Andrea Indini's Blog, page 165

November 4, 2013

Tante chiacchiere e zero risultati: Napolitano, Bonino & C. ricordano che i marò vanno riportati a casa

"Oggi, 4 novembre, possa giungere a voi tutti, in Italia e all'estero, il mio più caloroso quanto sentito augurio". Dall'ambasciata italiana di Nuova Delhi il militare tarantino Massimiliano Latorre ha reso omaggio all’unità nazionale e ha ricordato il sacrificio quotidiano delle forze armate. Da oltre seicento giorni il fuciliere del battaglione San Marco è ingiustamente trattenuto in India insieme al commilitone barese Salvatore Girone con l’accusa di aver ucciso due pescatori del posto, scambiandoli per pirati, nel corso di una missione al largo delle coste del Kerala, lo scorso 15 febbraio. Dimenticati dallo Stato e dal governo Letta, il dramma dei nostri marò sembra tornare alla mente dei nostri politici giusto oggi in occasione della celebrazioni del 4 novembre. Tanto che nella passerella quotidiana è un profluvio di buone intenzioni, di strenuo impegno a riportarli a casa e di vicinanze a quei militari che sono sempre stati pronti a offrire la propria vita in difesa della Paese.


Tante chiacchiere, nessun risultato. Dopo che si sono avvicendati già due governi, i nostri soldati sono ancora ingiustamente trattenuti in India. L'ex premier Mario Monti non è riuscito nel suo proposito di riportarli a casa. Tutt'al più ha rischiato una figuraccia diplomatica a livello internazionale quando l'allora ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant'Agata aveva tentato il blitz trattenendo Latorre e Girone, rientrati in Italia per votare alle politiche di febbraio. Dopo un lungo braccio di ferro tra Palazzo Chigi e la Farnesina, i due militari avevano deciso di ripartire per l'India danto ai tecnici una sonora lezione su onore e rettitudine. A Monti è succeduto Enrico Letta, ma la musica non è cambiata. Ancora una valanga di parole, ancora nessun fatto. Le stesse parole che, in occasione delle celebrazioni del 4 novembre, vengono pronunciate col copia-incolla. "Non cessiamo di operare tenacemente per riportarli a casa", ha assicurato il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ricordando che l'odissea dei marò "ancora continua lontano dall’Italia". Non è da meno il ministro della Difesa Mario Mauro che, in occasione della consegna delle decorazioni dell’Ordine militare d’Italia, ha voluto dire la sua dopo che per mesi non ha mai mosso un dito. "I sacrifici sostenuti e i risultati conseguiti dai nostri militari in missione sono il frutto anche dei sacrifici dei loro familiari - ha spiegato l'esponente di Scelta civica - questo significa anche che un figlio deve rinunciare all’affetto e alla guida del genitore perché paradossalmente è un Servitore dello Stato, magari sottoposto a particolari condizioni di prova come Latorre e Girone".


Nei mesi scorsi la Farnesina aveva messo in dubbio l'innocenza dei marò spiegando l'importanza che Latorre e Girone venissero processati in India. Una presa di posizione durissima che aveva indignato tutto il Paese obbligando il dicastero a fare un passo indietro. Oggi il ministro degli Esteri Emma Bonino si è accodata al capo dello Stato nel promettere l'impossibile. "Alcune cose si stanno muovendo, in questo senso stiamo lavorando", ha spiegato la titolare della Farnesina dicendosi fiduciosa di "riuscire a portare a buona conclusione un dossier ereditato con grandi complessità e con alcune grandi contraddizioni e alcune farraginosità". "Da radicali - ha concluso - abbiamo una qualche capacità di tenuta e di durata, e la stiamo mettendo con tutto il governo proprio su questo dossier e sono fiduciosa che ne verremo a capo". Da oltre seicento giorni i marò, anch'essi fiduciosi, stanno aspettando che il proprio Paese riporti il diritto laddove non c'è.


Alle celebrazioni del 4 novembre, i politici si mettono in fila per ricordare il dramma di Latorre e Girone. Il Colle: "Al lavoro per riportarli a casa". Domani se ne saranno già dimenticati





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Andrea Indini



Marò, Bonino: "Alcune cose si stanno muovendo"
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Published on November 04, 2013 09:26

November 3, 2013

Manovra, Tesoro: "Maggior gettito dalle banche". Ma la Cgia: "Poi si rifaranno sulle famiglie"

Non c'è niente da fare, alla fine a pagare saranno sempre i cittadini. Mentre il centrodestra cerca di stanare le nuove tasse nascoste nella legge di stabilità in modo da contenere il più possibile i danni, il Tesoro si lancia nella difesa del testo licenziato dal Consiglio dei ministri. All'indomani dell'allarmante studio della Cgia di Mestre, che paventava per il 2014 oltre un miliardo di tasse in più, i tecnici di via XX Settembre hanno subito provato a rassicurare i contribuenti garantendo che all’incremento di gettito prodotto dalla legge di Stabilità "contribuiscono prevalentemente misure che riguardano gli intermediari finanziari" per 2,6 miliardi. Insomma, stando a quanto ai numeri del Tesoro, le famiglie sono "al riparo da significativi incrementi di imposta", mentre "sono oggetto di sgravi fiscali". Peccato che aumentare le tasse alle banche si tradurrà, inevitabilmente, in un peso maggiore sulle famiglie italiane.


"Anche se si aumentano le tasse solo alle banche, sempre  tasse sono e gli effetti negativi sui correntisti rischiano di essere molto pesanti". Il presidente della Cgia di Mestre Giuseppe Bortolussi non ha alcun dubbio. Dal momento che le tasse si possono traslare, nel caso della legge di Stabilità la recrudescenza della pressione ficale percuoterà sì le banche, ma inciderà anche sui portafogli dei cittadini. "Il governo, insieme alla Commissione Bilancio del Senato, è impegnato a migliorare il ddl Stabilità. I loquaci esponenti del Pdl dovrebbero evitare polemiche strumentali", aveva polemizzato ieri sera il viceministro all’Economia Stefano Fassina assicurando che la manovra non avrebbe colpito i contribuenti, ma gli istituti bancari. Una rassicurazione che il Tesoro ha voluto rimarcare per smontare i numeri drammatici prubblicati dagli artigiani di Mestre che hanno calcolato 1,1 miliardi di tasse in più da pagare nel corso del 2014. Per la prima volta negli ultimi anni, spiegano dal dicastero guidato da Fabrizio Saccomanni, "la manovra riduce la pressione fiscale di un decimo di punto percentuale (da 44,3 a 44,2% del pil) segnando una inversione di tendenza". "Le famiglie - spiega il Tesoro - sono tenute al riparo da significativi, mentre sono oggetto di sgravi fiscali e di un intervento in favore dei comuni pari a un miliardo teso a ridurre l’impatto delle imposte sugli immobili". Insomma, stando ai dati del ministero di via XX Settembre, le famiglie dovrebbero beneficiare di una riduzione della pressione fiscale di circa un miliardo di euro. A contribuire "maggiormente" all’incremento del gettito fiscale prodotto dalla manovra sono appunto le banche. L'inghippo sta tutto qui. È vero che il governo non va a mettere le mani nelle tasche dei contribuenti, ma picchiando duro sugli intermediari finanziari, questi si rifaranno inevitabilmente sui cittadini


Lo scorso gennaio l’authority dell’energia elettrica e del gas aveva redatto una relazione per il parlamento in seguito all’introduzione dell'addizionale Ires che nel 2008 interessò le aziende energetiche e petrolifere. Monitorando il comportamento delle 476 imprese interessate da questa nuova imposta, l’Autorità ha avuto modo di rilevare che ben 199 aziende avevano trasferito il maggiore onere tributario sui propri clienti, nonostante questa operazione fosse vietata dalla legge. Da qui la preoccupazione (legittima) legata alla manovra che il parlamento sta per votare. Secondo Bortolussi, infatti, il nuovo peso fiscale che graverà l’anno prossimo sulle banche è una tassa una tantum che almeno in parte verrà traslata sui clienti, incentiverà la riduzione del credito erogato alle imprese e metterà in difficoltà i piccoli istituti di credito che in questo momento si trovano in grave difficoltà.


Il Tesoro: "Per le famiglie un miliardo di tasse in meno". E assicura: "Dalle banche il maggior gettito". La Cgia smaschera il trucco: "Le tasse  andranno comunque a pesare sui cittadini"





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Andrea Indini


Il ministro dell'Economia Fabrizio Saccomanni
Adesso arriva la mazzata: un miliardo di tasse in piùL'inganno delle statistiche: pagano sempre gli stessiLa crisi fa più paura oggi del 2011 con lo spread recordServe un fronte comune contro le imposte
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Published on November 03, 2013 10:17

October 31, 2013

Dopo il golpe contro Berlusconi il Pd vuol dare lezioni di politica

Era inevitabile che la dichiarazione di guerra lanciata dal Pd in Giunta per il regolamento scatenasse un braccio di ferro con il Pdl. Nelle ultime ore l'escalation dei toni e delle minacce sta portando la maggioranza a un passo da una crisi che potrebbe rivelarsi irreversibile. Se subito dopo lo strappo sul voto palese, che ha visto i dem votare compatti con grillini e Sel, molti del centrodestra avevano già iniziato a chiedersi cos'altro dovrebbero sopportare ancora prima di far saltare le larghe intese, la violenta presa di posizione del segretario piddì Guglielmo Epifani ha fatto ulteriormente precipitare una situazione già di per sé precaria.


Il Pd, come anche il premier Enrico Letta, vorrebbe che l'assalto giudiziario a Silvio Berlusconi e le larghe intese non vengano messe insieme, ma siano valutate separatamente. In questo modo i democrat provano a lavarsi la coscienza per il blitz compiuto ieri in Giunta per il regolamento. Un blitz che prepara l'esecuzione del Cavaliere per cacciarlo dal parlamento. Così, all'indomani di quello che non si fatica a definire un golpe contro la democrazia, Epifani si presenta ad Agorà e si mette a "sfottere" il centrodestra invitandolo ad assumersi la proprie responsabilità. "Non bisogna tenere il governo in ostaggio di questo problema - ha spiegato il segretario del Pd - così non si fa nessun bene al Paese e ai cittadini". Dopo lo schiaffo in faccia al leader del centrodestra, adesso l'ex Cgil pretende pure di dare lezioni di politica al Pdl. Una presa in giro che manda su tutte le furie i vertici del Pdl. Un atteggiamento che il presidente dei deputati del Pdl Renato Brunetta non fatica a definire "violento, infame e irresponsabile". "Basta trasferire la feroce lotta congressuale del Pd all’interno della coalizione di governo - ha tuonato Brunetta - questa situazione non è più accettabile".


"Vedremo quando questo accadrà effettivamente ma Berlusconi, anche per motivi di età, non ha  dinanzi a sé un nuovo ciclo politico". L'attacco del leader piddì, con cui il Pdl è tutt'ora alleato, è violentissimo e mina quella stabilità politica a cui il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano tanto s'appiglia per evitare le urne anticipate. I democratici, però, sembrano non disdegnare le urne. A patto, però, che sia Berlusconi a far saltare il tavolo. Epifani e compagni non vogliono prendersi la responsabilità di recidere il cordone delle larghe intese a lunghe tessuto dal capo dello Stato. Così, di dichiarazione in dichiarazione, di minaccia in minaccia, stanno facendo di tutto per portare i toni dello scontro a livelli intollerabili. Non è certo da meno il falco Lugi Zanda, che presiede la pletora democratica a Palazzo Madama. In una intervista a Repubblica, il presidente dei senatori piddì scomoda addirittura Aldo Moro per giustificare il voto palese. "Chi lo teme - ha spiegato - tende a sottrarre i parlamentari alla necessaria assunzione di responsabilità di fronte agli elettori". E ancora: "Nel caso diBerlusconi non si tratta di un voto sulla persone, ma dell’accertamento della legittimità della sua permanenza nella carica di senatore". Il tutto in un silenzio assordante del Quirinale.


All'indomani del blitz in Giunta, il Pd alza pure la voce e invita il Cav ad accettare il golpe. Epifani: "Il ciclo politico di Berlusconi è finito". Brunetta: "Spudorato e irresponsabile"





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Andrea Indini



Berlusconi: la crisi è nei fattiGolpe contro il Cavaliere: il Pd prepara l'esecuzioneIn segreto il Pd trema: pagheremo caro questo erroreLealisti in pressing: che altro deve accadere?D'Alia: "Il governo mangerà comunque il panettone"Ecco perché la Giunta ha deciso per il voto palese
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Published on October 31, 2013 08:30

October 30, 2013

Kyenge: "L'immigrato paga le tasse, il vero nemico è l'evasore"

Persino Attilio Befera, numero uno dell'Agenzia delle Entrate, ha ammesso che la crisi economica e l'eccessiva pressione fiscale hanno generato una sorta di evasione di sopravvivenza. Tesi sposata anche dal piddì Stefano Fassina, ora viceministro dell'Economia nel governo Letta. Addirittura certi giudici hanno graziato un imprenditore che non aveva potuto pagare l'Iva perché rischiava il fallimento. Tre episodi emblematici che dimostrano che qualcosa sta cambiando nel pensiero progressista di bieca persecuzione nei confronti di crea ricchezza. Purtroppo ci sono ancora schiere di politici, pensatori ed economisti pronti a fare della caccia all'evasore una vera e propria bandiera. Tra questi anche il ministro all'Integrazione Cecile Kyenge che, intervenendo a un convegno su cittadinanza e integrazione a Roma, ha detto che il nemico non è l'immigrato, ma appunto l'evasore.


Gli slogan della Kyenge sono sempre gli stessi. E il fine ultimo è sempre quello di andare a mettere mano alle politiche migratorie che vigono in Italia per allargare le maglie alle frontiere, cancellare il reato di clandestinità e soprattutto regalare la cittadinanza ai figli di immigrati regolari. Così, sulla scia della tragedia avvenuta al largo di Lampedusa, il ministro è tornato alla carica: "Il nostro nemico non è l’immigrato ma chi non rispetta i diritti delle persone, chi non rispetta le regole e questo non ha né colore né etnia". Quindi l'affondo: "Bisogna spiegare alla gente che ad esempio chi ruba il posto all’asilo non è l’immigrato, che paga le tasse, ma l’evasore". Alla Kyenge, in realtà, non interessa ragionare sul perché in Italia l'evasione, che resta comunque un reato, sia così alta. Non una parola sulla pressione fiscale arrivata a livelli da capogiro. Non una parola sulla recessione e sulla concorrenza dei Paesi emergenti che stanno mettendo in ginocchio i nostri imprenditori. La caccia all'evasore viene usata come un topos per "riabilitare" lo status degli stranieri che vivono in Italia.


Secondo il ministro all'Integrazione, per molto tempo i governi italiani avrebbero "navigato a vista" sulle politiche migratorie. In realtà risale al 2002 la Bossi-Fini, una legge che ha messo i paletti per regolamentare un fenomeno che rischia mettere in crisi tutto il Paese. Legge che viene quotidianamente inficiata dalla magistratura nostrana e che la Kyenge, come tutta la sinistra italiana, vorrebbero smantellare da cima a fondo. Per la titolare dell'Integrazione, infatti, l'immigrazione dovrebbe essere considerata una "opportunità". "Ora occorre cambiare approccio", ha continuato spiegando che il programma del governo Letta è centrato "sui diritti che non escludono i doveri". Su questo, ha precisato, "sono stati dati talvolta dei messaggi sbagliati che possono produrre effetti negativi. Le politiche di repressione hanno avuto un costo elevatissimo, fare una politica di integrazione invece costa poco e arricchisce il Paese". La Kyenge è, quindi, tornata sul tema della cittadinanza invitando il parlamento a cambiare le norme che ne regolano la concessione: "Integrazione non vuol dire assimilazione, che vuol dire perdere l’identità, ma significa interagire sul territorio: chi arriva porta il suo 'bagaglio' culturale per interagire con la nuova realtà". Quindi lo slogan finale: "Dentro ognuno di noi c’è uno straniero, una donna, un bambino, un anziano, un disabile".


Il ministro torna a ragionare per slogan: "Dentro ognuno di noi c’è uno straniero". E ancora: "L'immigrazione è un'opportunità"





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Andrea Indini


Il ministro dell'Integrazione Cecile Kyenge
Rep cerca stagisti (solo figli d'immigrati)
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Published on October 30, 2013 04:56

October 25, 2013

Tensioni sull'ufficio di presidenza, poi il via libera: si riparte da Forza Italia

Si riparte da Forza Italia. Dopo una giornata di fibrillazioni tra governativi e lealisti, Silvio Berlusconi fa tabula rasa del Pdl e lancia il partito nel futuro. Sospese le vecchie cariche e messo nelle mani del Cavaliere il timone del movimento, l'ufficio di presidenza compie un ulteriore passo per traghettare il centrodestra italiano in un nuovo soggetto politico.


L'esperienza del Pdl è conclusa. Tutto torna nelle mani di Berlusconi che nelle prossime settimane lavorerà insieme ai vertici del partito per ritornare a Forza Italia. Un passaggio definitivo. Da qui non si torna indietro. Con la delibera dell'ufficio di presidenza, si torna al vecchio statuto che assegna al presidente il diritto di delegare le funzioni. "Chi ora esercita delle funzioni vi ha di fatto rinunciato ma io con saggezza indicherò le funzioni che devono svolgere", ha spiegato Berlusconi confermando, tuttavia, la stima in Angelino Alfano a cui tornerà ad affidare il ruolo di segretario. Il Cavaliere ha, però, fatto anche capire che alcune responsabilità sarano affidate a "persone nuove".


La giornata è stata segnata da un confronto serratissimo tra le due anime del partito. Non appena è stato convocato l'ufficio di presidenza, al quale per la prima volta non sono stati invitati i membri della delegazione di governo ma solo gli aventi diritto, i filo governativi hanno subito contestato la composizione dell'organo chiedendo che venga fissata la data del Consiglio nazionale dove, a sentire le colombe, i numeri non sarebbero più a favore dell’ala dura del Pdl. "Non andrò all'ufficio di presidenza perché non lo ritengo rappresentativo della storia del partito", ha fatto sapere il senatore Roberto Formigoni. Sulla stessa linea anche le colombe Carlo Giovanardi, Maurizio Sacconi e Renato Schifani che hanno invitato Berlusconi a rinviare l'appuntamento. Invito che, prima dell'inizio dell'ufficio di presidenza, Alfano e i ministri hanno rivolto al Cavaliere in persona, in un faccia a faccia di oltre due ore a Palazzo Grazioli. Pur comprendendo i ragionamenti della squadra di governo, il Cavaliere ha messo in chiaro l’intenzione di voler andare avanti con il ritorno a Forza Italia ma, al tempo stesso, ha congelato la rotura in attesa del secondo passaggio formale previsto dallo statuto ovvero la convocazione del Consiglio nazionale del partito. L’ala governativa ha, tuttavia, deciso di marcare le distanze disertando l’ufficio di presidenza. A spiccare soprattutto l’assenza di Alfano. "Il mio contributo all’unità - si è limitato a spiegare - è di non partecipare".


Alla tregua armata si è arrivati dopo ore convulse, segnate da prese di posizione, mosse e contromosse delle due anime del partito. L'ala dei lealisti e dei falchi ha lavorato fino all'ultimo per impedire la frenata sul ritorno a Forza Italia e per procedere con l’azzeramento di tutte le cariche. Proprio per questo, nelle ore che hanno preceduto l'ufficio di presidenza, è stata lanciata una raccolta di firme a sostegno del passaggio immediato dal Pdl a Forza Italia. "Una decisione così importante come il passaggio a un nuovo partito - hanno commentato gli alfaniani - deve essere assunta in una sede più ampia". "Ma qual è il problema? Che si sancisca il passaggio dal Pdl a Forza Italia? Ma non eravamo tutti d’accordo?", ha replicato duramente il senatore del Pdl Francesco Nitto Palma chiedendo di "non drammatizzare" il confronto. Alfano e i ministri pidiellini, invece, hanno drammatizzato eccome. "Per ora non ci sarà alcuna scissione - viene spiegato da fonti vicine al vicepremier - non usciamo dal partito". La spaccatura è ormai in essere. La resa dei conti finale è solo rinviata al Consiglio nazionale dove ci sarà una vera e propria conta tra le due anime del partito. Occhi puntati, dunque, sull’8 dicembre (stesso giorno delle primarie del Pd). Intanto, però, è già partita la ricerca delle adesioni alle due diverse "fazioni", non solo tra i parlamentari e gli eletti negli enti locali, ma proprio tra gli esponenti sul territorio.


Riunito lo stato maggiore: i governativi chiedono di rinviare il confronto, il Cav tira dritto e Alfano diserta l'incontro. L'ufficio di presidenza sancisce il passaggio a Forza Italia: cariche sospese, il timone passa a Berlusconi. Confermato il sostegno al governo





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Andrea Indini


Silvio Berlusconi inaugura la nuova sede di Forza Italia a Roma
Il Cav accelera su Forza Italia ma è gelo con Alfano
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Published on October 25, 2013 11:17

October 24, 2013

Resa dei conti in Scelta civica, passa la linea dei "popolari"

Dalla parte di Scelta civica l'indecisione regna sovrana. Mario Monti continua a piroettare su se stesso. E, a furia di volteggiare, eccolo tornare sui propri passi. Niente più Gruppo misto per lui. Non avrebbe gradito i nuovi compagni di banco, capitanati dalla vendoliana di ferro Loredana De Petris. E il partito sembra rimandare una scissione che, fino a poche ore fa, sembrava inevitabile.


Per il momento, Scelta civica sembra sopravvivere a se stessa. A Palazzo Madama non ci sarà una scissione tra i popolari, con la componente Udc, e i filomontiani. Alla riunione del partito con il ministro della Difesa Mario Mauro è stato votato, infatti, un documento in tre parti. All’unanimità i diciotto presenti hanno ribadito il "pieno sostegno al governo", mentre il mantenimento del gruppo unitario e le dimissioni del capogruppo "montiano" Gianluca Susta sono state votate solo dagli undici "popolari": il ciellino Mauro, l’Udc Antonio De Poli e nove civici. Gli altri, più vicini alle posizioni di Monti, non hanno voluto partecipare al voto. È solo l'inizio della resa dei conti in una partita in cui Monti esce con le ossa rotte. Tanto che proprio oggi si è visto costretto a tornare sui propri passi per non finire inghiottito nel buio dell'anonimato.


Per giorni, colmo di rancore e straripante di fiele, il bocconiano che per tredici mesi ha terrorizzato gli italiani dallo scranno di Palazzo Chigi ha puntato il dito un po' contro tutti. Insulti, ricriminazioni e ripicche. È arrivato addirittura a prendersela con Daria Bignardi e il cagnetto Empy. Ha puntato i piedi, ha attaccato i suoi alleati che l'hanno sconfessato, ha occupato le testate dei quotidiani lanciando accuse al vetriolo con Silvio Berlusconi e il centrodestra da depurare. Adesso che non è più leader nemmeno del centrino e che è rimasto solo, a Monti non rimane altro che l'investitura da senatore a vita. Un regalo da 13mila euro fattogli dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per non si sa quali meriti. Che, quindi, l'ex premier rimanesse saldo in parlamento, non era certo da metterlo in dubbio. Stando a quanto aveva annunciato nei giorni scorsi, per lui si sarebbero dovute spalancare le porte del Gruppo misto. Qui, oltre alla combriccola nominata da Napolitano (fa eccezione solo l'ex capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi), siedono un membro non iscritto ad alcuna componente, i tre senatori del Gap, i tre senatori che hanno abbandonato il Movimento 5 Stelle e i sette senatori eletti tra le fila di Sinistra e Libertà. A causa del flop elettorale il partito di Nichi Vendola ha espresso troppo pochi senatori per poter creare un gruppo autonomo. Cosa abbia spinto Monti a tornare sui propri passi non è facile dirlo. Probabilmente ha pensato di spendere ancora le proprie forze nel partito che lui stesso ha voluto fondare per rimettere insieme i centristi. O, forse, non gradiva più di tanto i compagni di banco: sarebbe finito circondato da comunisti duri e puri.


Nella riunione, dove la notizia che Monti era tornato sulla decisione di dimettersi anche dal gruppo oltre che dalla presidenza non ha sortito particolari effetti, Mauro ha ribadito l’esigenza di mantenere l’unità interna, riproponendosi nelle vesti di "colomba" la cui principale preoccupazione restava quella di assicurare la rotta e la stabilità del governo. È la linea che alla fine è passata, anche se era già scritto nei numeri della vigilia. Ora la partita si gioca sulla successione di Susta, anche se non è scontato che la scelta possa cadere, meccanicamente, su un esponente del gruppo dei 12. Una vicenda che ha un risvolto anche sul fronte Camera, visto che fra coloro che hanno partecipato all’incontro c’è chi assicura che dal punto di vista dei soccombenti a Palazzo Madama ci sarebbe come arma di pressione (o ritorsione) una possibile sfiducia nei confronti del capogruppo alla Camera Lorenzo Dellai.


il Prof cambia idea sul Gruppo misto dove sarebbe stato circondato dai vendoliani. Ma in Scelta civica i "popolari" non perdonano: silurato il capogruppo "montiano" Susta





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Andrea Indini

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Published on October 24, 2013 12:13

October 23, 2013

Gubitosi crede di essere il padrone della Rai: "Perso Crozza per colpa dei politici, ora basta"

Il direttore generale della Rai Luigi Gubitosi vuole la politica fuori dalle scatole. Non ammette intromissioni. In viale Mazzini vuole fare il bello e il cattivo tempo, manco fosse il padrone della baracca. Vorrebbe, per intenderci, strappare un maxi assegno a sei zeri per mettere le mani su Maurizio Crozza facendo finta che quei soldini non sono suoi, ma dei contribuenti. Forse, dimentica che l'editore dell'emittente è il dicastero dell'Economia e che, proprio per questo, la politica deve avere l'ultima parola sui bilanci. D'altra parte, lo stesso Gubitosi è stato nominato direttore generale il 17 luglio dello scorso anno da un consiglio di amministrazione nominato dal parlamento.


Gubitosi pesta i piedi per terra. È furibondo con la politica che gli ha guastato il giochino di strappare Crozza a La7 per portarlo da mamma Rai. Un giochino che ai contribuenti sarebbe costato la bellezza di 25 milioni di euro sonanti. Parla di "concorrenza". Lui stesso ha provato a fare la guerra a Urbano Cairo gonfiando il cachet del comico a cifre stellari che appartengono allo Stato italiano. Eppure non vuole che sia lo Stato - e quindi la politica - ad avere l'ultima parola su investimenti così importanti. "Non siamo riusciti a chiudere la trattativa per le polemiche sui compensi che hanno creato forte tensione - ha tuonato il dg della Rai - si tratta di intromissioni nelle normali regole della concorrenza che rappresentano un’anomalia italiana. Lasciateci competere senza interferenze". Una presa di posizione che, oltre a non tener conto degli assetti di viale Mazzini, offende in primis la Vigilanza Rai e, di sponda, tutti gli italiani che pagano il canone. A loro il direttore generale sembra non voler proprio rendere conto. Tanto che si è posto di traverso alla richiesta di pubblicare i compensi di star e dirigenti, avanzata da Renato Brunetta in commissione di Vigilanza. "Solo la Rai avrebbe l’obbligo di trasparenza a livello di dettaglio disaggregato - ha spiegato - la pubblicazione dei compensi potrebbe ridurre la capacità della Rai di trattenere risorse". Gubitosi vorrebbe, infatti, mettere tutto a tacere, anche i rumors sulle trattative per portarsi Crozza in Rai. Non ci pensa neanche lontanamente di ammettere che i 25 milioni garantiti al comico e al suo programmano sarebbero stati un tantino eccessivi. Così, si schermisce accusando la politica di avere "paura della satira". "C'è stata una intromissione nelle normali regole della concorrenza che rappresenta un’anomalia italiana - ha concluso Gubitosi - Cairo, rinnovando il contratto con Crozza, ha preferito non rivelare il suo cachet". Il direttore generale di viale Mazzini sorvola su un particolare che non è affatto di poco conto. La7 è una emittente privata, mentre la Rai è pubblica, quindi dei cittadini, quindi non può spendere 25 milioni di euro come se niente fosse.


Brunetta ha chiesto al presidente della bicamerale Roberto Fico di "organizzare una specifica riunione della Vigilanza" per discutere del comportamento di Gubitosi. "Ci sono regole che pongono vincoli, per la natura della Rai e per il contesto giuridico e proprietario", ha sottolineato Maurizio Gasparri facendo notare al dg che la specificità della Rai si ripercuote anche sui compensi. Se da una parte può soffrire di uno svantaggio competitivo, dall'altra gode senza dubbio di un vantaggio senza pari: metà del bilancio è, infatti, pagato dal canone.


Gubitosi difende il maxi stipendio di Crozza e dice no alla pubblicazione dei compensi di star e dirigenti: "Solo la Rai avrebbe l’obbligo di trasparenza". Dimentica che l'azienda è pubblica





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Andrea Indini

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Published on October 23, 2013 07:59

October 22, 2013

Pioggia di critiche su Napolitano, il Quirinale: "Ridicole panzane"

"Solo il Fatto Quotidiano crede alle ridicole panzane come quella del 'patto tradito' da' Napolitano". L'ufficio stampa del Quirinale fa quadrato attorno al capo dello Stato attorno al quale si sta scavando un vuoto politico senza precedenti. Dal Pdl trapelano le accuse di aver "tradito" i patti sottoscritti con Silvio Berlusconi al momento della formazione delle larghe intese. Accuse, poi, rilanciate dal quotidiano di Antonio Padellaro, da mesi impegnato a delegittimare politicamente l'inquilino del Colle. In casa piddì l'aria che tira non è diversa. Bocciando l'opportunità di varare l'amnistia, Matteo Renzi ha voluto scalfire l'intoccabilità di Napolitano, unico custode in grado di tenere unito un Pd frazionato in una caterva di anime. E ancora: le critiche (velate) di Mario Monti e l'attacco (frontale) di Beppe Grillo. Per non parlare, poi, della Corte d’assise di Palermo che lo ha chiamato a deporre come teste nel processo sulla presunta trattativa Stato-mafia. Mai come oggi, insomma, il presidente della Repubblica è finito sotto il fuoco incrociato di politica e magistratura.


A mettere il capo dello Stato sotto i riflettori della stampa è stata Daniela Santanchè. Domenica scorsa, ospite della trasmissione l’Arena, la deputata del Pdl ha accusato Napolitano di essere venuto meno ai patti. "Sta facendo il suo secondo mandato perché lo ha proposto Berlusconi, ma la pacificazione di cui aveva parlato non c’è - ha spiegato - deve mantenere la parola data ed essere arbitro Costituzione, non un giocatore". Una presa di posizione netta che ha subito diviso e la cui eco si è fatta sentire nei giorni successivi. Ad andare a fondo del patto tradico è stato proprio quel Fatto Quotidiano che, da mesi, ha messo sul banco degli imputati l'inquilino del Colle. La terra sotto il capo dello Stato traballa. Non c'è soltanto la Santanchè ad avanzare critiche e dubbi sul suo operato. Proprio oggi il Corriere della Sera ha affidato a Michele Ainis un fondo per mettere sul banco degli imputati Re Giorgio, titolare di una "monarchia repubblicana" che da due anni a questa parte "ha posto sotto tutela la nostra democrazia". Nell'articolo Quelle critiche al Quirinale Ainis mette che il Re è nudo. Le contestazioni arrivano da più parti. E i primi mettersi l'elmetto non sono certo stati i cosiddetti "falchi" del Pdl.


Napolitano non è mai stato ben voluto dal Movimento 5 Stelle. Nel dibattito sull'amnisti e l'indulto, il botta e risposta tra il Quirinale e i pentastellati si era alzato a livelli tanto incadescenti che il comico genovese era addirittura arrivato a chiedere, dalle colonne del suo blog, l'impeachment. E il primo a mettere in dubbio l'inattaccabile figura che, dopo la sua rielezione alla presidenza della Repubblica, nessuno poteva sognarsi di mettere in discussione. E, se l'atto di accusa di Grillo ha messo in allarme i palazzi romani, l'assalto mosso da Matteo Renzi in avvio di campagna elettorale per le primarie ha fatto ancora più danni. "Criticare il capo di Stato non è lesa maestà...", aveva messo in chiaro l'ex rottamatore. Fino a quel momento, però, all'interno del Pd, nessuno lo aveva fatto. Sconfessare Napolitano è il grimaldello usato dal sindaco di Firenze per prendere le distanze da Letta e dalle larghe intese. Larghe intese che non fanno più tanto piacere nemmeno a Mario Monti che, a Napolitano, deve l'investitura a Palazzo Chigi prima e a senatore a vita poi. Nei giorni scorsi l'ex leader di Scelta Civica se l'è presa con l'accondiscendenza della maggioranza nei riguardi del governo e (di sponda) con il Quirinale che benedice l'esecutivo.


In questa baraonda politica, la magistratura non avrebbe mai potuto chiamarsi fuori dallo scontro. D'altra parte, l'ha detto pure il numero due del Csm Michele Vietti, si credono più incisivi della politica. Tant'è. Nei giorni scorsi la Corte d’assise di Palermo ha chiamato il capo dello Stato a deporre come teste. Ed è in questo clima teso che il Quirinale ha cercato di smorzare i toni con un comunicato stampa che smentisce la promessa della grazia motu proprio per la condanna Mediaset. Resta il fatto che, aldilà della presunta trattativa con Berlusconi, Napolitano rimano sotto il fuoco incrociato di politica e magistratura.


Grillo chiede l'impeachment, Renzi ne mette in discussione l'autorità, Monti lo critica e Santanché lo accusa di tradimento. E da Palermo i pm provano il blitz giudiziario





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I pm non mollano il Colle
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Published on October 22, 2013 06:42

Manovra, stangata sul mattone: scopri quanto pagherai di tasse

C'è qualcosa che proprio non torna nelle parole del premier Enrico Letta. Il continuo ripetere che la legge di Stabilità non aumenta le tasse, anzi le ritocca al tibasso sta assumendo i contorni della farsa. Perché, conti alla mano, appare sempre più ovvio che quella che sta per piombare addosso agli italiani è una vera e propria stangata, in certi casi ben peggiore da quella messa a segno dall'ex preisdente del Consiglio Mario Monti. Dopo i dati della Ragioneria genarale del ministero dell'Economia, che domenica scorsa aveva calcolato un maggiore aggravio per i contribuenti di almeno 433 milioni di euro, a certificare il salasso della Tasi oggi è stato il Sole 24Ore che andato a calcolare l'importo esatto per ogni singola tipologia di abitazione. Ebbene? Nel 2014 gli italiani dovranno sborsare un'imposta più leggera solo per le abitazioni principali di valore medio alto, a patto però che non abbiano figli conviventi perché l'esecutivo ha cancellato le detrazioni. E tutti gli altri? Avranno poco da sorridere.


Ma andiamo con ordine. Lo studio del quotidiano della Confindustria, che giusto ieri si augurava che la legge di Stabilità non venga toccata dal parlamento, ci mette subito in guardia. La stangata prevista è al ribasso. La Tasi è stata calcolata sull'aliquota "standars" all'uno per mille. Aliquota che potrà essere ritoccata dai Comuni alzandone il tetto fino a un massimo del 2,5 per mille per le abitazioni principali e dell'11,6 per mille per gli altri immobili. In questo modo il bottino passerebbe da 3,7 miliardi a 9 miliardi di euro che andranno poi ad aggiungersi ai 17,6 miliardi di euro dell'Imu sugli altri immobili (sempre a un'aliquota di base) e alla tassa dei rifiuti. Quello che colpisce è il sistema regressivo con cui è stata concepita l'imposta per finanziare "servizi indivisibili dei Comuni". L'addio alle detrazioni, per esempio, è un durissimo colpo alle famiglie numerose che nel 2012 avevano potuto contare sullo sconto di 50 euro a figlio (per un massimo di 200 euro). Non solo. Oltre alla Tasi gli italiani saranno chiamati a pagare anche la Tares, l'imposta statale da 30 centesimi al metroquadro che dovrà essere saldata entro dicembre.


Per quanto riguarda l'abitazione principale, i rincari sul 2014 sono a 360°. Secondo i calcoli del Sole 24Ore, i proprietari di un monolocale da 30 metriquadri e dal valore catastale di 30mila euro passano da una spesa di 90 euro nel 2012, determinata dal solo pagamento della Tarsu, ai 118 euro nel 2013 (109 di Tares e 9 di maggiorazione) per arrivare ai 139 nel 2014 (109 di Tari e 30 di Tasi). Non va meglio a chi possiede un bilocale di 60 metriquadri e dal valore di 60mila euro: dai 220 euro pagati l'anno scorso (40 di Imu e 180 di Tarsu) è passato ai 220 saldati quest'anno (202 di Tares e 18 di maggiorazione) per arrivare nel 2014 a 262 euro (202 di tari e 60 di Tasi). Stangata maggiore sui trilocali di 100 metriquadri e dal valore catastale di 100mila euro. In questo caso i proprietari, che nel 2012 avevano pagato 450 euro (150 di Imu e 300 di Tarsu) e nel 2013 345 euro (315 di tares e 30 di maggiorazione), l'anno prossimo dovranno versare 415 euro (315 di Tari e 100 di Tasi). E questo prospetto vale solo per le prime case sulle quali, grazie al Pdl, non grava più l'Imu. Per quanto riguarda le seconde case il salasso è ancora più marcato. I proprietari di un monolocale sfitto passano dai 318 euro nel 2012 (228 di Imu e 90 di tarsu) ai 346 euro nel 2013 (228 di Imu, 109 di Tares e 9 di maggiorazione) per arrivare a 414 euro nel 2014 (228 di Imu, 109 di tari, 30 di tasi e 47 di Irpef). Nel caso del bilocale sfitto, invece, il passa 8in un crescendo di aggravi) da 636 euro pagati nel 2012 (456 di Imu e 180 di Tarsu) ai 676 nel 2013 (456 di Imu, 202 di tares e 18 di maggiorazione) per arrivare a 812 nel 2014 (456 di Imu, 202 di Tari, 60 di Tasi e 94 di Irpef). Infine il trilocale sfitto che dai 1060 euro sborsati l'anno scorso (760 di Imu e 300 di Tarsu) quest'anno è arrivato a pagare 1105 euro (760 di Imu, 315 di tares e 30 di maggiorazione). Quest'anno il conto sarà ancora più salato: 1333 euro. Così composti: 760 di Imu, 315 di tari, 100 di tasi e 158 di Irpef.


Sebbene più volte il ministro allo Sviluppo economico Flavio Zanonato si sia sbracciato in difesa delle priccole imprese e degli artigiani, la stangata sul mattone non "salva" nemmeno queste categorie che, a conti fatti, sono la spina dorsale del sistema Italia. Anche in questo caso il Sole 24Ore ci dà un quadro molto chiaro di quanto la manovra peserà sulle tasche degli imprenditori italiani. Al di là della metratura e del valore catastale, è una sfilza di segni più. Uno dopo l'altro. Se i negozi più piccoli (50 metriquadri), passano dai 1818 euro pagati nel 2012 (988 di Imu e 830 di Tarsu) ai 2174 previsti per il 2014 (988 di Imu, 1056 di Tari e 130 di Tasi), quelli da 100 metriquadri vedono il conto passare da 3636 euro (1976 di Imu e 1660 di Tarsu) a 4347 (1976 di Imu, 2111 di Tari e 260 di Tasi). Per non parlare dei negozi più grandi (150 metriquadri) che dai 5454 euro pagati nel 2012 (2964 di Imu e 2490 di Tarsu) passeranno a 6521 euro da saldare l'anno prossimo (2964 di Imu, 3167 di Tari e 390 di Tasi). Stesso discorso per gli immobili di impresa che registrano rincari a due e tre cifre. Per i laboratori artigiani da 50 metriquadri sarà richiesto un esborso maggiore di 96 euro (1077 di Imu, 800 di Tari e 150 di Tasi). I capannoni da 2300 metriquadri subiranno, invece, una maggiorazione di 235 euro (1867 di Imu, 4500 di Tari e 580 di Tasi). Infine, i capannoni di 4mila metriquadri l'aggravio sarà di 400 euro (7182 di Imu, 8740 di Tari e mille di Tasi).


Monolocali o trilocali, abitazione principale o seconda casa, negozio o immobili di impresa: la stangata sul mattone colpirà tutti indiscriminatamente. Ecco quanto andremo a spendere di Imu, Tasi e Tari nel 2014: consulta i calcoli su tutte le tipologie di abitazione





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Stangata sul mattone: la Tasi costa fino a 7 miliardi in piùManovra, la Tasi ci costerà fino a 7,5 miliardi in più
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Published on October 22, 2013 03:59

Renzi ha le traveggole: "Tagliare le tasse è di sinistra"

Forse si è dimenticato degli sfaceli fatti da Romano Prodi, Giuliano Amato, Massimo D'Alema, Vincenzo Visco o Tommaso Padoa Schioppa. Eppure Matteo Renzi, che a destra dice di voler andare a pescare i voti, ha assicurato che in Italia è "di sinistra chiedere di abbassare le tasse". Sinistra e taglio della pressione fiscale è proprio un'equazione impossibile. Non è ancora andato al governo un amministratore di sinistra (o anche solo di centrosinistra) capace di non mettere mano sulla leva fiscale per ingrassare la pubblica amministrazione, aumentare il debito o oliare ben bene gli amici degli amici. Se mai il sindaco di Firenze dovesse riuscire non tanto a non fare alzare (ancora) le tasse, ma (quantomeno) a mantenere lo status quo, sarebbe già un passo avanti nella storia della sinistra post comunista.


Ieri sera Renzi ha consegnato il compitino. Diciotto pagine di proclami per tratteggiare il Pd che vorrebbe. È il suo memoriale nella corsa alle primarie democratiche. C'è dentro un po' di tutto, gli stessi slogan ripetuti poi oggi al videoforum di Repubblica Tv. Il programma guarda più a destra che a sinistra, almeno a stare alle dichiarazioni confezionate ad hoc per la cavalcata alla segreteria del partito. "Vanno presi i voti anche di Grillo e del centrodestra - ha ribadito l'ex rottamatore - io, della sinistra con la puzza sotto il naso, non ne posso più, la sinistra che si crogiola nel com'è bello partecipare mi manda fuori di testa". E così, eccolo estrarre dal cappello magico il nodo delle tasse. Non lo fa a caso. Nelle stesse ore è, infatti, arrivata a Palazzo Madama la legge di Stabilità firmata dal premier Enrico Letta. Un testo infarcito di nuove imposte che andranno a gravare sui risparmi dei contribuenti e sui conti delle imprese. A preoccupare maggiormente il ritocco dell'imposta sul dossier titoli e il peso effettivo della Tasi. Eppure Renzi se ne esce fuori con una dichiarazione che fa quantomeno strabuzzare gli occhi: "Le tasse non sono di sinistra". Verrebbe, quasi, da imitare il Pibe de oro. "Abbassare le tasse è un valore fondamentale della sinistra". Fondamentale? Viene da ridere. nel ripensare il manifesto targato Rifondazione comunista "Anche i ricchi piangono" all'epoca del governo Prodi. Ridere per non piangere perché se si ricorda quando al dicastero di via XX Settembre era in cattedra Padoa Schioppa si alzavano imposte, gabelle e balzelli al grido di "pagare le tasse è bello". Al tempo, insieme al professore, negli uffici del Tesoro si aggirava anche Vincenzo Visco, poi soprannominato "Dracula" per essersi inventato una sfilza di tasse come l'odiatissima l'Irap che aveva infilato nella finanziaria del 1998.


Che la dichiarazione di Renzi sia una contraddizione in termini lo dimostra il linciaggio mediatico a cui è stato sottoposto Stefano Fassina, responsabile Economia del Pd, quando aveva ammesso che in Italia ci sono imprenditori che sono costretti a evadere perché il carico fiscale è insostenibile. Insomma, un'evasione di sopravviveza generata da decenni di finanziarie rosso sangue firmate da governi di sinistra o di centrosinistra. Le amministrazioni "rosse" hanno, infatti un triste record. Se Fisco si è inventato una tasse che non si calcola sugli utili ma sul fatturato lordo (il che vuol dire che un'azienda può anche essere in perdita e l'imprenditore sul lastrico, ma il Fisco gli chiede comunque l'Irap), Romano Prodi è forse riuscito a fare peggio. Gli è bastato un un anno e mezzo (dal 2006 al 2008) per introdurre sessantasette nuove imposte facendo aumentare la pressione fiscale di un paio punti di circa 30 miliardi di euro. Che, a suo tempo, significavano 500 euro di tasse in più a testa. Tanto per citarne alcune: la tassa di successione sugli immobili a partire da 250mila euro di valore, la tassa "di scopo" che ha dato ai sindaci la possibilità di applicare sulle seconde case un'aliquota fiscale per cinque anni, l'aumento dell'addizionale sui diritti di imbarco in aeroporto, l'innalzamento della tariffa per il rilascio del passaporto, l'aumento al 20% dell'aliquota sul rendimento dei titoli, l'aumento del bollo per l'auto e per la moto e, soprattutto, il prelievo statale del Tfr. Già nel 1996, alla sua prima volta a Palazzo Chigi, Prodi aveva fatto dei pasticci approvando un contributo straordinario per l'Europa al fine di far rispettare i vincoli di Maastricht. Niente in confronto al prelievo forzoso del 6 per mille dai conti correnti bancari deciso nel 1992 dall'allora premier Giuliano Amato che, nottetempo, passò all'incasso.


L'elenco è lungo. E non abbiamo voluto occuparci degli amministratori locali. Basti citare, uno per tutti, il sindaco Giuliano Pisapia il cui vento arancione sta facendo neri i milanesi. Spiace contraddire Renzi, ma abbassare le tasse non è affatto "un valore fondamentale della sinistra". Le tasse, sì, sono un valore per la sinistra. Tanto che ne vorrebbe sempre di più, e soprattutto per i più deboli.


Dall'euro tassa di Prodi all'Irap di Visco, fino alla "rapina" di Amato: da sempre la sinistra fa il tifo per le tasse. Renzi ripassi la storia degli ultimi trent'anni...





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Andrea Indini

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Published on October 22, 2013 03:47

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