chgi. E più la pressione sale più l'esecutivo sembra avere le ore contate. "Io chiedo che si faccia la legge elettorale, e propongo il Mattarellum, e che si vada subito a votare", ha spiegato Civati smentendo l'esistenza di operazioni di Palazzo che dietro la scissione del vicepremier Angelino Alfano da Silvio Berlusconi ci sia la regia dei vertici della Santa Sede. Un'operazione che sembra impensierire non poco l'ala più radicale del Pd.


La punta dell'iceberg è sicuramente il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri. Se il sindaco di Firenze Matteo Renzi ha aperto le danze, di ora in ora si è fatta sempre più consistente la pletora di democratici pronti a sfiduciare il Guardasigilli. Se l'operazione, sapientemente ordita da Repubblica, dovesse andare in porto si tramuterebbe in un durissimo colpo alla credibilità sia di Letta si di Napolitano. "Con Renzi e il Pd faremo lo stesso percorso perché dovremo applicare riforme importanti da un punto di vista economico e politico per avere un Paese più stabile", ha assicurato Letta al convengno organizzato dal Financial Times. Eppure nemmeno la riconferma della fiducia alla Cancellieri è servita ad allontanare gli spettri da Palazzo Chigi. Le incursioni alla poltrona di Letta si fanno, di ora in ora, sempre più pressanti. Tanto che anche l'ottimismo del vicepremier all'Economia Stefano Fassina è destinato a cadere nel vuoto. "Con la rottura del Pdl il governo - ha spiegato in una intervista al Corriere della Sera - potrà rafforzarsi perché finiscono i ricatti quotidiani per il futuro giudiziario e politico di Berlusconi". Quello che Fassina non dice è che il governo è in balia dei ricatti dei candidati alla leadership del partito. A dimostrarlo è il nervosismo con cui Massimo D'Alema ha bollato Renzi come "ignorante e superficiale" dopo che il sindaco di Firenze lo aveva accusato di aver distrutto la sinistra.


Letta: "Il Pd seguirà il governo". Ma dal caso Cancellieri alla manovra i ricatti dei dem si fanno sempre più pressanti





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Andrea Indini

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Published on November 18, 2013 05:45

November 14, 2013

D'Alema prende in giro Renzi: "Chi smonta i gazebo, Briatore?". E Flavio: "Non hai mai lavorato"

L’interrogativo, tutt'altro che interessato, è una presa in giro bell'e buona. Uno sfottò da quattro soldi per impallinare Matteo Renzi. "Poi i gazebo chi te li smonta, Flavio Briatore?". La domanda provocatoria la pone Massimo D’Alema in una intervista all’Unità e basta ad accendere nuove scintille a sinistra. Con un'incursione dello stesso Briatore che ha cortesemente invitato l'ex premier ad andare a lavorare, almeno una volta nella sua vita.


Dalle colonne dell'Unità, D'Alema ha voluto avvertire Renzi per fargli capire che non ha la vittoria in tasca. Il congresso è ancora da celebrare. E potrebbero esserci dei colpi di scena, un classico in casa democrat. "La gente se ne può andare a casa anche silenziosamente - ha spiegato D'Alema - se questo accade, se ci sarà un’emorragia di iscritti, sarebbe un problema serio". Da qui la freddura, appunto, sulla manodopera per i mitici gazebo: "Poi chi li smonta, Flavio Briatore?". L'imprenditore non ha gliel'ha lasciata passare liscia e ha prontamente ribattuto su Twitter. "Caro D’Alema, io i gazebo li saprei smontare, ma non credo che tu saresti capace a montarli...", è stata la risposta del patron del Billionaire che, per l'occasione, ha coniato anche l’hashtag #mailavorato che si è ritorto contro l'ex diessino. Claudio, per esempio, ha invitato Briatore a "non sottovalutate l'esperienza fatta da D'Alema sulle barche a vela". E Daniele: "Se D'Alema decidesse di iniziar a montar gazebi sarebbe il suo primo giorno di lavoro". E ancora: nella diatriba si è inserito anche il manager dei divi, Lucio Presta, che ha cinguettato il proprio sostegno a Briatore: "Se ti serve una mano a smontare e montare, conta pure su di me. Fatto boy-scout dai Salesiani".


La polemica ha contagiato anche il partito. Luca Lotti, per esempio, ci ha tenuto a mandare una frecciata a D’Alema facendogli presente che Renzi può contare sul 44% dei voti espressi, mentre Cuperlo si ferma al 39%, Civati al 14% e Pittella al 3%. "Dunque quelli che montano i gazebo per adesso votano Renzi", ha aggiunto lanciando l’hashtag #sorpresa.


L'ex Ds attacca Renzi. Ma Briatore lo zittisce: "Io i gazebo li saprei smontare, tu no...". E lancia l’hashtag #mailavorato





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Andrea Indini

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Published on November 14, 2013 08:44

November 13, 2013

Il Csm salva Esposito: ha sbagliato, ma pazienza

Il giudice Antonio Esposito ha sbagliato. Adesso lo dice anche il Consiglio superiore della magistratura. Ma tanto vale. Le toghe non pagano mai per i propri errori. Neanche un buffetto. Questa mattina il Csm ha, infatti, archiviato la pratica sul traferimento d’ufficio per incompatibilità del presidente del collegio che in Cassazione ha condannato Silvio Berlusconi. Non importa, dunque, se Esposito abbia rilasciato un'intervista al Mattino qualche giorno dopo quella sentenza, prima ancora che le motivazioni della sentenza venissero depositate. Se la cava con una reprimenda. Ma, si sa, le parole volano via in fretta.


L'intervista rilasciata da Esposito al Mattino getta un'ombra sull'imparzialità del collegio che ha condannato il Cavaliere al processo sui diritti tv. Tanto più che, negli stessi giorni, ilGiornale pubblicava il resoconto delle cene eleganti durante le quali il giudice insultava e prendeva in giro l'ex premier scherzando coi commensali presenti. Eppure, nonostante il comportamento di Esposito sia evidentemente inaccettabile, il Csm non ha mosso un dito. Si è limitato ad ammettere che, sì, tutto sommato, l'antricipazione delle motivazioni della sentenza a un quotidiano "può integrare profili di natura disciplinare", ma niente di più. La decisione è stata presa questa mattina dal plenum a maggioranza (17 voti favorevoli) che, seppur con rilevanti emendamenti, ha approvato la delibera proposta dalla prima Commissione sull’archiviazione del fascicolo aperto lo scorso agosto sull’eventuale avvio di una procedura di trasferimento d’ufficio per incompatibilità. Il via libera è arrivato anche con il "sì" del laico del Pdl Annibale Marini, mentre gli altri componenti del gruppo si sono astenuti (Nicolò Zanon e Filiberto Palumbo) o hanno votato contro (Bartolomeo Romano) insieme con il consigliere leghista Ettore Adalberto Albertoni. Si sono astenuti anche i due togati di Magistratura indipendente e il presidente della Cassazione Giorgio Santacroce ("per ragioni di opportunità"), mentre tra i favorevoli troviamo (guarda caso) il vicepresidente del Csm Michele Vietti.


Fu il passaggio dell’intervista su Berlusconi, condannato non perché non poteva non sapere ma perché sapeva, a far infuriare il Pdl che accusò il magistrato di aver anticipato le motivazioni della sentenza prima del loro deposito. La ragione per cui il Csm ha archiviato la pratica è che nella condotta di Esposito ci sono "profili di natura disciplinare e deontologica da valutare nella sedi competenti". E la legge non permette a Palazzo dei Marescialli di intervenire quando la condotta di un magistrato possa essere oggetto di un’iniziativa disciplinare. Il Csm non ha, comunque, rinunciato a rivolgere a Esposito espliciti richiami. E, prendendo in prestito le parole del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, gli ha ricordato che i magistrati devono osservare nei loro comportamenti "misura e riservatezza", "non cedere a fuorvianti esposizioni mediatiche" e "non indulgere in atteggiamenti protagonistici e personalistici". I laici del Pdl si augurano che, arrivati a questo punto, intevenga il procuratore generale della Cassazione Gianfranco Ciani avviando, appunto, una azione disciplinare.


Il Csm: "Il comportamento di Esposito può integrare profili di natura disciplinare". Ma decide di archiviare il trasferimento d'ufficio: il giudice non pagherà





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Andrea Indini

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Published on November 13, 2013 05:00

November 12, 2013

"Quando Alfano pianse davanti al Cav prima di votare la fiducia a Letta"

Un salto indietro a quel 2 ottobre. Di certo c'è solo la linea di voto che Silvio Berlusconi, prendendo la parola in un'Aula del Senato mai tanto tesa, ha voluto dare ai suoi. Il via libera alla fiducia al governo Letta, però, è stato preceduto da ore concitatissime, segnate da un susseguirsi di colpi di scena, trattative forsennate e minacce di tradimenti. Ore in cui si è sfiorata più volte l'implosione di un esecutivo tenuto insieme per miracolo. Per gli alfaniani e i progressisti la marcia indietro del Cavaliere è stata una sonora sconfitta. In realtà, tra velate minacce e pugni sbattuti sui tavoli, l'ex premier ha saputo mediare tra governativi e lealisti per decidere, infine, di graziare Letta per il bene del Paese e per tenere insieme un partito, il Pdl, la cui unità era minacciata da pericolosi personalismi e, in modo particolare, dal suo segretario Angelino Alfano.


"In un partito politico grande come il nostro, il segretario politico si alza e parla, pure se è presente Berlusconi, invece Alfano non ha parlato", è l'accusa durissima lanciata da Alessandra Mussolini in studio da Myrta Merlino. A finire sul banco degli imputati è il vicepremier che, da quando è salito al governo al fianco di Letta, sta vestendo due ruoli difficilmente compatibili: oltre ad essere il numero due di Palazzo Chigi e il titolare del Viminale, ha in mano il timone del Pdl. Ancora per poco, però. Sabato prossimo, infatti, il Consiglio nazionale sancirà il definitivo passaggio a Forza Italia. Tutte le deleghe passeranno nelle mani di Berlusconi. A quel punto Alfano rimarrà alla guida della sua corrente che, all'interno del partito, porterà avanti la strenua difesa delle larghe intese. Anche nelle trattative del 2 dicembre il vicepremier si è messo alla testa dei parlamentari contrari alla caduta del governo Letta. In quelle ore, in realtà, i più agguerriti era senza alcun dubbio Roberto Formigoni, Fabrizio Cicchitto e Gaetano Quagliariello. Secondo la ricostruzione della Mussolini, infatti, davanti a Berlusconi Alfano sarebbe scoppiato in lacrime non essendo in grado di reggere la pressione della situazione. "Alfano non ha parlato, ha pianto...", ha spiegato la deputata del Pdl a L'aria che tira mimando le lacrime e le soffiate di naso nel fazzoletto. "Il segretario dovrebbe prendere la parola e convincerci su posizioni politiche e non mettersi a piangere in faccia a Berlusconi come uno scolaretto che ha fatto una marachella - ha continuato la Mussolini - noi eravamo sconvolti e quello si è messo a piangere".


Roberto Formigoni, in collegamento da Milano con La7, non ha smentito la ricostruzione della Mussolini. Inizialmente ha sogghignato, poi si è limitato a dire che, se si fosse trovato in studio a Roma, avrebbe messo una mano sulla bocca alla deputata pidiellina scatenando un acceso battibecco. Aldilà del siparietto con l'ex governatore della Regione Lombardia, il retroscena raccontato a L'aria che tira spiega bene le ore concitate che hanno preceduto la votazione a Palazzo Madama. In un clima tanto teso, dove il segretario del Pdl sarebbe addirittura scoppiato in lacrime, Berlusconi ha quindi deciso di prendere in mano la situazione e dettare la linea da tenere in Aula. Una linea che ha ricompattato il partito sul "sì" a Letta. "Al dunque Berlusconi ha deciso di non schiacciare lui il bottone della deflagrazione del partito che ha fondato e guidato per quasi vent’anni - spiegava il direttore del Giornale Alessandro Sallusti l'indomani del voto - annullando il precedente ordine, ha dato il via libera a tutti i suoi per votare la fiducia a Letta, evitan­do ­così la conta pubblica tra le­alisti e traditori".


La Mussolini ricostruisce la riunione del Pdl che ha preceduto il voto sulla fiducia al governo Letta: "Davanti al Cavaliere Angelino si è messo a piangere"





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Andrea Indini



Mussolini: "Prima della fiducia, Alfano pianse"
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Published on November 12, 2013 08:22

November 11, 2013

Letta fa lo spaccone: "Sono più forte di Allegri. Non dipendo dal Cav, io..."

Enrico "palle d'accaio" Letta fa lo spaccone. Mentre il Paese è in affanno e il parlamento annaspa nel tentativo di limare una legge di Stabilità infarcita di tasse, il presidente del Consiglio va in giro a pavoneggiarsi. Bazzica gli ambienti giusti di Bruxelles, fa il simpatico in radio e ostenta sicurezza in una situazione tutt'altro che serena. A sentirlo parlare sembra di avere a che fare con un condottiero alla testa legioni armate fino ai denti, pronte a conquistare terre sconfinate. "Sono più forte di Allegri - ha detto oggi a Un giorno da pecora - non dipendo da Berlusconi, io...". Poi, però, ci si accorge - drammaticamente - che brancola al timone di un veliero che sta per affondare.


Che sia milanista "perso" lo si sapeva ampiamente. Ma l’endorsement a scoppio ritardato di Letta, a favore (e chissà poi se davvero a favore) di Massimiliano Allegri racchiude anche una stoccata politica che è un’ulteriore affermazione di indipendenza dal destino politico del Cavaliere. Il programma di Radio2 oggi ha mandato in onda un audio inedito dell’intervista al presidente del Consiglio di Patrick Agnew. Al giornalista dell'Irish Times che gli chiedeva chi ritenesse più longevo tra Allegri sulla panchina del Milan e lui a Palazzo Chigi, Letta ci ha tenuto a ricordare che l'allenatore rossonero "dipende totalmente da Berlusconi". "Io spero che Allegri resti al Milan, perché mi piace Allegri, però mi sento un pò più forte...", ha rimarcato il premier ricordando che la sua fiducia deriva dal fatto che "il voto del due ottobre ha cambiato le cose". Gonfia il petto, mostra i muscoli e fa il duro. Ma è un atteggiamento solo di facciata. La maggioranza ondeggia per i maldipancia dei lealisti pidiellini che accusano il governo di alzare le tasse e per il braccio di ferro nel Pd che c'incammina, lacerato, verso le primarie.


Quando era approdato a Palazzo Chigi, aveva scelto di tenere un profilo basso. Non più tardi di qualche mese fa se l'era addirittura presa con Matteo Renzi per il suo modo di fare da battutista incallito. "Se c'è una cosa che detesto - lo aveva redarguito - è la politica fatta di battute che in questo periodo invece trionfa, visto che la vita delle persone si risolve con i provvedimenti giusti". In realtà, da un po' di tempo a questa parte, alla presidenza del Consiglio, ha cambiato aria. Forse per controbilanciare i volti mesti e tirati di ministri e sottosegretari, Letta sembra aver cambiato toni. "Il governo non è un punchingball, adesso giocheremo d'attacco", ha garantito ai tempi della presentazione del piano "Destinazione Italia". E, facendo il verso a una famosa réclame del Carosello, ha spiegato di non aver "scritto in fronte Jo Condor". Qualche settimana dopo, in una controversa intervista (sempre all'Irish Times), avrebbe vantato "balls of steel". Dichiarazione, poi, smentita. Niente palle d'acciaio, insomma. Però si sente più forte di Allegri. Contento lui.


Forse per controbilanciare i volti mesti dei ministri, il premier dalle "palle d'acciaio" cambia i toni e si mette a fare il duro: "Mi sento molto più forte di Allegri. Non dipendo da Berlusconi, io...". Eppure, solo qualche mese fa, aveva giurato: "Non si fa politica con le battute"





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Andrea Indini

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Published on November 11, 2013 09:59

Fini disconosce pure se stesso e dà la benedizione a Kyenge: "Cambiare subito la Bossi-Fini"

L'ennesima piroetta di Gianfranco Fini è un capitombolo senza precedenti. Dopo aver calpestato la militanza nel Msi, dopo aver celebrato il funerale di Alleanza nazionale, dopo aver maledetto l'alleanza con Silvio Berlusconi, il fondatore di Futuro e Libertà cerca un ultimo angolo di visibilità criticando quella legge che regola le politiche migratorie e che portato proprio il suo cognome. "La Bossi-Fini va cambiata", ha spiegato Fini dando al ministro all'Integrazione Cecile Kyenge la propria benedizione per mettere mano alla legge per facilitare agli immigrati l'ingresso in Italia.


Per tornare alla ribalta, Fini ha preso carta e penna e si è messo a scrivere Il ventennio. ma serve anche una premessa. Vent'anni, dal 1993 al 2013. Al centro quel 22 aprile del 2010, quando con un "Che fai, mi cacci?" urlato in faccia al Cavaliere durante un'affollata riunione del Pdl ha sancito la diaspora dal Pdl. Un libro per raccontare - a modo suo - gli errori, le verità, le omissioni e le colpe nella sua militanza nel centrodestra italiano. Adesso che gli elettori l'hanno sonoramente sbattuto fuori dal parlamento, si sente aria di bilanci. In ballo tra passato e del futuro, Fini rilegge la destra italiana e, tra un'intervista e l'altra, arriva addirittura a voltare le spalle al proprio lavoro. Tanto da disconoscere pure la Bossi-Fini, quella legge (giusta) che oggigiorno regola le politiche migratorie del nostro Paese e che la sinistra ha preso di mira all'indomani della tragedia di Lampedusa. Non solo. Intervistato da Radio Capital, Fini ha preso di petto il reato di immigrazione clandestina e ha criticato duramente l'allora ministro dell'Interno Roberto Maroni. "Quella norma va rivista perché si basa sul principio che entri legalmente in Italia solo se hai un contratto di lavoro o un reddito e se perdi il posto hai sei mesi per trovarne un altro, sennò sei espulso - ha spiegato l'ex leader del Fli - è chiaro che con la crisi economica sei mesi è un arco di tempo troppo breve".


Quello di Fini è un assist, senza precedenti, per la sinistra italiana che vorrebbe trasformare il Belpaese nella porta d'Europa, ingresso libero per tutti gli immigrati. Non a caso l'ex presidente della Camera vorrebbe che ci si adoperasse per allargare le maglie degli ingressi. "Si deve capire - ha spiegato - che sono donne e uomini che hanno diritto a chiedere l’asilo per ragioni umanitarie". Un potere che vorrebbe dare all’Unione europea. "Dovrebb ecidere che chi viene dal Corno d’Africa o dalla Siria, per fare solo due esempi, ha diritto all’asilo nei 27 paesi dell’Unione - ha continuato - ma l’Europa su questo è latitante". Non solo. Fini è anche favorevole all’istituzione di corridoi umanitari nel Mediterraneo con la garanzia del diritto di asilo. Insomma, è sulla stessa lunghezza d'onda della Kyenge.


Ennesima piroetta di Gianfry: attacca la "sua" legge sull'immigrazione e se la prende con Maroni per il reato di clandestinità





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Andrea Indini

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Published on November 11, 2013 08:40

November 7, 2013

Se i "governativi" sono già divisi tra loro

Ore concitate per le due anime del Pdl, dopo l’accelerazione impressa da Silvio Berlusconi sulla convocazione del Consiglio nazionale. Da entrambe le parti è febbrile la raccolta di firme sui rispettivi documento. I "governativi" si sono visti oggi pomeriggio a Palazzo Madama per fare il punto sulla raccolta firme al documento. Al momento, viene spiegato da fonti vicine al vicepremier Angelino Alfano, sarebbero oltre 310 le sottoscrizioni raccolte al documento che ha come tema centrale il sostegno al governo anche dopo il voto sulla decadenza del Cavaliere da senatore. Ma, più si avvicina il Congresso nazionale, più le truppe "governative" si dividono: sorgono i primi distinguo, riemergono vecchi dissapori e, soprattutto, si contendono interessi personali che rischiano di dividere ulteriormente il partito. Se da una parte Fabrizio Cicchitto propone di disertare la riunione del 16 novembre, dall'altra Roberto Formigoni propone di presentarsi ma di votare con scrutinio segreto.


Un documento di otto punti da sottoporre al Consiglio nazionale e che punta a fare da "contraltare" al testo sostenuto dai lealisti e approvato dall’ufficio di presidenza del Pdl del 25 ottobre. Il documento dei governativi è diviso in sette sezioni e spazia su diversi argomenti dalla leadership di Berlusconi, il passaggio a Forza Italia, il nodo giustizia ma anche il sostegno al governo. "Nella difficile posizione in cui siamo, caro presidente, per il bombardamento giudiziario contro di te, per le sue doti di lealtà verso di te, per le sue potenzialità politiche, una figura come Alfano se già non ci fosse dovresti inventarla", ha scritto Cicchitto in una lettera aperta a Berlusconi e pubblicata sul Corriere della Sera. Ma è proprio la posizione "oltranzista" di Cicchitto a dividere anche gli alfaniani. "È una partita tutta da vedere. La riunione è prevista per il 16, c’è tutto il tempo per riflettere e per decidere", tuona il deputato del Pdl lasciando aperta l'ipotesi di disertare l'incontro. Una posizione che Anna Maria Bernini non fatica a bollare come "irricevibile" perché sarebbe una vera e propria "diserzione". "Quella di Cicchitto - ha commentato il vice presidente dei senatori Pdl Paolo Romani - è la battuta di una colomba con gli artigli ma è infelice". A zittire Cicchitto ci pensa, quindi, il ministro alle Infrastrutture Maurizio Lupi che, prima di partecipare alla conferenza di programma dell’Ugl, si sbraccia per assicurare che l'ipotesi non deve nemmeno essere presa in considerazione: "Mi dispiace ma non faccio la gara a chi vuole essere il più falco dei falchi...". Chiusa una polemica, però, se ne apre subito un'altra. Tocca, quindi, a Formigoni gettare lo sconcerto nel partito chiedendo che il voto al Consiglio nazionale sia segreto. Un'eventualità che non è nemmeno contemplata dallo statuto. "C'è il voto segreto quando si tratta di persone - ricorda il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta - quando ci sono scelte politiche le decisioni vanno prese a viso aperto". Aldilà dell'opportunità politica di uno scrutinio la proposta di Formigoni ha l'unico effetto di fare indignare buona parte del partito. "Si vergogni - commenta Renata Polverini - si sarebbe dovuto attivare qualche giorno fa per il voto segreto che coinvolgeva Berlusconi".


Le schermaglie di oggi mostrano chiaramente che le truppe alfaniane non siano affatto unite. Come spiega l'Huffington Post, almeno tre anime convergono sull'ex segretario del Pdl. Nella prima ci sono proprio Cicchitto e Formigoni che, più di tutti, sembrano spingere per una rottura definitiva al Consiglio nazionale. Al loro fianco anche Carlo Giovanardi, Maurizio Sacconi e i due ministri Gaetano Quagliariello e Beatrice Lorenzin. La seconda categoria, guidata dallo stesso Alfano, punta invece a dare battaglia all'interno del partito. Qui troviamo il capogruppo al Senato Renato Schifani, il governatore della Calabria Giuseppe Scopelliti (lo scorso 2 di ottobre i "suoi" sei senatori fecero da ago della bilancia contro la sfiducia), i ciellini Maurizio Lupi, Raffaello Vignali e Gabriele Toccafondi, un folto gruppo di ex An e alcuni i "forzisti" della seconda ora. Infine c'è chi, a differenza dei "governativa" duri e puri, non ha ancora troncato i rapporti con il Cavalieri. Tra questi anche il sottosegretario al Welfare Jole Santelli e il ministro alle Politiche agricole Nunzia De Girolamo.


Cicchitto la spara grossa: "Diserteremo il Consiglio nazionale". Lupi lo zittisce. Formigoni ci prova: "Andiamo, ma il voto sia segreto". I governativi già divisi?





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Andrea Indini

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Published on November 07, 2013 09:25

November 5, 2013

La Cancellieri smonta le accuse: "Nessuna pressione per Ligresti"

"La scarcerazione di Giulia Ligresti non è avvenuta a seguito o per effetto di una mia ingerenza, ma per indipendente decisione della magistratura torinese". Annamaria Cancellieri affronta il parlamento di petto fornendo una attenta ricostruzione dei fatti e tenendo ben distinti il piano dei rapporti personali di vecchia data con la famiglia Ligresti da quello della segnalazione al Dap sulla situazione di Giulia Ligresti quand’era detenuta. Segnalazione che è stata eseguita "nell’abito delle competenze istituzionali di ministro" della Giustizia. "Non ho mai sollecitato nei confronti di organi competenti la scarcerazione di Giulia Ligresti e non ho mai indotto altri ad agire in tal senso", spiega facendo leva su quanto il procuratore capo di Torino, Giancarlo Caselli, ha puntualizzato nella lettera del 31 ottobre. Non lascia fuori nemmeno la vicenda del figlio Piergiorgio Peluso, ex manager Fonsai, oggi in Telecom. Per quindici minuti, insomma, il ministro della Giustizia smonta punto per punto il teorema costruito ad hoc dal partito di Repubblica per spingerla alle dimissioni.


La Cancellieri fa piazza pulita delle polemiche strumentali sollevate da Repubblica che, settimana scorsa, pubblicò le intercettazioni contenute nei plichi dell'inchiesta di Torino. La cronologia di quelle telefonate dice che una prima chiamata partì il 17 luglio, il giorno in cui scattarono gli arresti per la famiglia Ligresti. È il ministro a chiamare Gabriella Fragni, compagna di Salvatore Ligresti: la conosce da decenni. Cancellieri si lascia andare: "Qualsiasi cosa io possa fare conta su di me, son veramente dispiaciuta". E ancora: "Non è giusto". Parole di "solidarietà", dirà il Guardasigilli a Vittorio Nessi, uno dei pm di Torino del caso Fonsai, che l’ha sentita il 22 agosto scorso per acquisire informazioni. Una posizione che resta il cuore del discorso pronunciato oggi in Aula. Perchè, sebbene sia proprio questa la conversazione più imbarazzate, una cosa è l’amicizia, un’altra venir meno ai doveri istituzionali. "Nella telefonata con Gabriella Fragni - spiega il Guardasigilli - esprimevo un sentimento di vicinanza e mi rendo conto che qualche espressione possa aver ingenerato dubbi, mi dispiace e mi rammarico di avere fatto prevalere i miei sentimenti sul distacco che il ruolo del ministro mi dovevano imporre, ma mai ho derogato dal mio dovere". Una posizione che viene confermata anche dal procuratore capo di Torino. Tutte le risultanze contenute nel fascicolo giudiziario di Giulia Ligresti testimoniano, infatti, che la scarcerazione della donna è avvenuta senza ingerenze da parte della Cancellieri.


"Nei miei comportamenti non ho mai assunto alcuna iniziativa - spiega - se non raggiunta da informazioni sulle aggravate condizioni di salute di Giulia Ligresti e ho sempre agito senza mai derogare dai miei doveri di ministro". Come ha spiegato lo stesso Caselli, a determinare la scarcerazione sono state le condizioni di salute di Giulia Ligresti e la sua richiesta di patteggiamento. È dello scorso 17 agosto un articolo del Corriere della Sera in cui si denuncia che Giulia Ligresti soffre di anoressia. È fortemente dimagrita, le sue condizioni di salute destano forte preoccupazione. È proprio in questi giorni (il 18 o 19 agosto) che la Cancellieri chiama i vice-capi dipartimento del Dap, Francesco Cascini e Luigi Pagano, per una verifica sulla situazione. L’input del Guardasigilli parte, quindi, tra 18 e 19 agosto. Ma una settimana prima (il 12 agosto) il medico del carcere di Vercelli aveva già segnalato la gravità del caso di Giulia Ligresti. Segnalazione che, due giorni dopo, veniva ripetuta dalla procura. La versione della Cancellieri è condivisa anche da Caselli secondo il quale la decisione di concedere i domiciliari alla Ligresti - che scatteranno il 28 agosto, dopo perizia medica - è indipendente dalle telefonate del ministro al Dap, successive al 2 agosto quando fu accettata la richiesta di patteggiamento. "È vero non tutti i detenuti hanno possibilità di avere diretto contatto con il ministro della giustizia e nessuno più di me avverte questa disparità di condizioni", spiega durante la sua audizione al Senato ammettendo quanto sia "difficile essere vicina a tutti".


La Cancellieri ci tiene, poi, ad azzerare le voci secondo cui si sarebbe occupata della vicenda di Lionella Ligresti. E non si esime nemmeno dall'affrontare le accuse mosse al figlio ricordando che nel 2011, quando Piergiorgio Peluso è entrato in Fonsai, non era più commissario straordinario di Bologna: "Ero una tranquilla signora che mai avrebbe pensato di diventare ministro...". Adesso che lo è e che non intende dimettersi, ripassa la palla al parlamento la cui fiducia considera "decisiva" per proseguire il mandato. "Se capisco che è venuta meno o si è incrinata la stima istituzionale su cui deve fondarsi il mandato ministeriale - spiega il Guardasigilli - allora non voglio essere d’intralcio e pertanto non esiterò a fare un passo indietro". Per il momento, insomma, rimarrà ministro. Rimangono a bocca asciutta i giustizialisti che da giorni chiedono a gran voce le sue dimissioni.


Il Guardasigilli riferisce in Aula: "Giulia Ligresti non fu scarcerata per mio intervento". E sottolinea: "Caselli ha escluso la mia ingerenza"





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Andrea Indini


Il ministro dell'Interno Annamaria Cancellieri riferisce in Aula
Quando la concussione è a targhe alterne / Sgarbi
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Published on November 05, 2013 08:16

Guai in vista per De Benedetti: raffica di indagati a centrale di Vado

A Vado Ligure, comune alle porte di Savona, qualcosa si muove. Sembra, infatti, esserci stata una svolta nell’inchiesta sulla centrale che, stando alle ipotesi degli inquirenti, inquina e uccide, Oggi la procura di Savona ha iscritto una decina di nomi nel registro degli indagati per l’ipotesi di reato di disastro ambientale. Gli inquirenti mantengono il più assoluto riserbo sull’identità e sui ruoli degli indagati. Tanto riserbo è dovuto, probabilmente, perché nel mirino della magistratura savonese è finito il management della Tirreno Power, società proprietaria dell'impianto di cui Carlo De Benedetti controlla il 50%.


Nel 2002, grazie alla liberalizzazione del mercato dell'energia contenuta nella prima "lenzuolata" del ministro dell'Industria Pier Luigi Bersani, l'Ingegnere compra dal Tesoro diversi impianti dall'Enel. Tra questi c'è anche la centrale di Vado Ligure, contestata già a suo tempo perché alimentata a carbone. Mentre le centrali termoelettriche a carbone di Genova e La Spezia faticano a ottenere permessi per ampliamenti e ristrutturazioni, quella di Vado ottiene i via libera richiesti. Peccato che dei quattro gruppi produttivi, i due alimentati a carbone non sono ancora stati riconvertiti. Secondo i periti della procura di Savona, dal 2000 al 2008 avrebbe causato migliaia di morti, come ipotizzano i consulenti assoldati dalla Procura. In procura è stato aperto anche un altro filone della stessa inchiesta per omicidio colposo e lesioni colpose contro ignoti. In questo senso si attendono le risultanze di analisi epidemiologiche che valutino la causalità tra decessi ed emissioni della centrale. È un nuovo caso Ilva, anche se l'indagine procede con molta cautela e senza la grancassa mediatica: finora le reazioni del mondo politico sono, infatti, sorprendentemente caute. "È un passaggio chiave ma i vadesi si attendono risposte chiare ed efficaci", ha commentato il sindaco di Vado Ligure Attilio Caviglia.


Come dimostrato dal Giornale, che qualche mese fa aveva pubblicato gli esami epidemiologici compiuti dai consulenti della procura di Savona, a Vado Ligure si registrano mille morti in più per cancro rispetto ai parametri scientifici presi a riferimento. Secondo l'Istituto tumori di Genova, nel decennio che va dal 1988 al 1998 a Vado sono morte di cancro 112 persone su 100mila contro una media nazionale di 54. Oggi la Tirreno Power, che da quarant'anni brucia fino a 4mil tonnellate di carbone al giorno, sta sempre attenta a non coinvolgere, nemmeno di striscio, De Benedetti. Ogni volta che l'impianto di Vado finisce sui giornali per le indagini della magistratura savonese, il gruppo si affretta a precisare che l'Ingegnere è solo un azionista di minoranza attraverso la società Sorgenia (gruppo Cir). Peccato che nel 2002, ai tempi dell'acquisizione dall'Enel, Repubblica titolava trionfalmente Interpower al gruppo Cir e attribuiva il successo alla "cordata messa a punto dalla Cir e ai rapporti personali tra Carlo De Benedetti e Gerard Mestrallet, numero uno della Suez".


Si muove qualcosa nell’inchiesta sulla centrale che, stando alle ipotesi degli inquirenti, inquina e uccide. Le toghe ci vanno caute. Forse perché c'entra De Benedetti?


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Andrea Indini



Se inquina De Benedetti nessuno tocca l'aziendaQuei morti di tumore che valgono meno di quelli dell'IlvaLa Liguria copre l'azienda tossica di De Benedetti
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Published on November 05, 2013 06:31

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Andrea Indini
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