Andrea Indini's Blog, page 144

July 21, 2014

M5S, Currò guida la fronda anti Di Maio

Il Movimento 5 Stelle in ordine sparso. "D'ora in poi Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio avranno meno spazio ma loro sono contenti. Sono in una fase in cui cercano di dare più responsabilità a quelli che oggi fanno parte del Movimento e ne condividono la linea". Anziché aprire una fase più dialogante all'interno del movimento, l'annuncio di Luigi Di Maio ha di fatto aperto una nuova faida tra Cinque Stelle. A guidare la fronda è il deputato Tommaso Currò che, in una intervista a Repubblica, ha chiesto a Grillo di aprire una fase congressuale: "Quella di Luigi Di Maio è una leadership non legittimata da nessuno: né dai parlamentari né dagli attivisti che lavorano sul territorio. Questa iniziativa è stata fatta per un aspetto meramente mediatico".


La resa dei conti è all'orizzonte. Silenziosa, violenta si prepara la battaglia tra i tre blocchi del Movimento 5 Stelle. Il tavolo dello scontro sarà sicuramente il cammino delle riforme e il dialogo con Matteo Renzi. La decisione di chiudere la trattativa coi dem, decisa come un fulmine a ciel sereno dalla Casaleggio associati e comunica dal comico via blog, aveva riavvicinato i falchi. Da sempre la linea dura fa venire l'acquolina in bocca all'ala dura che raccoglie la pattuglia calabro-siciliana, gli ultraortodossi alla Paola Taverna e Roberta Lombardi e dello zoccolo duro che raccoglie Riccardo Nuti e Laura Castelli. Il dietrofront aveva, quindi, "ridimensionato" sia Di Maio, investito da Grillo del ruolo di reggente, sia Danilo Toninelli, stratega (vicinissimo a Casaleggio) del sistema elettorale stellato. Ieri sera l'ennesimo colpo di scena ha riaperto non solo il dialogo col Pd sulle riforme, ma anche la faida interna al movimento.


I falchi sono a dir poco sconcertati. Non capiscono - come non lo capisce la base che dai commenti postati sul blog mostra segni di disorientamento - la riapertura della trattativa e lo strapotere di Di Maio. "Visto che c'è una leadership conclamata, con un segretario in pectore - tuona Currò dalle colonne di Repubblica - si prenda atto che le cose sono cambiate e si faccia un percorso diverso". I falchi chiedono subito una revisione dello statuto, poi un fase partecipata verso un congresso, con organismi dirigenti e di controllo. "Un partito lo siamo diventati di fatto - incalza il deputato grillino - e con la differenza che manca un percorso di legittimazione e manca la democrazia interna". Gli attivisti si sentono totalmente abbandonati, mentre le decisioni di democrazia diretta sono assunte sul blog, con metodi discutibili. "E ora ci ritroviamo di fronte a una leadership de facto", conclude Currò. "Non è vero - replica Di Maio su Twitter - spiegherò tutto".


Sale la tensione nel M5S dopo la riapertura del dialogo col Pd. I falchi processano Di Maio: "Ci ritroviamo di fronte a una leadership de facto"





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Andrea Indini

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Published on July 21, 2014 04:08

July 19, 2014

Giustizialismo, il Pd fa mea culpa: "Basta con Travaglio e Repubblica"

Ci sono voluti vent'anni di aspra persecuzione giudiziaria, segnata da soprusi, colpi bassi e vili abusi, perché il dogma del giustizialismo cominciasse a franare. Aldilà dei rosiconi anti Cav, che hanno sbeffeggiato la decisione della Corte d'Appello con insulti e parolacce, l'assoluzione di Silvio Berlusconi nel processo Ruby apre un fronte nel Partito democratico. Matteo Renzi si è guardato bene dal commentare, si è limitato a confermare l'asse con Forza Italia sulle riforme. Tuttavia, in via del Nazareno qualcosa si muove. "Nei vent’anni alle spalle qualche eccesso di giustizialismo c’è stato - ammette il presidente del Pd Matteo Orfini al Corriere della Sera - in alcune parti della sinistra si è perso il senso della cultura delle garanzie". E adesso c'è chi chiede la testa di Marco Travaglio e del direttore di Repubblica Ezio Mauro.


Va bene l'assoluzione, va bene la gioia del momento, ma nel fondo del calice rimane l’amarezza. Quella più difficile da bere: i danni politici e di immagine causati dalla vicenda Ruby. Per questo, nel commentare la decisione della Corte d'Appello di Milano, Berlusconi parla di "un'accusa ingiusta e infamante" per la quale riecheggiano ancora nella sua testa gli anni di "aggressione mediatica, i pettegolezzi, e le calunnie". A Milano arriva così la sentenza più attesa per il Cavaliere: quella che lo assolve dalle accuse di concussione e di prostituzione minorile. Assoluzione che, però, non cancella quattro, lunghissimi anni di aggressione mediatica, gossip voyeuristico e libidinoso, diritto alla privacy negato. Sul Rubygate ci hanno campato i soliti anti Cav che riempivano i salotti radical chic, i manettari di Repubblica e Fatto Quotidiano che quotidianamente pubblicavano pettegolezzi infondati e intercettazioni illegali, i commentatori progressisti che per avere cinque minuti di visibilità infangavano l'Italia agli occhi del mondo. Quello che è successo dopo è storia: i sorrisetti di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, l'attacco della Germania ai nostri titoli di Stato, le manovre di Giorgio Napolitano per piazzare Mario Monti a Palazzo Chigi e, infine, le dimissioni di Berlusconi da premier. Adesso che la Corte d'Appello ha dimostrato che "il fatto non sussiste" se non nei teoremi sconclusionati di Ilda Boccassini e soci chi si assumerà l'onere delle scuse? Probabilmente nessuno.


A caldo, la reazione del Pd all’assoluzione è stata fredda, ma istituzionale. Con Verini prima e la vicesegretaria Serracchiani poi, i dem si sono limitati a ricordare come il partito abbia rispettato la sentenza di primo grado e come adesso rispetti quella d’appello. Oggi, invece, il mood è cambiato. Da Maputo Renzi ci ha tenuto a confermare l'asse con Berlusconi: "Con Forza Italia che rappresenta milioni di voti non c'è un accordo di governo ma istituzionale perché in un Paese civile le regole si fanno insieme. Dal punto di vista istituzionale mantenevo la parola anche se Berlusconi fosse stato condannato". In via del Nazareno il vento sembrerebbe cambiato. Orfini è addirittura disposto ad ammettere qualche colpa. Niente nomi, per carità. Piuttosto un appello a recuperare, in futuro, il valore del garantismo. Giorgio Tonini, vicecapogruppo piddì a Palazzo Madama, fa di più e chiede che si dia un taglio coi vari Travaglio e Repubblica, "leader mediatici che hanno fatto la loro fortuna" sull'antiberlusconismo. "Tanti personaggi della televisione e diversi intellettuali criticavano i nostri leader per essere troppo poco antiberlusconiani - spiega ad Affaitaliani - è un bene che ci siamo liberati da questa subalternità". Eppure, ancora oggi, il Guardasigilli Andrea Orlando si dimostra riottoso a dialogare col centrodestra per scrivere insieme la riforma della giustizia. "Il rischio - spiega è che la discussione si schiacci pro o contro Berlusconi". 


Renzi conferma l'asse con Forza Italia e Orfini ammette: "Negli ultimi 20 anni eccessi di giustizialismo". E Tonini: "Dire basta a Travaglio e Repubblica"





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Andrea Indini

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Published on July 19, 2014 11:16

July 18, 2014

Ecco tutti i trucchi della Merkel per nascondere i buchi di Berlino

A Bruxelles spadroneggia la Germania. Angela Merkel fa il bello e il cattivo tempo. Quello che decide la cancelliera, è legge per tutti i Paesi dell'Eurozona. Eppure i tedeschi non sono migliori di noi italiani che passiamo per spendaccioni, disorganizzati e inaffidabili. In realtà i tedeschi sono soltanto molto più bravi a nascondere le proprie magagne economiche per truccare il debito pubblico e avere voce in capitolo su tutte le decisioni che vengono prese dall'Unione europea. Che non fosse otto tutto quello che luccica a Berlino era un sentore piuttosto comune. Adesso, però, un attento studio compilato da una équipe della università di Linz, riportato oggi da ItaliaOggi, mette a nudo tutti i trucchi legali per nascondere lo sporco sotto il tappeto.


Andiamo con ordine. E partiamo dalla Cassa depositi e presiti, mare magnum dei buchi e degli sprechi della politica italiana. L'istituto, presieduto da Franco Bassanini e controllato per l'80% dal Tesoro, emette ogni anni 320 milioni di obbligazioni che il ministero dell'Economia è tenuto a contabilizzare nel debito pubblico. In Germania c'è un carrozzone analogo: Kreditanstalt für Wiederaufbau (la Banca della Ricostruzione). Peccato che la Kfw, sebbene per l'80% in mano al governo federale, non sia tenuta ad attenersi alle regole della Cdp. Nell'ultimo anno, per esempio, ha emesso obbligazioni per 500 miliardi di euro. Cifra monstre che è servito a finanziare una caterva di interventi pubblici ma di cui non c'è alcuna traccia nel debito pubblico della Germania. Un trucco di magia messo a segno dal governo nazionale che, grazie a una leggina ad hoc, ha escluso dal conteggio del deficit "le società pubbliche che coprono la metà dei propri costi con ricavi di mercato".


Nel deficit non v'è nemmeno traccia di tutti i debiti degli enti locali. Qui la magia è fatta dal federalismo. Mentre in Italia i deficit di Regioni, Comuni e Province finiscono nel grande calderone del debito pubblico, i 600 miliardi di buco dei länder tedeschi restano rintanati nei bilanci locali. Il trucchetto ha una dobbia utilità: da una parte facilita la Germania a rimanere sotto il tetto del 3%, dall'altra la Merkel può permettersi di pareggiare i bilancia entro il 2020 anziché, come invece è stato imposto a noi, entro il 2015. Cinque anni di agio in più che evitano alla cancelliera di fare quella carneficina sociale a cui, dall'ex premier Mario Monti in poi, ci hanno abituato i nostri governi. 


La Germania bara anche sui tassi che calcolano l'occupazione. Il dato sbandierato dall'Eurostat, che fissa la disoccupazione tedesca al 5%, è infatti truccato. La gabola è semplice: tra gli occupati rientra anche chi ha un "mini job", ovvero un contratto trimestrale da 400 euro al mese e senza alcuna prospettiva di assunzione. Secondo lo studio riportato da ItaliaOggi, dunque, lo scarto tra il 12,7% di disoccupazione italiana e il 5% di quella tedesca la forbice è molto più stretta. Tanto che in molti ricorrono al lavoro nero. Secondo gli economisti tedeschi, 350 miliardi di euro vengono sottratti ogni anno dalle casse dello Stato (circa il 13% della produzione totale). 


La Merkel può contare anche sul sistema bancario tedesco che, a differenza di quello italiano, è ancora pubblico. Anche in questo caso il vantaggio è doppio. Dal momento che anche le banche regionali sono pubbliche, anche i crediti inesigibili (circa 637 miliardi, euro più euro meno) vanno a finire sul conto del depito pubblico. Eppure non figurano. Come non figurano i debiti delle banche nazionali. Controllandone circa il 45%, la Merkel può usare il sistema bancario tedesco a suo uso e consumo. Come? Per esempio svendendo i titoli di Stato italiani e ritoccando all'insù lo spread coi Bund. Un giochetto che è servito, guarda un po', a far leva perché Silvio Berlusconi lasciasse Palazzo Chigi. Un uso politico del sistema bancario e della finanza che Bruxelles avrebbe dovuto sanzionare. Come non sanziona mai la Bundesbank ogni qual volta che interviene in prima persona alle aste dei titoli di Stato tedeschi. Non appena i titoli rischiano di finire sul mercato secondario, ecco che la Buba ci mette lo zampino contravvenendo apertamente al trattato di Maastricht.


I ricercatori dell'università di Linz hanno, infine, messo in luce come la Germania se ne infischi del six pack, ovvero il pacchetto di direttive concordate nel 2011 per contenere il rapporto deficit-pil sotto il tetto del 3% il surplus sotto il 6%. Ebbene, di queste direttive Berlino se ne infischia alla grandissima. Tanto che nell'ultimo quinquennio ha tenuto l'avanzo al 7% senza che a Bruxelles nessuno osasse dire alcunché alla Merkel. Finché tirerà quest'aria, la cancelliera non potrà che dormire sonni tranquilli.


Germania più virtuosa? No, i tedeschi sono soltanto più bravi a celare le proprie magagne. Ecco i trucchi usati per spadroneggiare in Europa





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Andrea Indini

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Published on July 18, 2014 04:05

July 10, 2014

Cambio lira-euro, il giudice: "Monti ha espropriato gli italiani"

Dalle tasche degli italiani sono spariti 1,5 miliardi di euro. Non tanto volatilizzati, quanto espropriati. Che, poi, è un modo giuridico per dire sottratti, rubati. E dietro a questo colossale esproprio di Stato c'è Mario Monti in perdona. Il Professore, catapultato a Palazzo Chigi dai poteri forti dell'Unione europea, ha fatto una leggina per mettere, un giorno con l'altro, al bando tutte le lire in circolazione. Come se non gli bastassero le tasse, le imposte e i balzelli che si è inventato per far piangere gli italici contribuenti, l'allora premier s'era inventato un decreto (uno dei tanti) per far sparire svariati miliardi di lire "a favore dell'Erario".


Il giudice del tribunale di Milano, Guido Vannicelli, ha ritenuto illegittimo l'articolo 26 del decreto legge 121 con cui, in deroga alla legge del 2002, il governo Monti ha prescritto ("con decorrenza immediata") le lire ancora in circolazione "a favore dell’Erario". In base al dl del 6 dicembre 2001, infatti, il relativo controvalore delle lire è stato "versato all'entrata del bilancio dello Stato per essere assegnato al fondo per l’ammortamento dei titoli di stato". Una mossa architettata ad arte da Monti per anticipare di circa un trimestre la scadenza ultima del cambio lire-euro. Un trucchetto che ha fruttato alle casse dello Stato un bottino di oltre un miliardo e mezzo. Come spiega Vannicelli all'Espresso, Monti avrebbe "violato il principio di affidamento e di certezza del diritto". Una violazione che il giudice milanese non fatica a identificare come un vero e proprio "esproprio" ai danni di tutti quei cittadini che tenevano ancora sotto il materasso (per affezione o per sbadataggine) qualche lire. Un esproprio di Stato, per di più, perché il corrispettivo di un miliardo e mezzo di euro è finito dritto dritto nelle fauci fameliche dell'Erario.


Sulle accuse (pesantissime) mosse da Vannicelli dovrà pronunciarsi la Corte costituzionale. Niente è scontato. Anticipando con una leggina ad hoc i termini dell'incasso, il governo italiano ha infatti violato gli articoli 3 e 97 della Costituzione, cioè il principio di affidamento e di certezza del diritto. A questo punto, se i termini del cambio lire-euro dovessero essere rivisti dalla Consulta, il Tesoro dovrà rendere ai contribuenti una discreta sommetta di denaro.


Illegittima la decisione del governo Monti di prescrivere le lire ancora in circolazione. In questo modo agli italiani sono stati espropriati ben 1,5 miliardi di euro





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Andrea Indini

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Published on July 10, 2014 07:50

July 9, 2014

Nell'era dell'erotismo patinato Londra censura un nudo d'artista

Accade ancora oggi, nel XXI° secolo, che si faccia non poca confusione tra nudo e pornografia. O meglio: tra arte e comune senso del pudore. E, per di più, accade a Londra che un quadro venga rimosso perché considerato eccessivamente pornografico, tanto da essere "disgustoso". Così il Portrait of Ms Ruby May, Standing di Leena McCall, selezionato dalla Society for Womens Artists, non potrà più essere ammirato tra le opere esposte alla Mall Gallery di Londra. Censura, appunto. 


Ms Ruby May ha i capelli castani che le scendono lungo il collo, fino ad adagiarsi sul petto. Fuma, svogliatamente e per questo con un'immensa carica di sensualità, una pipa. Oggetto che, gli amanti di Sigmund, potranno associare a scontate parti anatomiche maschili. Una collana di metallo si adagia sul seno che si lascia intravedere in un generoso spacco. Di carne esposta alla galleria londinese c'è n'è davvero tanta. Perché, oltre alle curve del seno, sono in bella mostra l'ombelico e parte del pelo pubico. I pantaloni sono sbottonati quel tanto che non lascia granché alla fantasia. "È davvero troppo pornografico e disgustoso", hanno tuonato alla Mall Gallery. Cosa? La pipa addentata con voluttà? La troppa carne esposta? O, diciamolo, quei peli pubici che fuoriescono dai pantaloni sbottonati da cui esce nero pelo pubico?


"La mia opera parla di di identità erotica femminile - replica l'artista all'Independent - il fatto che sia stata considerata inappropriata per il pubblico non fa che confermare i miei intenti". Prima di rimuoverla, le è stato chiesto di sostituirla. Per tutta risposta la McCall ha preferito togliere il dipinto e lanciare su Twitter l'hashtag #eroticcensorship. A fronte di questa censura viene, infatti da chiedersi per quale motivo il Portrait of Ms Ruby May, Standing sia più oltraggioso di un nudo del classicismo o, per esempio, de L'origine du monde di Gustave Coubert. Secondo Ruby May, la modella che ha posato per il ritratto della McCall, "una donna sessualmente consapevole è una minaccia al potere maschile. Per fortuna ci siamo evolvendo e simili forme di censura non sono più accettabili". "La nostra associazione ha il dovere di tutelare i bambini e gli adulti vulnerabili - ribatte la Mall Gallery - abbiamo ricevuto delle lamentele dai visitatori e abbiamo rimosso il problema". Dà da pensare che una simile censura venga applicata in un secolo ad altissimo tasso pornografico dove l'erotismo patinato pervade gran parte della comunicazione quotidiana.


In un secolo in cui il nudo è ovunque, rimosso il dipinto di Leena McCall. Perché mai il ritratto di Ruby May sarebbe più oltraggioso di un nudo del classicismo?





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Andrea Indini

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Published on July 09, 2014 08:24

M5S, fronda contro Di Maio: "Non si negozia con il Pd"

"Perché sta conducendo tutta la trattativa Di Maio? - mugugna un deputato pentastellato - io credo che sarebbe stato meglio eleggere un portavoce per guidare la delegazione". Dopo le montagne russe di lunedì è impossibile tornare indietro, ma il disgelo tra il Movimento 5 Stelle e il Pd, certificato con le dieci risposte scritte concesse ai dem, divide i grillini accrescendo il nervosismo di chi ha sempre mostrato scetticismo sull’apertura a Matteo Renzi e, da qualche giorno, anche sulla fuga in avanti del vicepresidente Luigi Di Maio, vero protagonista, di fatto, della linea "dialogante" sulle riforme. Ma c’è un altro punto-chiave nelle fibrillazioni di chi ha sempre ritenuto indigesta una trattativa con il premier-rottamatore: la concessione fatta al Pd sul doppio turno, assente nel Democratellum ma presente, seppur di lista e non di coalizione, nelle risposte fornite ieri al Pd.


"Chi ha deciso questi dieci punti? io li ho letti sul blog, nessuno ce ne ha parlato prima, non sono d'accordo praticamente su nulla - spiega un malpancista grillino alla Stampa - il Pd aveva trovato una scusa per non incontrarci: perfetto, ci avevamo provato, ne potevamo uscire da vincitori. Io non avrei mai smentito Beppe". Adesso Di Maio deve fare i conti con un clamoroso ammutinamento. Tanto che ieri, prima di una convulsa riunione dei deputati a Montecitorio, voci riportate dal Corriere della Sera parlavano dell'addio di altri tre o quattro parlamentari. Un'emorragia infinita. E diffusa. Perché, oltre all'ala romana di Paola Taverna e Roberta Lombardi, a voltare le spalle a Di Maio ci sono anche lo zoccolo duro siciliano e calabrese guidato da Riccardo Nuti e grillini storici come Laura Castelli. "Questa trattativa col Pd - tuonano i malpancisti - va fermata". Non gli importa se il dialogo con Renzi sia caldeggiato da Gianroberto Casaleggio col benestare di Grillo. E proprio al comico genovese in molti rinfacciato di lasciare troppo spazio al cerchio magico.


Il casus belli è il doppio turno accordato al Pd. Indicazione, questa, che Andrea Colletti, tra i sostenitori della linea oltranzista a Montecitorio, attribuisce a chiare lettere alla "valutazione personale di Luigi Di Maio e Danilo Toninelli". È l'occasione per lanciare l’allarme sul rischio di una "deriva plebiscitaria che richiede la governabilità a discapito di rappresentatività e democraticità". Due principi che, per Colletti, possono essere tutelati solo con un impianto "proporzionale". Le parole di Colletti riassumono i mal di pancia di un nutrito gruppo di parlamentari, consapevoli che, tuttavia, ora è impossibile tornare indietro. Travolto dalle accuse, Di Maio cerca di tenere botta. "Molti mi chiedono chi abbia deciso il doppio turno di lista - si affretta a chiarire - nessuno ha ancora deciso niente. Alla fine valiamo tutti 'uno' e potremo votare sul portale...". Una rassicurazione che non basta ai dissidenti. "Il danno è fatto...", ammette un deputato spiegando come, ormai, si sia fatto il passo più lungo della gamba. Tuttavia, come riferisce Repubblica, i componenti delle commissioni Affari costituzionali hanno chiesto a Toninelli di essere coinvolti maggiormente. "Abbiamo visto che nella trattativa si è un po' travalicato - spiega Giuseppe D'Ambrosio - se prima si discuteva da uno a dieci, ora siamo arrivati a quindici".


Il doppio turno dell'Italicum spacca il M5S. In quattro pronti all'addio: il "cerchio magico" di Casaleggio finisce sotto accusa





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Published on July 09, 2014 01:53

July 8, 2014

Renzi prova a fare il furbetto con gli investimenti digitali

Matteo Renzi scommette tutto sulle riforme. E prova ad abbindolare l'Unione europea. Mentre a Bruxelles il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan apre il semestre di presidenza italiana presentando all'Ecofin il programma di riforme, Matteo Renzi lancia dal palco del Digital Venice un appello a tutti i Paesi dell'Eurozona affinché contribuiscano a costruire un'Europa fatta di idee e non di limitazioni. "L'Europa deve essere lo spazio della libertà - spiega - se invece parliamo solo di limiti, vincoli e dossier burocratici perdiamo un’opportunità". Dietro alla dialettica, c'è un piano, ovvero svincolare gli investimenti digitali dal Patto di stabilità. Un'idea che, sebbene Padoan vanti coi tedeschi un "pieno accordo sulle riforme", non piace affatto ai fan dell'austerity che siedono a Bruxelles.


Mille giorni per fare le riforme, dunque. Si parte da quella del Senato, che per Renzi è una vera e propria "rivoluzione", per approdare alla legge elettorale. E ancora: la riforma del mercato del lavoro, la semplificazione della burocrazia e lo snellimento della giustizia civile. Un programma ambizioso, va detto, ma anche un tantino articolato perché non rischi di perdere concretezza nel corso della già di per sé travagliata legislatura. "L’Italia ha una grande occasione ed è fare l’Italia, bisogna smettere di piangersi addosso - spiega Renzi intervenendo a Venezia - piaccia o no a chi vuole frenarci, il risultato a casa lo portiamo". Se una partita si gioca a Roma, dove un parlamento in subbuglio e una maggioranza a seguire ciecamente il premier mettono a rischio l'iter delle riforme, l'altra (quella più ardua e pericolosa) si gioca a Bruxelles dove la Germania e i Paesi del Nord Europa difficilmente allenteranno le briglia del Patto di Stabilità. Renzi lo sa molto bene, ma prova a fare il furbetto. Non vuole nemmeno sentir parlare di derby tra austerity e flessibilità: "È ideologico...". E propone di escludere gli investimenti sulle nuove tecnologie dal Patto di stabilità. Un'ipotesi mai condivisa con Padoan e subito stoppata da Siim Kallas. "Nessuna spesa può essere esclusa dal calcolo del deficit - gli fa notare il commissario ad interim agli Affari economici - non ci sono spese buone e spese cattive".


In Europa, però, il risultato non è affatto scontato. Nonostante le rassicurazioni della cancelliera Angela Merkel, i notabili tedeschi difendono a oltranza il Patto di stabilità. "L’attenzione sulla crescita e sulle riforme è giusta - torna ad avvertire il ministro tedesco dell'Economia Wolfgang Schaeuble - ma le riforme non devono essere una scusa per evitare il consolidamento di bilancio". Prima di commentare il programma di riforme ("molto ambizioso") del governo italiano anche il presidente dell'Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem vuole aspettare i risultati. Gli occhi della Ue, dunque, sono puntati sull'Italia. E su Padoan che oggi ha presentato all'Ecofin il programma per il semestre italiano. Un programma che chiama in causa gli sforzi di tutti per "rafforzare gli incentivi e realizzare" le riforme. Per farlo il ministro dell'Economia intende "utilizzare gli spazi del Patto" di stabilità, senza "cambiare le regole" ma usando "quelle che ci sono in modo migliore, con lungimiranza". Una linea osteggiata dai tedeschi ma appoggiata pienamente da Jean Claude Juncker. "La flessibilità serve perché il treno europeo non deragli - spiega all'audizione del Gruppo S&D al Parlamento Ue- non sono un feticista dei numeri, ma sono legato alla realtà". La partita, però, è soltanto all'inizio.


Padoan tranquillizza l'Ecofin: "Coi tedeschi pieno accordo sulle riforme". E incassa l'ok dell'Ue. Ma Renzi prova a usare gli investimenti digitali per sforare il Patto di stabilità





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Wolfgang Schaeuble discute con Pier Carlo Padoan
Padoan: "In Ue serve crescita"Renzi: "L'Italia smetta di piangersi addosso"Renzi sfoggia l'inglese ma esita sulla parola brevettoRenzi: "Mia madre pianse per il muro di Berlino..."
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Published on July 08, 2014 09:19

Soldi alla coop di famiglia, Errani condannato si dimette

Bufera giudiziaria sulla Regione Emilia Romagna. Dopo essere stato assolto in primo grado con la formula "perché il fatto non sussiste", la Corte d’appello di Bologna ha ribaltato la sentenza condannando Vasco Errani a un anno di reclusione nel processo sulla cooperativa agricola "Terremerse" di cui era presidente il fratello Giovanni. Il processo, in cui il governatore piddì era imputato per falso ideologico in atti pubblici, ha portato anche alla condanna a un anno e due mesi i due funzionari regionali (assolti in primo grado), Filomena Terzini e Valtiero Mazzotti. Un durissimo colpo per il Partito democratico che, nonostante la condanna e le immediate dimissioni da presidente della Regione, continua a definire Errani "una persona perbene". Tanto che da via del Nazareno è subito arrivato un accorato appello a non lasciare la poltrona. 


"È una sentenza sconcertante", commenta il legale di Errani, Alessandro Gamberini, all'uscita dall'aula della Corte di appello di Bologna dove si è tenuto a porte chiuse il secondo grado in abbreviato. Il ribaltamento dell'assoluzione in primo grado è un fulmine a ciel sereno che scuote sia la Regione Emilia Romagna sia i vertici del Partito democratico. "Chiunque lo conosca non può dubitare della sua onestà e della sua correttezza - si affretta a commentare Pier Luigi Bersani - con tutto il rispetto che si deve alle sentenze, si dovrà dare rispetto anche alle convinzioni profonde di chi ha avuto a che fare con Errani". La condanna è un colpo durissimo alla tanto sbandierata "superiorità morale" della sinistra. Il processo è, infatti, collegato alla maxi truffa sul finanziamento da un milione alla coop presieduta nel 2006 dal fratello di Errani, Giovanni. Per il governatore la procura generale aveva chiesto una condanna a due anni.


Errani, per il quale la Corte ha disposto la sospensione condizionale della pena, era finito sotto indagine per una relazione che nel 2009 fu inviata alla procura bolognese per dimostrare la regolarità dell'operato della Regione nel finanziamento da un milione di euro a Terremerse. "È un momento di grande amarezza", ha commentato Errani che, nel presentare le dimissioni da governatore, ha ribadito la propria innocenza. A inguaiare i dirigenti Terzini e Mazzotti, anche loro assolti in primo grado perché "il fatto non costituisce reato", era stato lo stesso Errani che, secondo la ricostruzione della accusa, vennero istigati a scrivere il documento per coprire irregolarità. Attualmente Giovanni Errani è a processo in primo grado per truffa ai danni della stessa Regione.


Con le dimissioni di Errani la Regione Emilia-Romagna si avvia verso nuove elezioni. All'interno del Pd il toto candidati era già iniziato per l’intreccio con il congresso regionale del 5 ottobre. In pole position ci sono già Stefano Bonaccini, segretario regionale uscente e responsabile Enti locali nella segreteria di Matteo Renzi, e Daniele Manca, sindaco di Imola e presidente regionale dell’Anci, pure lui renziano anche se della "seconda ora". Se invece dovesse toccare all'ex sindaco di Forlì, Roberto Balzani (renziano da sempre), dovrebbe vedersela con Matteo Richetti, ora deputato che da presidente dell'assemblea regionale aveva fatto da apripista a Renzi in Emilia-Romagna. Non a caso era al suo fianco sul palco alla seconda Leopolda.


Truffa sui finanziamenti da un milione alla coop agricola presieduta dal fratello del governatore. Che si dimette da governatore e spiana la strada ai renziani





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Andrea Indini

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Published on July 08, 2014 08:34

July 2, 2014

Renzi snobba l'Europa per andare a Porta a Porta

Grande imbarazzo a Strasburgo. La decisione di Matteo Renzi di non tenere la tradizionale conferenza stampa al termine dell’intervento di presentazione dell’agenda della presidenza semestrale del Consiglio Ue, davanti alla plenaria del Parlamento europeo ha fatto storcere il naso a non pochi capi di Stato. Non tanto per lo sgarbo a Martin Schulz, fresco di riconferma, quanto per la "giustificazione" dell'assenza all'appuntamento. Il presidente del Consiglio sarà, infatti, l'ospite d'onore dello speciale di Porta a Porta. Che Renzi non sgomiti per apparire in pubblico con Schulz, non abbiamo alcunché da obiettare. Peccato che, aldilà delle noiosissime lodi all'Unione europea, avviare il semestre europeo con una clamorosa "bigiata" istituzionale non è certo il migliore dei modi per far valere il peso dell'Italia.


"Il governo è convinto che c’è bisogno di un’Italia che non viene in Europa a chiedere, a rivendicare, ma a far pesare una storia straordinaria per un futuro che sia all’altezza del suo passato". All'indomani del primo giorno dell'ottava legislatura dell'Europarlamento, Renzi ha riunito i deputati italiani per sciorinare una litania di salamelecchi all'Unione europea. Una serie di ovvietà a cui non deve credere più di tanto nemmeno lui. Tanto che, alla prima apparizione tivù, eccolo salire sul primo diretto per Roma e darsele a gambe levate. Questa mattina ha, infatti, dato il ben servito a Schulz spiegandogli che in serata non avrebbe partecipato alla conferenza stama congiunta con il presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso. Un appuntamento a cui finora hanno partecipato quasi tutti i suoi predecessori, primi ministri dei governi che hanno esercitato la presidenza di turno dell'Unione europea. "È sicuramente una decisione inusuale", hanno fatto trapelare fonti dello staff di Schulz che, tuttavia, ha pubblicamente minimizzato l’importanza della questione: "È solamente, esclusivamente ed eccezionalmente a causa di restrizioni di orario e impegni del primo ministro italiano, che ripartirà subito dopo il suo intervento in plenaria". 


Non sarebbe la prima vola che un premier salta la conferenza stampa. È già successo, ma molti anni fa, all’inizio di questi appuntamenti tradizionali all’Europarlamento per la presentazione della presidenza semestrale europea. Il vero problema non è tanto l'assenza, ma il motivo dell'assenza. In molti a Strasburgo considerano, infatti, "irrispettoso" il fatto che Renzi abbia tanta fretta di andarsene per essere in diretta su Raiuno allo speciale di Bruno Vespa che riapre Porta a Porta appositamente per "celebrare" il semestre europeo a guida italiana. "Non sta a me giudicare l’orario e l’agenda di un primo ministro - ha commentato Schulz - ha sicuramente degli impegni con un programma molto denso e tempi limitati". Dichiarazione computa, ma che non fa nulla per celare un profondo fastidio. Così, per mettere un freno alle polemiche, lo staff di Renzi prova ad allestire un punto stampa fuori dall'emiciclo, subito dopo il dibattito in plenaria. Che, però, porta ritardo su ritardo e obbliga a un altro annullamento. È il gong che segna la fine di un "braccio di ferro" durato tutto il giorno tra il palazzo di Strasburgo e Renzi. Che stasera si mostrerà comunque sorridente e trionfante negli studi di Porta a Porta.


I tempi contingentati, il braccio di ferro con Berlino, l'impegno con Vespa: ecco perché Renzi ha cancellato la conferenza stampa con Schulz





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Andrea Indini

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Published on July 02, 2014 10:11

July 1, 2014

Ukip, show all'Europarlamento: spalle girate all'Inno alla Gioia

L'ottava legislatura del Parlamento europeo non avrebbe potuto iniziare nel peggiore dei modi. E non certo per la plateale protesta anti europea inscenata da Nigel Farage e dei parlamentari dell'Ukip che, alla plenaria di Strasburgo, hanno voltato le spalle mentre veniva eseguito l'Inno alla gioia, inno dell’Unione europea. Se il buon giorno si vede dal mattino, l'elezione del socialdemocratico tedesco Martin Schulz alla presidenza dell'Europarlamento è sicuramente uno dei peggiori presagi che potesse riecheggiare nel cielo di Strasburgo.


Lo schieramento delle formazioni politiche europeiste si è indebolito ma resta maggioritario. Quello degli euroscettici si è rafforzato ma è diviso al suo interno. Non è stato quindi difficile per la "grande coalizione" in salsa europea costituita da popolari, socialdemocratici e liberaldemocratici per far passare la nomina di Schulz, che adesso ce lo ritroveremo alla guida del parlamento Ue per i prossimi due anni e mezzo, e dettare l'agenda dei lavori dell’assemblea. Sulla carta Schulz contava ben 479 voti rispetto ai 376 necessari per essere eletto. Ne incassa 409. Qualche franco tiratore. Ma non abbastanza per sbarrargli la strada. Il fenomeno potrebbe, tuttavia, avere ripercussioni non positive sul secondo pilastro della "grande coalizione", cioè quello dell'elezione di Jean-Claude Juncker alla presidenza della Commissione Ue il prossimo 16 luglio.


Se alla vigilia della plenaria l'elezione di Schulz era data per scontata, tutt'altro che scontato il debutto delle schiere euroscettiche. Per la prima volta nella storia varcano la soglia dell'emiciclo esponenti neonazisti provenienti dalla Grecia (Alba Dorata) e dalla Germania (Npd). Gli occhi dell'opinione pubblica, però, sono puntati sulle due grandi coalizioni anti Europa: da una parte la formazione guidata da Farage e a cui hanno aderito anche i 17 grillini, dall'altra Marine Le Pen, la leader del Front National a cui, nonostante il successo conseguito in Francia, non è riuscita la formazione di un gruppo politico insieme agli xenofobi olandesi del Pvv e alla pattuglia leghista di Matteo Salvini. Tutti finiti tra i "non iscritti", con il forte rischio di essere marginalizzati dai lavori dell’assemblea e delle commissioni parlamentari. Forse proprio per ottenere uno scampolo di visibilità Gianluca Buonanno si è presentato in Aula coperto da un tetro burqa nero.


In realtà anche i grillini rischiano di finire marginalizzati. L'alleanza a cui Beppe Grillo ha aderito passa da Efd a Efdd. Una "d" in più per passare da "Europa della libertà e della democrazia" a "Europa della libertà e della democrazia diretta". Nonostante l'alleanza con lo UK Independence Party, tuttavia, gli stellati potrebbero finire vittime di una manovra "a tenaglia" che, secondo indiscrezioni, starebbero mettendo a punto i membri della "grande coalizione". E un primissimo segnale di insofferenza può essere intravisto dal netto rifiuto dei grillini di voltarsi mentre in Aula hanno risuonato le note di Beethoven. "Non c'è alcun problema, con Grillo siamo uniti sulle questioni più importanti", minimizza Farage. Che ai suoi dice: "Questo sarà un Parlamento più emozionante, divertitevi!". L'indipendentista scozzese David Coburn lo ha preso sul serio. E alla plenaria ha sfilato in kilt.


Scontata l'elezione di Schulz alla guida del parlamento Ue. Meno scontato il debutto degli euroscettici: sebbene rafforzati, le divisioni interne rischiano di marginalizzarli





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Andrea Indini


Gli eurodeputati dell'Ukip voltano le spalle all'Inno alla Gioia
Protesta dell'Ukip: spalle girate all'Inno alla GioiaFarage: "Giusto voltare le spalle all'inno dell'Europa"Farage: "Con Grillo uniti sulle questioni importanti"Martin Schulz rieletto presidente dell'EuroparlamentoE Buonanno si presenta in burqa
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Published on July 01, 2014 07:40

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Andrea Indini
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