Andrea Indini's Blog, page 163

November 26, 2013

Il dono di Putin a Bergoglio: l'icona mariana che Stalin oppose all'avanzata nazista

Come ricorda Avvenire,  quando scoppiò la Seconda guerra mondiale, mentre altri gerarchi sovietici come Molotov rivolsero discorsi alla popolazione salutandola con "cittadini e cittadine", Stalin si rivolse al popolo russo chiamando "fratelli e sorelle". "E ciò - ha spiegato Vladimir Putin ieri in visita da papa Francesco - ha un grandissimo significato: non furono solo parole ma un appello al cuore, alle anime, alla storia, alle nostre radici". Ed è davanti a questa Storia che il presidente russo e il Santo Padre si fermano e si inchinano per baciare l'icona della Madonna. Il segno della Croce e il bacio. Prima Putin, poi Bergoglio. Tra gli scatti e i flash delle macchine fotografiche. Un'immagine che è destinata a fare il giro del mondo. Perché quell'icona, che il capo del Cremlino ha voluto donare al Pontefice, è un pezzo della storia della Russia ortodossa: quando nel dicembre del 1941 i tedeschi si trovavano alle porte di Mosca, Stalin fece caricare l'originale dell'immagine sacra su un aereo per farla sorvolare sulla città assediata.


Come nella Seconda guerra mondiale il dittatore comunista ha voluto affidare alla Vergine le sorti del Paese, così Putin e papa Francesco hanno pregato la Madonna perché porti la pace nel mondo. Lo scambio dei doni è avvenuto dopo il colloquio privato nella Sala della Biblioteca. Il Santo Padre ha regalato al presidente russo un mosaico con una veduta dei Giardini Vaticani, mentre Putin lo ha ricambiato con l'icona della Madonna di Vladimir, una delle immagini più venerate della Chiesa ortodossa. E, mentre il Pontefice si allontanava dal tavolo dei doni, Putin lo ha fermato chiedendogli: "Le piace l’icona?". E, non appena Bergoglio ha chinato il capo per rispondere affermativamente, Putin si è fatto il segno della croce secondo l’uso ortodosso e ha baciato l'icona mariana. Un gesto che, subito dopo, è stato imitato anche dal Pontefice.


Se il tema della difesa delle comunità cristiane in Medio Oriente, di cui Putin si sta ergendo a una sorta di paladino, è stato solo accennato, l'incontro è stato l'occasione giusta per affrontare anche la questione dei rapporti e della distensione tra la Chiesa cattolica e quella ortodossa e ancora di più quella di un possibile viaggio del Pontefice in Russia. Il ruolo di "vescovo di Roma" più volte sottolineato dal Papa, dando peraltro valore alla collegialità in seno alla Chiesa cattolica, pone le basi per rapporti tra cattolici e ortodossi più distesi dopo le polemiche, avvenute negli anni di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, tra la rinnovata vitalità della Chiesa cattolica nei territori della ex Unione Sovietica e un patriarcato ortodosso sospettoso che dietro vi fossero progetti di espansionismo religioso. "Il presidente russo - ha riferito padre Federico Lombardi - ha portato a papa Francesco il saluto del patriarca di Mosca Kirill, capo degli ortodossi russi". Tuttavia, non è stato formulato l’invito a recarsi in Russia. Invito, ha rilevato ancora il portavoce della sala stampa vaticana, che "nessuno si aspettava ci fosse". Un aspetto, questo, che tocca prima di tutto i rapporti tra le due Chiese.


Il presidente russo dona al Papa l'icona della Madonna di Vladimir, la copia dell'immagine che Stalin fece volare su Mosca quando era sotto l'attacco nazista





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Papa Francesco bacia l'icona della Madonna di Vladimir
Il Papa ai politici: "Finanziaria sia etica"Putin in Vaticano: faccia a faccia col Papa
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Published on November 26, 2013 05:14

November 25, 2013

Lettera ai senatori Pd e M5S, Berlusconi lancia un appello: "Riflettete prima di votare"

Le nuove prove sono schiaccianti: inchiodano una giustizia che con la sentenza del processo sui diritti tv non ha cercato di accertare la verità, ma ha puntato a far fuori politicamente Silvio Berlusconi. Ci sono ben sette nuovi testimoni che provano l'innocenza del Cavaliere e che sono alla base della richiesta di revisione alla Corte d'Appello di Brescia. Revisione che dovrebbe spingere l'Aula del Senato a non votare la decadenza del leader di Forza Italia da senatore. Eppure il Movimento 5 Stelle, il Pd e il Sel di Nichi Vendola hanno già fatto sapere che mecoledì prossimo voteranno a favore. A loro Berlusconi ha voluto scrivere una lettera: "Vi chiedo di riflettere nell'intimo della vostra coscienza a maggior ragione visto che il voto è palese. Non tanto per la mia persona, ma per la nostra democrazia. Valutate le nuove prove e i documenti che stanno arrivando".


Dopo aver illustrato ampi stralci delle nuove carte che i suoi avvocati sottoporranno alla Corte d'Appello di Brescia, Berlusconi ha letto la lettera scritta ai senatori democrat e 5 Stelle per chieder loro di "rinviare il voto sulla decadenza" e aspettare che si esprimano la magistratura e la Corte Ue, "altrimenti sarebbe una macchia incancellabile per il parlamento". Sotto sotto, il Cavaliere sa bene che la sinistra difficilmente terrà conto delle prove, ma userà il voto del 27 novembre per saldare i conti. Non essendo mai riusciti a batterlo democraticamente alle elezioni, useranno la decadenza per cacciarlo dal parlamento. Da qui l'accusa di avere avuto da subito una posizione pregiudiziale nei suoi confronti: "Se ritenessi che questi signori potessero considerare i fatti secondo coscienza, non dovrei avere timore". D'altra parte, qualche minuto dopo la lettura della sentenza del collegio feriale della Cassazione, Guglielmo Epifani è andato in tivù ad annunciare che il Pd avrebbe votato la decadenza. "Siamo avversari politici - è l'incipit della lettera - ma non per questo dovrebbe venire meno il rispetto reciproco, basato sulla dignità e i diritti". Al Pd Berlusconi ha voluto ricordare che insieme hanno formato un governo di larghe intese che presupponeva un clima più sereno e collaborativo tra le forze della maggioranza. "Così non è stato - ha sottolineato - ma senza un’autentica pacificazione e una reciproca legittimazione l’Italia non conoscerà mai la normale dialettica democratica". Stesso discorso vale per i Cinque Stelle. "Molti di voi sono animati da sincero amore per l’Italia - li ha ammoniti - esercitate le vostre posizioni politiche nei principi di libertà".


Al Pd e al M5S Berlusconi ha chiesto di riflettere prima di prendere una decisione che riguarda, in primis, la democrazia stessa. "In caso contrario vi assumereste una grave - ha avvertito - non fate prevalere le convenienze politiche del momento sulla vostra coscienza, non prendetevi una responsabilità di cui in futuro dovreste vergognarvi di fronte ai vostri figli, ai vostri elettori e agli italiani". L'appello, però, è caduto nel vuoto. Berlusconi non ha ancora finito la conferenza stampa che il capogruppo piddì al Senato Luigi Zanda subito ha precisato che il voto resta calendarizzato il 27. "Le verità processuali si costruiscono in tribunale e non attraverso i media né tantomeno in conferenze stampa a reti unificate", ha dichiarato il responsabile Giustizia del del Pd Danilo Leva. Anche i grillini hanno respinto la mano tesa del Cavaliere. "Non rispondiamo alle provocazioni - ha commentato la capogruppo grillina al Senato, Paola Taverna - la sentenza è definitiva e ci apprestiamo ad applicare la legge". Insomma, i timori del Cavaliere sono tutt'altro che infondati.


Nonostante la persecuzione giudiziaria e il voto sulla decadenza, Berlusconi non smetterà mai di combattere. Non accetterà alcun passaporto diplomatico, né vaglierà l'ipotesi di lasciare l’Italia. Chiede, piuttosto che la sua innocenza venga fuori a tutto tondo: "Mi sento italiano fino infondo, non vedo scappatoie". Proprio per questo continuerà a guidare la rinata Forza Italia "Sono costretto a restare in campo nonostante la veneranda età - ha spiegato - sono costretto a restare in campo nonostante abbia molti hobby tra cui uno che si chiama Milan e che in questo momento ne avrebbe bisogno". Dopo la nascita del Nuovo centrodestra di Angelino Alfano, ha sentito come "assolutamente indispensabile" continuare il proprio impegno in politica in vista delle prossime elezioni. Nonostante la scissione i sondaggi premiano la coalizione di centrodestra. Secondo Euromedia, infatti, Forza Italia è data al 21%, mentre il partito del vicepremier viaggia intorno al 3%. Secondo Swg, poi, tutta l'area dei moderati raggiungerebbe quota 37%, superando il centrosinistra di cinque punti. "Andrò avanti fino in fondo - ha concluso Berlusconi - devo uscire da questo attacco per quello che sono, un cittadino esemplare, che ha sempre pagato le tasse e che nella sua vita ha dato un contributo positivo ai cittadini e al Paese".


Berlusconi chiede ai senatori del Pd e del Movimento 5 Stelle di valutare le nuove carte che presenterà alla Corte d'Appello di Brescia. E avverte: "Se decado, dovrete vergognarvene". Ma la sinistra non ci sta. Zanda: "Si vota il 27 e basta". E i grillini: "È una provocazione"





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Silvio Berlusconi presenta le nuove carte sul processo Mediaset
La lettera di Silvio Berlusconi ai senatoriL'appello di Berlusconi a Pd e M5S
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Published on November 25, 2013 13:14

Pd, Renzi non ha ancora vinto e già molti parlano di scissione

All'indomani della Convenzione nazionale del Pd, a meno di due settimane dalle primarie che dovrebbero sancire il passaggio di consegne da Guglielmo Epifani a Matteo Renzi, l'ombra della scissione sembra calare su via del Nazareno. Per il momento è solo una suggestione, una eventualità che si fa largo tra l'ala più radicale del partito. Eppure c'è. Se ne discute, se ne parla, anche se sotto voce, di aprire a sinistra, di staccarsi da quel Pd più "moderato" che potrebbe modellare il sindaco di Firenza. D'altra parte i numeri comunicati ieri da Davide Zoggia parlano di un partito ai piedi del rottamatore e di una piccola parte che, invece, strizza l'occhio al Sel di Nichi Vendola e che guarda ancora con nostalgia alle grandi ammucchiate di Romano Prodi.


"Non siamo il volto buono della destra, siamo la sinistra", avvertiva ieri Gianni Cuperlo. "Non possiamo essere neppure il volto peggiore della sinistra", gli faceva eco Renzi. L'idea di Pd che hanno i due candidati alle primarie dell'8 dicembre sono piuttosto distanti. Rispetto all'anno scorso, quando Pierluigi Bersani era in balia delle scorribande delle diverse anime che agivano sottobanco pugnalando alle spalle i nemici, oggi i capi fazione hanno alzano la testa e sono pronti a venire allo scoperto. Tanto che in molti iniziano a ventilare l'ipotesi di fondare un nuovo partito, proprio come ha fatto Angelino Alfano staccandosi da Forza Italia. "Io voglio un partito che tenga dentro Sel, che guardi a tutto il centro sinistra - ha annunciato oggi Pippo Civati da Taranto - la mia non è una campagna elettorale, è una campagna politica: voglio recuperare anche chi ha votato Grillo, non vivo con snobismo". Una posizione per nulla condivisa da Renzi e che potrebbe ingenerare nomn pochi problemi. E, per quanto la presidente del Friuli Venezia Giulia Debora Serracchiani inviti tutti a lavorare, a partire dal 9 dicembre, per "rafforzare il Partito democratico", le premesse non promettono affatto bene.


L'establishment di via del Nazzareno teme che un'eventuale scissione possa penalizzare duramente il Pd alle urne. "In un partito uno può starci anche stretto - spiega Beppe Fioroni del Pd a Omnibus - ma non bisogna cadere nella tentazione di mettere in piedi una grande Sinistra Unita, che faccia sentire meno soli il Nuovo Centrodestra". Secondo Massimo Cacciari, però, il problema non è ingegnarsi a tenere in piedi il Pd: "Il partito è fallito, anzi, non è mai nato". Suonando il De profundis alla creatura che fu di Walter Veltroni, l'ex sindaco di Venezia accusa i vertici di portare avanti una farsa perché "il partito non sarebbe in grado di fare una separazione consensuale". Insomma, secondo Cacciari, non c’è più tempo per rimediare: "Bisognava farlo prima, il Pd doveva dividersi tra la sua componente ex democristiana e quella più di sinistra".


Renzi a un passo dalla vittoria. Ma l'ala più radicale già pensa di dividersi. Civati: "Voglio un partito con Sel". E Cacciari: "Il Pd è fallito"





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Bonolis fa outing: "Alle primarie voterò Renzi"
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Published on November 25, 2013 09:28

November 24, 2013

Epifani prova a unire il Pd nell'odio anti Cav. Ma Renzi avverte Letta: "Usi le nostre idee"

In un Pd falcidiato dalle lotte interne e dalla corsa per la leadership del partito arriva l'ufficializzazione della triade ammessa alle primarie dell'8 dicembre. I nomi sono scontati. I candidati alla segreteria nazionale sono Matteo Renzi, Gianni Cuperlo e Pippo Civati. E, salvo colpi di scena dell'ultimo momento, il sindaco di Firenze è a un passo dall'incoronazione. Ad appianare dissapori sopiti, divergenze taciute e minacce di vendetta tocca al segretario Guglielmo Epifani che ha puntato tutto su un odio atavico e funzionale, quello contro Silvio Berlusconi. "È di là del bene e del male", tuona l'ex Cgil che ha più a cuore l'appuntamento del 27 novembre, quando potrà saldare i conti col Cavaliere, che l'8 dicembre, quando il Pd volterà pagina alla disastrosa era Bersani. "Quel giorno - annuncia - voteremo la sua decadenza da senatore". Ma i candidati alle primarie hanno un altro bersaglio: è il governo delle larghe intese.


La Convenzione nazionale si apre con l’intervento della giovane segretaria dem di Olbia, Angela Corda. Un segno di rispetto per il dramma accaduto in Sardegna. In sala i quattro candidati, compreso Gianni Pittella che non è riuscito ad accedere alla fase finale del congresso. "Il Pd è per molti di noi una conquista. Il senso di una vita politica. La comunità nella quale sentirsi 'a casa'", è il saluto di Enrico Letta, grande assente della giornata che affida a un video messaggio l'appello ad andare a votare. Considerando le primarie "una straordinaria prova di partecipazione", il capo del governo invita la base del partito a trasformare l'appuntamento dell'8 dicembre in "una risposta, alta e vitale, alle tante degenerazioni emerse in questi anni nel rapporto tra politica e società". Quello che, inizialmente, può sembrare come un appello deve essere preso piuttosto come una tirata d'orecchie dopo il desolante siparietto sulle tessere false che nei giorni scorsi ha accompagnato i congressi di circolo. A comunicare i risultati ci pensa Davide Zoggia, responsabile organizzazione del partito, comunicando l'ammissione alle primarie di Renzi, Cuperlo e Civati "sulla base dei risultati delle 7200 riunioni di circolo in Italia e 89 all’estero, cui hanno partecipato 296mila cittadini pari al 55% degli iscritti, con 285mila i voti validi". Con quasi 134mila voti il sindaco di Firenze ha portato a casa il 45,34% delle preferenze. Cuperlo, invece, può contare su un bacino di oltre 116mia voti (39,44%), mentre Civati si è fermato a 27.841 voti pari al 9,43%. Resta, invece, escluso dalle primarie Pittella, che prende solo il 5,8% delle preferenze (17.117 voti) e decide, infine, di aprire a Renzi ("Ora attendo una risposta...").


Prendendo la parola dopo il messaggio di Letta, Epifani cerca di fare la sintesi delle diverse anime del partito. Così, se da una parte promette di fare piazza pulita (una volta per tutte) dell'annoso problema legato ai "signori delle tessere", dall'altra seglie subito un ottimo collante: l'antiberlusconismo. La tirata dell'ex Cgil è tutta dedicata al nemico di sempre. Non una parola sul futuro del Pd, non uno straccio di proposta da portare in parlamento, non una presa di posizione sui brogli che hanno accompagnato tutto il congresso. Così, non solo annuncia con soddisfazione che il Pd si unirà a grillini e vendoliani nel sostenere la decadenza del Cavaliere da senatore, ma condanna anche duramente le parole pronunciate ieri dal leader di Forza Italia. Il collante, però, sembra non tenere più di tanto. E basta che Cuperlo prenda la parola perché riprendano le solite rivalità con Renzi. "Non siamo il volto buono della destra, siamo la sinistra", dice il primo. "Non possiamo essere neppure il volto peggiore della sinistra", gli fa eco il sindaco di Firenze. E ancora: "Se ti proponi di cambiare tutto, nel centrosinistra e nel tuo Paese - insiste Cuperlo - non lo fai come secondo lavoro". Su un punto i due si trovano d'accordo: il governo ha le ore contate. "Letta usi la nostra lealtà per poter essere efficaci negli investimenti - avverte Renzi - se no le larghe intese diventano solo il passatempo per superare il semestre Ue".


Democratici verso le primarie dell'8 dicembre: anziché appianare le divisioni, Epifani rilancia la crociata anti Cav. Ma Cuperlo e Renzi attaccano Letta





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Renzi: "Ora Letta usi le nostre idee"Epifani: "Il Pd voterà la decadenza del Cav"Il messaggio di Letta alla Convenzione PdCuperlo: "Non siamo il volto buono della destra"Civati: "A disagio per le larghe intese"Zoggia annuncia i candidati alle primarie
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Published on November 24, 2013 07:28

Arriva Babbo Natale Letta: sotto l'albero c'è l'austerity

Una domanda, quantomeno, è lecita: Letta e Saccomanni dove la vedono, la ripresa? Se il ministro dell'Economia va a sbandierare a Bruxelles numeri e grafici che segnano una crescita che non c'è, il presidente del Consiglio affolla i tiggì assicurando che l'Italia è già uscita dal tunnel. Eppure basta dare un rapido sguardo agli studi e ai report sul primo fine settimana di shopping natalizio per capire che il mondo raccontato dal governo è artefatto. Associazioni di categoria, consumatori e commercianti dipingono, infatti, un'altra realtà drammaticamente segnata dalla crisi economica.


In settimana, parlando ad un convegno organizzato dal quotidiano tedesco Suddeutsche Zeitung a Berlino, Letta non ha avuto alcuna remora nel tratteggiare una situazione che non c'è: "L’Italia è fuori dal periodo peggiore della crisi; abbiamo presentato la legge di bilancio e per la prima volta le cifre dicono che l’anno prossimo ci sarà una discesa del debito, il deficit sarà sotto il 3%, unico Paese Ue insieme alla Germania a riuscirci, e che sempre nel 2014 ci sarà la ripresa". Non è stato da meno Saccomanni che, negli stessi giorni, è volato all'Eurogruppo per rassicurare gli aguzzini di Bruxelles. Ebbene, in quell'occasione, il ministro dell'Economia ha assicurato che la ripresa si trova dietro l’angolo e che l’Italia la aggancerà a fine anno o inizio del prossimo: "L'unica cosa che ce lo può impedire è che ci sia incertezza politica permanente". Tra tunnel, angoli, svolte a sinistra e semafori rossi, però, non si capisce più nulla. Per fortuna, al di là, delle chiacchiere del governo, che ha preparato una legge di Stabilità farcita di tasse mascherate, i freddi numeri ci vengono incontro e ci aiutano a tratteggiare la realtà. Anche quest'anno le famiglie italiane, costrette a tagliare le spese durante le prossime festività per far quadrare i bilanci, dovranno passare uun Natale di austerity. Allo stato attuale, spiega il Codacons, "le famiglie italiane prevedono una ulteriore riduzione dei consumi tipici delle festività natalizie", che caleranno in media del 7,5% rispetto al 2012. Nel 2007 "l’effetto Natale"si aggirava intorno ai 18 miliardi di euro, nel 2013 non supererà i 10,3 miliardi di euro. "In sei anni - fa notare il presidente Carlo Rienzi - le famiglie del nostro paese hanno ridotto i consumi legati alle feste del 42,7%, tagliando le spese natalizie per la maxi cifra di 7,7 miliardi di euro".


I numeri del Codacons non devono affatto stupirci. D'altra parte stipendi e tredicesime sono letteralmente divorati da tasse, bollette e rate del mutuo. La mensilità aggiuntiva risente maggiormente risente di questa stangata. "La tredicesima non servirà a rilanciare i consumi - denunciano Adusbef e Federconsumatori - né ad alleviare le preoccupazioni di famiglie sempre più impoverite da rincari speculativi che si profilano in tutti i settori, con la sciagurata tassa sui poveri denominata Iva al 22%". Secondo A dicembre gli italiani dovranno, infatti, aprire i portafogli per pagare bollette e utenze domestiche (8,1 miliardi), Rc auto (5,9 mliardi), rate del mutuo per l’abitazione (4,9 miliardi), bolli per auto e moto (4,1 miliardi), canone Rai (2 miliardi) e Imu sulle seconde case (1,8 miliardi). Altro che ripresa, insomma, sotto l'albero Babbo Natale Letta ci porta solo recessione e austerity.


Ma Letta e Saccomanni dove vedono la ripresa? I numeri raccontano un'altra realtà: crollano i consumi e gli italiani tirano la cinghia





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Letta: "La manovra è equilibrata ma serve stabilità"
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Published on November 24, 2013 03:39

November 23, 2013

Imu, ora si rischia l'abolizione parziale: i cittadini pagano le furbate dei sindaci

"Non ci sarà alcun aumento della benzina". Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giovanni Legnini cerca di spegnere le polemiche e assicura che l’aumento delle accise sui carburanti a partire dal 2015, ipotesi trapelata ieri pomeriggio per cancellare la seconda rata dell'Imu sulla prima casa, è stata solo ipotizzata come "clausola di salvaguardia differita nel tempo". "Ci sarà quindi tutto il tempo per non farla scattare", taglia corto Legnini. Eppure, in attesa che il decreto sia varato martedì prossimo dal Consiglio dei ministri, non mancano scenari che non lasciano affatto tranquilli i contribuenti. L'abolizione dell'imposta rischia infatti di rivelarsi una vera e propria beffa: il decreto prevede infatti che nei Comuni, che hanno alzato l'aliquota per avere più rimborsi dallo Stato, toccherà ai cittadini pagare la differenza.


La dead line è il 16 dicembre. Il governo lotta contro il tempo. Eppure se la prende comoda: aspetta l'ultimo minuto per portare in parlamento una misura che potrebbe dare la botta finale agli italiani dopo un anno terribile segnato da un aumento impressionante della pressione fiscale. Martedì prossimo il Consiglio dei ministri siglerà la bozza esaminata giovedì scorso da Palazzo Chigi e i cui contenuti sono ancora nebulosi. Tanto che, a soli venti giorni dalla scadenza, si inseguono anticipazioni e smentite. Dopo che Legnini ha assicurato che non verranno aumentate le accuse sulla benzina, viene fuori che il governo è seriamente intenzionato a farla pagare a quei sindaci che hanno provato a fare i "furbetti" con lo Stato gonfiando al massimo l'Imu sulla prima casa. Il giochino messo in atto è semplice: contando sul fatto che l'imposta sarebbe stata cancellata, hanno portato al massimo le aliquote per ricevere da Roma un rimborso maggiore. Chi sono questi furbetti? Luigi De Magistris a Napoli, Giuliano Pisapia a Milano, Virginio Merola a Bologna e Marco Doria a Genova, tanto per fare alcuni nomi. Hanno ritoccato all'insù (alcuni fino al 6 per mille) le aliquote per andare ad appianare i conti coi soldi che il governo deve corrispondere per la cancellazione dell’Imu. Così, come anticipa il Messaggero, nel decreto sarebbe stata inserita una norma per prevedere che la seconda rata sarà abolita "fino ad un importo pari alla metà dell’imposta calcolata applicando l’aliquota e la detrazione stabilite dal Comune per il 2012". Insomma, se l'amministrazione comunale ha fatto la furbata di aumentare l’aliquota, i cittadini dovranno sborsare la differenza. In questo modo, come fa notare ItaliaOggi, l'abolizione promessa dal premier Enrico Letta sarebbe "parziale".


Il decreto del governo è pensato proprio per porre un freno agli aumenti delle aliquote. Un trucchetto che arriverebbe a costare alle casse dello Stato altri 500 milioni di euro. Insomma, la furbizia non paga. O meglio: a pagare saranno ancora una volta i cittadini. I milanesi, per esempio, dovranno ringraziare Pisapia per aver portato l’aliquota sulla prima casa dal 4 al 6 per mille. A Napoli, invece, dovranno ringraziare De Magistris che ha approvato un ritocco dell’1 per mille portando l'aliquota, che già era stata alzata nel 2012, dal 5 al 6 per mille. Ma i due sindaci "arancioni" non sono i soli ad aver macchinato questo trucchetto che gli si rivolterà contro. Nel capoluogo ligure, poi, Doria ha portato l’aliquota dal 5 al 5,8 per mille. Infine, a Bologna, il piddì Merola l'ha alzata dal 4 al 5 per mille. Per il momento il provvedimento resta sulla carta. Bisogna, infatti, vedere se una proposta del genere reggerà politicamente. "Può darsi che sia necessario fare un piccolo sacrificio su altre spese se non si vuole pagare la seconda rata Imu - ha assicurato il ministro per gli Affari regionali Graziano Delrio - ma il saldo per le tasche degli italiani è positivo". Ma le rassicurazioni del governo non convincono il centrodestra. "Cancellazione solo parziale della seconda rata, dubbi sull’agricoltura, coperture fatte con altre tasse - ha commentato il presidente della commissione Finanze della Camera, Daniele Capezzone - tutto ciò è un’offesa all’intelligenza e alla pazienza degli italiani".


Il governo: "Non aumenterà la benzina". Ma nei Comuni che hanno alzato l'aliquota per avere più rimborsi dallo Stato, toccherà ai cittadini pagare la differenza





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Published on November 23, 2013 06:09

November 22, 2013

"Il Cav aveva avviato le trattative a Bruxelles per uscire dall'euro"

Quello che, fino a qualche settimana fa, era stato accolto come un inquietante retroscena, oggi prende i contorni di un vero e proprio complotto ai danni dell'Italia. Nel libro Morire di austerità Lorenzo Bini Smaghi, l'ex board della Bce che oggi presiende la Snam Rete Gas, ha scritto che nel 2011 Silvio Berlusconi aveva "ventilato in colloqui privati con i governi di altri Paesi dell'Eurozona l'ipotesi di una uscita dall'euro". Per questo, sarebbe poi stato costretto a dimettersi da Palazzo Chigi. In realtà, il Cavaliere non si sarebbe solo limitato a "ventilare" questa ipotesi, ma aveva addirittura già avviato le trattative in sede europea per uscire dalla moneta unica. A rivelarlo è Hans-Werner Sinn, presidente dell'istituto di ricerca congiunturale tedesco, Ifo-Institut, durante il convegno economico Fuehrungstreffen Wirtschaft 2013 organizzato a Berlino dal quotidiano Sueddeutsche Zeitung.


Tocchi l'Europa e muori. Più si mettono insieme i pezzi del puzzle, più sembra chiaro che quello che inizialmente sembrava un vero e proprio attacco speculativo ai danni dei nostri titoli di Stato per far cadere il governo Berlusconi, adesso assume i toni di una resa dei conti ai danni del Cavaliere. L'allora presidente del Consiglio sarebbe stato fatto fuori perché, per non far morire il Paese dell'austerità imposta dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, aveva deciso di tirar fuori l'Italia e gli italiani dal gigo della moneta unica. Quella moneta unica, l'euro, che un altro ex presidente del Consiglio (Romano Prodi) aveva super valutato gettando l'economia del Belpaese nella recessione. Come riporta anche l'Huffington Post, Sinn ammette che, nell'autunno del 2011, Berlusconi aveva "avviato trattative per far uscire l'Italia dall'euro". Intervenendo in un dibattito sulla crisi economica e sugli effetti disastrosi che sta avevndo sui paesi meridionali dell'Eurozona, il presidente dell'Ifo-Institut ha ammesso di "non sapere per quanto ancora l'Italia ce la farà a restare nell'Unione Europea: l'industria nel nord del paese sta morendo, i fallimenti delle imprese sono ormai alle stelle e la produzione industriale è in continuo calo".


"La possibilità di un'uscita (forzata o voluta, ndr) è sempre concreta per Francia, Grecia e Italia", ha spiegato Sinn facendo presente che il salvataggio della Francia e dell'Italia costerebbe all'Unione europea "qualcosa come 4.500 miliardi di euro". Berlusconi sapeva molto bene che tenere il Paese ancorato ai diktat dell'Unione europea e all'austerity voluta dalla Merkel non avrebbe fatto altro che mettere ulteriormente in ginocchio il Paese. Da qui l'idea di uscire dall'euro. Una crociata che gli è costata la poltrona a Palazzo Chgi. Non appena ha avviato le pratiche per dire addio all'Eurozona, lo spread tra i Btp decennali e i Bund tedeschi è stato preso d'assalto dalla speculazione ed è arrivato a soglie drammatiche. Un vero e proprio imbroglio che ha minacciato di far collassare l'economia reale del Paese. Le pressioni dei tecnocrati di Bruxelles e dei poteri forti mondiali hanno portato Berlusconi a rassegnare le dimissioni. Era l'11 novembre del 2011. Da allora l'Italia non ha più avuto un governo eletto dal popolo: prima ci è toccato il "tecnico" Mario Monti, ora il piddì Enrico Letta. Ma la solfa non è mai cambiata.


"La minaccia di uscita dall'euro non sembra una strategia negoziale vantaggiosa - scrive Bini Smaghi nel suo libro - non è un caso che le dimissioni di Berlusconi siano avvenute dopo che l'ipotesi di uscita dall'euro era stata ventilata in colloqui privati con i governi di altri paesi". La pratica, in realtà, era già arrivata sul tavolo della Merkel. Berlusconi non voleva limitarsi a minacciare, a fare la voce grossa, ma voleva tirar l'Italia fuori dal pantano e sapeva bene che per farlo non aveva altra scelta che uscire dalla moneta unica. Questa è una certezza. Adesso non resta che capire chi è riuscito a sovvertire un governo eletto dal popolo italiano perché contrario alla sua politica economica.


Il presidente dell'Ifo-Institut tedesco: "Nel 2011 Berlusconi aveva avviato trattative per far uscire l'Italia dall'euro". Per questo, sarebbe poi stato costretto a dimettersi





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Il superbanchiere rivela: Cav cacciato perché anti euroSpread, agenzie di rating, Ue: chi incombe sull'Italia
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Published on November 22, 2013 13:02

L'Ue obbliga Letta a svendere gli asset del Tesoro. Ma Germania e Francia non toccano i propri tesori

Qualche giorno fa il commissario europeo agli Affari economici e monetari, Olli Rehn, è tornato a tirare le orecchie al premier Enrico Letta ricordandogli che "l'Italia deve rispettare i parametri" imposti da Bruxelles. La strada per farlo deve passare, sempre stando alle ricette dell'Ue, è la privatizzazione degli asset del Tesoro. E così ieri, in vista del confronto con l'Eurogruppo di oggi al quale tocca al ministro dell'Economia Fabrizio Saccomanni difendere la legge di Stabilità, il Consiglio dei ministri ha messo l'acceleratore per svendere al più presto le partecipazioni del Tesoro. Si va dalle quote dell'Eni alla holding delle reti, un piano che è solo un primo passo verso un'operazione molto più complessa. "Ieri c’è stato un primo pacchetto di misure riguardo le privatizzazioni - ha assicurato Letta all’assemblea della Federcasse di Roma - continueremo nelle prossime settimane e mesi". In realtà, tra i grandi dell'Eurozona, l'Italia è l'unico Paese costretto a portare avanti una tale operazione. Germania e Francia, invece, se ne tengono alla larga.


Anziché tagliare in maniera cospicua la spesa pubblica improduttiva, i cda delle minicipalizzate e le Province, proprio come farebbe un diligente padre di famiglia quando le entrate si riducono a fine mese, il tandem Letta e Saccomanni hanno deciso di mettere mano ai gioielli del Belpaese. Più che a incidere sul moloch del debito italiano da oltre 2mila miliardi di euro, l'annuncio del premier serve infatti a fare il "compitino" che l’Ue gli ha assegnato nella speranza di riuscire a richiedere la clausola sulla flessibilità degli investimenti bocciata nei giorni scorsi da Bruxelles. Nel piano del governo, anticipato oggi dal Corriere della Sera, saranno interessate a vario titolo otto società: Eni, Stm e Enav per le partecipazioni dirette e Sace, Fincantieri, Cdp Reti, gasdotto Tag e Grandi Stazioni per quelle indirette. Nelle casse del Tesoro dovrebbe arrivare circa metà della cifra totale mentre il resto andrà a sostenere il patrimonio della Cdp, la quale peraltro aveva già programmato la cessione parziale in mani private delle società in questione. Ma i benefici per il dicastero di via XX settembre saranno comunque indiretti: la Cassa potrà così rafforzare il capitale, messo sotto pressione per via delle numerose misure avviate o da avviare a sostegno dell’economia sotto forma di impieghi alle imprese, infrastrutture e mercato immobiliare. "A Letta e Saccomanni piace vincere facile - ha commentato il capogruppo di Forza Italia alla Camera, Renato Brunetta - a vendere Eni siamo tutti capaci. Ma non dicono che non ci saranno più i dividendi. Difficile vendere le caserme... lì bisogna essere più bravi".


Basta leggere il piano redatto da Letta & Co. per accorgersi che più che di privatizzazioni si dovrebbe parlare di dismissioni non tanto per far cassa appunto ma per garantire maggiore potere di negoziato in sede internazionale. L'Eni, che ha già deliberato un buy back sul 10% del capitale, cancellerà le azioni in portafoglio facendo così accrescere la quota del Tesoro del 3% che verrà poi così ceduto a privati. Si avrà una cessione parziale della quota anche per Stm dove il ministero dell’Economia è presente attraverso la holding che controlla in maniera paritetica con il fondo strategico francese. Ancora da chiarire invece le modalità di dismissione per Enav di cui verrà ceduto solo il 40%. Quanto ai gioielli in mano alla Cassa depositi e prestiti, per Fincantieri si era prospettata la quotazione su Piazza Affari di un 40% mentre è ancora incerta la modalità su Sace per la quale è prevista la cessione del 60%. Sul mercato andrà invece il 50% di Cdp Reti e Tag, mantenendo così il controllo pubblico. Certo l’apertura a soci privati garantirà alle società (e i mercati in cui operano) maggiore trasparenza ed efficienza con effetti benefici generali, ma l'operazione rischia di rivelarsi un pericoloso boomerang. Per dirla con le parole di Daniele Capezzone, presidente della commissione finanze della Camera, è come vendere "l’argenteria agli usurai". 


Il diktat delle privatizzazioni non vale per tutti. Non solo Germania e Francia non hanno mai toccato i propri asset né hanno intenzione di farlo nell'immediato futuro, ma appena una società provare a comprare un gruppo che ritengono essere strategico per il Paese, si chiudono a riccio e ne vietano la vendita. Di partecipazioni i due colossi dell'Eurozona ne hanno eccome. La Francia, per esempio, possiede il 90% di Areva (multinazionale francese che opera nel campo dell'energia, specialmente quella nucleare), oltre l'84% di Électricité de France e il 15% di Renault (facendone così il primo azionista). E ancora: il 16% di AirFrance-Klm e il 27% di France Telecom sono statali. La Germania non è da meno. Il Tesoro tedesco ha il 17% di Commerzbank e il 15% di Deutsche Telekom, mentre la Bmw è in parte della regione della Baviera. Insomma, ancora una volta i vincoli, a cui l'Unione europea lega mortalmente l'Italia, non valgono per quei Paese che a tavoli di Bruxelles fanno il bello e il cattivo tempo.


L'Ue ordina: "L'Italia rispetti i patti e cominci a privatizzare". Letta dispone il piano per le dismissioni: "È solo il primo pacchetto". Si parte con Eni, Fincantieri e Grandi Stazioni. Ma, mentre l'Italia svende i propri gioielli, Germania e Francia si tengono stretti gli asset





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Andrea Indini

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Published on November 22, 2013 04:01

November 20, 2013

Forza Italia, capogruppo al Senato: spunta l'ipotesi Berlusconi

Forza Italia organizza le proprie pattuglie. Sul tavolo c'è il nodo dell'elezione dei capigruppo. In pole position per guidare i senatori azzurri ci sarebbe proprio Silvio Berlusconi che, nonostante la cena di gala per il Milan in programma questa sera a Milano, ha deciso di volare a Roma per definire le questioni aperte nella rinata Forza Italia, tra cui quella della presidenza del gruppo al Senato, dopo l’addio di Renato Schifani.


Quelli che nelle scorse ore sono circolati come rumor tra i parlamentari di Forza Italia, cominciano a prendere le sembianze di una ipotesi di lavoro vera e propria e di una strategia in vista del voto sulla decadenza del Cavaliere dalla carica di senatore fissato per il 27 novembre. A Palazzo Madama rimpiazzare Schifani non crea, infatti, particolari smottamenti all’interno del partito anche perché, viene spiegato da fonti vicine a Palazzo Grazioli, chi ha già incarichi di presidente di commissione, questore o vice presidente dell’Aula non lascerà l’incarico, consapevole che in quel caso assai difficilmente le stesse cariche sarebbe conferite di nuovo a esponenti di Forza Italia.  Se non dovesse essere calata la carta Berlusconi, i nomi in ballo per l’incarico di capogruppo al Senato sono quelli di Elisabetta Alberti Casellati e Anna maria Bernini. "Nel caso dovesse essere scelta una delle due, l’altra non se la prenderebbe", assicurano fonti bene informate. E fanno sapere: "Nessuno si sentirebbe esautorato o messo da parte in una fase come questa".


L’organigramma di Forza Italia verrà rinnovato solo lì dove rimangono posti vacanti a causa dell’uscita delle colombe. E, allora, la scelta di affidare il gruppo a Berlusconi risponderebbe a un duplice obiettivo. Secondo indiscrezioni riportate dall'Agi, sarebbe una scelta che incontrerebbe l’entusiasmo di tutti ma, soprattutto, creerebbe un caso politico gigantesco in vista del voto per la decadenza. Perché, è il ragionamento fatto da alcuni parlamentari di Forza Italia, una cosa è "estromettere un senatore, sebbene leader indiscusso della più importante formazione dell’opposizione, un'altra è cacciare il capogruppo di un partito dell’opposizione". Dopo il Consiglio nazionale che ha sancito la fine dell'esperienza del Pdl, Berlusconi ha deciso di dare un segnale forte "traslocando" nella sede di piazza San Lorenzo in Lucina. Una scelta significativa se si considera quanto poco il Cavaliere abbia frequentato finora le sedi del partito nonché il fatto che anche da premier privilegiava svolgere gli incontri politici a Palazzo Grazioli anziché a Palazzo Chigi.


In questo modo, se dovesse passare la decadenza, verrebbe cacciato dal Senato il presidente di un gruppo parlamentare





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Andrea Indini

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Published on November 20, 2013 08:43

November 19, 2013

Se il peso delle tasse distrugge la ripresa

Nonostante il premier Enrico Letta e il ministro dell'Economia Fabrizio Saccomanni continuino a presentare il 2014 come l'anno della rinascita del Belpaese, i principali indicatori economici raccontano una realtà di gran lunga diversa. I primi segnali di ripresa ci sono, è vero. Basta dare uno sguardo al bollettino dell'Istat sullo stato di salute dell'industria italiana per capire che è in atto una timida ripresa. Tuttavia, la situazione non è così rosea come Letta & Co. vorrebbero farci credere. "Nonostante il successo del governo nel proseguire il consolidamento fiscale - si legge nell'Economic outlook dell'Ocse - il debito pubblico italiano sta continuando a salire in rapporto al pil e, per garantirne un rapido declino, potrebbero essere necessarie nuove misure di aggiustamento".


"Sulla spesa pubblica si cambia verso". Nel suo intervento alla cerimonia per i novant'anni del Consiglio nazionale per le ricerche, Letta ha parlato del 2013 come "un anno di transizione" in cui il governo ha scelto di "fermare alcuni processi su tagli, deficit e debito". "Ora  si devono eliminare gli sprechi per utilizzare nel modo più produttivo le risorse - ha aggiunto il premier - i tagli si devono fare dove è necessario". Insomma, a detta del capo del governo, il 2014 sarà un anno "significativo e importante". "L'inversione di marcia - ha assicurato - ci consentirà di prendere la strada della crescita". Tutto rose e fiori. Lo stesso scenario che da settimane tenta di dipingerci anche Saccomanni la cui ricetta per far ripartire il Belpaese è stata bocciata pure dalla Banca d'Italia. Bisogna dar merito all'ottimismo ostentato dal governo che una timida ripresa è in atto. Il fatturato dell’industria, per esempio, ha segnato nel mese di settembre il secondo aumento consecutivo su base mensile, anche se limitato a un +0,1% a causa della cattiva performance dell’estero. Su base annua, però, l'Istat ha registrato ancora un calo dell'1%, il ventunesimo consecutivo. La caduta, tuttavia, sta rallentando. Ancor meglio vanno gli ordinativi dell’industria che, sempre a settembre, sono saliti dell’1,6% rispetto al mese precendente. Su base annua il dato ha registrato un aumento del 7,3%, grazie alla spinta arrivata dall’estero. "Si tratta del rialzo annuo più alto da maggio 2011", fanno notare dall'istituto di statistica.


La situazione sembra muoversi, ma non è così rosea come Letta è andato a venderla in Europa. "Letta gode di un grande consenso - ha commentato il capogruppo di Forza Italia alla Camera, quello suo e delle sue certezze. Le sue certezze sulla ripresa, sulla crescita del pil, sulla riduzione della pressione fiscale, sui tagli alla spesa pubblica". Non è solo il parlamento a non dare credito alle misure messe in campo dall'esecutivo per cavalcare questa timida ripresa. La Commissione europea ha già invitato Saccomanni a riscrivere la legge di Stabilità, mentre il Wall Street Journal ha dedicato un editoriale per bocciare il modello fiscale italiano. "Con una economia che stenta a ripartire ed una disoccupazione a livelli record - si legge nell'editoriale - il peso delle tasse in Italia potrebbe distruggere le prospettive di ripresa". Secondo il giornale statunitense, proprio "l’enorme peso delle tasse" su aziende e lavoratori è una delle principali cause della scarsa crescita dell’Italia negli ultimi dieci anni, addirittura "la più bassa tra i 34 Paesi dell’area Ocse". E proprio nell'Economic outlook dell'Ocse si legge che, sebbene l'Italia stia uscendo dalla recessione registrando una crescita nel 2014 e nel 2015, "la fiacchezza dell’economia resterà grande". Per combattere questa "fiacchezza" la ricetta è semplice: prendere la mannaia e tagliare la pressione fiscale. Purtroppo Letta, che vive in un magico mondo di crescita e ripresa, non sembra affatto orientato in questo senso.


Letta continua a ripetere: "Il 2014 sarà l'anno della crescita". Ma i numeri svelano un'altra realtà: se non taglia le tasse non ci sarà ripresa





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Andrea Indini


Fabrizio Saccomanni ed Enrico Letta durante una conferenza stampa
Valanga di tasse occulte in arrivo Il web: "Quando Saccomanni parla è vero il contrario"L'allarme degli agricoltori: "Torna l'Imu? Per noi è finita"Le tasse pesano sulle pensioni: Italia al top dell'Ue
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Published on November 19, 2013 08:24

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Andrea Indini
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