Andrea Indini's Blog, page 141
October 1, 2014
De Magistris sospeso da sindaco
Luigi De Magistris è al capolineo. Entro domani non sarà più sindaco di Napoli. Dopo aver ricevuto la comunicazione del tribunale sulla condanna a un anno e 3 mesi per abuso d'ufficio, il prefetto Francesco Antonio Musolino ha firmato la sospensione del primo cittadino arancione. Che, però, non molla: "Attiverò una fase di rigenerazione amministrativa, cioè starò molto per strada. Sarà una fase che aiuterà molto anche me perché stare in ufficio sottrae tempo da dedicare ai concittadini".
"La sentenza? Salutatemela". Pur nella difficoltà del momento, De Magistris ha tentato di alleggerire la tensione, con una battuta. Nel corso della conferenza stampa a Palazzo San Giacomo per la presentazione della mostra dell’artista libanese Mazen Kerbaj, il curatore della mostra ha detto che l'artista ha conosciuto bene Napoli: "Ormai è napoletano di adozione". "E allora facciamolo vicesindaco - ha detto De Magistris ridendo - così risolviamo il problema". In realtà, per quanto riguarda il vicesindaco di Napoli Tommaso Sodano la sentenza emessa a suo carico non comporta l'applicazione di provvedimenti sanzionatori o cautelari che inibiscano anche temporaneamente la funzione. Nel corso del question time a Montecitorio, rispondendo a un'interrogazione sull'applicazione della legge Severino, il ministro dell'Interno Angelino Alfano ha spiegato che le disposizioni "appaiono chiare" e "hanno trovato recenti applicazioni in casi analoghi". "Come ha chiarito la Corte Costituzionale - ha sottolineato il titolare del Viminale - la misura si applica anche nell'ipotesi di eventuale sospensione condizionale della pena, che ricorre nel caso di specie".
"Tra 24 ore sarò sindaco sospeso; la prima cosa che farò? Mi vado a piglià un caffè sospeso". Anche nel giorno della sospensione, l'ex pm è tornato a denunciare "atteggiamenti brutti da parte di importanti esponenti della politica e delle istituzioni" e a vantare "tanto affetto dai cittadini, persone senza potere". Per questo, già da domani, dismetterà la fascia tricolore e girerà per il capoluogo partenopeo con una fascia arancione dalla scritta "sindaco sospeso". "Sono motivo di grande forza - ha concluso - vinceremo anche questa battaglia". Presto o tardi, però, dovrà farsene una ragione. I suoi "amici", quelli che per anni lo hanno portato in palmo di mano, lo hanno già depennato. Per il bene di Napoli potrebbe prenderne atto a fare un passo indietro.
Ricevuta la sentenza di condanna, il prefetto di Napoli ha firmato la sospensione
Tag:
Luigi de Magistris
Napoli
sindaco
sospensione
Angelino Alfano
legge severino
Andrea Indini
September 30, 2014
Il delirio "allucinogeno" di Marino: "Drogarsi? Vedendo i Rolling Stones..."
Gira che ti rigira, quando va a Un giorno da pecora, Ignazio Marino finisce sempre per parlare di droga. Che sia favorevole alla legalizzazione dei cannabinoidi vari, ormai è una notizia datata. Adesso, però, fa qualche pensierino tardo sessantottino anche sulle sostanze più pesanti. Tra queste anche quella polverina bianca semisintetica, ottenuta per reazione della morfina con l'anidride acetica, che aldilà dell'estasi disforica della prima ora devasta l'organismo trasformando la vita in limbo, l'esistenza in una spasmodica ricerca di un compimento endovenoso che corrode il corpo. Ma al sindaco di Roma, che dopo tutto è anche un medico, basta l'esempio dei Rolling Stones per affermare che, sotto sotto, certe droghe non fanno poi così tanto male. Poco importa se uno dei fondatori Brian Jones, fisicamente provato dall'uso smodato di droghe, è stato allontanato dal gruppo proprio perché incapace di collaborare e nel 1969 è morto annegato in una piscina, in circostanze ancora da chiarire.
Marino ci scherza sopra, la prende alla leggera. "Se ho mai fatto uso di droghe? Sono fortemente attirato da qualunque sostanza stupefacente - spiega ai microfoni - ma non ne ho mai utilizzata nessuna, perché ho paura da un punto di vista medico". Ospite a Un giorno da Pecora su Radio 2, il sindaco di Roma svela però un interrogativo che gli frulla in testa da un po' di tempo: "Mi sono molto interrogato, quando abbiamo avuto in città i Rolling Stones, vedendo il batterista, a quasi 75 anni, suonare senza interruzione con un’energia incredibile". Il batterista è Charlie Watts. E dei Rolling Stones non era sicuramente l'unico che faceva uso di stipefacenti. Quali e quante sostanze consumassero non è del tutto chiaro. Ma, forse, sarebbe più semplice andare per esclusione. Di sicuro, si farebbe prima. Quel che è certo è che Sister Morphine è, insieme a Heroin di Lou Reed, una canzoni più tossiche della storia del rock. Sticky Fingers, poi, è l'album della droga vissuta in prima persona. Una sorta di lode all'eroina come l'unica sostanza che rende il cervello lucido. Per fortuna Marino, qualche problema, sembra porselo. "Diventa - dice - difficile spiegare ai tuoi figli che non devono utilizzare sostanze...".
Non è la prima volta che a Un giorno da pecora, il sindaco-medico si lancia in una apologia delle sostanze ricreative. L'anno scorso aveva, infatti, "prescritto" le canne per combattere i dolori e tirar su l'umore. "L’ultima volta che ho fumato uno spinello purtroppo è stato molti anni fa, quando stavo all’Università - aveva raccontato Marino - anche perché io ho paura a fare qualcosa di illegale andandola a comprare. Se invece la liberalizziamo...". Quando i conduttori gli avevano chiesto se le canne fanno bene o male, l'esponente del Partito democratico aveva assicurato che fanno bene all'umore e al sistema nervoso centrale: "Se uno ha dei dolori li toglie e aumenta l’appetito. Le canne penso che farebbero bene un po' a tutti".
Un anno fa benedì le canne: "Fanno bene all'umore". Oggi le droghe pesanti: "Basta vedere il batterista degli Stones..."
Tag:
ignazio Marino
rolling stones
droga
eroina
droghe pesanti
Andrea Indini
Renzi rischia di vanificare la revisione dell'articolo 18
Il Jobs Act passa le forche caudine della direzione Pd. Ma il partito si spacca: i sì sono 120, i no 20, 11 gli astenuti. Non riesce dunque a convincere la minoranza dem la mediazione che, senza "cedere a compromessi", obbliga Matteo Renzi a cedere su più punti. Il premier non solo riapre anche la sala verde di Palazzo Chigi ai sindacati. Ma, soprattutto, concede il reintegro per motivi disciplinari, oltre che discriminatori. Un retromarcia clamorosa che, di fatto, trasforma la tanto acclamata riforma in una sorta di copia dell'attuale articolo 18. "Forza Italia è disposta a dire sì alle riforme - ha subito commentato il capogruppo azzurro alla Camera, Renato Brunetta - ma non a farsi prendere in giro".
Nella legge delega arriva "il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio" per tutti i neoassunti. La delega non cita espressamente l'articolo 18 e saranno i decreti delegati a definire le modifiche. Fino ad oggi Renzi ha affermato la necessità di sostituire il reintegro con l’indennizzo in caso di licenziamento giudicato illegittimo (ad eccezione dei licenziamenti per motivi discriminatori) ma, nel corso della direzione Pd, ha annunciato che andrà mantenuto anche per i licenziamenti disciplinari. In questo caso si avrà un sostanziale nulla di fatto perché sulle interruzioni di rapporto di lavoro per motivi economici è già intervenuta la legge Fornero prevedendo l’indennizzo in caso di licenziamento illegittimo. Insomma alla prima difficoltà Renzi sembra calare le braghe sia al sindacato sia alla minoranza dem rischiando così di vanificare una riforma del lavoro che ha tutte le carte per essere epocale. I licenziamenti disciplinari sono, infatti, il vero problema per le imprese, in quanto sono determinati da fatti e comportamenti che riguardano il rapporto di fiducia tra datore di lavoro e lavoratore. "Se così fosse non cambierebbe un bel nulla", commenta Brunetta ricordando che la materia del licenziamento economico è già stata regolata dalla legge Fornero.
Da giorni Silvio Berlusconi promette un'opposizione responsabile. Quando si sono visti l'ultima volta, ha assicurato a Renzi una mano ad approvare il Jobs Act. Sempre che la riforma del mercato del lavoro non venga snaturata. Per il momento, quindi, il Cavaliere non intende sbilanciarsi: prima di dare l'ok aspetta di vedere il testo definitivo. La strategia attendista è suffragata dalla clamorosa marcia indietro del premier che, alla direzione nazionale, ha rivisto le modifiche all'articolo 18. Una mossa che ha infastidito - e non poco - i vertici di Forza Italia. "L'apertura di Renzi - commenta il presidente dei senatori azzurri Paolo Romani - lascia sconcertati e rischia di vanificare completamente l’obiettivo di revisione dell’articolo 18 da lui più volte dichiarato". Nell'ultima versione Renzi lascerebbe ai giudici stabilire se l’accusa mossa al lavoratore dal datore di lavoro sia fondata o meno. In questo modo il quadro normativo conserverebbe ancora gravi aspetti di incertezza che troverebbero soluzione soltanto in giudizio. "In che direzione stiamo andando? - chiede Romani - non è ancora chiaro se Renzi voglia fare passi avanti o indietro rispetto all’attuale normativa sui licenziamenti disciplinari". La legge Fornero dispone, infatti, in casi diversi dall'insussistenza del fatto, soltanto il risarcimento e non anche il reintegro. "Fino a quando non avremo un testo chiaro su cui discutere - avverte Romani - la legge delega resta confusa e imprecisa".
Il premier s'inchina alla sinistra dem e apre al reintegro per i licenziamenti disciplinari. Forza Italia: "È un imbroglio"
Tag:
jobs act
articolo 18
licenziamento disciplinare
reintegro
forza italia
Andrea Indini
Renzi applica l'articolo 18 per liberarsi dei dissidentiRenzi sfida i sindacati: "La gente sta con me"Veti e vecchi rancori: il Pd si squaglia in diretta tvPrima di dire sì, il Cav aspetta il testo definitivo"Dear Matteo, House of Cards non è un manuale"
September 28, 2014
Renzi vuole abolire i contratti precari: "Ma l'imprenditore ha diritto di licenziare"
Se la scissione ventilata ieri dal "ribelle" Pippo Civati è una spacconata per mettere paura a Matteo Renzi o un ultimatum irrevocabile, lo si vedrà alla direzione nazionale del Pd che domani esaminerà il nodo della riforma del mercato del lavoro. Sulla carta il premier-segretario ha i numeri sufficienti per approvare il Jobs Act e, in particolar modo, la parte che riguarda l'abolizione dell'articolo 18. I fedelissimi del Renzi-pensiero (dal ministro Maria Elena Boschi a Lorenzo Guerini, da Debora Serracchiani a Luca Lotti) controllano, infatti, il 67% della direzione e appoggiano in pieno il progetto di riformare le regole sul lavoro. Del "gruppone" renziano fanno parte anche i seguaci di Dario Franceschini tra cui spicca il capogruppo in Senato Luigi Zanda.
Il "parlamentino" del Pd è composto sulla base dei risultati delle primarie dell’8 dicembre 2014, dove il premier ottenne una larghissima maggioranza. Ma nel Pd non bisogna mai dare nulla per scontato. "Io non sono un massone, sono un boy scout. La verità è che io non omaggio certi poteri e questa è la reazione". In un lunga intervista a Repubblica, rilasciata alla vigilia della direzione del Pd, Renzi ha messo in chiaro che sul Jobs Act non si tratta. Prendere o lasciare. "Se qualcuno pensa di volerlo sostituire si accomodi pure - ha spiegato - ma il Pd, il partito del 41%, non accetterà farsi da parte". Ed è il "partito del 41%", quello che ha sbancato alle europee, quello che vuole imporre la propria linea alla minoranza piddina che, insieme ai sindacati, è pronta ad andare allo scontro frontale. "Domani in direzione gufi e parrucconi che sperano nella deflagrazione resteranno male - ha messo in chiaro anche il sottosegretario Angelo Rughetti - il Pd del 41% troverà una soluzione condivisa".
Ospite a Che tempo che fa è stato proprio Renzi a spiegare che tipo di riforma ha in mente: "Quando hai un disoccupato non devi fare una battaglia ideologica sull'articolo 18, ma devi fare in modo che trovi un lavoro". Da qui l'obiettivo, oltre ad abolire il totem dell'artidolo 18, di cancellare i vari co.co.co e co.co.pro. "Cancelliamo il precariato e tutte quelle forme di collaborazione che hanno fatto del precariato la forma prevalente del lavoro - ha continuato - non voglio che la scelta di licenziare o assumere sia in mano ad un giudice, deve essere in mano all'imprenditore". Renzi non risparmia una stoccata a Camusso e compagni che ha minacciato lo sciopero generale: "Il sindacato è l'unica impresa che sta sopra i 15 dipendenti e non ha l'articolo 18. È il sindacato, che poi ci viene a fare la lezione".
Oltre ai fedelissimi del renzismo, il segretario ha dalla sua i "giovani turchi". L'area, che raccoglie un gruppo di quarentenni di provenienza Ds, si è infatti spostata su posizioni vicine a quelle di Renzi, anche sulla riforma del lavoro e sull’articolo 18. Il leader è Matteo Orfini, presidente del partito. Che sta lavorando per scongiurare il muro contro muro: "Dobbiamo trovare l’accordo in direzione e credo che ci siano tutte le condizioni per farlo". Giovane turco è anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Anche i Popolari raccolti intorno a Beppe Fioroni, che al congresso avevano appoggiato Gianni Cuperlo, hanno assicurato il proprio appoggio all riforma del mercato del lavoro. Enrico Letta, invece, ha sciolto il proprio gruppo decidendo di tenersi fuori dalle polemiche sebbene i suoi (tra i quali c'è anche il presidente della commissione Bilancio Francesco Boccia) abbiano più volte espresso qualche riserva sul Jobs Act.
Nonostante l'ottimismo di Renzi, la direzione di domani si preannuncia incandescente. A sentir parlare Pierluigi Bersani non ci sarà alcuna scissione: "Chi ha la responsabilità di dirigere deve trovare una sintesi...". L'aria che tira al Nazareno, però, non è certo distesa. Anzi. E a infiammare gli animi non poteva che essere Massimo D'Alema che, ospitato dal nuovo corso antirenziano del Corriere della Sera, spara ad alzo zero contro il segretario: "L’unica vecchia guardia con cui Renzi interloquisce è quella rappresentata dal centrodestra di Berlusconi e Verdini. Al Pd vengono poi imposte, con il metodo del centralismo democratico, le scelte maturate in quegli incontri privati". È proprio il Patto del Nazareno a indispettire la minoranza piddina. Tra questi la sinistra dem che ha per leader Cuperlo, anche se il punto di riferimento resta sempre Bersani. Spingono per modificare in modo sostanziale il Jobs act e bollano come "di destra" la posizione di Renzi sull’articolo 18. Anche tra i bersaniani, però, la linea non è affatto omogenea: mentre Cuperlo e il capogruppo alla Camera Roberto Speranza sembrano più disposti a trattare, Stefano Fassina, Cesare Damiano e lo stesso Bersani sono più intransigenti. Sono, tuttavia, i civatiani ad avere una posizione più irremovibile sul Jobs Act. È stato proprio Civati, in un'intervista a Radio Montecarlo, a evocare la possibilità di una scissione. Con lui ci sono Corradino Mineo e e Felice Casson, ma in direzione su pochi rappresentanti.
Domani direzione Pd sul lavoro. Renzi: "Via articolo 18 e contratti da precari". La minoranza: "No a derive a destra"
Tag:
Pd
direzione nazionale
Matteo Renzi
jobs act
articolo 18
scissione
scontro
Andrea Indini
September 27, 2014
De Magistris se ne infischia del prefetto: "Continuerò a fare il sindaco per strada"
Luigi De Magistris ha sempre ripetuto che le sentenze vanno rispettato. Ma lui, la sentenza del caso Why not, proprio non la vuole rispettare. Non ci pensa proprio di fare un passo indietro e dimettersi da sindaco di Napoli. Alla poltrona Palazzo San Giacomo s'è incatenato e a smuoverlo non saranno i compagni di partito, i vecchi amici di manette, i giustizialisti dell'Associazione nazionale dei magistrati. Come un disco incantato, Giggino 'a manetta continua a ripetere che non solo non lascerà l'incarico, ma che addirittura si ricandiderà a essere il primo cittadino di Napoli. È la nemesi di un (ex) magistrato che al minimo sospetto fremeva per sbattere in cella indagati e imputati.
"Nel 2016 mi ricandido a sindaco di Napoli - ha annunciato De Magistris ai microfoni di Sky Tg24 - ricostruirò il mio consenso giorno dopo giorno, e alla fine come sempre decideranno i cittadini". E il primo cittadino è, infatti, convinto di poter ottenere tra due anni percentuali ribaltate rispetto al sondaggio di Sky che, ad oggi, vede il 78% di favorevoli alle dimissioni e solo il 22% di contrari. Nemmeno se il prefetto dovesse sospenderlo, sarebbe disposto ad accettare la condanna. "Secondo me la legge (Severino, ndr) non prevede nessun automatismo, ma se il prefetto ritiene di applicarla con la mia sospensione non è che io voglia scatenare la fine del mondo - ha continuato - il vicesindaco assumerà le mie funzioni ma io sarò sempre il sindaco eletto dai cittadini e alla fine della sospensione riassumerò il mio incarico. Nel frattempo farò il sindaco per strada". E impugnerà la sospensione. Ma cosa significa fare il "sindaco per strada"? De Magistris lo ha spiegato ai microfoni di Sky: "Sistemerò aiuole con i miei concittadini, farò iniziative con loro. Pur sospeso, sarò sempre io il sindaco. La mia squadra è lì, la mia maggioranza è compatta e si è ampliata...". Una sorta di sindaco ombra per aggirare la sospensione del prefetto e la condanna in primo grado.
Nelle ultime ore anche Antonio Ingroia ha chiesto le dimissioni. "Sono suo amico - ha detto all'Huffington Post - ma è il momento di fare un passo indietro". De Magistris, al tempo eurodeputato per Antonio Di Pietro, parte dal presupposto che la sentenza sia "sbagliata" e che soltanto le elezioni (nel 2016) potranno sbatterlo fuori dal Comune di Napoli. "Ho fatto il mio dovere - ha sentenziato - ho la coscienza a posto". Insomma, l'esatto opposto del credo che lui e i suoi compagni di manette andavano in giro ripetendo fino a qualche tempo fa. È un sistema che va in tilt. Adesso, viene fuori che sotto sotto aveva ragione Silvio Berlusconi: le sentenze possono non solo essere sbagliate, ma addirittura politicizzate. Niente di nuovo sotto il sole. Ma che a dirlo sia uno dei più agguerriti giustizialisti del Paese fa specie. Tanto più se si mette a bisticciare con l'Anm. "Non faccia solo una difesa corporativa, che può essere finanche giusta - ha detto l'ex pm al sindacato delle toghe - ma vada anche a vedere se all'interno della magistratura vengono commessi errori gravi". Il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli non se le è lasciate cantare. E ha replicato: "Quelle di De Magistris sono affermazioni molto gravi perché esprimono disprezzo non nei confronti di questi o quei giudici, ma nei confronti della magistratura e della giurisdizione". Che spettacolo!
Pure Ingroia lo molla: "Se ne vada". Ma Giggino insiste: "Se mi sospendono, il vicesindaco assumerà le mie funzioni ma io continuerò a fare il sindaco"
Tag:
Luigi de Magistris
why not
dimissioni
sindaco
Napoli
Andrea Indini
Il delirio di De Magistris: devono dimettersi i giudiciQuei flop giudiziari che hanno cambiato la storia"Genchi raccoglieva i dati e li passava a Travaglio"Gli azzurri vedono le urne: "De Magistris se ne vada"
September 24, 2014
Articolo 18, Grillo fa un appello a Bersani: "Mandiamo a casa Renzi"
Per farci un governo insieme, non ha mai voluto scendere a patti. Ma per far cadere un governo, quello di Matteo Renzi, allora l'alleanza si può anche fare. Appena ha sentito aria di rottura, Beppe Grillo ha subito chiamato la minoranza piddina per stringere un patto contro il Jobs Act e trasformare il Senato nel Vietnam. "Renzi sta riuscendo dove non sono riusciti Monti e Berlusconi, sta trattando la Cgil come uno straccio per la polvere - ha scritto oggi sul blog - compagni del Pd cosa aspettate ad occupare le sedi e far sentire la vostra voce?". Per il leader dei Cinque Stelle la battaglia per l'articolo 18 è "l’occasione per mandare a casa Renzi". Tanto da essere disposto a sconfessare la linea del movimento e accordarsi con Pierluigi Bersani.
Con la comparsata di ieri sera a diMartedì, Bersani si proposto alla testa dei ribelli democrat. A Renzi ha chiesto rispetto, ma soprattutto ha ricordato che in parlamento sta govenando grazie al suo 25%. Nelle ultime ore le firme ai sette emendamenti per modificare il Jobs Act e blindare l'articolo 18 sono salite a una quarantina. Una cifra che, soprattutto a Palazzo Madama dove i numeri sono sul filo del rasoio, potrebbe impensierire non poco il presidente del Consiglio. "Nel programma del Pd - ha chiesto Bersani - dove si trova l'abolizione dell'articolo 18". Qualora le modifiche alla riforma del lavoro non dovessero essere accolte, la minoranza piddina è addirittura disposta a chiedere il referendum. "Nella riforma del lavoro ci sono punti che non vanno e che aggravano la precarietà", ha rilanciato Stefano Fassina intervenendo ad Agorà. Di rimando il responsabile economico del Pd Filippo Taddei, in un’intervista al Sole 24Ore, ha ribadito che la riforma è "un pezzo unico che si tiene tutto assieme". Il Pd, insomma, è a un passo dalla rottura.
In questo quadro desolante prova a infilarsi Grillo per scippare a Renzi quel pugno di voti che gli permettono di reggere il governo. "Lo scontro - si legge nel post firmato dall'ideologo del M5S, Aldo Giannulli - impone che abbiamo tutti molta generosità, mettendo da parte recriminazioni pur giuste, per realizzare la massima efficacia dell’azione da cui non ci attendiamo solo il ritiro di questa infame 'riforma', quanto l’occasione per mandare definitivamente a casa Renzi". La chiamata alle armi del comico genovese non vale solo per la minoranza del Pd, ma anche per i sindacati. Una provocazione bella e buona che fa sorridere il capogruppo democrat Roberto Speranza che ha accusato Grillo di fare un "populismo nemico della sinistra". Anche tra i ribelli la sortita contro il premier non sembra affatto ingolosire. Per il senatore Miguel Gotor, per esempio, il leader del M5S è solo "un piccolo Ayatollah che punta a indebolire il Pd".
Per quanto l'offerta di Grillo rischi di cadere nel vuoto, per Renzi il rischio di non avere i numeri per approvare la riforma del mercato del lavoro resta. E si fa ogni giorno via via più concreto. Divisi dal dubbio amletico (appoggiare il premier o perdere lo scranno?), chitiani, mineani, bersaniani e civatiani fanno finta di ruggire come leoni anche se assomigliano a conigli. La posta in gioco è alta. E qualcuno potrebbe anche bluffare. Sempre che i voti mancanti per approvare il Jobs Act non arrivino dagli scranni del centrodestra. In quel caso, Bersani e compagni rimarranno con il cerino in mano. E lo smacco di non aver più l'articolo 18 da sbandierare a ogni battaglia sindacale.
Continua l'assalto dei frondisti piddì al Jobs Act. Grillo prova a stringere un'alleanza per far cadere Renzi: "È l'occasione per far cadere il governo"
Tag:
Matteo Renzi
Beppe Grillo
minoranza
Pd
jobs act
lavoro
Andrea Indini
Renzi perde 40 voti al Senato: niente maggioranzaPd, frondisti terrorizzati di finire ai giardinetti come Fini
September 23, 2014
Articolo 18, Bersani guida la rivolta nel Pd: "Renzi? Governa col mio 25%"
"Mi viene una sola parola per definire il dibattito sull’articolo 18: paradossale". Al termine di una convulsa giornata segnata dalla serrata della minoranza piddina a difesa dell'articolo 18, il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan affida al sito di Avvenire la blindatura del Jobs Act e, in particolar modo, la parte che rivede la norma chiave dello statuto dei lavoratori. "Se si guardano i numeri - ha spiegato in un’intervista che verrà pubblicata domani - ci si accorge che i lavoratori 'impattati' dall’articolo 18 sono pochissime migliaia". Eppure la minoranza del Pd non vuole sentir ragioni: se il governo non dovesse rivedere la riforma del lavoro, è pronta ad arrivare allo scontro frontale.
La minoranza piddina ha scoperto le carte. Sui vertici di via del Nazareno sono piovuti i sette emendamenti al Jobs act che rischiano di minare la riforma del lavoro fortemente voluta dal premier Matteo Renzi. A Palazzo Madama tra i quaranta firmatari figurano bersaniani, civatiani e ribelli storici alla Vannino Chiti, Corradino Mineo, Walter Tocci e Massimo Mucchetti. Il punto principale del documento unitario prevede la piena tutela dell'articolo 18 per tutti i neoassunti dopo i primi tre anni di contratto. "La posizione la decide la direzione - ha subito commentato la vicepresidente del Pd, Debora Serracchiani - Renzi non accetterà veti". In mattinata i dissidenti dem si sono confrontati con il ministro del Lavoro Giuliano Poletti e il responsabile economia del partito Filippo Taddei. "Le polemiche in caso di licenziamento discriminatorio - ha tagliato corto - il ministro - sono infondate". Ma a liquidare con più forza la serrata piddina è Padoan che non ha alcuna intenzione di cambiare l'impianto della riforma per "pochissime migliaia" di persone. "Sono numeri importanti perché parliamo di persone - ha spiegato ad Avvenire - ma irrilevanti se messi di fronte all’interesse collettivo che è più occupazione e più equità". Secondo il titolare del Tesoro, da parte di una certa sinistra ci sarebbe, infatti, "un accanimento ideologico che l’Italia non si può più permettere".
Nell’intervista ad Avvenire il ministro dell'Economia ha assicurato agli italiani che, subito dopo la riforma, "il nuovo mercato del lavoro offrirà più prospettive di lavoro, più prospettive di investimento e di crescita e soprattutto retribuzioni più elevate". Sempre che il Jobs Act non si areni nel tortuoso iter parlamentare. Civati, Bindi, Fassina e Boccia, Damiano e Cuperlo, Chiti e D’Attorre fanno fronte comune per ottenere le modifiche richieste. Hanno già esibito la propria forza con le quasi quaranta firme presentate in calce agli emendamenti al Senato. E adesso confidano di convincere il segretario-premier a mediare. A guidare la fronda è proprio Pierluigi Bersani che, ricordando a Renzi di essere al governo col suo 25%, pretende non riconoscenza ma rispetto: "Dove sta scritto nel programma di cancellare l’articolo 18?". Questo, insomma, il clima infuocato che attende Renzi al suo rientro dagli Stati Uniti. "Leggo che avrei chissà quale obiettivo, di stare lavorando per chissà quale piano - ha detto Bersani, non senza una punta di ironia ai microfoni di La7 - a Renzi e agli altri dico, state sereni...".
La minoranza allargata tornerà a vedersi dopo la direzione, questo è l’accordo. In quella sede si deciderà anche se sia il caso di ricorrere al referendum tra gli iscritti che è previsto dallo statuto. "Dirigere un partito non è comandare", ha ricordato Cuperlo a Renzi. Ma al renziano Andrea Marcucci non è sfuggita "la malinconia di certe riunioni tra vecchi 'commilitoni' che non hanno perso gusto per minoritarismo e sconfitta".
Il Jobs Act in balia della minoranza Pd. Bersani avverte il premier: "Governa col mio 25%, mi rispetti". Ma la Serracchiani: "Niente veti"
Tag:
articolo 18
pier carlo padoan
Pd
minoranza
jobs act
Andrea Indini
Renzi perde 40 voti al Senato: niente maggioranzaPd, frondisti terrorizzati di finire ai giardinetti come Fini
Articolo 18, Bersani guida la rivolta nel Pd: "Renzi deve rispettarmi"
"Mi viene una sola parola per definire il dibattito sull’articolo 18: paradossale". Al termine di una convulsa giornata segnata dalla serrata della minoranza piddina a difesa dell'articolo 18, il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan affida al sito di Avvenire la blindatura del Jobs Act e, in particolar modo, la parte che rivede la norma chiave dello statuto dei lavoratori. "Se si guardano i numeri - ha spiegato in un’intervista che verrà pubblicata domani - ci si accorge che i lavoratori 'impattati' dall’articolo 18 sono pochissime migliaia". Eppure la minoranza del Pd non vuole sentir ragioni: se il governo non dovesse rivedere la riforma del lavoro, è pronta ad arrivare allo scontro frontale.
La minoranza piddina ha scoperto le carte. Sui vertici di via del Nazareno sono piovuti i sette emendamenti al Jobs act che rischiano di minare la riforma del lavoro fortemente voluta dal premier Matteo Renzi. A Palazzo Madama tra i quaranta firmatari figurano bersaniani, civatiani e ribelli storici alla Vannino Chiti, Corradino Mineo, Walter Tocci e Massimo Mucchetti. Il punto principale del documento unitario prevede la piena tutela dell'articolo 18 per tutti i neoassunti dopo i primi tre anni di contratto. "La posizione la decide la direzione - ha subito commentato la vicepresidente del Pd, Debora Serracchiani - Renzi non accetterà veti". In mattinata i dissidenti dem si sono confrontati con il ministro del Lavoro Giuliano Poletti e il responsabile economia del partito Filippo Taddei. "Le polemiche in caso di licenziamento discriminatorio - ha tagliato corto - il ministro - sono infondate". Ma a liquidare con più forza la serrata piddina è Padoan che non ha alcuna intenzione di cambiare l'impianto della riforma per "pochissime migliaia" di persone. "Sono numeri importanti perché parliamo di persone - ha spiegato ad Avvenire - ma irrilevanti se messi di fronte all’interesse collettivo che è più occupazione e più equità". Secondo il titolare del Tesoro, da parte di una certa sinistra ci sarebbe, infatti, "un accanimento ideologico che l’Italia non si può più permettere".
Nell’intervista ad Avvenire il ministro dell'Economia ha assicurato agli italiani che, subito dopo la riforma, "il nuovo mercato del lavoro offrirà più prospettive di lavoro, più prospettive di investimento e di crescita e soprattutto retribuzioni più elevate". Sempre che il Jobs Act non si areni nel tortuoso iter parlamentare. Civati, Bindi, Fassina e Boccia, Damiano e Cuperlo, Chiti e D’Attorre fanno fronte comune per ottenere le modifiche richieste. Hanno già esibito la propria forza con le quasi quaranta firme presentate in calce agli emendamenti al Senato. E adesso confidano di convincere il segretario-premier a mediare. A guidare la fronda è proprio Pierluigi Bersani che, ricordando a Renzi di essere al governo col suo 25%, pretende non riconoscenza ma rispetto: "Dove sta scritto nel programma di cancellare l’articolo 18?". Questo, insomma, il clima infuocato che attende Renzi al suo rientro dagli Stati Uniti. "Leggo che avrei chissà quale obiettivo, di stare lavorando per chissà quale piano - ha detto Bersani, non senza una punta di ironia ai microfoni di La7 - a Renzi e agli altri dico, state sereni...".
La minoranza allargata tornerà a vedersi dopo la direzione, questo è l’accordo. In quella sede si deciderà anche se sia il caso di ricorrere al referendum tra gli iscritti che è previsto dallo statuto. "Dirigere un partito non è comandare", ha ricordato Cuperlo a Renzi. Ma al renziano Andrea Marcucci non è sfuggita "la malinconia di certe riunioni tra vecchi 'commilitoni' che non hanno perso gusto per minoritarismo e sconfitta".
Il Jobs Act in balia della minoranza Pd. Bersani avverte il premier: "Governa col mio 25%, mi rispetti". Ma la Serracchiani: "Niente veti"
Tag:
articolo 18
pier carlo padoan
Pd
minoranza
jobs act
Andrea Indini
September 19, 2014
Camusso e il complimento a sua insaputa: "Renzi ha la mente come la Thatcher"
"Mi sembra che il presidente del consiglio abbia un po' troppo in mente il modello della Thatcher". Manco se ne accorge Susanna Camusso di fargli un complimento. Paragonare Matteo Renzi a Margaret Thatcher non è certo un insulto. Almeno non per il premier italiano, semmai un affronto alla memoria della Lady di Ferro che, oltre a guidare il partito conservatore dal 1975 al 1990, fece rialzare la testa agli inglesi riformando l'intero comparto economico e liberalizzando il mercato del lavoro. Soltanto grazie alle politiche avviate sin dal primo mandato, la Baronessa di Kesteven rovesciò il declino economico che da decenni metteva in ginocchio il Regno Unito per restituire al Paese un importante ruolo nel panorama internazionale.
Se a Renzi dovesse mai riuscire di fare la metà delle riforme della Thatcher, potrebbe considerarsi a ragion veduta un ottimo politico. Oserei dire uno statista. Un'ottima occasione per dimostrare che coi bizantinismi della Cgil e i niet della sinistra radicale non ha più nulla a che fare potrebbe essere la riforma del lavoro e, in particolar modo, la modifica o (ancor meglio) la cancellazione dell'articolo 18. Già mettendolo in discussione il presidente del Consiglio ha rotto un tabù. Non solo. Alla prova dei fatti, ieri è passata la delega del ministro Giuliano Poletti nonostante contenga l'emendamento del governo che introduce il contratto di lavoro a tutele crescenti, cioè un regime che non prevede il reintegro dei lavoratori licenziati per i quali una sentenza non riconosca la giusta causa. In attesa che il testo approdi in Aula, la Camusso è già salita in cattedra per annunciare ogni forma di mobilitazione possibile pur di far cambiare idea a Renzi. "Non stiamo difendendo noi stessi - ha tuonato durante l’inaugurazione della nuova sede del sindacato a Milano - chi vorrebbe cancellare l’articolo 18 sta cancellando la libertà dei lavoratori".
La Cgil non è l'unica a fare la fronda a Renzi. Sebbene gli otto membri del Pd in commissione Lavoro abbiano votato tutti a favore del ddl delega, non è bastato perchè si placassero i malumori in casa Pd. Tanto che il presidente dell’assemblea nazionale Matteo Orfini ha subito chiesto "importanti correzioni" al testo. A inveire maggiormente, però, è Pier Luigi Bersani. Rinfacciano tutti al premier di continuità col governo Berlusconi, di far passare riforme di destra. La Camusso ha addirittura ravvisato analogie col modello della Thatcher. Analogie che risiederebbero "nell’idea delle politiche liberiste estreme, nell’idea che è la riduzione dei diritti dei lavoratori lo strumento che permette di competere". Secondo il segretario della Cgil è "il rovesciamento dei fattori che ricorda la stagione del liberismo le cui conseguenze l’Europa paga tutt’ora continuando a essere prigioniera di una linea di austerità che non ha risolto la crisi in nessun Paese".
Renzi non deve affatto prendersela. Quello della Camusso è un complimento. Una tirata d'orecchie di cui andare fiero. Anzi, la speranza è che il premier vada davvero fino in fondo e che il Jobs Act. Perché il lascito della Lady di Ferro è molto più ampio: dopo aver abbattuto l'articolo 18, si passi velocemente a riforme ancora più radicali per liberalizzare, una volta per tutte, lo Stato. Contestualmente si dia anche un'occhiata al pugno di ferro usato in politica estera. La liberazione dei nostri marò non sono certo le Falkland, ma sicuramente un primo passo da fare per tornare ad avere un peso internazionale. E, per finire, se Renzi vuole proprio essere all'altezza del paragone, si metta a difendere l'Italia, si metta a difendere i nostri confini.
Sinistra in fibrillazione per difendere l'articolo 18. La Camusso accusa Renzi di avere in mente il modello della Thatcher. Ce lo auguriamo proprio. E non soltanto per la riforma del lavoro. Perché senza una riforma liberale l'Italia non potrà rialzare la testa
Tag:
susanna camusso
cgil
Matteo Renzi
Margaret Thatcher
lavoro
Andrea Indini
September 18, 2014
I Renzi nel mirino delle toghe: il padre indagato per bancarotta fraudolenta
Matteo Renzi è finito nel mirino delle toghe. Il padre Tiziano Renzi è, infatti, indagato per bancarotta fraudolenta dalla procura di Genova che indaga da tempo sul fallimento della Chil Post, società di distribuzione di giornali e campagne pubblicitarie con sede a Genova. Come svela il Secolo XIX, l'iscrizione nel registro degli indagati che risale verosimilmente a diversi mesi fa sarebbe arrivato nei giorni scorsi. Nel mirino dell'inchiesta, affidata al pm Marco Ayroldi e seguita in primissima persona dal procuratore aggiunto Nicola Piacente, sarebbero finiti anche altre due persone, Antonello Gabelli e Gian Franco Massone, entrambi ex amministratori della società.
La società fondata da Tiziano Renzi è stata trasferita dalla Toscana a Genova nel 2003, prima in via Fieschi, poi nella centrale Galleria Mazzini. Nel 2010 Tiziano Renzi ha ceduto un ramo d’azienda a un’altra società di famiglia dello stesso settore, la Eventi 6 srl, con sede a Rignano sull’Arno (Firenze), mentre la Chil è stata ceduta a Gian Franco Massone, che aveva già una società di consegne. I fatti nel mirino degli inquirenti risalgono, invece, al maggio del 2013 quando la Chil Post è appunto fallita. Il curatore fallimentare avrebbe rilevato passaggi sospetti dei rami d'impresa. Tra queste anche uscite di denaro ingiustificate. Al momento della bancarotta, però, il padre del premier aveva già ceduto a un imprenditore genovese la società che, tra il 1999 e il 2004, era intestata a Matteo Renzi e alle due sorelle. Tanto che dalle carte dell'inchiesta risulterebbero contributi figurativi versati anche all'attuale presidente del consiglio. In ambienti toscani vicini a Renzi si rileva, però, che in realtà l’attuale presidente del Consiglio era intestatario di un'altra società nata dalla divisione della Chil Post, e cioè la Chil Srl.
"Ne prendo atto, ringrazio la magistratura perché è un atto a mia tutela, ma essendo io indagato non posso dire niente - si è limitato a dire Tiziano Renzi - appena avrò tempo, a dimostrazione di quanto sono preoccupato, faro un comunicato stampa". Intanto, però, il Fatto Quotidiano è corso a fare le pulci alla sua dichiarazione dei redditi. Nell'ultima avrebbe dichiarato poco meno di 5mila euro, molto meno della moglie Laura Bovoli che, oltre alla pensione da insegnante, può contare su un reddito da lavoro dipendente da oltre 53mila euro, probabilmente come presidente della società di famiglia. "Le indagini sono ancora in corso - ha commentato il procuratore capo di Genova, Michele Di Lecce - non è escluso che ci possano essere altri indagati, a seconda dei ruoli ricoperti all’interno della società".
La notizia, che piomba come un macigno sia su Palazzo Chigi sia sul Nazareno, non può che lasciar spazio al lavoro dei giudici. Bisogna, infatti, aspettare a vedere se il padre di Renzi verrà rinviato a giudizio o meno. Intanto, per evitare "facili strumentalizzazioni", si è affrettato a rassegnare le dimissioni da segretario del circolo del Pd di Rignano sull’Arno.
L’indagine partita sei mesi fa in seguito al fallimento della Chil Post, azienda di distribuzione giornali con sede a Genova
Tag:
Matteo Renzi
Tiziano Renzi
padre
indagato
bancarotta fraudolenta
Andrea Indini
Andrea Indini's Blog

