Marco Manicardi's Blog, page 74

February 28, 2019

Il nervoso (all’autogrill)

Ma perché lo bevete, cos’avete in testa quando lo ordinate, cosa cazzo è il MACCHIATONE?


Musica: 




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Le altre puntate del nervoso sono qui.


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Published on February 28, 2019 05:23

February 27, 2019

Carrère

E in un libro che si chiama Io sono vivo, voi siete morti, del 1993, che è una specie di biografia di Philip K. Dick, Emmanuel Carrère dice che se avessero pubblicato la Bibbia in una collana di fantascienza, l’avrebbero divisa in due volumi di ventimila parole, intitolati, invece che Antico e Nuovo Testamento, Il signore del caos La cosa con tre anime.


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Published on February 27, 2019 04:48

February 26, 2019

Così va la vita (a parlare e parlare)

C’è una piccola tradizione che io e Giancarlo Frigieri manteniamo circa dalla fine degli anni zero, da quando cioè avevamo cominciato la nostra corrispondenza elettronica con un milione di mail al giorno che affrontano tutti gli aspetti dello scibile e del cazzeggio, cosa che facciamo tuttora: ogni volta che uno dei due legge da qualche parte di qualcuno che abbia appena scoperto Spirit of Eden dei Talk Talk, subito scrive una mail all’altro del tipo: «Tizio ha appena scritto su facebook che ha scoperto Spirit of Eden!»

E l’altro gli risponde subito con una mail con su scritto: «INVIDIA!»

Subito dopo io scrivo a Giancarlo: «Grazie Gianca!»

E lui mi risponde: «Grazie Giuliano Ghini!»



Di solito funziona così: arriva qualcuno e ti dice che Spirit of Eden dei Talk Talk è un capolavoro gigantesco della musica del Novecento, qualcosa di mai eguagliato e probabilmente inarrivabile, e tu subito lo incalzi con un «Ma daaai, i Talk Talk? Quelli di It’s my life! Quelli di Such a shame!»

Ma lui, mandando giù due o tre volte il fatto che anche It’s my life e Such a shame siano delle cose grosse, perché lui che è un convertito e lo sa, ma è ancora presto per dirlo a un convertibile, ti risponde: «Proprio loro. Ascoltalo e poi mi dici.»

E capita regolarmente che tu lo ascolti e cominci a capire. E va a finire che Spirit of Eden (ma anche tutti gli altri, dopo) diventa uno di quei dischi da isola deserta, uno di quelli che ascolti decine di volte, poi ti fermi e dopo due o tre anni ne risenti il bisogno e riparti con gli ascolti, e delle volte devi ricomprarlo o riscaricarlo o trovare comunque il modo di sostituire il CD o il vinile perché non ce la fanno più a starti dietro.

E infine, quando incontri qualcun altro e pensi che sia l’occasione giusta per farlo, provi a dirgli che Spirit of Eden dei Talk Talk è un capolavoro gigantesco della musica del Novecento, qualcosa di mai eguagliato e probabilmente inarrivabile, eccetera.


A Giancarlo Frigieri era successo negli anni 90, era stato convertito da Giuliano Ghini.

A me è successo negli anni zero, ero stato convertito da Giancarlo Frigieri.

A mia volta credo di aver convertito una persona, nell’estate del 2010, mentre bevevamo della Rakia in un bar di Salonicco, e chissà se poi anche lui ha convertito qualcun altro.


Ci sono poche cose che ti aprono la testa in due quando le scopri, Spirit of Eden dei Talk Talk è una di queste. Perciò quando io e Giancarlo veniamo a sapere che qualcuno l’ha appena scoperto siamo invidiosi. Che bello sarebbe poterlo fare ancora.

E subito dopo, e succede sempre, cominciamo a parlare di Spirit of Eden, dei Talk Talk, di Mark Hollis e delle cose che continuano a saltar fuori ogni volta che li riascoltiamo o ne parliamo.


E ne parliamo e ne riparliamo.

Così va la vita.



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Published on February 26, 2019 05:47

February 25, 2019

Generazione NCNP

Mi hanno girato qualche giorno fa un articolo del Messaggero intitolato “Xennial, la generazione nata tra il 1977 e il 1983 è la migliore” dove si prova a dare un nome alla mia generazione, che sta tra la Generazione X (quella di Douglas Coupland) e i Millenial (o Generazione Y, quella di mia sorella), perché si vede che era una questione importantissima da risolvere il prima possibile e il non sapere dove e come inquadrarci avrebbe probabilmente sconvolto l’ordine delle cose, della vita, dell’universo e di tutto quanto.

E, insomma, il professore associato dell’Università di Melbourne Dan Woodman ci chiama Xennial, che sembra il nome di uno psicofarmaco, per dire che siamo vissuti lì a cavallo tra due epoche, che siamo nati senza internet ma abbiamo imparato a usare i socialcosi senza scomporci, che siamo cresciuti coi giochini a cristalli liquidi e abbiamo accettato la PlayStation senza sbatterci, che usavamo il telefono a gettoni con la rotella e abbiamo adottato gli smartphone senza farci dei grossi problemi, eccetera, che siamo in pratica passati in mezzo a due mondi e ci siamo adattati così bene che secondo il professore associato dell’Università di Melbourne Dan Woodman siamo «un’esperienza unica». Dice alla fine che noi Xennial non abbiamo il pessimismo della Generazione X (quella di Douglas Coupland) e nemmeno l’ottimismo dei Millennial (o Generazione Y, quella di mia sorella), ma che siamo anche «il simbolo vivente della capacità di adattamento dell’uomo».



Allora, a proposito dell’unicità dell’esperienza degli Xennial, mi sono ricordato di quel pezzetto che ripete spesso Paolo Nori nei suoi discorsi in pubblico, e che viene da un suo libro che si chiama I malcontenti, del 2010 (è molto bello), dove dice, parlando della sua generazione, che:


quelli che erano nati negli anni venti, e che avevano vent’anni negli anni quaranta, avevan dovuto combattere perché c’era la guerra e servivano dei soldati. Quelli che eran nati negli anni trenta, e avevan vent’anni negli anni cinquanta, avevan dovuto lavorare perché c’era stata la guerra e c’era un paese da ricostruire. Quelli che eran nati negli anni quaranta, e che avevan vent’anni negli anni sessanta, avevan dovuto lavorare anche loro perché c’era il boom economico e una grande richiesta di forza lavoro. Quelli che eran nati negli anni cinquanta, e che avevan vent’anni negli anni settanta, avevan dovuto contestare perché il mondo così com’era stato fino ad allora non era più adatto alla modernità o non so bene a cosa. Poi eravamo arrivati noi, nati negli anni sessanta e che avevamo vent’anni negli anni ottanta e l’unica cosa che dovevamo fare, era stare tranquilli e non rompere troppo i maroni.

Mi sembrava che noi, avevo detto, fossimo stata la prima generazione che, se ci davano un lavoro, non era perché c’era bisogno, ci facevano un favore.


E poi, dopo che era uscito il libro, qualcuno gli aveva chiesto cosa pensava di quelli che erano nati negli anni ‘70, negli anni ‘80 e negli anni ‘90, e lui gli aveva risposto:


mi sembra che anche per loro, la situazione sia identica alla nostra, con una differenza, però, che noi quando lavoravamo c’era questa abitudine, questa convezione che ci pagavano; loro, quando cominciano a lavorare, non li pagano.


Che mi sembra una cosa condivisibilissima, anche se, bisogna dire, a noi Xennial, cioè noi nati tra il 1977 e il 1983 (io sono nato nel 1979), delle volte succede che ci pagano.

Non tantissimo, per carità, ma delle volte succede.


E oltre alle cose descritte sopra, oltre quindi al passaggio dal telefono al telefonino, dall’8086 al Pentium Dual Core, eccetera, ci sono stati anche, per dirne tre o quattro, il crollo del Muro di Berlino, quello dell’Unione Sovietica, quello delle Torri Gemelle, la fine della musica bella e anche Berlusconi.

Per esempio, mi ricordo che quando chiedevo a mio padre cosa volesse dire C.C.C.P., quando lo leggevo sulle canottiere degli atleti ai mondiali o alle olimpiadi, mio padre rispondeva tutte le volte: «Col Cazzo Che Perdiamo!»

Tutte queste cose le abbiamo attraversate perché ci sono volate addosso, ma non abbiamo mai saputo bene come affrontarle, mi sembra, men che meno ci siamo saputi adattare. Le abbiamo prese così, come venivano. Non ci siamo mai chiesti se fosse stato meglio prima o sia meglio adesso. Direi che siamo una generazione che non ha mai preso una decisione.


Allora quello che volevo proporre al professore associato dell’Università di Melbourne Dan Woodman, che si è tanto impegnato per trovare una definizione per la nostra generazione, è che, se proprio dobbiamo trovare un nome a quelli nati tra il 1977 e il 1983, anche se non è obbligatorio, per concordare con la semantica della Generazione X (quella di Douglas Coupland) che è venuta prima di noi e la Generazione Y (o Millenial, quella di mia sorella) che è venuta dopo, io direi di chiamarci Generazione NCNP (o NFNF, se vi piace l’inglese): Né Carne Né Pesce (e l’angoscia non decresce).


Musica:



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Published on February 25, 2019 04:54

February 24, 2019

Melville e Tolstoj

In un libro che si chiama Moby Dick o La balena, del 1851, Herman Melville fa dire al suo narratore, Ismaele, che, d’accordo, c’è di mezzo la morte in quell’impresa della caccia alle balene – una indicibilmente rapida, caotica spedizione di un uomo nell’Eternità, ma che importa? Ci siamo profondamente ingannati a proposito della Vita e della Morte. Ismaele crede che ciò che chiamiamo «la mia ombra» qui, sulla terra, sia la nostra vera sostanza. E pensa che, nel considerare le cose spirituali, assomigliamo troppo alle ostriche che guardano il sole attraverso l’acqua, e ritengono quell’acqua densa la più trasparente delle atmosfere.

E crede che il proprio corpo non sia altro che la scoria del suo essere migliore. E allora, il suo corpo, se lo prenda chi vuole, se lo prenda pure, quello non è lui. E poi, tre hurrà per Nantucket, e venga la lancia sfondata e un corpo sfondato, quando vogliono, poiché, di sfondargli l’anima, chi è capace?



Qualche anno dopo, nella seconda parte del quarto volume di un libro che si chiama Guerra e pace, del 1869, Lev Tolstoj a un certo punto dice che il suo personaggio principale, Pierre Bezuchov, si sollevò tra i suoi nuovi compagni e camminò tra i fuochi verso l’altro lato della strada, dove, così gli avevano detto, stavano i soldati prigionieri. Aveva voglia di parlare con loro. Sulla strada una sentinella francese lo fermò e gli intimò di tornare indietro.

Pierre tornò, non però verso il fuoco, verso i compagni, ma verso un carro staccato vicino al quale non c’era nessuno. Piegando le gambe e abbassando il capo, sedette sulla terra fredda presso a una ruota del carro e lungo tempo rimase seduto, immobile, pensando. Passò più di un’ora. Nessuno lo disturbava. Ad un tratto si mise a ridere col suo riso grosso e bonario, così forte che da varie parti taluni si voltarono con meraviglia verso quella strana, evidentemente solitaria allegria.

«Ah, ah, ah!» Pierre rideva. E disse ad un tratto ad alta voce a sé stesso: «Il soldato non mi ha lasciato passare. Mi hanno preso, mi hanno rinchiuso, mi tengono prigioniero. Chi tengono prigioniero? Me? Me – la mia anima immortale? Ah, ah, ah!… Ah, ah, ah!…» E rideva con le lacrime agli occhi.


(Great minds think alike, come si dice.)


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Published on February 24, 2019 01:58

February 23, 2019

Carroll

E in un libro che si chiama Jim entra nel campo da basket, del 1978, Jim Carroll dice che loro erano diventati maestri nell’arte di non fare niente, che, a ben pensarci, potrebbe essere la cosa più difficile di questo mondo.


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Published on February 23, 2019 01:18

February 22, 2019

La New Wave italiana (il blogroll – 3 / l’onda lunga – 2)

Non è che mi siano rimasti tanti altri blog da segnalare, quindi provo un po’ a fare un post cumulativo, dove vado innanzitutto a elencare, in rigoroso ordine alfabetico, un paio di blog rinati o rinascenti, così come sono stati aggiunti o spostati nel gruppetto della New Wave italiana del mio feedreader (uso feedly, quello gratis, se vi interessa).




Barbazagn – con i ragionamenti sportivi di Stefano Pederzini.
Claudiappì – She, herself eddai di Claudia Panunzio.

E poi un altro paio di blog, tra quelli che non hanno mai smesso ma che secondo me ultimamente scrivono di più (è solo una mia impressione). Li metto qui sotto, sempre in rigoroso ordine alfabetico così come sono stati aggiunti o spostati nel gruppetto dell’Onda lunga italiana del mio feedreader (lo stesso feedly di cui sopra).



Strelnik blog – di Strelnik.
servizio deragliamenti uppsala – di uds (sì, è un tumblr, ma va bene lo stesso).

E poi ancora, per finire, una citazione d’obbligo:



Il nuovo mondo di Galatea – il diario ironico dal mitico nordest di Galatea.

Che non ha mai smesso e mai neanche rallentato le pubblicazioni dal duemilaeboh a oggi, ma lo metto qui per due motivi importantissimi: il primo è che Galatea mi fa le faccine tristi tutte le volte che pubblico dei post pieni di link in cui manca il suo (tiè); il secondo è che col blog Galatea è arrivata addirittura a fare un documentario, e nel segnalarcelo fa una specie di dichiarazione d’amore al blog che è anche un po’ una dichiarazione d’amore per la “nostra” blogsfera, con tutti noi animaletti strani che la popoliamo o la popolavamo:


Mi ha stravolto la vita, il blog. Immaginatevi una ragazza (allora lo ero ancora) che abita in un paesino di campagna, ai margini del tutto, e insegna a scuola, che d’improvviso viene catapultata in blogfest, convegni, cooptata in gruppi di giornalisti, partecipa a festival, comincia scrivere libri. Si ritrova persino di fronte ad una telecamera, a girare un documentario in cui può parlare delle sue grandi passioni, di storia, di Medioevo, di barbari.


Per me il blog è stato la lampada di Aladino, il mio personale genio. Di tanto in tanto sembro tradirlo, travolta dal fascino di altri account, dei social, di Facebook, di YouTube, ma poi è qui l’unico posto dove mi sento a casa.


Come la culla di quando siamo bambini. Ci sono nata, vengo da qui. E quindi grazie, blog. Ti voglio bene.


Ti vogliamo bene anche noi.

Musica:



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Le altre puntate piene di link sulla New Wave della blogsfera italiana sono qui.


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Published on February 22, 2019 05:27

February 21, 2019

Il nervoso (nei cessi pubblici)

Per esempio: quando la fotocellula non ti percepisce più, e spegne la luce, sempre, durante la sgrollata.



Musica:




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(Ecco che abbiamo appena inaugurato una nuova rubrica intitolata Il nervoso. Chissà se dura.)


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Published on February 21, 2019 06:42

February 20, 2019

Zamboni

Invece, Massimo Zamboni, in un libro che si chiama Nessuna voce dentro. Un’estate a Berlino Ovest del 2017, dice che a Berlino ha potuto apprendere una cosa, e cioè che la storia non solo non è maestra di vita, ma non è neanche la bidella.


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Published on February 20, 2019 04:31

February 19, 2019

Barthelme

In un racconto intitolato Florence Green ha ottantun anni, in un libro che si chiama Ritorna, dottor Caligari del 1964, Donald Barthelme dice che lo scopo della letteratura è la creazione di uno strano oggetto coperto di pelo che vi spezza il cuore.


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Published on February 19, 2019 04:52