Andrea Indini's Blog, page 140
October 16, 2014
Grillo inutile anche in Europa: salta l'eurogruppo con Farage
Eurogruppo addio. Il sogno di Beppe Grillo di smontare l'Unione europea dall'interno s'è infranto dopo pochi mesi. L'uscita dal gruppo Europe of Freedom and Direct Democracy (Efdd) dell'eurodeputata lettone Iveta Grigule ha fatto mancare al gruppo di cui facevano parte 48 europarlamentari e in particolare i 17 del Movimento 5 Stelle e quelli dello UK Independence Party di Nigel Farage, le 7 nazionalità necessarie alla sua esistenza. E il comico genovese si ritroverà ad essere ininfluente a Strasburgo come, d'altronde, già lo è a Roma.
L'ingresso dei grillini nell'Efdd, il gruppo degli ultra euroscettici britannici dell'Ukip fortemente voluto dalla leadership de Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, aveva provocato forti malumori e dissensi nella base e anche fra gli stessi stellati eletti al parlamento di Strasburgo, che lo avevano considerato "un matrimonio contronatura", viste le posizioni anti ambientaliste, nucleariste, e fortemente liberiste di Farage.
L'eurodeputata lettone Iveta Grigule lascia l'Efdd. E l'eurogruppo viene a mancare. Cosa faranno adesso Grillo e Farage, costretti a un matrimonio contronatura?
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Andrea Indini
Caos in assemblea, sfiorata la rissa tra grillini
Da Bruxelles schiaffo ad Alfano: "Mare Nostrum andrà avanti"
"Con Triton l’Europa si reimpossessa delle frontiere e consente di far terminare l'operazione Mare Nostrum". Da giorni il ministro dell'Interno Angelino Alfano va in giro per l'Italia a vendere l'operazione Triton, che partirà il primo di ottobre, come un successo suo personale, la pietra tombale alla fallimentare Mare Nostrum che a Roma è costata svariate decine di milioni di euro, decine di migliaia di extracomunitari da soccorrere e soprattutto un'emergenza umanitaria senza precedenti. Ma sono tutte chiacchiere. La verità sull'operazione deliberata da Bruxelles ce la dice il direttore esecutivo di Frontex Gil Arias Fernandez durante un briefing con la stampa a Roma: "Mare Nostrum non sarà sostituita dall’operazione Triton di Frontex".
Una doccia gelata per il Viminale, uno schiaffo per Alfano che aveva scommesso tutto su Triton per cavarsi fuori da una figuraccia internazionale senza precedenti. E l'emergenza immigrazione rischia seriamente di esplodere nelle mani del leader del Nuovo centrodestra. Perché, ancora una volta, l'Unione europea ha deciso di lasciare l'Italia da sola a fronteggiare gli sbarchi di clandestini che assaltano le nostre cose. Niente di nuove. Cecilia Malmström, commissario Ue agli Affari esteri, aveva già avvertito il titolare del Viminale. "È chiaro che l’operazione Triton non sostituirà Mare Nostrum - aveva dichiarato nei giorni scorsi - il futuro di Mare Nostrum rimane in ogni caso una decisione italiana". Non era stata certo la prima volta che la commissaria svedese aveva preso le distanze dal governo italiano. In un estenuante gioco di annunci italiani e sconfessioni europee è, infine, venuta a galla la verità: l'annunciata volontà di chiudere Mare Nostrum non dipende da Bruxelles ma è una scelta che spetterà unicamente al premier Matteo Renzi e ai suoi uomini.
A chiudere il cerchio ci ha pensato il direttore esecutivo di Frontex rispondendo duramente e senza ombra di dubbio alle dichiarazioni dei giorni scorsi di Alfano. "La decisione di interrompere Mare Nostrum spetta solo alle autorità italiane e Triton comincerà indipendentemente da Mare Nostrum - ha dichiarato Gil Arias Fernandez - la gestione del controllo dei confini resta agli stati membri: Frontex aiuta gli stati membri ma non li sostituisce". Insomma, né Frontex né l’Unione europea hanno l’autorità per sostituire l’autorità dello Stato membro nel controllo dei suoi confini. "Frontex è un’integrazione al compito svolto dagli Stati membri nell’affrontare sfide esterne eccezionali, tramite operazioni congiunte come Triton - insiste Gil Arias Fernandez - la gestione dei confini esterni dell’Unione europea è una responsabilità congiunta dello Stato membro e dell’Ue". Toccherà dunque al governo, e in particolar modo al Viminale e alla Difesa, gestire il controllo dei confini. Dal canto suo Bruxelles offre ad Alfano un minimo aiuto di cooperazione. Niente di più.
Il ministro aveva detto: "Con Triton terminerà l'operazione Mare Nostrum". Ma il direttore di Frontex: "La gestione del controllo dei confini resta agli stati membri"
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Andrea Indini
October 14, 2014
Immigrati, la Merkel se ne frega: non invia mezzi nel Mediterraneo
L'Europa volta le spalle all'Italia. E la lascia sola ad affrontare l'emergenza immigrazione. Nonostante le promesse del ministro dell'Interno Angelino Alfano, sono pochissimi i Paesi dell'Eurozona a contribuire alla missione Frontex. Un manipolo di appena otto Stati ha, infatti, messo a disposizione i mezzi necessari a bloccare l'ondata di clandestini che dal Nord Africa punta verso le coste italiane. E tra questi non c'è la Germania.
A sentir parlare Alfano Bruxelles ha "rafforzato le capacità operative di Frontex". Solo sulla carta, però. Perché solo otto Stati membri hanno messo a disposizione mezzi tecnici per l'operazione Triton. Così, il materiale non basta. Tanto che, nelle ultime ore, il direttore esecutivo dell'agenzia Gil Arias si è visto costretto a lanciare una nuova richiesta sperando in "una maggiore partecipazione". La disponibilità è arrivata da Finlandia, Spagna, Portogallo, Islanda, Olanda, Lettonia, Malta e Francia. Tra questi balza subito all'occhio l'assordante assenza della Germania. Da mesi la cancelliera Angela Merkel accusa Roma di non fare abbastanza per contrastare gli sbarchi degli immigrati. Eppure, quando si è trattato di fare la propria parte, si è subito tirata indietro. La Germania si è, infatti, limitata a mettere a disposizione di Frontex il personale specializzato. Non è certo abbastanza per una emergenza epocale che, dall'inizio dell'anno, conta oltre i 120mila arrivi.
"Dai primi di novembre partirà l’operazione congiunta Triton al cui avvio corrisponderà la fine progressiva di Mare Nostrum - ha ricordato Alfano - il rafforzamento di Frontex oggi sembra legato all’intervento nel Mediterraneo, ma in realtà si tratta di un precedente virtuoso per un eventuale intervento più forte, speriamo non necessario, su tutte le altre frontiere europee, a partire da quella dell’Est". Sul fronte del Mediterraneo, però, l'agenzia non ha mezzi a sufficienza per garantire un regolare pattugliamento sull'intero fronte. L’agenzia prevede, infatti, un impiego mensile di due navi d’altura, due imbarcazioni, quattro motovedette, due aerei e un elicottero. "Considerando la vasta area operativa - spiega il direttore esecutivo Arias - la sorveglianza aerea avrà un ruolo chiave che permetterà individuazioni immediate". Per l’operazione Triton, che ha un budget di 2,9 milioni di euro, Frontex opererà sotto il comando ed il controllo delle autorità italiane e lavorerà in stretto coordinamento con la Guardia di Finanza, la Guardia costiera e la Marina. Ma, se questo è il contributo dell'Unione europea, non promette niente di buono.
Solo otto Paesi Ue inviano mezzi per l'operazione Frontex: "Così non è abbastanza". La Merkel non muove un dito
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Andrea Indini
October 13, 2014
Fisco, Renzi agli industriali: "Taglio 18 miliardi di tasse"
Le contestazioni della Fiom all'ingresso dello stabilimento Persico di Nembro sono solo un assaggio. Accompagnato dal sottosegretario Graziano Delrio, il premier Matteo Renzi è stato accolto ai cancelli della fabbrica da alcune centinaia di manifestanti che lo hanno contestato. Al braccio armato della Cgil non va giù che il premier partecipi all'assemblea della Confindustria. "Il governo assume la piattaforma di Confindustria e non ha idea di dove portare il Paese", ha tuonato Susanna Camusso minacciando di proseguire la mobilitazione del 25 ottobre per "arrivare fino allo sciopero generale". Insomma, per il governo è appena iniziato l'autunno caldo. Ma il premier non se ne cura e agli industriali promette: "Nella legge di stabilità taglieremo 18 miliardi di tasse".
Un clima da Italia anni Settanta. Le contestazioni davanti alle fabbriche, il sindacato a testa bassa contro il governo, la protesta che avanti a oltranza. Solo che, a differenza di trenta e rotti anni fa, ci passa un crisi economica che spacca le gambe a imprenditori e industriali e una recessione che toglie il fiato alle famiglie e ai giovani. E, nonostante il sistema Italia chieda le riforme necessarie a rialzare la testa, la Cgil e la Fiom vanno avanti per la propria strada, incapponendosi in una battaglia di retroguardia che mina il futuro di tutti gli italiani. "Le difficoltà devono essere affrontate, non vanno sottovalutate - tuona Renzi all'assemblea di Confindustria - ma se l’Italia è quello che è, lo dobbiamo a quelle donne e uomini che nel corso degli anni hanno rischiato e ci hanno messo la faccia". Agli industriali, ai piccoli e medi imprenditori, agli artigiani. Non certo ai sindacati e ai sindacalisti. E così, mentre un manipolo di operai della Fiom tuona contro il governo davanti alla Persico di Nembro, il premier tira dritto e rilancia l'azione di governo nell'iter per le riforme. A partire dalla legge di Stabilità, una manovra da 30 miliardi di euro.
Come per la gran parte delle misure che Renzi intende mettere in agenda, anche la legge di Stabilità parte bene. Promette un taglio netto delle tasse (un intervento da 18 miliardi di euro) e, come aveva annunciato qualche giorno fa, stanzia gli incentivi che permetteranno per un triennio di non pagare contributi a chi fa assunzioni a tempo indeterminato. "Tutti parlano dell'articolo 18 - spiega - invece 18 sono i miliardi che taglieremo come tasse tra la legge di Stabilità per il 2014 e quella per il 2015". Di questi 18 miliardi, dieci andranno a finanziare in modo stabile il bonus degli 80 euro, mezzo miliardo finirà in detrazioni fiscali per le famiglie e il resto servirà a coprire gli incentivi che permetteranno per un triennio di non pagare contributi per chi fa assunzioni a tempo indeterminato e la riduzione dell'Irap per 6,5 miliardi di euro. Il tutto per quella che il premier definisce "la più grande riduzione delle tasse" mai fatta in Italia. Per rilanciare i consumi, poi, il governo sta lavorando a una misura per lasciare il Tfr in busta paga a chiunque lo desideri. Un'operazione a sostegno alle pmi che Renzi concerterà con le banche.
Contestazioni all'assemblea di Confindustria. Ma il premier snobba la Fiom: "Tre anni a zero contributi per i neoassunti"
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Andrea Indini
Istat: aumentano poveri, effetti limitati da 80 euroRenzi: "Taglieremo 18 miliardi di tasse"Renzi: "Faremo un'ulteriore riduzione dell'Irap"Renzi dimentica il sito: "Cercatelo su Google"
October 9, 2014
Sul Pd incombe l'ombra di altri "casi Tocci"
All'indomani della battaglia sul Jobs Act, a Walter Tocci, Matteo Renzi tributa l’onore delle armi. E promette che si spenderà per evitare che quell’addio annunciato ieri a Palazzo Madama sia portato alle estreme conseguenze. Stefano Fassina, invece, lascia intendere che Tocci potrebbe non essere l'unico parlamentare piddì ad abbandonare le istituzioni per protestare contro la fiducia alla riforma del lavoro. E, se il premier sottolinea che il senatore dimissionario è stato, almeno, conseguente a convinzioni personali e disciplina di partito, Lorenzo Guerini avverte chi è rimasto a metà del guado: pur non essendosi messo fuori del partito, ha certamente messo in discussione il vincolo che lo lega alla "ditta". Lo strappo di ieri non è, dunque ricucito. Se ne occuperà la prossima direzione.
Anche oggi, al suo arrivo in segreteria, Renzi ci tiene a ribadire che, accanto alla soddisfazione del primo "sì" al Jobs Act,"rimane l’amarezza per le immagini" dei disordini di Palazzo Madama. "Continuare a fare le sceneggiate di ieri è un problema soprattutto per loro", dice agli intemperanti, ai lanciatori di fascicoli o dispensatori di monetine contro i ministri. "Ma noi andiamo avanti tranquilli", assicura il presidente del Consiglio che non fa nulla per nascondere il proprio fastidio nei confronti della minoranza piddì. Perché sa bene che il braccio di ferro non è stato vinto. Ha portato a casa una battaglia, questo sì. Ma la guerra interna al Nazareno non è stata affatto vinta. "Secondo me adesso la minoranza Pd è molto più debole", ammette Corradino Mineo, uno dei senatori democrat che ieri non hanno partecipato al voto di fiducia. "Io, il maxiemendamento, l’ho letto, e non prende neanche tutte le promesse fatte nella direzione del Pd - incalza Mineo - così il parlamento non conta più".
Adesso sul Nazareno incombe, tuttavia, l'ombra, di altri "casi Tocci". "Dipenderà molto dalla disponibilità del presidente del Consiglio - minaccia Stefano Fassina - ad ascoltare posizioni che non isolate e personali, ma condivise da pezzi significativi del nostro mondo e degli interessi economici e sociali che rappresentiamo e vogliamo continuare a rappresentare". Fassina segnala polemicamente di essere in sintonia con la dottrina sociale della Chiesa e l’Evangelii Gaudium di papa Francesco: "Non la trovo certo con le parole di Renzi che recupera il linguaggio dei conservatori...". Eppure sullo strappo di Tocci sembra apprezzare le parole di Renzi che, nelle ultime ore, si è detto disponibile a far convivere posizioni diverse all'interno del partito. "Se queste sono le intenzioni - spiega Fassina - abbiamo tutto il tempo per valutare".
Nonostante le rassicurazioni di Renzi, il Pd resta visibilmente frammentato. "Non partecipare al voto di fiducia mette in discussione i vincoli di relazione con il proprio partito politico", tuona Guerini puntandi il dito contro i senatori Felice Casson, Lucrezia Ricchiuti e Corradino Mineo. "Non sono fuori dal partito - precisa l'ultrà renziano - poi ne discuteremo anche in direzione". La defezione dovrà, tuttavia, essere affrontata dal gruppo piddino a Palazzo Madama. "Non si può avere un partito all'americana, con eletti con le primarie - commenta il ribelle Pippo Civati - e poi immaginare che ci sia una disciplina di stampo sovietico". Insomma, la secessione non è ancora stata scongiurata.
Tocci conferma le dimissioni. Guerini riprende chi non ha detto "sì" alla fiducia: "In discussione i vincoli di relazione co la ditta". Ma Civati: "Non siamo un soviet"
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Andrea Indini
Renzi: "Dall'opposizione solo sceneggiate" Fassina: "Frattura profonda nel Pd"Tocci lascia: "Conflitto tra coerenza e responsabilità"Guerini a Tocci: "Faccia un passo indietro"Civati: "Renzi mette in difficoltà una parte del Pd"Mineo si astiene: "Così onoro il mio mandato"
October 7, 2014
Jobs Act, Renzi tratta ma Cgil e sinistra Pd chiudono
I sindacati come la minoranza piddì. Come ha chiesto la fiducia sul Jobs Act, che domani sarà votato a Palazzo Madama, per arginare la sinistra del Nazareno, così il premier Matteo Renzi ha deciso di appellarsi alle coscienze dei leader di Cgil, Cisl e Uil per scongiurare lo sciopero generale: "Il Paese ha bisogno di un clima di fiducia". Peccato che per far digerire la riforma del lavoro anche a Susanna Camusso & Co. finisce per promettere l'impossibile: 1,5 miliardi di euro di nuovi ammortizzatori, un miliardo per la scuola e 2 miliardi per la diminuzione delle tasse sul lavoro. Il tutto da inserire nella legge di Stabilità. E, ciliegina sulla torta, il bonus fiscale ai lavoratori dipendenti, i "mitici" 80 euro, da rendere strutturale a partire dal 2015."Non voglio dividere il sindacato, il sindacato fa il sindacato - tuona Renzi - in questa crisi però vi sono responsabilità anche di chi rappresenta il mondo del lavoro". Poi passa subito alle concessione. E, nel giorno in cui sia Berlino sia il Fmi danno il proprio sostegno al Jobs Act, la rivoluzione del mercato del lavoro già sembra allontanarsi. "Ci sono sorprendenti punti di intesa" si vanta il premier seduto in Sala Verde, a Palazzo Chigi, con Susanna Camusso, Luigi Angeletti, Geremia Mancini e Annamaria Furlan. Con un’introduzione durata otto minuti traccia il perimetro del confronto fissando tre punti oltre al tema dell'articolo 18: salario minimo, rappresentanza sindacale e contrattazione decentrata. Nell'emendamento a Jobs act che sarà presentato dal governo stesso, oltre a far confluire norme sulla rappresentanza sindacale e sull'ampliamento della contrattazione decentrata, così come chiesto dalla Triplice, confluiranno infatti i suggerimenti della minoranza piddì. "Sono emendamenti condivisibili che mi sono stati suggeriti dal mio partito - assicura il premier - in particolare dalla parte che non sta con me". A partire dalle modifiche allo Statuto dei lavoratori. La tutela del reintegro, previsto dall'articolo 18 per i licenziamenti ingiustificati, resterà sia per quelli discriminatori sia per quelli disciplinari "previa specifica delle fattispecie". Per chiarire le "fattispecie" del reintegro bisognerà attendere il decreto legislativo.Nonostante le concessioni messe sul piatto da Renzi in un'ora e tre quarti di tavolo, la Cgil non è disposta a cedere. Vuole. Pretende di più. Anche a costo di rompere con Cisl e Uil. "L'unica vera novità di questa mattina è l’indicazione che potranno esserci altri incontri - commenta la Camusso - sui contenuti ci sono cose note che non determinano un cambiamento della posizione della Cgil". Il prossimo tavolo è già stato fissato il 27 ottobre. "Dopo che i i tre milioni di lavoratori verranno a manifestare a Roma...", scherza il premier. In "totale dissenso" sulle modifiche all'articolo 18, nonostante le aperture del governo, la Camusso conferma, infatti, la mobilitazione del 25 ottobre. Di tutt'altro avviso la Furlan e Angeletti che riconoscono al governo "aperture" che potrebbero porre le basi per un confronto duraturo. "Miglioriamo se c’è da migliorare - replica Renzi - ma il Paese deve cambiare e non ci faremo bloccare da veti o opinioni negative". I veti che preoccupano maggiormente Palazzo Chigi non arrivano dalla Cgil, ma dalla sinistra democrat. Alcuni senatori non parteciperanno al voto di fiducia che si terrà domani. "Il nostro - assicura Pippo Civati - non è un complotto". Un agguato, però, sì.
Sul lavoro il premier prova a trattare ma Cgil e sinistra Pd chiudono. Domani la fiducia del governo a Palazzo Madama
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Andrea Indini
Renzi chiede fiducia e la minoranza Pd chiede pietàAzzurri sulle barricate, il Cav: non faremo scontiJobs Act, Renzi al tavolo con i sindacatiRenzi: "Non temo un agguato dei franchi tiratori"Renzi ermetico: "Con i sindacati è andata bene..."
La Uefa sospende Tavecchio per 6 mesi
La Uefa ha squalificato Carlo Tavecchio. Per sei mesi non potrà partecipare alle commissioni Uefa e, per questo, non sarà presente al congresso di marzo. Un provvedimento eccessivo per una gaffe sui giocatori stranieri bollata come un commento razzista. Resta, comunque, ferma la capacità di Tavecchio a rappresentare la Figc in campo internazionale anche per le gare degli azzurri.
Il provvedimento adottato dalla Commissione disciplinare della Uefa decorre a partire da oggi. E arriva alla fine di un lungo iter iniziato ad agosto su impulso della Confederazione continentale. "Le questioni di accoglienza sono un conto, quelle del gioco un altro. L'Inghilterra individua dei soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare, noi invece diciamo che Opti Poba è venuto qua, che prima mangiava le banane, adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così. In Inghilterra deve dimostrare il suo curriculum e il suo pedigree". Le parole, pronunciate a luglio nel corso dell’Assemblea della Lega nazionale dilettanti, sono costate caro a Tavecchio. Non importa se, poi, lo stesso presidente della Figc abbia pubblicamente chiesto scusa per l’equivoco precisando che parlava del curriculum dei calciatori.Nulla da obiettare da parte della Figc che ha deciso di non ricorre al Tribunal arbitral du sport per "evitare il protrarsi di un contenzioso che avrebbe visto contrapposte la Uefa e la Figc per un lungo periodo".
"Le decisioni non si commentano, si eseguono e si rispettano". Si limita a dichiarare Tavecchio. Anche lui è d'accordo a non fare ricorso. A chiuderla così. Perché se ne è già parlato sin troppo. Per i prossimi sei mesi sarà, dunque, ineleggibile per qualsiasi posizione nella dirigenza del massimo ente calcistico europeo. E ancora: non potrà partecipare al Congresso Uefa in programma il 24 maggio 2015 e sarà, per giunta, costretto a organizzare un evento speciale in Italia per "aumentare la consapevolezza e il rispetto dei principi della risoluzione European football united against racism". La beffa finale, insomma. Ma tutto questo alla sinistra italiana non basta. "Le parole non sufficienti - tuonano dal Pd - arrivato il momento per il presidente della Figc di fare un passo indietro".
A luglio la gaffe sui "mangia banane". La Uefa picchia duro: "Dichiarazioni razziste". E lo squalifica per sei mesi
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Andrea Indini
Il candidato alla presidenza della Figc Carlo Tavecchio
La gaffe di Tavecchio: "Stranieri mangia banane"
October 6, 2014
Pd, la minoranza beffa Renzi: primarie in Calabria al cuperliano
La minoranza piddì mette a segno la prima, importante vittoria su Matteo Renzi. È infatti Mario Oliverio - commissario della provincia di Cosenza, ex deputato e uno dei principali esponenti dell'area che fa capo a Gianni Cuperlo - a vincere le primarie aggiudicandosi la candidatura a presidente della Regione Calabria per il centrosinistra. Oliverio ha vinto la sfida con il renziano sindaco di Pizzo Gianluca Callipo.
Oltre 110mila elettori sono andati a votare per esprimere la propria intenzione nelle primarie di coalizione. E per Renzi è stata una sonora bocciatura. La Calabria non è l'Italia intera. Ma il risultato delle primarie la dice lunga sui movimenti interni al Pd. "Qualcuno ha detto che il Pd ha questo crollo delle tessere perché non è in salute - ha spiegato ieri il premier nella sua Enews - a me pare che un partito che stravince nei comuni goda di buona salute". Il crollo verticale degli iscritti, però, è solo uno dei problemi che sta travolgendo il Nazareno. La linea del governo sul lavoro sta rinfocolando i mal di pancia della sinistra democrat. E lo schiaffo di ieri, in Calabria, non può essere minimizzato. Oliverio ha, infatti, vinto con un ampio margine nelle province di Catanzaro e Cosenza ed è risultato primo, anche se con uno scarto inferiore, anche nel Crotonese. Nel Vibonese i due maggiori contendenti hanno quasi pareggiato i conti. Nel Reggino, infine, Oliverio vince nei comuni della provincia ma perde terreno nel capoluogo di provincia. Questa la mappa della Calabria. Presto Renzi dovrà fare i conti con tutta la Penisola.
Giusto ieri Renzi ha annunciato il titolo della Leopolda che si terrà dal 24 al 26 ottobre: "Il futuro è solo l’inizio". Leopolda che, ci ha tenuto a sottolineare, sarà uno "spazio di libertà" e si rivolgerà non solo agli iscritti piddì. È questo, insomma, il binario lungo il quale vorrebbe cambiare verso al partito, nonostante i malumori dell' attivissima minoranza. Sabato, da Bologna, Cuperlo lo ha anticipato lanciando il "Leopoldo", convention targata Sinistradem che potrebbe tenersi a Livorno e che, nel nome e nelle intenzioni, sarebbe una risposta concreta alla kermesse fiorentina. Un vero e proprio megafono per i mugugni della minoranza. Intanto, mentre il governo cerca una sintesi prima che il Jobs Act approdi in Aula al Senato, continuano le schermaglie sull'articolo 18. "Mettere la fiducia - ha avvertito il senatore Miguel Gotor - sarebbe un segno di grave debolezza". Dalla Festa dell'Italia dei valori, invece, Rosi Bindi ha rivendicato l’autonomia della propria scelta: "Voto come ritengo di votare".
Una scissione o un clamoroso strappo della minoranza al Senato sulla fiducia sono da escludere, ma sul Nazareno il cielo resta burrascoso con una nuova crepa aperta proprio da un renziano della prima ora. Dopo il ritiro dalle primarie in Emilia-Romagna, Matteo Richetti si è tolto qualche sassolino dalle scarpe per dimostrare di non essere uno yes man. "C’è un solco profondo fra il partito e i suoi elettori, colmato solo da Renzi, come se lui avesse reso credibile e votabile se stesso e non il Pd, che può essere il più grande nemico di se stesso". Parole che suonano quasi come un campanello d’allarme. "Il renzismo originario - ha fatto notare - prevede qualche comparsata in meno e qualche momento di studio in più".
Una scissione della minoranza è ormai da escludere, ma sul Nazareno il cielo resta burrascoso. In Calabria bocciato il renziano Callipo
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Andrea Indini
October 5, 2014
Tfr, Renzi tira dritto: "In busta paga dal 2015"
"Il lavoro è la nostra emergenza". Matteo Renzi non molla. Nonostante la minoranza piddì minaccia ritorsioni in Aula e i sindacati si preparano a infiammare le pizze, il premier tira dritto per la sua strada. Se andrà a sbattere lo vedremo molto presto. I temi caldi restano le modifiche all'articolo 18 (annacquate dopo l'ultima direzione di partito) e il Tfr in busta paga. Perché gli slogan si trasformino in realtà, il premier ha bisogno nell'immediato che il Jobs Act passino dalle forche caudine di Palazzo Madama. È qui che la sinistra dem potrebbe tirargli un brutto scherzo. Per il Tfr, invece, ha ancora margine di manovra.
L'ipotesi che il governo ponga la fiducia sul testo della legge delega sulla riforma del Lavoro che martedì andrà in discussione in Aula al Senato sembra sempre più scontata. I margini temporali per avere un testo approvato per mercoledì, come annunciato dal ministro del Lavoro Giuliano Poletti, in tempo per il vertice europeo che si terrà a Milano, non sembrano concedere molto spazio ad alternative. "La prossima settimana sarà cruciale al Senato per portare a casa la riforma del lavoro - commenta l’europarlamentare Simona Bonafè - un passaggio importante che va sostenuto da tutto il Pd e dalla maggioranza". E sebbene il presidente dei senatori piddini Luigi Zanda assicura che a Palazzo Madama il gruppo voterà compatto, il problema è che il Pd è tutto fuorché compatto. Nemmeno tra i fedelissimi del premier sembra più sopravvivere quella fede cieca al renzismo che li contraddistingueva ai tempi della rottamazione. Persino Matteo Richetti, ospite a In 1/2, ha sollevato qualche dubbio: "Come si fa a condurre una battaglia epocale come quella del lavoro con il capogruppo che si astiene e il presidente della commissione che vota contro?". Sempre a Montecitorio siede un'altra voce fuori dal coro, Rosi Bindi. Che oggi, ai microfoni di Sky Tg24, ha annunciato che voterà come riterrà più opportuno fare.
A impensierire Renzi non è tanto la Camera. È, infatti, a Palazzo Madama che il governo non gode dei voti necessari a far dormire sonni tranquilli. Domani Poletti proverà a far recepire agli altri partiti di maggioranza le modifiche decise dalla direzione del Pd. Compito difficile visto che il relatore della delega Maurizio Sacconi (Ncd) ha già fatto sapere che eventuali modifiche al ddl uscito dalla Commissione "non possono essere una mera traduzione" imposta dal Pd. Il ministro è tuttavia disposto offrire in cambio una disciplina più favorevole per i contratti di secondo livello. Ma in questa partita devono entrare anche i sindacati a cui Poletti offrirà, in cambio del via libera al rafforzamento della contrattazione di secondo livello, una legge sulla rappresentanza sindacale. Resta, poi, da blandire la minoranza piddì a cui non piace l'impianto dell'odg votato in direzione che rivede, appunto, l'articolo18.
Martedì prossimo, con i sindacati e le parti sociali, Renzi verificherà pure la proposta di lasciare il Tfr in busta paga. "Sono soldi dei lavoratori - spiega nella Enews - come accade in tutto il mondo, non può essere lo Stato a decidere per lui. Ecco perchè mi piacerebbe che dal prossimo anno i soldi del Tfr andassero subito in busta paga. Questo si tradurrebbe in un raddoppio dell’operazione 80 euro". Il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi si è già espresso contro. E, sebbene il viceministro all’Economia Enrico Morando abbia assicurato che l'intervento "non comporterà alcun aggravio Irpef per i lavoratori e sarà a costo zero per le imprese sotto i 50 dipendenti", i dubbi restano. Tanto che, quando martedì incontrerà le parti sociali, Renzi dovrà trovare il modo di spiegare come farà a non affossare la liquidità delle piccole medie imprese che si troveranno a pagare subito la mensilità in più. Industriali e sindacati a parte, la grana vera per Renzi è il suo stesso partito che, numeri alla mano, è in balia delle minoranza rossa e del drastico crollo degli iscritti. "Preferisco avere una tessera finta in meno e un’idea in più", dice. Resta il problema dei ribelli. Al governo basterebbe una fiducia, l'ennesima, per annientarli.
Martedì l'incontro coi sindacati. Poletti accelera sul Jobs Act: "Serve un'approvazione rapida". Ma in parlamento i numeri traballano. La Bindi: "Voterò come mi pare". Ma Renzi tira dritto e rilancia sul Tfr in busta paga: "Spero già dal 2015"
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Andrea Indini
Renzi prepara la sfida ai sindacatiRichetti frena sul Jobs Act: "Solo slogan e discussioni"
October 2, 2014
Ue, anche Renzi contro la Merkel: "Non tratti gli altri come studentelli"
La sfida all'austerità e al metodo Merkel per risanare i conti pubblici è ufficialmente partita. Ieri la Francia ha dato il via alla rivolta contro Bruxelles e contro i nuovi sforzi per riportare il deficit sotto controllo. Da Berlino la reazione è stata immediata. "I Paesi devono fare i loro compiti per il loro benessere", ha replicato Angela Merkel rimettendo subito al proprio posto quei paletti che Parigi vorrebbe mettere da parte. Ma la perentorietà della cancelliera tedesca non sembra scalfire più nessuno. Il premier Matteo Renzi, in visita a Londra per presentare il piano di riforme, ha detto chiaramente di sostenere la linea di Francois Hollande e Manuel Valls: "Rispetto la decisione di un Paese libero e amico come la Francia, nessuno deve trattare gli altri Paesi come si trattano degli studenti".
Renzi è arrivato a Londra in un momento cruciale per il suo governo. Ma soprattutto per la credibilità dell'Italia di fronte a quella riforma, il Jobs Act, su cui sono puntati gli occhi degli investitori stranieri e che continua a trovare ostacoli nella strada verso l'approvazione. Ma non solo. Il premier ha fatto il bilancio su tutto il pacchetto di riforme italiane in dieci punti fondamentali: dalla pubblica amministrazione alla scuola, dal lavoro alla giustizia. Ma al centro del colloquio c'è stata anche l’Europa, con la decisione della Francia di sforare il 3%, e la ferma determinazione dell’Italia a mantenere quel vincolo. Il tutto mentre si avvicinano gli esami Ue sulle leggi di stabilità. "Gli impegni presi vanno rispettati", ha ricordato il portavoce del commissario agli Affari economici Jyrki Katainen. Ma sia la Francia sia la Spagna hanno già fatto sapere che ne hanno le scatole piene con quell'austerity che sta trascinando l'Eurozona negli abissi. "Non chiederemo ulteriori sforzi ai francesi. Perché il governo adotta la serietà di bilancio per rilanciare il Paese, ma rifiuta l’austerità", ha detto ieri il ministro delle Finanze francese, Michel Sapin, confermando la revisione al rialzo delle stime del deficit al 4,4% per il 2014 e 4,3% per il 2015, con il ritorno sotto il 3% solo a fine 2017. La seconda economia della zona euro è quindi costretta, per la terza volta, a chiedere a Bruxelles un nuovo rinvio sugli obiettivi di risanamento.
A differenza della Francia, il governo italiano è fermamente orientato a lavorare per rispettare i limiti del 3%. Questo non toglie, tuttavia, che Renzi si impegni ideologicamente a sostenere la posizione della Francia. Non gli sono, infatti, piaciuti gli attacchi della Merkel. "Se la Francia ha deciso così avranno i loro motivi - ha spiegato il premier - rispetto le decisioni di un Paese libero come la Francia e credo che nessuno abbia il diritto di trattare gli altri Paesi con lo stile con cui si trattano gli studenti". La sfida francese è destinata a riaprire il dibattito su rigore e flessibilità che negli ultimi mesi si era spento date le posizioni ancora troppo distanti in Europa e l’impossibilità di arrivare a una visione unica su una nuova interpretazione della disciplina di bilancio. Il dibattito entrerà anche nella nuova Commissione, che dovrebbe insediarsi agli inizi di novembre: il giudizio sui conti pubblici sarà affidando al socialista francese Pierre Moscovici, supervisionato dal popolare lettone Valdis Dombrovskis, l’ex premier che non ha risparmiato sforzi al suo Paese per traghettarlo nell’euro. E sopra tutti, Jean Claude Juncker, presidente dell’Eurogruppo negli anni della crisi che dovrà mediare ancora una volta tra il rigore della Merkel e la necessità di aiutare gli Stati che ancora non riescono ad uscire dalla recessione.
Renzi: "L'Italia rispetterà i limiti del 3%". Ma si schiera comunque con Hollande e Valls: "Nessuno deve trattare gli altri Paesi da studenti"
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