Marco Manicardi's Blog, page 75
February 18, 2019
Una definizione
Ieri abbiamo portato il Miny al suo primo compleanno di un altro bambino e, a parte lo sconforto per aver ceduto così presto alla linea dura del «col cavolo che lo portiamo ai compleanni-di-altri-bambini-la-domenica-pomeriggio» che pensavamo di riuscire a seguire in modo un po’ più ligio di come poi è andata a finire, abbiamo avuto il nostro primo incontro con una di quelle cose chiamate “playpark” o con nomi simili.
Non ho altro da dire, se non che Grushenka ha dato la definizione perfetta del luogo indicandolo come «uno sgambatoio per bambini dentro un capannone industriale».
Quando dice delle cose così io capisco subito il perché sono ancora innamoratissimo.
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February 17, 2019
Della superiorità dell’ingegneria sui ragionamenti di Ivan Fëdorovič Karamazov
Quel che ci preme è ch’io possa, al più presto, dichiararti il mio vero essere, cioè che uomo sono io, in che cosa credo e in che cosa spero […] E perciò ti dichiaro senz’altro che accetto, in tutte lettere, l’esistenza di Dio. Ma ecco, tuttavia, che cosa occorre rilevare: posto che Dio esista, e che abbia realmente creato la terra, questa, come tutti sappiamo, è stata creata secondo la geometria euclidea, e l’intelletto umano è stato creato idoneo a concepire soltanto uno spazio a tre dimensioni. Vi sono stati, invece, e vi sono anche ora, geometri e filosofi, e anzi fra i più grandi, i quali dubitano che tutta la natura, o più ampiamente, tutto l’universo, sia stato creato secondo la geometria euclidea, e s’avventurano perfino a supporre che due linee parallele, che secondo Euclide non possono a nessun patto incontrarsi sulla terra, potrebbero anche incontrarsi prima o dopo all’infinito. E così, cuore mio, ho tratto la conclusione che, se nemmeno questo mi riesce intelligibile, come potrei mai innalzarmi al concetto di Dio? Umilmente riconosco che in me non c’è nessuna capacità di risolvere problemi simili: in me c’è una mente euclidea, terrestre, e come potrei pretendere di ragionare su ciò che non è di questo mondo? E anche a te, Alëša, consiglio che a queste cose ti astenga sempre dal pensare, e soprattutto (per quanto tocca Iddio) se esista o non esista. Queste son tutte questioni assolutamente inadatte a un’intelligenza creata con concetto d’uno spazio unicamente tridimensionale. Cosicché, ammetto volentieri Iddio […] 
Io sono una cimice, e riconosco con la massima umiltà che non posso intendere un ette delle ragioni per cui il mondo è composto così. Si vede che gli uomini stessi ne avranno colpa: gli era stato dato il paradiso, loro han voluto la libertà e han rapito il fuoco dal cielo, pur sapendo che sarebbero stati infelici: non è dunque il caso di averne pietà. Oh, io, con la mia miserabile, terreste intelligenza euclidea, io so, unicamente, che la sofferenza c’è, che colpevoli non esistono, che da una cosa deriva l’altra in linea retta, che tutto scorre via e viene a controbilanciarsi: ma questo, certamente, non è che vaneggiamento euclideo, e so io stesso che è così, e vivere secondo esso è una cosa a cui non posso, io, acconsentire! […] quel che occorre, a me, è una sensazione suprema, altrimenti sarò costretto ad annichilarmi.
(Fëdor Michajlovič Dostoevskij, I fratelli Karamazov, parte seconda, libro quinto “Pro e contra”, dai capitoli III I fratelli fanno conoscenza e IV Ribellione; Einaudi)
Quando Ivan Fëdorovič tiene questo discorso al fratello Aleksej nella locanda della Capitale, poco prima di esporgli il suo poema mai scritto dal titolo Il grande inquisitore, ha circa ventitré anni. Io ne avevo ancora meno, tra i diciannove e i venti, mi pare, quando dimostravo che due rette parallele, all’infinito, si incontrano senza problemi.
L’ho trovato tra i miei vecchi appunti di Geometria dell’università. Dentro c’è scritto che nello spazio proiettivo, sovrainsieme di quello euclideo, le rette parallele si incontrano in un punto all’infinito.
Quel punto lì, dove le rette parallele si incontrano all’infinito, si chiama punto improprio. Se vogliamo pensare che Dio sia da quelle parti, cioè all’infinito, è molto verosimile l’ipotesi che si tratti, appunto, coerentemente, di un Dio improprio.
Altrimenti è da un’altra parte o, più semplicemente, non c’è.
E per quanto mi riguarda, e nemmeno da oggi, ma da quando avevo diciannove o vent’anni, la questione è archiviata.
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È un post del 2011, mi è venuto in mente stamattina mentre dovevo decidere se alzarmi dal letto o voltare gallone, non so perché. Buona domenica.
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February 15, 2019
La parte sbagliata del Secchia
Abito in un posto, ma lavoro in un altro dalla parte sbagliata del Secchia, e dalla parte sbagliata del Secchia, non so, mi sembra che abbiano una testa diversa, perciò è una decina d’anni, anzi quasi quattordici, che mi sento un po’ come si sentono i frontalieri.
Quando c’è la nebbia a casa mia, c’è la nebbia anche dalla parte sbagliata del Secchia, ma delle volte parto da casa mia col sole e della parte sbagliata del Secchia c’è la nebbia. Questo è più o meno tutto quello che c’era da dire sul mondo dalla parte sbagliata del Secchia. Sennonché, qualche mattina fa sono partito da casa mia con la nebbia e dalla parte sbagliata del Secchia c’era il sole. Ci sono rimasto male.
Quando invece sono uscito dal lavoro, alla sera, mentre andavo verso la macchina notavo che il cielo era scuro ma ci si vedeva ancora un po’, e là in fondo, dalla parte giusta del Secchia, c’era un bel tramonto rosa, azzurro e arancione. E andava bene così.
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La New Wave italiana (l’onda lunga)
Poi ci sono quelli che non hanno mai smesso di scrivere (ci sono anch’io, tutto sommato) ma che secondo me ultimamente scrivono di più (è solo una mia impressione). Li metto qui sotto, al solito, in rigoroso ordine alfabetico così come sono stati aggiunti o spostati nel gruppetto dell’Onda lunga italiana del mio feedreader (uso feedly, quello gratis, se vi interessa).
After Zen – di Fabrizio Casu.
ABTV: Oblò – (qui bisogna fare una precisazione) Oblò è la rubrica letteraria di Davide Profumo (Lo Scorfano) su ABTV, il sito del Gruppo di studio Aterosclerosi, Trombosi, Biologia Vascolare; non essendoci un feed dedicato all’Oblò, bisogna iscriversi a quello di tutto il sito, e quindi ogni tanto si leggono anche articoli e commenti scientifici davvero interessantissimi, almeno per noi che stiamo invecchiando.
Bluebabber – di Stefano Castelvetri.
buoni presagi – di Alessandro Vicenzi (nipresa).
I love Quentin – di Vincenzo Prencipe (khenzo).
Mafe de Baggis – di Mafe de Baggis.
Mix – di Mix.
«Un, due, tre, VIA» – di Tinni.
Verba Manent / Zu – di Giulio Zu.
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NOTA: nella lista mancano i mostri sacri, il proto-punk e il pre-war blues perché saranno oggetto di un post a parte, uno dei prossimi venerdì, se tutto va bene.
Musica:
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Le altre puntate piene di link sulla New Wave della blogsfera italiana sono qui.
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February 14, 2019
Una rosa è una rosa è una rosa?
Avrò avuto quattro o cinque anni, ero al secondo o al terz’anno di scuola materna e quando la mamma mi chiedeva una di quelle cose che chiedono i genitori ai figli piccoli per far finta di trattarli come adulti e soprattutto per far scappare da ridere agli altri adulti lì intorno, tipo «Ce l’hai una morosina?», io rispondevo deciso: «Sì che ce l’ho!»
«E chi è? Una tua compagna di classe?»
«Sì, si chiama Marcella,» dicevo fiero.
Non che fossimo davvero morosi, a quattro o cinque anni, figuratevi. Ma c’era la prassi di dire che una bambina era la tua morosa solo perché ti piaceva, e perché dovevi per forza incasellarti in uno stile di vita che ti imponevano gli adulti: sei un maschio di quattro o cinque anni, ti dovranno per forza piacere le femmine.
Il caso ha voluto che mi piacessero le femmine, e c’era una bambina in classe con me che si chiamava Marcella, io dicevo che era la mia morosa e anche Michele diceva che la Marcella era la sua morosa. Entrambi lo sapevamo e ci andava benissimo così, perché era un mondo libero, quello che vivevamo al secondo o al terz’anno della scuola materna dalle suore di Novi di Modena, e anche le suore, incredibile, accettavano senza battere ciglio quell’abbozzo di intenzione di poligamia infantile.
Ma comunque, inevitabilmente, anche al secondo o al terz’anno della scuola materna delle suore di Novi di Modena è arrivato il giorno di San Valentino.
Cosa volete che gliene freghi a un bimbo di quattro o cinque anni di San Valentino?
Invece gliene frega. Gliene frega perché gli adulti, a cominciare dai genitori, cominciano a dire delle cose di quelle che chiedono i genitori ai figli piccoli per far finta di trattarli come adulti e soprattutto per far scappare da ridere agli altri adulti lì intorno, tipo «Allora glielo vuoi fare un regalo alla tua morosina domani che è San Valentino?»
Sarà seguita, immagino, qualche spiegazione sul significato popolare della ricorrenza, o magari me l’avevano già spiegato qualche anno prima, non lo so, ma va bene, facciamo il regalo alla mia morosina, devo aver pensato. E ho portato la mamma in un negozio di giocattoli, uno dei due che c’erano a Novi di Modena all’inizio degli anni 80, siamo entrati, ho scelto un regalo, l’ho fatto impacchettare dal negoziante e, devo dire, se chiudo gli occhi e ripenso a quel momento lì della mia vita e faccio uno sforzo per tornare alle sensazioni del me stesso bambino che compra un regalo di San Valentino per la Marcella, la mia morosina di allora, mia e di Michele, beh, mi sento abbastanza soddisfatto.
E lo ero ancora il giorno dopo, quando sono arrivato con la mamma davanti alla scuola. Mia mamma era una che si svegliava anche presto, ma poi andava a finire che si perdeva a fare delle cose in casa e mi portava sempre a scuola per ultimo, e quel giorno lì, quando sono entrato, c’erano già dentro tutti i miei compagni di classe ed erano ammassati in cerchio nel salone centrale tra le sezioni, dentro al cerchio c’era la Marcella e davanti alla Marcella, me lo ricordo bene, come se fosse adesso, ho proprio la fotografia davanti agli occhi, c’era Michele col braccio teso verso di lei e una rosa rossa in mano.
Ora, a me mi viene naturale, in questo momento, chiedermi delle cose. Delle cose da adulto, intendiamoci. Delle cose tipo: ma come può darsi che a un bambino di quattro o cinque anni gli venga da pensare di regalare una rosa a una bambina per San Valentino?
Qual è il processo mentale precocissimo che porta il romanticismo a vette così adulte che fa dire a un bambino di quattro o cinque anni «Mamma portami dal fioraio che compro una rosa per la Marcella che domani è San Valentino»?
Com’è possibile una cosa del genere?
Una rosa? A quattro o cinque anni?
Saranno mica stati i genitori a inculcargli una di quelle cose che dicono i genitori ai figli piccoli per far finta di trattarli come adulti e soprattutto per far scappare da ridere agli altri adulti lì intorno, tipo «Michele, gliela compriamo una rosa alla tua morosina per San Velentino?»
Una rosa?
UNA ROSA?
Allora io, ecco, ho preso il pacchettino che avevo in mano, che era dentro a una sportina, mi sono girato verso mia mamma, che era lì che guardava Michele dare la sua rosa alla Marcella e sorrideva compiaciuta della scena, e nella sua testa avrà pensato che cosa divertente e buffa questi due bambini che fingono di fare gli adulti.
Io l’ho tirata per la giacca e le ho ridato il mio pacchetto.
Deve forse avermi detto: «Non glielo dai tu il regalo alla Marcella?»
«No, fa lo stesso,» devo forse aver risposto.
E le ho dato la sportina con dentro il mio regalo ancora impacchettato.
Una rosa, pensavo.
Una rosa.
Una fottutissima rosa rossa, penso ancora adesso.
Come potevo anche solo immaginare di competere, io, piccolo stoltarello di quattro o cinque anni al secondo o al terz’anno della scuola materna delle suore di Novi di Modena, come potevo pensare di affrontare Michele e la sua rosa rossa davanti alla Marcella, io, ingenuo, piccolo, stupido, col mio sciocco, anche se non banalissimo, ma comunque sciocco, sciocchissimo cubo di Rubik?
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(è una cosa che posto, linko o rebloggo da qualche parte tutti gli anni; e ogni anno ci cambio una virgola)
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February 13, 2019
Plug-in
Tempo fa avevo installato un plug-in che controlla i post mentre li scrivo e mi dà un semaforo verde se sono scritti bene, un semaforo arancione se c’è qualcosa da migliorare, un semaforo rosso se proprio secondo lui sono illeggibili. Insieme al semaforo rosso arrivano anche dei consigli, come per esempio (copincollo):
Frasi consecutive: il testo contiene 3 frasi consecutive che iniziano con la stessa parola. Ti suggeriamo di provare a variare un po’!
Distribuzione dei sottotitoli: non stai usando i sottotitoli, sebbene il tuo testo sia piuttosto lungo. Ti suggeriamo di aggiungere i sottotitoli.
Lunghezza dei paragrafi: 2 dei paragrafi contiene (sic) più di 150 parole, che è il numero suggerito. Ti consigliamo di scrivere paragrafi più corti!
Lunghezza delle frasi: il 31.6% delle frasi contiene più di 25 parole, che supera la lunghezza massima suggerita di 25%. Prova a scrivere frasi più corte.
Quando mi dà un semaforo verde la vivo sempre come una sconfitta.
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February 12, 2019
L’Emilia-Romagna, spiegata bene (l’Alta in basso e la Bassa in alto)
[Ecco poi che, come succedeva una volta su Barabba, mi arriva un post da pubblicare e io lo pubblico. Sono così contento che faccio fatica a restare seduto.]
l’Alta in basso e la Bassa in alto
di Tinni
Certe cose è la Natura ad infilartele in un cassettino, sotto i fazzoletti col monogramma, e forse ci metti un po’ a capire che sono tue, proprio tue, e che non tutti gli altri le hanno ricevute uguali.
Con la patente appena firmata in una tasca e un sorriso indelebile spennellato sul volto, non ho mai avuto paura a ripartire in salita, dopo un incrocio o un semaforo; mi sembrava che il freno a mano fosse sempre stato lì, come un rassicurante zio sul divano la domenica pomeriggio, e sapevo che, a tenergli la mano (anche solo un accenno di tocco, ché lo zio non è mai stato un tipo da effusioni manifeste), qualunque insormontabile inghippo avrebbe assunto in pochi istanti le proporzioni di un lievissimo, impercettibile sobbalzo.
I miei compagni di classe cittadini cambiavano con molta più agilità le corsie della tangenziale; forzavano gli attraversamenti a sinistra, parcheggiavano a esse in due mosse, partivano rombando alla prima sfumatura di verde.
Poi però avevano paura delle partenze in salita.
Ed è stato lì, a diciotto anni, che improvvisamente ho capito – io di solito sempre così fifona, sempre così abituata a coltivare le paure più sceme – che avevo una cosa tutta speciale nascosta nel cassettino, e non per merito mio. Non avevo paura. Sapevo fare con scioltezza una manovra che agli altri incuteva timore. Ed era la Natura che me l’aveva messa lì, questa cosa, sotto forma di pendenze e tettonica.
E quando dico Natura, intendo proprio la natura della provincia di Modena, e di quel lembo di provincia in cui ero nata e cresciuta, cioè – come diciamo noi modenesi – l’Alta.
Tutti i modenesi sono nati o nella Bassa o nell’Alta; e chi è cresciuto a Modena città resta solo apparentemente fuori dai giochi: avrà almeno un nonno o un prozio da incasellare in una delle due categorie.  
L’Alta comincia un centimetro a sud del territorio comunale del capoluogo, e la Bassa qualche millimetro verso nord. Siamo fatti così, qui a Modena: ci piacciono le cose progettate bene, le righe precise, gli orari spaccati; e poi però abbiamo l’Alta in basso e la Bassa in alto. Qualcuno dà la colpa all’Appennino, dice che si è messo dalla parte sbagliata della carta. Secondo me lo ha fatto apposta – e bene – , altrimenti saremmo stati tutti troppo noiosi e pertinenti.
Io sono nata in un’Alta decisamente temperata – le prime colline, a 25 chilometri appena dalla civilissima capitale – ma le partenze in salita, per andare “su in castello”, hanno fatto sempre parte del mio orizzonte; fin da quando, in castello, ci andavo a piedi alle elementari, e mi sembrava normale sporgermi dalla piazza della Dama, dopo aver salito senza fiato i novantanove scalini, e vedere di sotto i vigneti rincorrersi a perdifiato.
L’Alta ha infilato nel mio cassettino la dimestichezza con le partenze in salita, con le ciliegie, con la neve che viene sempre di più a casa nostra che altrove (che a scuola, che al lavoro da mio padre, che a casa dei compagni di classe); mi ha insegnato, con dolcezza e pazienza, il significato del termine pittoresco, e anche quello delle parole noia e isolamento. L’Alta ha guidato i miei piedi la prima volta che sono salita su una balla di fieno, ha tagliato l’aria davanti a me quando sudavo e arrancavo per raggiungere gli amici a Vignola, in bicicletta, per soli ed interminabili sette chilometri di saliscendi stradali, mi ha dato da bere l’acqua fresca di Pavullo, nelle gite fuori porta del finesettimana. La Bassa mi appariva come una landa lontanissima e impenetrabile: un po’ per la nebbia, che mi dicevano regnasse sovrana, e un po’ per l’effettiva distanza chilometrica. Questo lo sanno non solo i modenesi, ma anche tutti gli insegnanti precari assegnati, per scelta o giocoforza, alla provincia suddetta: Pievepelago e Finale sono davvero parte dello stesso universo? Il c.a.p. farebbe pensare di sì, ma google maps segnala comunque all’inesperto visitatore che distano tra loro circa centodieci chilometri.
Non ero mai stata a Carpi, Mirandola restava per me un enigma, Novi di Modena – per citare un luogo caro a chi legge – assumeva nella mia mente i contorni di un buco spazio-temporale. Le voci che narravano di queste terre esprimevano alle mie orecchie di bambina suggestionabile un sottotono di grigia disperazione. La Bassa? Per carità! Fino là? Starai scherzando! Chi può voler vivere in un luogo tanto remoto, tanto diverso dai contorni ondulati che avvolgevano gli anni belli della mia vita?
Così ho trascorso una buona fetta della mia vita; così vivono gli abitanti dell’Alta, quelli che poi si conoscono, si fidanzano e si sposano con altre persone che sanno fare le partenze in salita.
Così ho vissuto anche io, fino al settembre dell’anno 2018.
Lì, all’improvviso, quel Dio-Appennino che sa tanto bene come sparigliare le carte e mettere tutti a testa in giù, mi ha regalato il posto fisso a scuola nel più grande liceo della provincia; ma nella parte della provincia “sbagliata”. Sono finita di ruolo a Carpi.
Addio sole, addio neve, arrivederci ciliegi in fiore – mi dicevo compulsando il sito noipa per consolarmi almeno con quella rigonfia cifra a fine mese. Ti saluto pittoresco. Chissà che faccia avranno – mi chiedevo – questi lontani cugini: saranno grigi e composti, un po’ segnati dalle sfighe del terremoto e dell’alluvione, ma comunque efficientemente modenesi? Riuscirò a cogliere, sul fondo dei loro occhi, il triste stagno della pianura piatta e penosa? Mi perderò per quelle strade tutte uguali, senza striscia nel mezzo?
Ebbene, la provincia di Modena è stata capace di stupirmi ancora una volta, e forse più che mai: mi ha mostrato che sul fondo di quel cassettino c’era ancora qualcosa che non avevo notato, ancora qualcosa di mio ma non solo mio. Qualcosa di nostro, di tutti noi nati in quei centodieci chilometri di striscia tra il Secchia e il Panaro. Qualcosa di indefinibile, a cui non so dare etichetta, come sono tutte le appartenenze che non si fanno muro. Come i sapori buoni ed antichi, come le ciliegie e il lambrusco.
Nella Bassa mi sono sentita, comunque, a casa.
E oggi, quando devo fare metano, la mattina, e invece della nazionale per Carpi prendo le strade basse che passano per Albareto, mi ritrovo spesso ad attendere al semaforo rosso del ponte dell’Uccellino: un vecchio ponte di barche che nella sua bizzarra ma dignitosa precarietà traghetta quotidianamente fiumi di macchine al di là del Secchia. La strada per il ponte è in salita leggera, ma vista la lunga coda non voglio rischiare: accarezzo il freno a mano e parto comunque così, strizzando l’occhio a questa pendenza così sorella di quelle su cui sono cresciuta.
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Gli altri post dell’Emilia-Romagna, spiegata bene:
– L’Emilia-Romagna, spiegata bene
– E ancora meglio di enzo (polaroid)
– E un’altra cosa di eio
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February 11, 2019
Musica Contemporanea Prescindibile, Op. 3 (Sonic Youth tornate insieme)
Lo scioglimento dei Sonic Youth, nel 2011, è un lutto dal quale quelli come me fanno ancora fatica a riprendersi. Quindi ho deciso di rimetterli insieme in un pezzo rumoroso dove sovrappongo alcune tracce prese dagli ultimi tre dischi solisti dei quattro, rigorosamente nella formazione “classica” (Thurston Moore, Kim Gordon, Lee Ranaldo e Steve Shelley). E questo è il risultato.
https://marcomanicardi.altervista.org/wp-content/uploads/2019/02/Op.-3-per-sovrapposizioni-Sonic-Youth-tornate-insieme.mp3
Musica Contemporanea Prescindibile, Op. 3 per sovrapposizioni (Sonic Youth tornate insieme)
Testi e musiche: Thurston Moore & Radio Radieux; Bill Nace & Kim Gordon; Lee Ranaldo
Composizione e montaggio: Marco Manicardi
Esecuzioni sovrapposte: Thurston Moore e Steve Shelley (da Rock n Roll Consciousness, 2017); Kim Gordon (da Body/Head, The Switch, 2018); Lee Ranaldo (da Electric Trim, 2017)
“Everything people call fabulous or amazing lasts for about ten minutes before the culture moves on to the next thing.”
― Kim Gordon, Girl in a Band (HarperCollins, 2015)
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Altre opere di Misica Contemporanea Prescindibile:
– Edgard, Op.1 per voce e sirene
– Satisfaction, Op.2 per sovrapposizioni
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February 10, 2019
E poi basta
Quando avevo quindici anni e mio padre ne aveva quaranta mi sembrava vecchio. Quando avevo venticinque anni e andavo ai concertini punk nei centri sociali vedevo i quarantenni e mi sembravano vecchi. Quando avevo trentacinque anni e i miei amici più grandi cominciavano a farne quaranta mi sembravano vecchi. Così vanno le cose.
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February 9, 2019
I miei primi
Dei quarant’anni per ora posso dire solo un paio di cose. La prima è che, anche se è una citazione entrata ormai nel gergo, ho capito, quando mi dicono «i tuoi primi quarant’anni» mi viene voglia di tirare delle madonne, poi però non lo faccio e mi limito ad annuire muto. La seconda è che guardando i miei amici e colleghi coetanei, che hanno fatto quarant’anni o stanno per fare quarant’anni anche loro, c’è qualcosa che non mi quadra, sarà che siamo la prima generazione che è venuta su a merendine e conservanti, ma non mi sembra che quelli venuti prima siano invecchiati mantenendo delle facce da ragazzini come stiamo facendo noi. Ma magari mi sbaglio, non li avevo mai avuti quarant’anni.
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