Wu Ming 4's Blog, page 98

January 18, 2015

#Expo2015 e i quattro elementi primordiali

ExpoStatale


Ieri, 17 gennaio, all’Università Statale di Milano, doveva tenersi una giornata di laboratori e un’assemblea nazionale contro Expo 2015, per confrontarsi sui tanti motivi di opposizione al Grande Evento Dannoso, Inutile e Imposto.

L’Università, però, ha deciso di dare a tutte quanti una bella lezione di libero pensiero e libertà d’espressione, chiudendo la sede di via Festa del Perdono per tre giorni consecutivi – da venerdì 16 a domenica 18 – e giustificando lo spostamento di esami, lezioni e colloqui con la “necessaria tutela della sicurezza di studenti, personale e docenti, a fronte della manifestazione nazionale autoproclamata da alcuni centri sociali e dall’area antagonista”.


Alla faccia di una simile risposta, almeno 500 persone si sono ritrovate in via Mascagni, 6 – spazio occupato per consentire all’iniziativa di svolgersi comunque.


Inizia ora la plenaria conclusiva dell’assemblea #noexpo a Milano pic.twitter.com/ubKoatJVx9


— Marco Neitzert (@marconeitzert) January 17, 2015



Anche WM2 doveva partecipare alla giornata No Expo, ma un imprevisto lo ha costretto a rientrare a Bologna nottetempo, subito dopo il reading 4NoExpo al SOS Fornace di Rho.

Come forma di partecipazione anticipata, in ritardo e a distanza, riportiamo qui sotto la registrazione (rough & live) dell’ultimo racconto/monologo dello spettacolo, quello dove proprio Expo prende la parola e grida la sua invidia nei confronti dei quattro elementi primordiali.

Buon ascolto.



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Published on January 18, 2015 01:42

January 13, 2015

Carlo Abbamagal e i cinquanta dell’Oltremare

Oltremerda

Se esistessero le Olimpiadi del Contrattempismo, credo che la categoria Fiere ed Esposizioni verrebbe vinta a mani basse [1] dalla Prima Mostra Triennale delle Terre Italiane d’Oltremare: costruita in soli sedici mesi nella zona Flegrea di Napoli, inaugurata dal Re Imperatore il 17 maggio 1940, fu chiusa e smantellata appena un mese dopo, per via dell’entrata in guerra dell’Italia. Nei tre anni successivi, i bombardamenti aerei distrussero più di metà dei 36 padiglioni e l’area andò in malora fino al 1952, quando venne rimessa in ghingheri per ospitare la Mostra Triennale del Lavoro Italiano nel Mondo: un esempio da manuale della continuità tra Regime fascista e Repubblica, con i suoi trasformismi, le sue arabe fenici camuffate da colombe, i tic e i trucchi da quattro spicci.



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Quella seconda mostra, però, fu un fiasco epocale [2] e costrinse gli organizzatori ad abbandonare sogni di gloria e investimenti in ulteriori carrozzoni. L’area tornò ad essere uno spazio indeciso, un lapsus urbano, un atto mancato di cemento e cartongesso. Ciononostante, grazie alla costruzione di strade, tunnel e binari, l’exposizione ottenne lo stesso uno dei suoi scopi primitivi: la crescita della città verso nuovi territori.


Nel 1980 vi alloggiarono gli sfollati del terremoto e solo negli anni Novanta partì un progetto di recupero e riqualificazione, sul quale di sicuro ci sarebbe molto da dire, se non dovessimo tornare rapidi al giugno del ’40 e alla mostra che chiude baracca.

Come in tutte le esposizioni coloniali, anche alla Triennale d’Oltremare la presenza dei sudditi dell’Impero era elemento irrinunciabile: il caffè moresco, il villaggio africano, la chiesa copta e altri esotismi d’accatto, venivano proposti in uno stile ibrido tra zoo, safari, freak-show e presepe vivente.


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Abortita la celebrazione della “millenaria opera di civiltà svolta dall’Italia e da Roma”, si pone il problema di dove sistemare e’ nire. I figuranti coloniali sono una cinquantina: la maggioranza fa parte della PAI, la Polizia dell’Africa Italiana, ma ci sono anche donne, bambini, artigiani. Dice il federale: vabbuò, che problema c’è? Li rispediamo subito a casa: gli ascari a far la guerra contro la perfida Albione e gli altri ai loro tucul. Eh, voi la fate semplice, gli risponde lo squadrista. Ma ora che organizzate il viaggio in piroscafo, c’è caso che il loro tucul gliel’hanno distrutto gl’inglesi, e la questione del collocamento ci si ripropone. E poi, aggiunge un altro, il Mediterraneo è un campo di battaglia. Non è che mandi un piroscafo così, dall’oggi al domani. Ci vuole tempo. E nel mentre, dove ce li mettiamo a questi? Boh. Le donne e i bambini si possono stivare con gli sfollati. Gli uomini li mandiamo sulle Alpi a sparare contro i gallici. Quelli c’hanno i senegalesi, i marocchini e allora noi…Per carità! Mica vogliamo abbassarci al loro livello. Le razze inferiori, qua in Europa, non le facciamo combattere, è un fatto di prestigio. No, bisogna trovare un posto tutto per loro, mica possiamo mischiarli coi nostri…


Da quel giugno 1940 fino alla primavera del ’43, non sappiamo di preciso quale fu la sorte di somali, eritrei, etiopi e libici della Triennale d’Oltremare. Probabilmente se li dimenticarono lì, nelle baracche di legno  dov’erano alloggiati fin dall’inizio.


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Famiglie dell’Africa Orientale nelle loro baracche, aprile 1940. ⓒ F. Patellani. Regione Lombardia – Museo di Fotografia Contemporanea


Di sicuro c’è che lo smantellamento della mostra fu un vero bordello, nel quale scomparvero cimeli e paccottiglia. La sciabola di Vittorio Bottego, ad esempio, non tornerà più a Parma, “nel museo della R. Università che porta il nome dell’Intrepido Esploratore, fulgida gloria nostra” [3]. E pensare che l’arma era arrivata nella città ducale dalla remotissima Lugh, in Somalia, nel trentunesimo anniversario della morte del suo proprietario (17 marzo 1928). A noi piace pensare che quella spada l’abbia rubata un somalo, o un oromo, entrato nottetempo nel padiglione dell’Africa Orientale Italiana, magari per vendicare la memoria di un nonno o di una zia, vittima dei massacri bottegai.[4]


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Nella primavera del ’43, i documenti tornano a parlare e ci dicono che i cinquanta dell’Oltremare sono finiti nelle Marche, a Treia, in provincia di Macerata. I documenti sono gli atti di nascita di alcuni “sudditi coloniali” nel territorio del comune, e purtroppo non raccontano il motivo del trasferimento, a più di due anni dalla chiusura della mostra. Forse fu l’inizio dei bombardamenti giornalieri su Napoli, a partire dal 1° gennaio ‘43, che riaccese il problema di dove sistemare “i neri della Triennale”. Ma perché proprio a Treia? Il luogo prescelto – le scuderie di Villa La Quiete, detta anche Villa Spada[5] – era stato un campo di internamento per donne “di dubbia condotta morale e politica” [6], chiuso a dicembre ’42 dopo varie denunce della Croce Rossa “per le deficienti condizioni igienico-sanitarie” e a causa di un incendio scoppiato all’interno.

Facile immaginare che i nuovi internati aspettino solo un’occasione buona per scappare.

E l’occasione buona è il bailamme che fa seguito all’8 settembre ’43. Ecco il racconto che ne fa il partigiano e storico Gualtiero Simonetti [7]:



“Il tenente Giulio [nome di battaglia di Jule Kačič, medico jugoslavo. NdR], comandante la banda di Valdiola, era venuto a conoscenza che a Villa Spada, a circa tre chilometri da Treia, c’era un deposito di armi custodite da un piccolo nucleo di carabinieri che avevano anche la sorveglianza di famiglie etiopiche trasportate a Napoli, prima dello scoppio della guerra, per la Mostra d’Oltremare, e di qui internate nelle Marche, dove erano confinati anche studenti somali iscritti nelle nostre Università.

Queste informazioni erano state portate da due negri riusciti a sfuggire alla sorveglianza dei carabinieri e a raggiungere le formazioni partigiane del Monte San Vicino.

Il tenente Giulio ne parlò al Comando di Roti, e insieme si convenne di assalire nottetempo Villa Spada, liberare i prigionieri e impossessarsi delle armi.

A questa spedizione presero parte una trentina di partigiani tra slavi, inglesi, italiani. Comandavano i partigiani di Roti il capitano Antony Pyne e il tenente Baldini; quelli di Valdiola, il tenente Giulio.

I partigiani di Roti partirono alle ore 16 del 25 ottobre. La notte era piovigginosa, e i monti avvolti nella nebbia. Si procedeva per sentieri fangosi, spesso fiancheggiati da burroni. La congiunzione delle due formazioni era stata fissata al Passo di Treia. Durante il tragitto il capitano Antony e il maresciallo Douglas caddero in un burrone per una altezza di cinque o sei metri; ma ne vennero fuori quasi incolumi. Sostarono successivamente in due case coloniche per riposarsi e rifocillarsi, accolti con generosa ospitalità.

Verso la mezzanotte le due bande si congiunsero. La banda di Giulio aveva già interrotto ogni comunicazione telegrafica e telefonica con Macerata e bloccate le strade di accesso alla Villa. Picchetti di partigiani erano stati dislocati nei punti strategici.

Villa Spada è un agglomerato di case recinte da mura, alte dai quattro ai cinque metri. Tutto l’edificio fu circondato. Alcuni partigiani, guidati da un negro e comandati dal tenente Baldini, scavalcarono le mura mentre Douglas feriva e immobilizzava il maresciallo dei carabinieri che era corso ad aprire la porta d’ingresso della Villa, certo che si trattasse di una delle solite pattuglie tedesche.

Nell’interno tre feroci cani mastini avevano dato l’allarme e si erano lanciati contro i partigiani. Immediatamente si accese il combattimento tra assalitori e difensori, che si protrasse per circa due ore e che terminò con la resa della guarnigione che ebbe quattro feriti; due feriti leggeri i partigiani.

Questa azione audace fruttò 16 pezzi tra mitra e fucili mitragliatori; bombe a mano, moschetti, rivoltelle. Alcuni indigeni, giovani e senza famiglia, seguirono le bande. Tra questi era il Principe somalo Aden.

Al ritorno il maresciallo Douglas e Antony furono costretti a sostare in una casa colonica per le ferite riportate nella caduta e per altre ai piedi causate dagli zoccoli. Raggiunsero Roti al tramonto dello stesso giorno.

I somali di Villa Spada formarono un gruppo a sé, al comando del Principe Aden, ed ebbero ospitalità presso le famiglie coloniche di Roti. Ricevevano i viveri direttamente dall’ufficiale addetto al vettovagliamento che procurava anche animali da cortile che uccidevano essi stessi, secondo il rito mussulmano.”



L’assalto a Villa Spada/La Quiete avviene alla fine di ottobre del ’43 e da quel momento, nelle brigate della zona, oltre ad australiani, francesi, britannici, jugoslavi e russi – fuggiti dai campi di prigionia  – cominciano a combattere anche etiopi, somali ed eritrei. [8]


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Il battaglione “Mario”. In piedi, da sx: Nikola Budrinić, Mirko Gubić, Ivan Dovcopoli, Stefano Ponomarenco, Mosé Di Segni, Frane Trlaja, Don Lino Ciarlantini, Cesare Manini, Ivan Rjenicenko, Cesare Cecconi Gonnella. In basso: Rajko Djurić, Bruno Taborro, Vassili Simonjenko, Ivan Vasiljenko, Carlo Abbamagal,, Sergio Cernjejev, Luigi Verdolini, Mate Gispić (Djapić?).


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Di loro si sa pochissimo, spesso soltanto il nome di battaglia, a volte il luogo del decesso.


Carlo Abbamagal [9] morì il 24 novembre 1943, sulla strada che porta da San Severino Marche a Frontale d’Apiro. Viaggiava su un’auto con il comandante Mario e altri due partigiani, quando incapparono in una pattuglia di altoatesini della Wermacht. Carlo saltò giù dal mezzo, sparò un paio di colpi e venne ucciso, ma i suoi compagni ebbero la meglio: catturarono due nemici e seppellirono il corpo del caduto sulle montagne. Dopo la Liberazione, la salma venne trasportata a San Severino e tumulata in fretta, insieme ad altri stranieri, nella cripta di una confraternita religiosa, senza lasciare tracce nei registri del cimitero.


Settant’anni dopo, grazie alle ricerche di Matteo Petracci – che è dottore di ricerca in storia, istituzioni e politica dell’area euromediterranea presso l’Università di Macerata – la bara con il nome di Carlo Abbamagal inchiodato sul coperchio è stata ritrovata.


Ero inciampato in questa storia grazie a un consiglio di lettura del mio amico e fratello Antar Mohamed. Senza di lui, forse non avrei mai letto un libro intitolato: “Colonia e post-colonia come spazi diasporici. Attraversamenti di memorie, identità e confini nel Corno d’Africa. A cura di Uoldelul Chelati Dirar, Silvana Palma, Alessandro Triulzi e Alessandro Volterra”, pubblicato da Carocci nel 2011. Così mi sarei perso, tra gli altri, il contributo di Luigi Goglia: Ascari partigiani. Il caso dei “neri” della PAI raccolti a Villa Spada a Treia.

Nell’articolo di Goglia, mancavano diversi dettagli rintracciati da Petracci. Quella storia, nel 2011, era ancora un’ascia di guerra mezza sepolta, ma alla prima occasione utile ne avevo parlato in un commento su Giap, in margine a un post su Rodolfo Graziani e il vespasiano di Affile.

Quel breve, rapido commento, è però sfuggito a Simone Vecchioni, giapster marchigiano e alpinista-molotov d’Appennino. Passano due anni e Simone mi invita a tenere un laboratorio Fantarchivio presso l’Azienda Agricola “La Distesa” di Cupramontana. In margine al laboratorio, la sera, Simone infila anche una presentazione di Timira, giusto per vedere se mi riesce di sproloquiare per dieci ore filate. Poco prima di cominciare, a cena, mi guarda con occhio sornione e fa: “Stasera te presento un amico che sta facendo ricerche su una storia in-cre-di-bi-le. Un partigiano etiope che ha combattuto vicino Macerata…”

– Ma chi – lo interrompo – Carletto Abbamagal?

C’è mancato poco che mi mandasse affanculo.


Così ho conosciuto Matteo Petracci e ho saputo che di lì a poco, il 6 luglio 2014, in occasione del 70° anniversario della Liberazione di San Severino Marche, il comune avrebbe dato degna sepoltura al partigiano Abbamagal, con tanto di lapide in suo ricordo nel cimitero monumentale.


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Da quella sera, insieme a Simone a ai compagni del CSA Sisma, abbiamo iniziato a ragionare su una nuova edizione del Fantarchivio: un laboratorio per imparare a estrarre le narrazioni dai documenti storici, usando come “cavia” proprio la vicenda di Abbamagal. Che per di più non si conclude con la sua morte e con la Liberazione della provincia di Macerata.

Esistono infatti un carteggio e diversi atti giudiziari relativi a un africano, che diceva di essere il fratello di Abbamagal, arrestato e processato nel ’46 per l’uccisione di spie fasciste durante la Resistenza. Secondo gli atti, l’uomo avrebbe fucilato 5 persone: i due altoatesini catturati dai partigiani a Frontale d’Apiro, due ladri che si tingevano il volto di fuliggine così da essere scambiati per “partigiani africani” e infine una presunta spia.


In agosto, ho rivisto Simone a Corridonia, dopo il concerto del Wu Ming Contingent a Villa Fermani, e gli ho promesso che avrei fatto subito un post estivo su Giap, per raccontare questa storia e presentare il prossimo Fantarchivio maceratese.

A settembre, Simone mi ha telefonato per richiamarmi all’ordine – “Allora, ‘sto post su Giap?” – e segnalarmi l’imminente uscita dell’ultimo libro di Matteo Petracci.

– Quale, – gli ho risposto – I matti del duce? Me lo sono fatto spedire dalla casa editrice e l’ho già cominciato. La storia di Secondo Biamonti è spettacolare…

Se mi ha mandato affanculo, lo ha fatto sottovoce.

Questo alla fine dell’estate. Poi rimanda oggi, rimanda domani, sono passate le settimane ed è arrivato l’inverno.

Fortuna che le buone storie non hanno data di scadenza.

E che al Fantarchivio Racconti d’Oltremare , al centro sociale Sisma di Macerata, mancano ancora due mesi. Come detto, partiremo dalla storia di Carlo Abbamagal e ne faremo una palestra narrativa, per raccontare il rimosso che ancora oggi – ai tempi di Triton – pesa sul rapporto tra l’Italia e le terre oltre il mare. 7 e 8 marzo. Se siete interessati, segnatevi la data. I posti disponibili non sono molti. Info e prenotazioni: www.csasisma.org e info[at]csasisma.org.


NOTE, AGGIUNTE, CREDITI e BIBLIOGRAFIA


[1] Ovviamente anche l’Esposizione Universale di Roma (E.U.R.) si piazza molto in alto in questa speciale classifica. A mio parere, tuttavia, non supera il contrattempismo della Triennale d’Oltremare perché quest’ultima venne inaugurata e poi subito smantellata, mentre l’EUR fu soltanto parzialmente costruita.


[2] Sul destino della Triennale d’Oltremare, e della sua continuazione sotto mentite spoglie, come Triennale del Lavoro italiano, sembra gravare la stessa “maledizione abissina” che colpisce tuttora il centrodestra italiano (e laziale in particolare) a causa della costruzione del Monumento di Affile, intitolato a Rodolfo Graziani. Agli storici della jattura, il compito di approfondire la questione.


[3] A. Adorni, Due cimeli di Vittorio Bòttego, in Aurea Parma, Anno XIV, pp. 20 – 27, Tipografia “La Bodoniana”, Parma, 1930


[4] Vittorio Bottego ci teneva moltissimo a scrivere il suo nome con l’accento sulla prima o (Bòttego). Tuttavia, sembra che all’anagrafe quell’accento non sia mai esistito. La premura del Bottego mirava ad evitare che il suo fulgido cognome venisse pronunciato “Bottégo”. Ci pare dunque una giusta ricompensa che l’aggettivo per riferirsi alle sue imprese sia “bottegaie”.


[5] A. Cegna, «Di dubbia condotta morale e politica». L’internamento femminile in Italia durante la Seconda Guerra Mondiale, in DEP. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile, n. 21, gennaio 2013. Il file PDF dell’articolo si può scaricare qui.


[6] Villa La Quiete ha cambiato spesso nome a seconda dei diversi proprietari, ma è generalmente nota come Villa Spada. Questo, tra l’altro, crea un nesso particolare con chi scrive, visto che uno dei parchi più belli di Bologna era la vecchia proprietà di un altro ramo della stessa famiglia, e tuttora si chiama “Villa Spada”. Inoltre, al momento della trasformazione della tenuta in campo d’internamento, la villa era di proprietà dei conti Vannutelli. Lamberto Vannutelli accompagnò Vittorio Bottego nella spedizione alla foce dell’Omo, dove il soldato-esploratore trovò la morte. Non so dire se Lamberto avesse legami di parentela con i Vannutelli di Villa La Quiete, ma nel caso sarebbe un altro nesso interessante.


[7] G. Simonetti, La resistenza a Matelica. Storia dei gruppi partigiani, Matelica, Geronimo, 2004


[8] Non tutti i confinati di Villa Spada/La Quiete si unirono alle formazioni partigiane. Secondo il prof. Brian L. McLaren della University of Washington di Seattle , il bilancio (parziale) della loro persecuzione è il seguente: 8 nuovi nati, 6 morti (4 uomini – dei quali due in battaglia, una donna, un bambino), 2 imprigionati per crimini contro ufficiali italiani, 1 ricoverato in ospedale, 8 uomini e una donna sicuramente fuggiti (due di questi deceduti in battaglia). Nel luglio 1944 un gruppo consistente viene trasportato a Bari dagli Alleati. Di tutti gli altri si perdono le tracce.


[9] Naturalmente, “Carlo” non era il suo vero nome, e probabilmente “Abbamagal” non era il suo cognome. “Abbà Magal” è il titolo di un romanzo di F.C. Piovan sull’esploratore pesarese Antonio Cecchi, pubblicato nel 1929. Abba Magal era anche il nome di un capo dei Diggo Oromo.


Le fotografie che abbiamo qui riprodotto, sono nell’ordine:


- G. Mancioli (illustratore), Cartolina della Prima Mostra Triennale delle terre italiane d’Oltremare, Wolfsonian Library, www.wolfsonian.org (con una piccola aggiunta scatologica).


- G.Arena, The city of the colonial museum. The forgotten case of the Mostra d’Oltremare of Naples. in D.Poulot, F. Bodenstein, J.M. Lanzarote Guiral (eds), Great Narratives of the Past. Traditions and Revisions in National Museum, EuNaMus Report n.4, Linköping Univesrity Electronic Press, 2011. Il file PDF dell’articolo si trova qui.


- Ibidem


- Brian L. McLaren, Architecture and wararticolo postato il 4/02/14 su Arch[BE]log, blog del Dipartimento di Architettura della University of Washington di Seattle.


- A. Adorni, Due cimeli di Vittorio Bòttego, op.cit.


- Archivi fotografico ANPI San Severino Marche. La didascalia con i nomi dei partigiani è tratta dal sito www.partgianijugosalvi.it, espansione on line di A. Martocchia, I partigiani jugoslavi nella Resistenza italiana, Roma, Odradek, 2011


- Archivio privato Danilo Baldini – Cerreto d’Esi


- Fotografia di Matteo Petracci


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Published on January 13, 2015 02:50

January 8, 2015

Terrorismo, migranti, foibe, marò, fascismo… Appunti sul vittimismo italiano

Colpevole di essere italiano


di Wu Ming 1


Ho cominciato a prendere questi appunti ormai molti mesi fa, dopo aver letto in sequenza il libro di Federico Tenca Montini Fenomenologia di un martirologio mediatico. Le foibe nella rappresentazione pubblica dagli anni Novanta a oggi (KappaVu, 2014) e il pamphlet Critica della vittima di Daniele Giglioli (Nottetempo). I due libri sono complementari. Tenca Montini e Giglioli affrontano gli stessi nodi di fondo. Il primo lo fa analizzando un case study molto significativo, ricostruendo genesi, sviluppo e affermazione, nel corso degli anni Novanta e degli anni Zero, del discorso sulle «foibe». Discorso quintessenzialmente vittimistico, perfettamente coerente con l’autonarrazione deresponsabilizzante spesso riassunta nell’espressione «Italiani brava gente»; Il secondo, invece, fotografa la tendenza egemone dei nostri tempi, la centralità della «vittima» nell’immaginario italiano e occidentale contemporaneo.


Quella che era partita come riflessione ispirata dalla lettura quasi contemporanea dei due saggi, si è gonfiata come un torrente a fine inverno e ha trascinato a valle detriti di polemiche di cronaca, storiografiche e di costume.


duelibri




RIMUOVERE TUTTE LE PREMESSE TRANNE UNA


Ovviamente, le vittime sono sempre esistite. Quelle vere e quelle presunte. Anche il vittimismo – il “fare la vittima”, l’atteggiarsi a vittima – non è una novità, e si manifesta da sempre in tutto il mondo.

Anche il vittimismo dei poteri costituiti, il vittimismo di stato, ha una lunga storia, e plausibilmente un radioso futuro. Per ragioni facilmente intuibili, nella storia non c’è guerra d’aggressione che non sia stata scatenata da una sedicente vittima, da qualcuno che affermava di doversi difendere, reagire a una minaccia, riparare un torto subito, far valere un diritto negato ecc. Ogni volta si fa iniziare la storia dove fa più comodo, per negare le proprie colpe e responsabilità e poter dire che «hanno cominciato gli altri».


Su chi siano esattamente questi altri è meglio che le idee rimangano confuse, in modo da poter attribuire loro, con elasticità e senza dover spiegare troppo, il maggior numero possibile di nefandezze, anche in contraddizione l’una con l’altra.

Ad esempio, dando all’opinione pubblica un’idea disinformata e dozzinale sugli “islamici”, i “musulmani”, i “terroristi arabi”, insomma quelli là con gli stracci in testa, gli USA poterono attaccare l’Iraq in nome delle vittime newyorkesi dell’11 settembre 2001, anche se l’Iraq e il suo regime (notoriamente laico) erano totalmente estranei all’attentato, e la guerra aveva evidentemente altri scopi.


Saddam non aveva mai appoggiato Al Qaeda. Al contrario, gli USA avevano a lungo e pubblicamente foraggiato – in chiave antisovietica e antipanarabista – lo stesso fanatismo islamico che ora dicevano di voler combattere. Lo avevano fatto in tutto il mondo musulmano, dal Nordafrica alla Palestina all’Afghanistan, creando mostri un po’ ovunque. Ma tutta la storia precedente l’11 settembre 2001 era stata rimossa dal racconto. Bisogna sempre rimuovere il maggior numero possibile di premesse, lasciandone solo una di comodo: quella che ci deresponsabilizza.  L’abbattimento delle Twin Towers era diventato quella premessa.


In seguito, le catastrofiche guerre di Bush sono state rimosse a loro volta, come è stato rimosso tutto il razzismo, tutto l’imperialismo culturale vomitato su arabi e musulmani negli anni della War on Terror, come sono stati rimossi gli abusi di Abu Ghraib e – soprattutto – Guantanamo. Scomparse le extraordinary renditions, scomparse le torture CIA.


Oggi si blatera dell’ISIS senza mai spiegare che quel movimento ultrareazionario, schiavista, islamonazista, è l’esito di decenni di precise scelte politiche, militari ed economiche. È senz’altro più comodo parlarne come se fosse nato dal nulla, o meglio, da una misteriosa predilezione dei musulmani (tutti!) per il fanatismo e la violenza politica. In questo modo, si può piegare la lotta al terrorismo a una generica “politica della paura”, come la chiama Serge Quadruppani, finalizzata a un sempre più capillare controllo sociale.


E fateci caso: ogni volta si riparte da capo.

L’11 settembre 2001 tutti i commentatori dissero: «Da oggi, abbiamo la guerra in casa».

Quando fu colpita la metropolitana di Madrid, tutti i commentatori dissero: «Da oggi, abbiamo la guerra in casa».

Quando fu colpita la metropolitana di Londra, tutti i commentatori dissero: «Da oggi, abbiamo la guerra in casa».

Dopo la strage nella sede di Charlie Hebdo, tutti i commentatori hanno detto: «Da oggi, abbiamo la guerra in casa».

Non si va mai più indietro di oggi. E quindi non si capisce un cazzo.

Anche perché scompaiono le lotte vere, le resistenze popolari concrete all’ISIS, come quella che ha luogo da mesi a Kobane.


Troviamo la stessa strategia discorsiva quando si parla di immigrazione. Normale, perché il dibattito sul terrorismo maschera quello sull’immigrazione, o meglio, quello mai esplicito sulla forza-lavoro migrante, forza-lavoro da sfruttare riconoscendole il minimo dei diritti – o meglio ancora, nessuno.

Si parte inveendo contro l’ISIS… e  si finisce subito a parlare dei “barconi”, si ripropone tutto il repertorio di bufale razziste sui soldi immaginari che lo stato darebbe agli “extracomunitari” ecc.


Anche qui, viene rimosso il maggior numero possibile di premesse.

Il colonialismo europeo – compreso quello dell’Italia – ha invaso, devastato e depredato Africa e Asia.

Le multinazionali nordamericane ed europee – comprese quelle italiane – continuano a sfruttare e depredare quelle terre, a sottrarne sistematicamente le risorse, in un sistema di “scambio ineguale” e divisione internazionale del lavoro che ha come principio regolatore un razzismo oggi non più dichiarabile ma pienamente operativo. Ai popoli implicitamente ritenuti “inferiori” toccano lavori peggiori e salari più bassi.

Ma quando si parla di immigrazione, tutto questo scompare. Non siamo più “noi” (bianchi, occidentali, capitalisti, colonialisti) ad avere invaso l’Africa, sterminato popolazioni, sfruttato il lavoro dei colonizzati, rubato terra e materie prime ecc.

Macché, sono gli africani che stanno “invadendo” noi. Stop invasione!


Perché noi siamo le vittime. Sempre. Da sempre.


Soprattutto noi italiani.




ALLE RADICI DEL VITTIMISMO ITALIANO: I MITI DI ROMA E VENEZIA


Si diceva: il vittimismo non è una novità. Parlare del vittimismo è, per molti versi, parlare dell’acqua calda. Ma quello dell’ideologia dominante italiana è un vittimismo peculiare, specifico, e negli ultimi decenni si è caricato di ulteriori connotazioni. Ogni paese ha le sue sorgenti, la sua acqua, con diverse percentuali di stronzio e altri minerali.


L’Italia come nazione è pressoché interamente edificata su un immaginario vittimista, a partire dall’Inno di Mameli: «noi fummo sempre calpesti e derisi». Vittimismo chiagni e fotti: rileggiamo La grande proletaria si è mossa di Pascoli, pensiamo al mito della «vittoria mutilata» (espressione coniata da D’Annunzio)… L’Italia, che è stata molto più spesso carnefice, non sa rappresentarsi se non come vittima. Vittima di soprusi antichi e recenti. Si veda com’è raccontata la vicenda diplomatica dei due Marò, «i nostri ragazzi», l’India cattiva, gli oscuri complotti…


A monte di tutto è implicito un sopruso più grande, il sopruso. L’Italia sarebbe vittima di una caduta in disgrazia rispetto ad «antichi fasti» come quelli dell’Impero Romano, del Rinascimento o di Venezia come potenza coloniale. Una “pappa” di entità e periodi diversi che con l’Italia intesa come stato-nazione (sabaudo, fascista e poi repubblicano) non c’entrano assolutamente nulla.


Quello della continuità tra Roma e lo stato-nazione italiano è un mito tecnicizzato, nato nell’Ottocento ma portato al parossismo durante il Ventennio, e poiché col fascismo non abbiamo mai fatto i conti fino in fondo, la “romanità” farlocca del fascismo è ancora oggi largamente accettata e riproposta senza alcuna messa in discussione (ad esempio, nel 2011 da Roberto Benigni durante la sua lectio magistralis sull’Inno di Mameli, che ho analizzato qui), a dispetto della sua infondatezza.


Benigni sul cavallo bianco


In nessuna fase della sua storia Roma si pensò «Italia», né i Romani si sentivano «italiani». Roma era Balcani, Nordafrica, Asia Minore, Iberia, Europa settentrionale ecc. Roma fu poi Bisanzio, la «romanità» non fu mai «italianità», ci si diceva «romani» in Anatolia, nel Mediterraneo orientale e in luoghi oggi definiti “Oriente”. Alcuni imperatori romani non misero mai piede sulla penisola italica. Diocleziano vide Roma una volta sola nella vita, al momento di abdicare.

Prima dell’Ottocento, l’idea dell’Italia come nazione non era nella testa di nessuno.

Quanto a noi, non siamo mai stati la “stirpe romana”. Mai. Siamo i discendenti meticci di tutte le popolazioni che hanno invaso la penisola o vi si sono stabilite, ibridandosi con quelle che c’erano arrivate prima, processo il cui inizio si perde nella notte dei tempi e tuttora prosegue. Siamo etruschi, celti, longobardi, ostrogoti, normanni, arabi, spagnoli e chissà chi altri. Siamo da sempre terra di immigrazione. Siamo immigrati di n-esima generazione.


Fittizia anche la continuità con Venezia nel discorso revanscista sull’Adriatico orientale, recentemente riproposto da Simone Cristicchi e Jan Bernas nel fortunato e disonestissimo spettacolo Magazzino 18, dove si afferma che in Istria «anche le pietre parlano italiano».

[N.B. In quella parte di spettacolo Cristicchi cita, senza dirlo, il verso di una canzone neofascista – Di là dall’acqua della Compagnia dell’Anello – che a sua volta citava un autore fascista, franchista e collaborazionista, Renzo Lodoli.]


Il piedestallo di questo discorso, a malapena verniciato di culturalismo, è il solito, rancido concetto di stirpe. Gli scambi che derivano dalla premessa sono tutti sintetizzabili così:


– L’Istria, Fiume e la Dalmazia erano terre italiane, parte dell’Italia!

– Veramente no, sono sempre state terre multietniche e plurilingui. L’Istria fece parte del regno d’Italia per un periodo molto breve, dal Trattato di Rapallo del 1920 alla sconfitta dei nazifascisti nella seconda guerra mondiale. Quanto alla Dalmazia, solo una piccola porzione fu inclusa per breve tempo del regno d’Italia. Solo il 5% della popolazione dalmata parlava italiano, ed erano quasi tutti concentrati in una sola città, Zara. Quanto a Fiume, fu “italiana” per un periodo ancora più limitato, in seguito al colpo di stato fascista contro lo Stato Libero di Fiume, nel 1922, che portò all’annessione del 1924.


[Pausa…]


– E allora i secoli di dominazione veneziana dove li mettiamo?!!

– Beh, io una mezza idea ce l’avrei!


Se a far valere la patente di «italianità» sono i secoli di dominazione veneziana, perché mai nel 1915 si riteneva “italianissima” e perciò “irredenta” Trieste, che era asburgica da più di mezzo millennio (lo fu dal 1382 al 1918) e si era posta sotto la protezione del duca d’Austria proprio per non finire sotto Venezia, con cui era già stata in guerra?


Se a far valere la patente di «italianità» sono i secoli di dominazione veneziana, perché nel 1918 il Regno d’Italia occupò militarmente e dichiarò italiane parti dell’entroterra e della montagna slovena dove Venezia non aveva mai messo piede e – soprattutto – dove non viveva un solo parlante italiano?


E magari gli avi di chi rivendica tale continuità di stirpe con Venezia-che-era-già-Italia erano arabi di Sicilia o normanni di Basilicata, ai quali non passava nemmeno per l’anticamera del cervello di avere come patria “l’Italia”, o di pensarsi medesima stirpe del patriziato veneziano che, mille chilometri più a nord, si godeva i frutti delle razzie compiute oltreadriatico (e anche nell’entroterra della Serenissima, se è per questo).


Insomma, anche quella della stirpe italica in continuità col dominio veneziano è una supercazzola con scappellamento all’estrema destra, anche quando viene da bocca “di sinistra” (sempre per modo di dire, eh!), inconsapevole o paracula che sia. A volte inconsapevole e anche paracula. Le due cose non si escludono.


-

LA STORIA DEL CONFINE ORIENTALE COME «INSTRUMENTUM REGNI» E IL RUOLO DEL PD


Il vittimismo non è una novità. Ciò non toglie che, come strategia discorsiva, non sia mai stato vincente come appare oggi.


La novità è l’onnipervasività del «paradigma vittimario», come lo ha chiamato Giovanni De Luna. Oggi, scrive Giglioli, «chi sta con la vittima non sbaglia mai». La possibilità di dichiararsi vittima è «una posizione strategica da occupare a tutti i costi». Abbiamo assistito e tuttora assistiamo a guerre per «stabilire chi è più vittima, chi lo è stato prima, chi più a lungo». Chi combatte queste guerre lo fa in nome di una «aristocrazia del dolore», di una «meritocrazia della sfortuna»: – Io sono vittima perché è stato vittima mio padre, e prima di lui lo è stato mio nonno! Ho avuto la sfortuna di essere loro figlio e nipote, e quindi merito di essere considerato vittima!


Giglioli parla di «tragedie per procura», di «risentimento in appalto», ma io parlerei di usu capione: la mia famiglia vive in questa condizione vittimale da decenni, adesso è mia per forza di legge. Da qui la richiesta di uno status particolare, fatto di cerimoniali ad hoc, giornate commemorative, vie intitolate, bonus di vario genere, risarcimenti, riconoscimenti… Giglioli si chiede, retoricamente: «Chi, sano di mente e retto di cuore, prescriverebbe ai suoi discendenti di continuare a soffrire per lui?»


Simone Cristicchi


Eccoci, entriamo a pie’ pari nella vicenda del cosiddetto «Esodo giuliano-dalmata», innervata a quella delle «foibe».


Dapprima è stata la destra post-fascista (e sul «post» ovviamente ci sarebbe da dire) a «nazionalizzare» l’immaginario vittimale del confine orientale e a trasformarlo in instrumentum regni. Questo è avvenuto grazie alla fine di quegli «impedimenti» post-bellici che l’avevano confinata in una nicchia.


Nel suo libro Tenca Montini lo ricostruisce molto bene: fino agli anni Novanta del XX secolo, soltanto in Venezia Giulia l’immaginario vittimale “giuliano-dalmata” si era compiutamente trasformato in instrumentum regni. Persino l’urbanistica di Trieste e altri centri urbani nei dintorni furono radicalmente modificate dall’immaginario vittimale.

Molto chiara in questo senso la storia dei nuovi sobborghi per profughi costruiti per «italianizzare» zone ad alta presenza slovena ed alterarne gli equilibri non solo etnici ma anche elettorali, come spiegano con dovizia di esempi Piero Purini nel suo libro  Metamorfosi etniche. I cambiamenti di popolazione a Trieste, Gorizia, Fiume e in Istria. 1914-1975 (KappaVu, 2010) e Sandi Volk nel suo Esuli a Trieste. Bonifica nazionale e rafforzamento dell’italianità sul confine orientale (KappaVu, 2004).

Nel resto d’Italia, nulla di paragonabile.


Ma con la caduta dell’URSS, la fine della Jugoslavia, la fine della «Prima Repubblica» e dell’arco costituzionale ecc. la situazione cambia all’improvviso, scompaiono i «blocchi» e la destra post-missina, soggetto di importanza strategica nel blocco di potere berlusconiano, può darsi subito un gran daffare.

Raccontata così, però, sarebbe davvero troppo semplice. Fin da subito aiuta la destra il cosiddetto «centrosinistra». Si sviluppa una forma di «consociativismo della memoria» funzionale alle «larghe intese» che – molti anni prima di essere ufficializzate in parlamento – già hanno luogo nell’economia e nella società.


In quest’epoca, a metà degli anni ’90, si verifica quella che Tenca Montini definisce «inclusione dei postcomunisti nella storiografia nazionalistica». Sono gli anni in cui Luciano Violante cerca la conciliazione con gli eredi dei “ragazzi di Salò”, espressione edulcorante per i soldati  di uno stato-fantoccio collaborazionista voluto da Hitler.


Oggi siamo andati molto più in là, il testimone è quasi interamente passato di mano e il ruolo principale ce l’ha l’intellighenzia dell’area PD. E’ stato  Giorgio Napolitano la figura politica e istituzionale più attiva su quel versante. Solo per ricordare l’episodio più recente, poco tempo fa ha commemorato il capo neofascista Almirante, già redattore della rivista La difesa della razza.

Se Napolitano è primus inter pares, rivalutazioni del genere le troviamo a tutti i livelli del partito, ovunque giriamo lo sguardo: il governo Renzi si era appena insediato quando il neoministro della difesa Roberta Pinotti ha omaggiato l’aviatore fascista Luigi Gnecchi, reduce della guerra civile spagnola, tra i responsabili dei bombardamenti a tappeto su Barcellona, cioè di un famigerato massacro di civili.


Locandina dell’incontro Memòria i justícia: Barcelona sota les bombes feixistes (Memoria e giustizia, Barcellona sotto le bombe fasciste, tenutosi al centro Pati Llimona di Barcelona il 30 gennaio 2013 con la partecipazione di Xavier Domènech, storico, Jaume Asens, avvocato e Ida Mauro del’Associazione AltraItalia.

Locandina dell’incontro Memòria i justícia: Barcelona sota les bombes feixistes (Memoria e giustizia, Barcellona sotto le bombe fasciste), tenutosi al centro Pati Llimona di Barcelona il 30 gennaio 2013 con la partecipazione di Xavier Domènech, storico, Jaume Asens, avvocato e Ida Mauro del’Associazione AltraItalia.


Del tutto logico. Il PD ambisce a essere il «partito della nazione», e quindi il partito di tutti, e quindi il partito della «memoria condivisa».


E quindi anche il nuovo partito dell’Esodo istriano.


[E forse anche il nuovo partito dei cosiddetti “rimasti”, le comunità italiane ancora presenti in Slovenia e Croazia, dopo la fine della Jugoslavia non più etichettabili come “titine”. Si è prestata meno attenzione del dovuto a come Cristicchi ha inserito nello spettacolo una parte strappalacrime sui “rimasti”. Ancor meno attenzione si è prestata a certe manovre politiche intorno all’Università Popolare di Trieste, «soggetto privilegiato di collegamento tra il Governo italiano e la minoranza in Istria, Fiume e Dalmazia.»]


Dal 1918 al 1941 (anno in cui l’Italia invase la Jugoslavia insieme a Hitler), il nostro confine orientale venne spostato con la forza sempre più a est. Si veda la progressione in quattro mappe proposta in questo post. In quelle terre l’imperialismo italiano fu responsabile di stragi, deportazioni, persecuzioni.

Il trucco che consente di far sparire tutto questo è, come si diceva sopra, far cominciare la storia più tardi.

Per la precisione, farla cominciare dal 1943 in Istria, e dal 1945 a Trieste e Gorizia.

In questo modo, e con qualche altro accorgimento, gli italiani sono solo vittime.

Vittime, come disse Napolitano in un discorso del 2007, di un presunto «disegno annessionistico slavo».

Sin troppo facile da denunciare, dopo che si è rimosso il reale annessionismo italiano.


Il ruolo del PD emerge con ulteriore chiarezza seguendo gli sviluppi del caso Cristicchi, artista sponsorizzato e difeso dal PD triestino e nazionale. Certe scritte sui muri sbagliano: è vero che Cristicchi ripete pappagallescamente luoghi comuni tipici di ambienti e gruppi “nazional-patriottici”, neoirredentisti e neofascisti, ma non è in senso stretto un fascista; è dalla radice dei capelli alle unghie dei piedi, antropologicamente e narrativamente, in tutto e per tutto Homo Piddinus, e perciò maschera da commedia dell’arte dell’italiano medio “post-ideologico”.


Nella figura di Cristicchi, e nel modo in cui risponde alle critiche, possiamo leggere ancora una volta l’autobiografia della nazione: l’uomo medio, l’uomo che oggi vota Renzi, è convinto – intempestivamente, visto cosa ribolle nel ventre d’Europa  – che il fascismo sia “fenomeno del passato”, ma al tempo stesso incarna tutte le tare, le rimozioni e i clichés che la cultura italiana si porta dietro dall’esperienza fascista, mai davvero elaborata e quindi mai superata.


Magazzino 18 è una storia vincente perché non c’è nessuna complessità, la sua è la versione più facile da raccontare, è unilaterale, tutte le addizioni sembrano funzionare senza riporti, «i conti tornano». Ne abbiamo già parlato in maniera dettagliata. Ho pensato a Cristicchi quando leggevo i passaggi in cui Giglioli scrive che nessuna vittima o testimonial della vittima si sentirà mai dire: «Che solfa, è la solita storia». La storia vittimaria è sempre «autorevole», e la si ascolta, se non commossi, almeno compunti, altrimenti tocca navigare in un mare di insulti, accuse di insensibilità o, peggio, di complicità coi carnefici.

Il vittimismo è funzionale al ricatto morale, che è finalizzato al dominio.


Leo Gullotta

A destra, Leo Gullotta.


Lo spettacolo di Cristicchi ha dei precedenti, uno dei quali va ricordato. Mi riferisco alla fiction Il cuore nel pozzo, andata in onda sulla Rai una decina di anni fa.

Si tratta di una delle più immonde porcate mai trasmesse dalla TV italiana. Tenca Montini ne esamina in modo esaustivo il razzismo, la rivalutazione sottotraccia del collaborazionismo coi nazisti, il profondo sessismo, le panzane…. Il cuore nel pozzo è stato visto come operazione della destra, voluta espressamente da Gasparri, allora ministro delle telecomunicazioni. Vero, ma si è prestata poca attenzione alla presenza attiva di figure bipartisan. Uno dei protagonisti dello sceneggiato era Leo Gullotta, un uomo per tutte le stagioni.


Gullotta è stato per anni la “signora Leonida” del Bagaglino, ovvero tra i protagonisti del più becero avanspettacolo di destra, diretto da quel Pierfrancesco Pingitore che, da caporedattore del settimanale fascistoide “Specchio”, aveva teso odiosi agguati mediatici a don Milani, Pasolini e molti altri.

[Cfr. Carlo Galeotti, Don Milani il prete rosso. Un caso di killeraggio giornalistico, Stampa Alternativa, 1999, e Franco Grattarola, Pasolini, una vita violentata. Pestaggi fisici e linciaggi morali, storia di una Via Crucis laica attraverso la stampa dell’epoca, Coniglio Editore, 2005.]

Epperò – misteriosamente –  Gullotta è anche considerato “uomo di sinistra”. Non ho idea del motivo. Vero, è amico di Bertinotti, ma nel corso degli anni abbiamo visto che di per sé vuol dire poco.


Prima Gullotta recita in una fiction nazistoide poi, facendo finta di niente, va al congresso del PRC a leggere le lettere dei condannati a morte della Resistenza, e giustamente viene contestato.

Nel marzo 2005 la “memoria condivisa” non si è ancora affermata del tutto, e l’episodio ha conseguenze limitate. Nove anni dopo, quando qualcuno oserà contestare Magazzino 18, la reazione a difesa del nuovo uomo per tutte le stagioni, cioè Cristicchi, sarà vastissima e trasversale. I media additeranno i contestatori come “nemici pubblici” e parleranno all’unisono di “violenza”, di “squadrismo”, financo di “anti-italianità”.




QUALI VITTIME NON VANNO BENE


Che cos’è la «memoria condivisa» se non la storia d’Italia riscritta in base al paradigma vittimario?

Non più diverse cause per cui morire: solo morti ammazzati, strumentalmente descritti come «tutti uguali»;

non più una dialettica oppressi-oppressori, solo generiche «vittime» di conflitti resi astratti, mai spiegati;

la colpa è delle sempre comode da scomodare «ideologie», dei «fanatismi» ecc.


Come spiega Giglioli, solidarizzare con le vittime è diverso dal solidarizzare con gli oppressi: quest’ultima opzione implicherebbe una lettura della realtà, una sua presa in carico, e quindi un’istanza di liberazione, «non una semplice scarica emotiva». Per questo il racconto vittimario è consolatorio e difende lo stato delle cose. Per questo è un racconto vincente. Per questo non tutte le vittime vanno bene e la selezione dev’essere accurata.


Ci sono vittime che, per i motivi e i modi delle loro persecuzioni e uccisioni, se ricordate riporterebbero nel quadro la discordia, ovvero il conflitto sociale nella sua concretezza. Ergo, operai e studenti uccisi dalle forze dell’ordine non vanno bene.


Non vanno bene nemmeno vittime come Enzo Baldoni, Vittorio Arrigoni, Ilaria Alpi, Miran Hrovatin e altre persone ammazzate o scomparse mentre “non si facevano i cazzi loro”, in circostanze che, se raccontate, disturberebbero la buona coscienza dell’Italia e il nostro quieto vivere geopolitico.


Ma le vittime meno adatte alla bisogna sono senz’altro le vittime non-italiane di italiani. Le vittime dei nostri pogrom in nome dell’italianità (Lojze Bratuž non va bene, per dirne uno), dei nostri crimini di guerra (i trucidati di Debra Libanos non vanno bene), delle nostre politiche genocide (la popolazione della Cirenaica non va bene), della nostra guerra chimica… Troppo complicato, troppe cose da spiegare, troppa Storia da scomodare, troppi fantasmi scomodi. Tutto troppo contrario ai dettami di concordia nazionale.


Molto meglio raccontare degli italiani buoni trucidati dagli slavi cattivi. Trucidati «solo perché italiani».


Perché la storia ha inizio dove vogliamo noi.


[Continua]


N.d.R. I commenti a questo post saranno attivati dopo il 12 gennaio 2015, per consentire una lettura ragionata e – nel caso – interventi meditati (ma soprattutto, pertinenti).

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Published on January 08, 2015 06:58

January 3, 2015

Laboratoire Marie Nozière, #Torino, 28/01/2015 #ArmatadeiSonnambuli

Laboratoire Marie Nozière

A lei gli occhi. E le orecchie. 28 gennaio. A Torino.


Nel suo rapporto segreto sul magnetismo animale, Benjamin Franklin (1706-1790) fece notare che erano sempre gli uomini a magnetizzare le donne. Due secoli più tardi, l’antropologa Clara Gallini lo confermerà: «Nella mia esperienza di ricerca non mi sono mai imbattuta in donne magnetizzatrici di professione. Il “volere” della gestione del fluido fu sempre un “potere” maschile.»


Il punto di vista sulla questione lo offrì in modo fulmimante Georges Méliès (1861-1938): interpretando la parte di Franz Anton Mesmer (1734-1815)  il padre del cinema fece apparire dalla tinozza magnetica alcune ragazze, per poi trasformarle… in altrettante oche! (Vedi il cortometraggio “Le baquet de Mesmer”, 1905)


Solo qualche magnetista illuminato osava mettere in discussione lo status quo.

Nell’Ottocento Lisimaco Verati (1797-1879) aveva eletto a proprio medico personale una donna, ritenendo che siccome le donne «posseggono le più cospicue e principali [qualità dei maschi], così parmi provato che la loro attiva capacità magnetica debbe emulare quella degli uomini.»

Joseph P. F. Deleuze (1753-1835) fu ancora più netto; nella sua lista di princìpi alla base del magnetismo animale, il 23° recitava: «le virtù magnetiche esistono in egual misura nello stesso grado nei due sessi.»

Se Alessandro Manzoni (1785-1873) leggeva i libri di Aubin Gauthier era anche per la meticolosità con cui il magnetista curava la lingua; sui suoi scritti si leggeva: «Quando abbiamo detto che la facoltà di magnetizzare esiste in tutti gli uomini […] abbiamo inteso parlare dell’uomo e della donna, perché infatti il sesso non cagiona differenza notabile nella forza magnetica, e le donne magnetizzano egualmente che gli uomini. L’azione magnetica delle donne è generalmente più dolce di quella degli uomini, e l’esperienza dimostra che non è meno salutare.» (Sfoglia qui i tre libri).


Lo scenario non cambia nell’ambito del magnetismo in forma teatrale, dove quasi sempre la figura femminile è stata subalterna a quella dell’illusionista: spogliata per sviare l’attenzione, oggetto di tortura per evidenziare il potere maschile sulla vita e sulla morte, taciturna assistente di uomini il cui ego non lascia spazio ad altri sul palcoscenico.


Se l’obiettivo della magia è di generare stupore, la strada più breve (ed efficace) è quella di mettere il mondo sottosopra: è qui che la secolare subalternità della donna offre uno straordinario spunto creativo. Cosa accadrebbe a capovolgere gli elementi in gioco e mettere al centro della scena un’illusionista di sesso femminile?


Una riflessione su questi temi non può prescindere da Marie Nozière, la donna parigina al cuore delle vicende raccontate da Wu Ming ne L’armata dei sonnambuli. Sarà intitolata alla «popolana vendicatrice che si oppose, ferri alla mano, al potere dei maschi e dei padroni» (come l’ha definita Alberto Prunetti qui) la prossima séance del Laboratorio di Magnetismo Rivoluzionario che andrà in scena a Torino mercoledì 28 gennaio 2015 alle ore 18 presso il Circolo Amici della Magia: il Laboratoire Marie Nozière sarà un’insolita presentazione del romanzo che vedrà sul palcoscenico – oltre a Wu Ming – una dozzina di artiste. Alcune di loro presenteranno dal vivo esperimenti di magnetismo: Silvia Agnello, esperta di magia matematica, coordina da anni il gruppo Pink Magic per mantenere in contatto le illusioniste di diversi paesi; Laura “Lilith” Luchino, tra le poche a praticare l’arte del trasformismo teatrale, ha scelto per sé il nome di una divinità simbolo del femminile che non si assoggetta al maschile; Gaia Elisa Rossi ha 14 anni ed è la Billy Elliot della magia: come il giovane ballerino voleva danzare in un mondo di donne, Gaia vuole essere un illusionista in un mondo di uomini. Quello di Nella Zorà sarà un ritorno, visto che la sonnambula ha già partecipato alle edizioni di Torino e Mantova del Laboratorio.


Altre maghe saranno presenti in spirito: Julia Garrett, Lulu Hurst, Salomè Simon, Minerva. La voce narrante sarà quella dell’attrice Eleonora Frida Mino, autrice e protagonista dello spettacolo Per questo! che racconta la storia di Giovanni Falcone. I reading saranno affidati a Manuela Grippi, tra le protagoniste di Ferite a morte di Serena Dandini (a Bruxelles) e dell’edizione torinese della pièce teatrale Finché morte non ci separi, entrambe dedicate al femminicidio.


Per una sera, grazie alla loro magia, il mondo si arbalta.



I posti sono limitati, è necessario prenotare scrivendo a mariano.tomatis@gmail.com



Poche ore dopo, alle ore 21, Luigi “Yamunin” Chiarella presenterà il suo Diario di zona presso la Libreria “Il ponte sulla Dora” (via Pisa 46, Torino). All’incontro interverranno Wu Ming 1, Stefano Jugo (alias il “bot” di Einaudi Editore su Twitter) e Mariano Tomatis. Svariati gli ospiti a sorpresa.


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Published on January 03, 2015 07:52

December 17, 2014

Per smontare la macchina delle panzane sul caso #Marò. Dodici punti di Matteo Miavaldi

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[Proseguiamo la disamina critica del caso Marò riprendendo da East on line, freschi di pubblicazione, questi dodici punti del giornalista Matteo Miavaldi, autore del libro I due marò. Tutto quello che non vi hanno detto (Alegre, Roma 2013) e di diversi articoli apparsi qui su Giap. Chi vuole lasciare commenti può farlo sotto il post originale. Buona lettura. WM]


Si preannunciano giorni convulsi, all’insegna della schizofrenia politica, intorno all’annosa questione marò in India. Proviamo a mettere un po’ di punti fermi per orientarci meglio tra le cose che verranno dette e scritte.


Cos’è successo ieri in tribunale?

Gli avvocati di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone avevano intenzione di presentare due istanze separate per prolungare il soggiorno in Italia del primo e far tornare a casa per Natale il secondo.

Latorre è in Italia da metà settembre per proseguire la riabilitazione dopo l’attacco ischemico che ha subìto qui a New Delhi: la Corte suprema ha accordato una licenza in scadenza il prossimo 13 gennaio e il governo indiano – prima che i giudici si pronunciassero – aveva fatto sapere di non aver nulla in contrario al ritorno di Latorre in Italia per motivi medici (occhio che questa cosa è importante, poi la riprendiamo). La richiesta era di poter rimanere in Italia per altri quattro mesi, a fronte anche di un’operazione cardiochirurgica alla quale Latorre potrebbe doversi sottoporre il prossimo 8 gennaio.


Girone è rimasto in India e nell’istanza aveva presentato alcune (forse due, non è chiaro) perizie mediche che indicavano lo stato di malessere dei suoi figli (un maschio e una femmina). I due soffrirebbero di “sindrome da stress post traumatico”, si legge negli stralci divulgati dalla stampa, poiché sono convinti di non poter più rivedere il padre e credono gli verrà comminata la pena di morte. Girone non vede i suoi figli dallo scorso mese di marzo.


E i giudici cos’hanno detto?

Il presidente della Corte ha detto che istanze di questo genere “non si prenderebbero in considerazione da nessuna parte del mondo”, che “anche le vittime hanno i propri diritti” e, soprattutto, che se avesse acconsentito a richieste simili allora avrebbe dovuto farlo per tutti gli altri detenuti nel paese.


Davanti a queste obiezioni, gli avvocati hanno deciso di ritirare le istanze, probabilmente in attesa di tempi e condizioni migliori.


Ad esempio quali?

La Corte suprema chiuderà per le vacanze di Natale fino al prossimo 5 gennaio. Da quella data i legali dei marò potrebbero provare di nuovo a tastare gli umori della Corte, facendo leva – almeno per quanto riguarda le condizioni di salute di Latorre che mi dicono essere preoccupanti – sul sostanziale accordo del governo indiano e sul fatto di non aver ricevuto un rifiuto da parte della Corte dopo la valutazione delle istanze, bensì di averle ritirate prima di sottoporle ufficialmente al vaglio dei giudici (che infatti, le avessero accettate, avrebbero richiesto il parere dell’accusa e del governo, rinviando l’udienza).


Come abbiamo reagito in Italia?

Male, nel senso che nessuno – nemmeno chi scrive – si aspettava una reazione del genere da parte della Corte. Questo perché si dava per scontato un accordo diplomatico “segreto” che avrebbe addolcito la posizione della Corte. Cosa che, evidentemente, ancora non c’è. E questo è un bel problema, poiché se il governo Renzi in tutti questi mesi non è riuscito a tessere accordi informali con la controparte indiana – così da chiudere questa diatriba lunga ormai tre anni attraverso il dialogo, come auspicato da Roma – allora significa che l’Italia si dovrà affidare solo alla clemenza della Corte suprema. E sarebbe un bel rischio.


Perché?

Perché i rapporti con la Corte suprema indiana hanno raggiunto i minimi storici quando, nel marzo del 2013, il governo Monti ha prima convinto i giudici a dare una “licenza elettorale” ai due marò – condizione abbastanza inusuale, siccome pare avrebbero potuto votare alle elezioni politiche dall’ambasciata – e poi, una volta arrivati in Italia, ha mandato a dire alla Corte suprema indiana che l’agreement firmato dall’ambasciatore Mancini per conto dello Stato italiano, dove ci si impegnava solennemente a riconsegnare i marò all’India al termine della licenza, non valeva più niente: avevamo cambiato idea.


All’epoca la reazione della Corte fu scomposta e irruenta, analisti indiani scrivevano sui quotidiani locali che una cosa del genere non era mai capitata “nemmeno col Pakistan”: minacciarono di sospendere l’immunità diplomatica dell’ambasciatore e sostanzialmente sfidarono l’Italia a incorrere nella collera indiana. L’Italia cedette, ma quel giochino come paese siamo destinati a pagarlo almeno fino alla fine di questa vicenda.


Però l’India ci calpesta in spregio ai diritti umani!

Questa è una cosa che si sente e si legge troppo spesso ed è una posizione francamente indifendibile, considerando le condizioni di cui i due marò hanno potuto godere nel loro attuale status – davanti alla giustizia indiana – di indagati per duplice omicidio: non hanno mai passato un solo giorno in carcere, hanno ottenuto diverse licenze per tornare a casa (tre Latorre, due Girone). Condizioni assolutamente eccezionali che, dal punto di vista della Corte suprema, sono state ripagate col tentato tranello del marzo 2013.


L’India però ci aveva fatto credere che le cose stessero andando bene, e invece adesso ci sbatte la porta in faccia!

Anche qui, se ne può discutere. Da quando la questione marò è passata in mano al governo Renzi, c’è stata solo una telefonata tra il primo ministro indiano Narendra Modi e il nostro premier in cui Modi ha detto che questa è una questione giuridica e quindi se ne occupano i giudici. Ovvero, se n’è lavato le mani.

Prima, erano successe due cose.


Uno: Renzi ha detto tante grazie a Staffan De Mistura, diplomatico di lungo corso che aveva gestito il caso marò dall’inizio, probabilmente per dare un segnale di #cambiamento, e l’ha messo fuori dalla gestione della diatriba. De Mistura era un interlocutore molto considerato qui in India; uno che riusciva a sedersi a prendere un té con l’allora ministro degli Esteri Salman Khurshid e fare un comunicato stampa congiunto in cui si smontava una volta per tutte la palla del rischio della pena di morte per i marò (sulla quale invece in Italia abbiamo continuato a cavalcare strumentalmente, senza considerare che in casi del genere la pena qui in India non si applica e che dal 1990 ad oggi è stata comminata la pena capitale solo tre volte, per due terroristi – un pakistano e un kashmiro – e un serial killer indiano).

Ora chi sta gestendo i rapporti diplomatici con l’India? Non si capisce.

Abbiamo mandato in India una delegazione parlamentare che però non è stata ricevuta da NESSUN politico indiano; i vari ministri degli Esteri non sono mai venuti qui in India, e nemmeno il primo ministro Renzi.


Due: Renzi ha dato mandato a un pool di giuristi, coordinato dall’inglese Daniel Bethelem, di preparare una richiesta di attivazione delle procedure per l’arbitrato internazionale. Richiesta che pare sia pronta ma ancora ce la teniamo nel cassetto.


Perché?

Forse perché i tempi dell’arbitrato internazionale sono stimati intorno ai tre anni e, soprattutto, non siamo nemmeno sicuri che la richiesta vada in porto. Oltretutto, l’arbitrato non tratterebbe i fatti che vengono contestati a Latorre e Girone, bensì la giurisdizione su quei fatti. Detto più semplice: l’arbitrato eventualmente dovrà decidere chi, tra India e Italia, abbia la giurisdizione dell’incidente dell’Enrica Lexie.


Ma se è avvenuto in acque internazionali! La giurisdizione è nostra!

Non è proprio così, questa è una delle molte bombe al panzanio che vengono sganciate a ripetizione e che ormai molti danno per assodate. Invece no. Il fatto è avvenuto a 20,5 miglia nautiche dalla costa indiana (ci sono le rilevazioni satellitari ed è un dato che anche l’Italia ha riconosciuto) in un tratto di mare che si chiama zona contigua. L’India dice che quel tratto, secondo le proprie leggi, rientra nell’area della totale giurisdizione indiana. L’Italia dice che no, non sono acque territoriali e quindi la giurisdizione è di Roma. Sono due interpretazioni concorrenti del diritto internazionale e quindi, se non ci si mette d’accordo tra Italia e India, si dovrà ricorrere a un tribunale internazionale per dirimere la questione.


Nota: ancora oggi gli esponenti di Fratelli d’Italia, nell’interrogazione parlamentare di questo pomeriggio, dicono che l’incidente è avvenuto a 32 miglia nautiche. Qualcuno li avverta.


Però i marò sono soldati italiani e quindi devono essere giudicati da un tribunale italiano, hanno l’immunità funzionale!

Questo lo diciamo noi italiani però, almeno molti. Diversa l’opinione dell’India, che con­te­sta l’immunità fun­zio­nale con­si­de­rando il ser­vi­zio anti­pi­ra­te­ria svolto dai marò a bordo di una nave civile un’attività di tipo pri­vato, non a difesa dello Stato (e non, ovvia­mente, un’azione di guerra).


Quindi adesso che si fa?

Le dichiarazioni giunte fino a questo momento, e il rientro dell’ambasciatore Daniele Mancini in Italia disposto dal neoministro degli Esteri Gentiloni, lasciano intendere un irrigidimento della posizione Italia, ma si capirà meglio quando Renzi dirà qualcosa in merito (ancora non l’ha fatto).


Si potrebbe avviare la procedura di arbitrato internazionale, facendo la voce grossa e mettendo però a rischio la posizione di Girone, che è ancora qui in India.


Si potrebbe provare, per l’ennesima volta, a chiedere supporto agli organi internazionali (Onu) alla Ue e agli “alleati” per fare pressioni sull’India, ma anche qui ci si espone a uno scontro con l’India dal quale rischieremmo di uscire con le ossa rotte, considerando che Narendra Modi (al governo da sei mesi) è in una sorta di stato di grazia diplomatico – ad esempio, aspetta che il “nostro alleato americano” Barack Obama arrivi qui a Delhi per essere ospite d’onore della parata per la Festa della Repubblica del 26 gennaio – e che chi, secondo Roma, avrebbe dovuto spendersi per la causa italiana, non l’ha fatto mai.

Al massimo, in passato, abbiamo portato a casa la “preoccupazione” e i moniti della ministra degli Esteri dell’Ue Cathrine Ashton, che qui in India nessuno ha calcolato.


Consideriamo anche che, qui in India, l’affare marò è un non-caso: all’indomani del rifiuto della Corte suprema per le licenze di Latorre e Girone non c’è una dichiarazione di un politico indiano, manco a pagarla.


Tanto li tengono lì e se ne fregano così possiamo continuare a fare affari con l’India…

Altra bomba al panzanio. Qui un po’ di numeri: le esportazioni italiane in India nel 2013 sono scese dell’11 per cento. Ancora più chiaramente, citando dal pezzo: «Nel complesso l’Italia ha un peso dell’1,15% sul totale del commercio indiano (fonte Dipartimento indiano del Commercio). Tale valore era dell’1,7% nel 2008-2009 ed e’ da allora in lieve diminuzione. L’India invece cattura lo 0,9% del commercio totale dell’Italia con il resto del mondo (fonte Istat), valore piu’ o meno costante dal 2008, se si esclude un picco dell’1,1% nel 2011».


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Published on December 17, 2014 06:51

December 10, 2014

Tolkien to-Day: la lotta di liberazione della Terra di Mezzo

riders_of_Rohan


Nel giorno delle anteprime del film che conclude la trilogia de Lo Hobbit esce su “La Repubblica” un pezzo di Wu Ming 4. Si tratta di una panoramica su quanto è cambiata l’aria intorno a Tolkien negli ultimi tredici anni, quelli dell’occupazione jacksoniana dell’immaginario. Si può leggere sul sito dell’AIST.


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Published on December 10, 2014 23:53

December 7, 2014

UGO, l’Unica Grande Opera. Costruiamo insieme l’#8D2015

Terrorista è chi devasta i territori


Tra un anno esatto, una grande giornata di mobilitazione.


Capita che qualcuno usi le parole giuste per esprimere quello che avevi in testa e ti accingevi a scrivere tu stesso. In questo caso, a farlo sono stati Salvatore Settis e Tomaso Montanari, addirittura su un quotidiano mainstream come La Repubblica. La sintesi dei loro articoli coincide con quanto dicono da tempo comitati di cittadini e movimenti di base: esiste Una Grande Opera, una sola di cui l’Italia abbia concreto bisogno, ed è salvare il territorio, metterlo in sicurezza, risanarlo. Salvarlo dal dissesto idrogeologico che fa allagare le città e franare le montagne ogni volta che piove un po’ più forte; ma anche liberarlo dalla cementificazione e dal peso che insiste sulla sua superficie; dall’inquinamento e dall’immondizia. E non ultimo, aggiungeremmo noi, dalla militarizzazione, vero e proprio scippo di suolo pubblico a fini bellici.

Insomma, tutto il contrario di quello che si accinge a fare lo «Sblocca Italia», decreto che ha per nome un’antifrasi, dato che il fine reale è congestionare il Paese.


Chiamiamola UGO. È l’Unica Grande Opera, l’unica che valga la pena realizzare e che darebbe lavoro a decine di migliaia di persone. Un serio investimento di denaro, energie, intelligenza collettiva, per evitare catastrofi e riqualificare il territorio, che rimane risorsa primaria e che rappresenterebbe in realtà un risparmio sulle ecocatastrofi future.


Per fare una cosa del genere, si capisce, occorrerebbero una prospettiva e una visione completamente diverse da quelle imperanti. Servirebbe un’altra idea di progresso, non più misurata in metri cubi di cemento, appalti e fatturati, ma in qualità reale della vita, fatta di salute, tutele, socialità, cultura, felicità. Occorrerebbe immaginare un sistema di trasporto pubblico in cui la velocità di spostamento sia meno importante della capillarità; in cui l’impatto leggero sia un valore aggiunto; in cui invece di costruire nuovi raccordi, bretelle, tangenziali, per incentivare il traffico automobilistico, si lavori per potenziare il trasporto pubblico. Bisognerebbe ragionare sul recupero delle aree urbane dismesse (basi militari, caserme, distretti produttivi abbandonati) e sulla loro restituzione allo spazio pubblico;  e ancora, bisognerebbe pensare a come incentivare le filiere corte contro la grande distribuzione; ecc. ecc. Inutile farla tanto lunga, ci siamo capiti perfettamente, sono cose che sanno tutti.


Esiste in questo paese una forza politica che possa farsi carico di un mutamento di prospettiva così radicale?


Se parliamo di una qualche forza politica organizzata per raccogliere voti, la risposta ovviamente è no.


Se spostiamo lo sguardo, però, vediamo, sparsi per tutto lo Stivale e le isole, centinaia di comitati territoriali – almeno uno in ogni provincia – che portano avanti battaglie reali contro lo scempio del territorio, per la salvaguardia della salute e per un rapporto diverso con i luoghi in cui si vive. Se non fosse per loro, la devastazione del paesaggio e l’ingiustizia ambientale sarebbero oggi ancora più mostruose.


No Expo


È giusto, come fanno anche Settis e Montanari, invocare Una Grande Opera di risanamento, ma è altrettanto importante riconoscere l’opera di migliaia di attivisti, senza i quali saremmo circondati da chissà quanti altri ecomostri, autostrade che portano al nulla, ferrovie senza treni, impianti eolici inutili, parchi cittadini abbandonati, edifici pericolanti, immondizia, centrali nucleari, frane, inondazioni. Se si facesse l’elenco di quanti progetti dannosi e demenziali sono riusciti a bloccare e di quanti spazi dimenticati sono riusciti a riutilizzare, ne verrebbe fuori la mappa di una resistenza che ha impedito e impedisce ogni giorno il collasso psicogeologico dell’Italia.


E invece, questi movimenti, grandi, piccoli o piccolissimi, vengono accusati dagli alfieri dello sviluppismo di voler fermare il “progresso”, di essere “conservatori”, di essere “nimby”.


La verità è che questi soggetti, completamente autorganizzati e autofinanziati, sono modelli di esercizio della cittadinanza attiva e andrebbero tenuti in grande considerazione, perché sono una risorsa politica nel senso più pieno del termine. Sono esperienze che non si rassegnano all’affondamento del paese sotto una colata di cemento, fango e pattume. Spesso intorno a questi movimenti si sviluppano analisi, inchieste, studi, che vanno a dimostrare la miseria dell’attuale gestione del territorio e la sua perniciosità, che suggeriscono ipotesi alternative all’ottusità e alla miopia delle grandi opere e di chi le ordina, progetta, finanzia.


Il vecchio modello di sviluppo è duro da scalfire quando la presa di posizione critica viene dalla periferia, da un angolo d’Italia, da un “cortile”. Eppure, spesso è proprio dalla sfida della periferia al centro che nascono le lotte in grado di cambiare qualcosa. Mentre assistiamo alla celebrazione dell’Expo milanese con i suoi appalti cementiferi che ingrassano le organizzazioni criminali, vediamo anche fare capolino da dietro l’orizzonte la vittoria del movimento contro il Tav in Val Susa. Ormai anche gli ultimi giapponesi con l’elmetto rimasti a difendere quell’inutile scempio devono arrendersi all’evidenza che si tratta soltanto di una gigantesca voragine mangiasoldi, utile solo a far girare a vuoto la ruota del PIL.


Gino e Pino camminano per la strada quando, di fronte ai loro piedi, vedono un ripugnante escremento. Pino lo indica e dice a Gino:

– Se lo mangi, ti dò dieci euro!

Gino è nauseato, ma pensa che dieci euro sono pur sempre dieci euro, e allora si china sul disgustoso reperto, lo raccoglie e, reprimendo i conati, lo mangia in due bocconi. Pino, impressionato, non può fare altro che congratularsi e dargli i dieci euro.

Pochi metri più avanti, i due si imbattono in un altro escremento. Stavolta è Gino a fare la proposta a Pino:

– Se lo mangi, ti ridò i tuoi dieci euro!

Pino è schifato, ma 1) gli brucia di aver perso la somma; 2) non vuole essere da meno, e allora pure lui si china e ingurgita l’escremento. Gino si congratula e gli ridà i soldi. La passeggiata prosegue, ma pochi metri dopo Pino si ferma di colpo.

– Che c’è? – gli chiede Gino.

– C’è che siamo due scemi! – dice Pino. – Abbiamo mangiato sterco e nessuno dei due ci ha guadagnato niente!

– La vedi così perchè sei ignorante! L’importante è che l’economia si muova!


I valsusini, accusati di voler “fermare l’economia” perchè non vogliono mangiare sterco, resistono da vent’anni e potrebbero resisterne altrettanti. Perché chi la dura la vince.


Altrove le cose vanno in modo diverso. Al capo opposto del paese, la lotta degli abitanti di Niscemi (CL) contro il Muos sembra quella delle formiche contro l’elefante. Un elefante americano che ha posato il suo pesante deretano in mezzo alla Sicilia per non andarsene più. “Sauron”, così i niscemesi chiamano la radioantenna alta oltre cento metri, con in cima un faro rosso fuoco, la più alta delle 46 che costellano le colline recintate, dove sorge la base militare americana, proprio in mezzo a una riserva naturale. Il dibattito sulla concreta pericolosità di quelle antenne imperversa da tempo, a suon di perizie e controperizie, ma intanto la base sta là, e nella migliore delle ipotesi serve a una superpotenza per condurre operazioni militari in giro per il mondo, nella peggiore aumenta l’incidenza dei tumori della popolazione locale.


Da un estremo all’altro c’è una vasta gamma di situazioni e lotte diversissime tra loro, ma evidentemente accomunate da un’idea del rapporto con il territorio e della sua gestione che contraddice lo stato delle cose. Anche la lotta più piccola e meno consapevole, anche quella più “nimby”, volente o nolente mette una manciata di sabbia negli ingranaggi di un modello economico insostenibile ben rappresentato dallo «Sblocca Italia» di Lupi e Renzi.


Sauron Muos


Poco più di un mese fa, guardando da dietro un cancello l’Occhio di Sauron che scrutava la notte siciliana, rischiarata anche dall’inquinamento luminoso della base US Navy, sorta di astronave atterrata in mezzo al paesaggio, ci domandavamo una cosa.


Tutte queste situazioni di lotta territoriale non dovrebbero costituire una vera e propria rete? E per farlo, non dovrebbero innanzitutto contarsi? Se esistesse una rete di questo tipo, la periferia non sarebbe più tanto periferica, e la piccola lotta locale potrebbe riverberare su tutto il territorio nazionale e magari anche continentale. Se può esistere un discorso comune, allora può esistere anche una lotta comune.


Tentativi in questo senso ce ne sono già molti, ma spesso si concentrano su un solo aspetto del “diritto al paesaggio”, come la Rete Stop Enel o il Coordinamento Nazionale No Triv, o la solidarietà per una specifica battaglia oltre i suoi confini “naturali” (es. i No Muos fuori da Niscemi). Tentativi fatti in passato, come l’esperienza di Mutuo Soccorso, erano forse prematuri e si sono scontrati con interessi di tribù, correnti e parrocchie micropartitiche nel frattempo scomparse.


Grazie all’associazione Re:Common, nei primi mesi di quest’anno, abbiamo vissuto e animato un esperimento di scrittura collettiva “trasversale”, con l’esplicito obiettivo di far nascere un “noi”, una soggettività plurale a partire da esperienze diverse: dalla Riviera del Brenta al Salento, da Livorno alla Val Susa, passando per il Monte Amiata, i rappresentanti di sei comitati hanno dato vita ai racconti dell’antologia GODIImenti, Abbecedario di Resistenza alle Grandi Opere Dannose, Inutili e Imposte.


Ci siamo resi conto, in questa occasione, di quanto possa essere fecondo un simile confronto, e di quanto la narrativa sia il linguaggio più adatto per darne conto, perché le storie usano il particolare, l’aneddoto per raccontare l’universale, il comune. Ed è proprio di questo che ci sarebbe bisogno: una rete che tenga insieme le diverse realtà, per ragionare su ciò che le accomuna senza però farne una regola, che poi si riversi sui dettagli e li cancelli alla vista. Una terra di mezzo tra il singolo esempio e la teoria astratta: come nella metabasi di Epicuro e Lucrezio, dobbiamo mettere insieme le esperienze, sottolineare le somiglianze, produrre possibili associazioni, ma senza cancellare le caratteristiche tipiche dei singoli casi e luoghi.


Certo, sarebbe un progetto dispendiosissimo. Provare a costituire una rete del genere è un’impresa che potrebbe impiegare anni e potrebbe facilmente rivelarsi la fatica di Sisifo. Ma questo non impedisce almeno di pensare a un passo preliminare di tipo comunicativo.


Un’insorgenza. Una metabasi dei movimenti per il diritto al paesaggio.


Non il rituale concentramento nella Capitale, ma, al contrario, il manifestarsi contemporaneo e incontrollato di tutte le realtà, là dove sono attive e producono saperi. Ognuna secondo le modalità che preferisce: corteo, occupazione, blocco, sit-in, convegno, concerto, festa, spesa proletaria, azione diretta… Il tutto preceduto da un anno di incontri, laboratori, inchieste: con la lotta all’Expo a fare da catalizzatore, ma proiettandoci già oltre il Grande Evento, per rivendicare ovunque, in ogni angolo del paese, che la resistenza esiste, che ha già vinto moltissime battaglie e liberato molti territori. Uniti, si può puntare a un obiettivo ancora più vasto.


Tra un anno esatto a partire da oggi cadrà il decennale della «Battaglia di Venaus».

L’8 dicembre 2005, due giorni dopo un violentissimo sgombero per mano della polizia, trentamila persone sbaragliarono le forze dell’ordine, abbatterono la recinzione e riconquistarono il terreno del presidio No Tav, vero e proprio villaggio costruito per impedire l’avvio del cantiere CMC. Una vittoria politica importantissima, che costrinse i fautori della Torino – Lione a rinunciare a Venaus e spostare in Val Clarea l’ingresso del “cunicolo geognostico”. Grazie alla vittoria nella battaglia di Venaus, l’apertura del cantiere fu posticipata di oltre sei anni, con conseguenze per il progetto probabilmente fatali, perché più passa il tempo e più magagne si scoprono, e il TAV Torino – Lione appare sempre più chimerico, insensato, nocivo.

Riconquistando il terreno del cantiere, il movimento No Tav – che è profondamente antifascista – celebrò nel modo migliore l’anniversario del Giuramento della Garda, inizio ufficiale della Resistenza in Val Susa. Era un altro 8 dicembre, quello del 1943.


venaus2005

Venaus, 8 dicembre 2005.
– Stanno arrivando…
- Stanno ancora arrivando…
- Continuano a stare arrivando!
- Merda!!!


L’8 dicembre 2005 fu una data spartiacque nella storia dei movimenti contro le Grandi Opere Inutili e Imposte, come il 20 ottobre 1983 – la «Notte degli arresti» a Viadana - lo era stato per il movimento antinucleare e ambientalista. Con la lotta di Viadana, il movimento antinucleare “forò il velo”, e molti capirono che era destinato a crescere.  Nel 1987 una vittoria referendaria portò alla chiusura delle centrali nucleari, ribadita da un secondo referendum nel 2011.


L’8 dicembre 2o05 i No Tav “forarono il velo” a loro volta e irruppero con forza nell’immaginario nazionale. In altre parti d’Italia, molti cominciarono a interessarsi a quella lotta e a trarne ispirazione. Gli stessi No Tav dissero più volte che «l’8 dicembre può accadere ovunque». Poco tempo dopo, a Vicenza nacque il movimento No Dal Molin, e da lì in avanti è stata un’esplosione di No MuosNo Tap, No Expo, OpzioneZero, movimenti No Tav in diverse parti d’Italia (Terzo Valico, Brennero, Firenze…) e innumerevoli altre realtà. Anche mobilitazioni già in corso, come quella contro il ponte sullo Stretto di Messina, ne sono state rivitalizzate. Nulla è più stato come prima.


Tra un anno esatto.

Martedì 8 dicembre 2015.

Dieci anni dopo la battaglia di Venaus.

Mobilitazione nazionale simultanea e molteplice contro lo scempio dei territori, i baracconi mangiasoldi, le devastazioni ambientali, e per avere UGO, l’Unica Grande Opera che valga la pena fare: risanamento e messa in sicurezza dei territori, lotta al dissesto idrogeologico, decongestione del paesaggio.


Proponiamo l’8 dicembre come data “gravitazionale”. Alcune iniziative potrebbero avere inizio il giorno prima, o prolungarsi fino al giorno dopo e oltre. Ciascuna situazione deciderà cosa è meglio fare. L’importante è muoversi insieme e muoversi ovunque.


Ecco qua. Lanciamo questo sasso nello stagno, sperando che non ne esca un mostro tentacoluto per tirarci sotto e che invece dai cerchi nell’acqua possa nascere una visione di futuro.


#8D2015


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Published on December 07, 2014 08:06

December 4, 2014

La magia militante di Mariano Tomatis. Da «Donne a metà» a L’#ArmatadeiSonnambuli

Magia al popolo
Ve lo si conta noi come incontrammo Mariano

di Wu Ming 1


Da un anno collaboriamo intensamente con Mariano Tomatis, scrittore, illusionista e storico della magia. Tale collaborazione sta contribuendo  all’evoluzione della Wu Ming Foundation e producendo momenti di autentica meraviglia.

Molti ci chiedono: «Ma dove e come vi siete incontrati con Tomatis?» E ovviamente chiedono a lui: «Ma dove e come vi siete incontrati tu e Wu Ming?»

Abbiamo pensato di far apparire tre colombe con una fava, raccontando in un unico post:

– il convergere dei nostri percorsi;

– cos’è successo nell’ultimo anno;

– cosa collega gli studi di Mariano e il mondo de L’Armata dei Sonnambuli.


Non molti se n’erano accorti, ma i nostri libri sono sempre stati pieni di riferimenti e omaggi – più o meno nascosti – a magia, illusionismo e mentalismo. Mariano se n’è accorto leggendo Point Lenana e, andando a ritroso, li ha trovati quasi tutti (cfr. il suo racconto qui sotto). In 54 c’è addirittura un personaggio soprannominato «Houdini». E ovviamente, L’Armata dei Sonnambuli è un carnevale di citazioni.


È stato così fin da prima di Wu Ming, dai tempi del Luther Blissett Project. Nella comunicazione e nelle performances blissettiane abbondavano i riferimenti all’illusionismo e a un paranormale farlocco (la telecinesi-guerriglia degli «attacchi psichici»). Nel primissimo numero della rivista Luther Blissett appariva questa spiazzante immagine:


Silvan. Un eroe.

Immagine senza commento tratta dal n.0 di «Luther Blissett. Rivista di guerra psichica e adunate sediziose», pubblicata a Bologna nell’aprile 1995, pag. 14. Clicca per sfogliare o scaricare tutti i numeri dal sito dell’archivio Grafton 9.


Che dovessimo prima o poi incrociare Mariano era scritto, insomma.


Mariano è partito dall’illusionismo e ha ampliato sempre di più l’esplorazione, spostandosi ogni volta a un livello più alto, costantemente propulso da queste domande: cos’è «magia» oggi? Se «magico» è ciò che si distingue dall’ordinario, si staglia dal fondale del quotidiano e produce meraviglia, come mai è tanto raro vedere la magia associata alla contestazione dell’esistente, al pensiero critico sul mondo, alle prassi che aboliscono lo stato delle cose presenti? Perché le figure dell’illusionista e del mentalista sono il più delle volte intrise di superomismo e machismo e legate a un immaginario conservatore? Perché le «storie» – the narratives – che i maghi raccontano coi loro trucchi sono così frequentemente reazionarie?


Prendiamo ad esempio una storia che tutti conosciamo: un maschio vestito di tutto punto – abbigliato per ostentare potere – lega una donna seminuda, la chiude in una cassa, la sevizia e la sega in due senza che la vittima metta mai in discussione il proprio ruolo e la sorte che deve subire. È la rappresentazione acritica di un femminicidio. È il supplizio della Dalia Nera, ma prima del documentario di Mariano Donne a metà  ben pochi ci avevano fatto caso. E ben poche, cosa forse più grave. Che figata, una donna immobilizzata, infilzata da lame e segata in due! Applausi.


Nel suo documentario, Mariano rivela la matrice politica del trucco, proposto anche in minacciosa polemica contro le donne che lottavano per il diritto di voto, e dice: troppi maghi procedono con il pilota automatico, abbandonandosi ad automatismi sociali, a consuetudini mai messe in discussione, e non riflettono mai su quali potentissimi simboli stiano maneggiando in maniera irresponsabile.



Ponendosi questi problemi, e studiando percorsi di magia non conformista, Mariano è giunto al concetto di «Magic Experience Design» – che è al centro del suo libro più recente, L’arte di stupire, scritto insieme a Ferdinando Buscema - e poi a quello di «magia militante», che lo ha portato a coniugare prestidigitazione e lotta No Tav.


Alla base c’è la convinzione che la nuova magia non debba più svolgersi sul palcoscenico di un teatro o in uno studio televisivo. La nuova magia in realtà è una sorta di “performance art” che non ha più pareti intorno, il cui fine è far vedere da fuori l’ordito del mondo, cristallizzare in un momento di meraviglia una critica dei dispositivi e delle relazioni di potere in cui siamo avviluppati. Questo è molto vicino alla poetica del narrare che nel corso degli anni abbiamo sintetizzato in vari modi: «aprire l’officina», «mostrare la sutura» etc. La sfida è spiegare il trucco senza rinunciare alla meraviglia, anzi, cercando di indurre nuova meraviglia con la spiegazione del trucco. Tutto si sposta a un livello più alto, la contraddizione si acuisce, l’equilibrio è più difficile da mantenere, ma c’è il vantaggio che tutti devono essere più consapevoli, più vigili.


Ecco che la magia diventa anche critica della magia, come nella tecnica di montaggio e narrazione grazie a cui Mariano ci fa vedere con nuovi occhi il trucco della donna segata in due, illuminando la relazione di potere che fa apparire “normale” il femminicidio. E in un mondo fondato sulla disuguaglianza tra i generi il femminicidio è normale.

Femmicinidio è quando un uomo uccide una donna per un motivo legato al suo essere donna, perché andava «rimessa al suo posto», perché aveva osato rifiutare quell’uomo, aveva osato sfidarlo, o semplicemente – forse senza nemmeno accorgersene – aveva osato disattenderne le aspettative.

Femminicidio è quando l’uccisione di una donna serve a difendere o ribadire la disuguaglianza tra i generi.

Il femminicida non ha bisogno di razionalizzare questo movente, spesso non ne è nemmeno conscio: ci vive dentro, al movente, e non si è mai guardato da un «fuori».


Ai «negazionisti» che si arrampicano sugli specchi per smentire l’esistenza del femminicidio andrebbe chiesto: quante volte avete visto il trucco della donna segata in due a generi invertiti? Quante illusioniste esistono in proporzione ai colleghi maschi, e quante di loro hanno un «valletto» seminudo che possono seviziare, infilzare, squartare e segare a piacimento?


Questa è la magia «a un livello più alto» di Donne a metà: fae apparire all’improvviso un femminicidio prima invisibile.


In un puntuale intervento su adolescenti e violenza di genere che prende le mosse da Donne a metà, Federica Zangirolami ha scritto:


«Credo che la questione (letteralmente) di vita o di morte sia quella di non smettere di porsi delle domande, non dare nulla per scontato e non porsi acriticamente di fronte a ciò che ci viene raccontato, dai media ma anche dai nostri pari. Chi, prima di aver visto Donne a metà, aveva mai pensato di interpretare in chiave aggressiva un mago che mette in scena la donna tagliata a metà? Alla stessa stregua dovremmo domandarci cosa sfugge alla nostra vista, cosa ci siamo disabituati a vedere. Quali stereotipi ci guidano nel rapporto con l’altro sesso? Giustifichiamo gli atti violenti? Con quale motivazione? Legittimiamo l’uso della violenza dei nostri figli o alunni nei confronti degli altri? Abbiamo mai domandato loro come si comportano con l’altro sesso, cosa pensano delle molestie, delle prevaricazioni, della violenza?»


Proprio grazie al documentario abbiamo conosciuto Mariano. Pensandoci, è strano che non fosse entrato nel nostro radar molto prima.


A parlarci di lui per la prima volta è Loredana Lipperini. La sera del 2 novembre 2013 si passeggia e si chiacchiera per Bologna dopo la presentazione di Morti di fama, e a un certo punto Loredana dice a Wu Ming 1: – Ma voi lo conoscete Mariano Tomatis? Ah, non lo conoscete? Dovete conoscerlo, guarda che siete fratellini! – E si mette a parlare di Donne a metà e del libro appena uscito per Sperling & Kupfer, Te lo leggo nella mente.


E così Wu Ming 1 si guarda il documentario, resta a bocca aperta e lo consiglia agli altri WM, poi si divora Te lo leggo nella mente, e lo consiglia agli altri WM, poi si beve in un pomeriggio ROL: Realtà O Leggenda?, vertiginosa controinchiesta sul presunto sensitivo torinese, e nel frattempo anche gli altri WM hanno drizzato le antenne:

– Questo è il tizio che fa per noi!


Stavamo finendo la stesura de L’Armata dei Sonnambuli. Da anni ci occupavamo di mesmerismo e magnetismo animale, quindi di ipnosi, e quindi di suggestione, e quindi di mentalismo. Da tempo sentivamo l’esigenza di far leggere il libro in anteprima a un «esperto», per capire se le scene di mentalismo avessero coerenza narrativa e plausibilità scenica.

Nello scrivere quelle scene abbiamo camminato su lame di rasoi: le magnetizzazioni sono descritte alludendo sempre a qualcos’altro che in realtà sta succedendo. Tanto noi quanto il lettore di oggi sappiamo che non esiste il «fluido magnetico universale», quindi quando un personaggio ne «magnetizza» un altro o più altri, e quella «magnetizzazione» ha evidenti effetti, in realtà sta succedendo altro: suggestione, ipnosi «ericksoniana», pavlovismo sociale…? In realtà l’ altro che sta accadendovuole essere è un’allegoria aperta. Qualcuno ci ha letto una riflessione sul biopotere, o sulla manipolazione mediatica, o sui social network, o sulla psicanalisi, o tutto questo insieme. Il punto è che il fluido non c’è, nel romanzo non ci sono superpoteri, e le descrizioni del magnetismo sono sempre ambivalenti.

Così, ci è venuta l’idea di contattare Mariano e mandargli il libro, chiedendogli un parere da mentalista su quelle descrizioni.


E invece è stato lui a contattare noi, bruciandoci sul tempo! Ci ha scritto dicendo che aveva appena scritto un libro insieme a Buscema – L’arte di stupire – e gli sarebbe piaciuto farcelo leggere in anteprima, perché da poco aveva iniziato a seguirci e trovava diversi echi e parallelismi tra le rispettive riflessioni e attività.


Copertina de L'arte di stupire

A quel punto c’è stata la lettura incrociata e in anteprima dei due libri, che per combinazione avevano anche le stesse iniziali, LADS:


L

Armata / Arte

Dei / Di

Sonnambuli / Stupire.


Ma era solo l’inizio: nel loro libro, Mariano e Ferdinando avevano scritto della nuova magia che deve uscire dai teatri, e un personaggio de L’armata dei sonnambuli, Léo Modonnet, elucubra a lungo su cosa sia il nuovo teatro che che deve uscire dai teatri, perché il palcoscenico è per la strada, la Rivoluzione ha creato un nuovo pubblico etc. Capita così che nei due libri ci siano frasi molto simili.

Noi abbiamo scritto una breve nota per la quarta di copertina de L’arte di stupire:


«Dalla soglia invisibile di un museo delle meraviglie privo di pareti, Tomatis e Buscema indicano l’orizzonte e annunciano un nuovo mattino dei maghi. Quei maghi, ci dicono, non saranno un’élite: quei maghi saremo noi, noi tutti, nessuna casta sapienziale, nessun superuomo, magia al popolo! Fuori dagli spazi ristretti dei teatri e dei club, fuori dalla scatola sempre meno magica della TV, fuori dagli antri degli scuroveggenti e dei paragnosti figli di paragnosti, incanto e consapevolezza possono e devono unirsi, per arricchire di vita la vita, per danzare con undici gambe, per raccontare e far vivere storie con ogni mezzo necessario.»


Mariano ha fatto molto di più: non si è limitato a “vidimare” le scene di suggestione e mentalismo ne L’Armata dei Sonnambuli, ma ha proposto un intero catalogo di idee per la promozione del libro, per i suoi spin-off transmediali e per la sua prosecuzione «in 3D».


Quel che è accaduto dopo, beh, lo lasciamo raccontare a lui.



Te lo si conta io come incontrai Wu Ming

di Mariano Tomatis


Il 9 gennaio 2014 una troupe della BBC mi ha chiesto cosa pensassi di Wu Ming. Nel tempo di un tweet, ho lasciato un po’ spaesata la giornalista Lucy Ash, limitandomi a rispondere: «Sono maghi, per l’uso che fanno delle parole per evocare magia, cambiare la realtà, alterare le percezioni e mettere il mondo sotto-sopra.» Una risposta improvvisata e un po’ vaga, che merita una riflessione più ampia.


Magic in the Moonlight (2014), l’ultima commedia di Woody Allen, si apre nella Berlino del 1928. Il mago Wei Ling Soo sta facendo sparire un elefante tra gli applausi.


Fotogramma da

Wei Ling Soo nel film di Woody Allen, “Magic In The Moonlight” (2014).


Dal momento che il film si svolge quasi tutto nel sud della Francia, Marzia Gandolfi si è interrogata sullo strano incipit “tedesco”, cogliendo nel pachiderma qualcosa che sfugge a un primo sguardo; forse un riferimento obliquo al


collasso della Germania sotto i colpi della crisi e del nazismo. […] Magic in the Moonlight apre proprio sul ‘palcoscenico’ di Berlino e davanti a un pubblico che a breve non vedrà più l’elefante nella stanza perché sceglierà di ignorarlo, ignorando col pachiderma una tragedia evidente. Nemmeno la magia può volatilizzare un elefante e una verità, la sparizione è soltanto un’illusione prodotta da un prestigio, una rimozione dal campo visivo che prima o poi ricompare.


Non è il primo elefante in cui mi sono imbattuto in questi anni. Raccontando il mago Silvan – e per suo tramite la condizione dell’illusionista nel disincantato mondo moderno – Paolo Sorrentino rifletteva sul suo isolamento:


La solitudine è la sua unica compagna di lavoro. A quale collega telefoni quando non riesci a trovare il trucco per far scomparire un elefante?


Una dimensione che avevo sperimentato sulla pelle, ma in cui non volevo indulgere. È stato l’incontro con Wu Ming e la comunità di Giap a porre un freno a quello struggente (e un po’ patetico) autocompiacimento. Mi accorsi di aver accettato a lungo una definizione di “mago” troppo ristretta; al di fuori del perimetro dei “club magici” esistevano colleghi che studiavano la sparizione dell’elefante nel qui e ora, rifiutando lo stretto ambito del teatro. Ritrovai lo stesso animale tra le pagine di New Italian Epic di Wu Ming (qui), nell’ambito di una riflessione sul potere delle storie di inculcare visioni del mondo:


L’idea che molte persone siano vittime di un incantesimo malvagio ha origine dal nostro scontrarci, ogni giorno, con esempi del genere. Questa gente non ragiona, ci diciamo, ha la mente controllata da un potere superiore. Consoliamoci, perché non possiamo farci nulla: è colpa dei giornali, è colpa della televisione, è colpa dei farmaci e delle droghe. Niente di tutto questo. È il nostro cervello a funzionare così. Lo ha spiegato bene George Lakoff in un famoso aneddoto: se entri in una classe e ordini agli studenti: «Non pensate a un elefante», quelli subito ci penseranno, con tutto il contorno di grandi orecchie, proboscidi e zanne d’avorio. Negare un concetto attiva quel concetto nella testa delle persone.


Un discorso che mi ricordava le prime lezioni alla scuola di magia: mai e poi mai – di un mazzo di carte – bisogna dire al pubblico che “non è truccato”; excusatio non petita, la negazione inquina il pensiero e insinua sospetti.



In ogni gioco di prestigio c’è un elefante da nascondere: compito del mago è di rendere invisibile il trucco. Quali sono le migliori strategie – testuali, meccaniche, psicologiche – per farlo? Più ne esploravo le attività, più la Wu Ming Foundation mi appariva come un laboratorio permanente impegnato in una riflessione sistematica su questi temi. Ma se temi come la persuasione subliminale, la manipolazione delle menti e la comunicazione efficace evocano dispendiosi corsi in alberghi di lusso, curati da guru motivazionali innamorati del proprio ombelico, la comunità aggregata intorno al blog Giap bandiva i termini “esclusivo” ed “élitario” e dimostrava capacità (e profondità) di analisi per me fino ad allora inconcepibili. Le stesse tematiche erano affrontate in una prospettiva storica, politica e letteraria – dimensioni sconosciute ai sacerdoti del self help – e si allargava all’analisi della creazione di storie, della tecnicizzazione dei miti e della manipolazione delle narrative.


Di più, tanta analisi non contribuiva solo allo sviluppo dell’arte dell’inganno (alla base dell’attività di un mago) ma consentiva di interpretare dinamiche sociali e politiche che nulla avevano a che fare con l’intrattenimento: le strutture di potere rivelavano l’uso di tecniche persuasive tipiche dell’illusionismo; il populismo mostrava di alimentarsi delle stesse retoriche studiate a tavolino nei circoli magici (dettaglio colto alla perfezione dal Renzi-mentalista di Maurizio Crozza); gli uomini politici incarnavano l’archetipo dello sciamano («Curerò il cancro in tre anni!») per ammantarsi di un’aura la cui efficacia “performativa” è nota sin dall’antichità.


Bucchi su

Massimo Bucchi su “Repubblica”, 18.1.2014.


Chiusi nelle loro stanze (“ermetiche” nei due sensi) e gelosi dei propri trucchi, molti illusionisti non sfruttano l’opportunità di confrontarsi con il mondo della cultura e aprirsi a una “fertilizzazione reciproca”. La paura di farsi rubare i segreti impedisce loro di cogliere quanto gli stessi potrebbero giovarsi del contributo di chi opera fuori dalla cerchia degli illusionisti. A partire dai Wu Ming.


“Maghi” sui generis sin dall’epoca di Luther Blissett, le loro azioni sovversive potrebbero ispirare interi trattati di arte magica. L’illusionista e art performer Harry Kipper, sulle cui tracce “Chi l’ha visto?” sguinzagliò una troupe, era solo il frutto dell’immaginazione del collettivo bolognese, proprio come l’identità dell’enigmatico sensitivo Doctor Q. era stata creata ad arte dal mentalista americano Alexander Conlin per alimentare un’aura di mistero intorno ai suoi trattati.


Il Dr. Q ed Harry Kipper.

Due illusionisti fittizi. A sinistra il misterioso “Dr. Q”. A destra Harry Kipper.


Cosa ci faceva il mago Silvan sulla Rivista di guerra psichica e adunate sediziose di Luther Blissett (N. 0, aprile 1995, p. 14), definito “UN EROE” senza giri di parole? Non era intriso di magia Point Lenana (Einaudi 2013), l’oggetto narrativo non identificato di Wu Ming 1? E c’era una vaga risonanza tra la beffa di Satana a Viterbo (1995) di Luther Blissett e la mia beffa del Santo Graal (1996); tra le performance di Darko Maver e la fotografia farlocca di Pierre Plantard; tra l’interesse di Luther per la psicogeografia e il mio per le strampalate geometrie esoteriche di Rennes-le-Chateau.


Grazie all’intensa collaborazione avviata con loro un anno or sono – un’esplicita fertilizzazione incrociata, non priva di feconde contaminazioni reciproche – il mondo dell’illusionismo deve alla Wu Ming Foundation stimoli preziosi e letteralmente “inauditi”. Eccone alcuni.


Via lo sguardo dall’ombelico!


La risposta concorde alla controrivoluzione

La risposta concorde alla controrivoluzione al termine dell’Esercizio I, rispettivamente a Torino, Mantova e Carpi.


Presentandosi con un nome che non è un nome (“Wu Ming” significa “senza nome”) da sempre il collettivo bolognese sottolinea la maggiore importanza dell’opera rispetto all’artista individuale. Chiedere a un illusionista di tenere a bada l’Ego sembra un controsenso: come può il mago – incarnando una figura dai poteri superiori – accogliere l’invito a ridimensionare il proprio personaggio? Eppure collocare al centro lo spettatore e il suo stupore, mantenendosi ai margini dell’azione magica, è il “comandamento nuovo” di un filone illusionistico molto recente, cui io e Ferdinando Buscema abbiamo dedicato il libro L’arte di stupire (Sperling & Kupfer 2014). Scrivendo e mettendo in scena con Wu Ming il Laboratorio di magnetismo rivoluzionario, la parola d’ordine è stata quella di presentare L’armata dei sonnambuli con il contributo di un intero collettivo di illusionisti, nessuno dei quali doveva spiccare sugli altri. Nelle sue molteplici edizioni (Torino, Mantova, Carpi) si sono alternati prestigiatori diversi. Salvaguardando il nucleo della presentazione-spettacolo, il laboratorio ha dimostrato la possibilità di rendere “scalabile” uno show di magia, slegato dalle singole identità dei suoi protagonisti: tra la prima edizione torinese e la più recente a Brindisi (in versione circense) non c’è alcun protagonista in comune. E in alcune occasioni gli stessi Wu Ming hanno preso in mano la bacchetta magica, assumendo su di sé – per una volta in modo letterale – l’identità del mago da palcoscenico, confondendo ulteriormente il confine tra gli autori del romanzo e i suoi “prosecutori con altri mezzi”.


L’archivio e la strada


Il Laboratorio di Magnetismo Rivoluzionario è nato come prosecuzione transmediale de L’armata dei sonnambuli. Concepirlo ci ha imposto un’inedita riflessione sui rapporti tra romanzo storico e illusionismo. L’ispirazione è venuta dalla frattura avvenuta nel 1785 tra Nicolas Bergasse e Franz Anton Mesmer; dal drammatico scontro era nata una frangia eretica di magnetisti dietro i cui incontri si celavano intenti rivoluzionari (ben documentati da Robert Darnton). L’introduzione di un elemento di fantasia – i Cahiers de Magnetisme Révolutionnaire che avrei individuato a Lione – ci ha consentito di elaborare (e animare) un intero “mondo” in cui collocare ciascuna performance.


Cahiers de Magnetisme Révolutionnaire

Nicolas Bergasse, “Cahiers de Magnetisme Révolutionnaire” (Torino, Lione e Praga, 1804).


Ma se gli archivi hanno fornito un contesto verosimile, dovevamo estendere la riflessione alla seconda parte del binomio da sempre valorizzato dalla Wu Ming Foundation: la strada. Bando al clicktivism: ogni riflessione che resti sulla carta (o sul web) è morta. La scorsa primavera Luca Cientanni mi ha coinvolto come illusionista in una giornata di raccolta fondi organizzata a Bussoleno dal movimento No TAV. Il suo invito ha spalancato prospettive impensabili, costringendoci a riflettere sui (fino ad allora, potenziali) risvolti militanti dei giochi di prestigio: saremmo riusciti a concepire – e mettere in scena, of course! – una “magia No TAV”? Il Laboratorio di magnetismo rivoluzionario è sceso in strada il 26 aprile 2014 con l’aiuto di Alberto Perono Cacciafuoco, un illusionista di Bussoleno, e ha coinvolto decine di persone in esperimenti magici in tema con la lotta valsusina.


Alberto Perono Cacciafuoco

Alberto Perono Cacciafuoco durante il Laboratorio itinerante di Magnetismo Rivoluzionario di Bussoleno (26 aprile 2014).


Uno dei giochi mirava a rendere virale un volantino contro la linea ad alta velocità. Un altro era esplicitamente rivolto ai bambini. Battuta più volte nel corso dei mesi, la strada ha fino a oggi ispirato svariate “pillole magiche rivoluzionarie”:



Nina, la corsa a zig-zag e il movimento No TAV
Una magia per piccoli militanti No TAV
Novissima Oculistica Terapia di Allucinazione Visiva

Qualche mese prima – per scaldare i motori – avevo girato “Let the Poker free”, un video tutorial che insegna un gioco di prestigio a sostegno della liberazione di Chiara, Mattia, Claudio e Niccolò, i quattro attivisti No TAV in carcere con l’accusa di terrorismo.


Libri (magici) al popolo!


Il 28 ottobre 2014 con Wu Ming abbiamo assistito a Bologna alla conferenza di Robert Darnton “Libraries, the Internet, and the Future of Books”. Direttore della biblioteca di Harvard, lo storico statunitense ha illustrato gli sforzi compiuti per offrire un accesso libero e gratuito a migliaia di documenti disponibili in formato digitale. L’impresa, che gli è costata un lungo braccio di ferro contro colossi come Google e Amazon, è culminata un anno fa nella Digital Public Library of America, un gigantesco database di risorse digitali distribuite in tutti gli Stati Uniti.


Free-to-all

“Free-to-all”, iscrizione sulla Boston Public Library.


È stato L’armata dei sonnambuli a farmi conoscere Darnton, una delle principali fonti di ispirazione del romanzo dei Wu Ming, e il comune supporto all’idea di un libero accesso alla cultura mi ha fatto tornare a casa con un progetto preciso: quello di rendere disponibile un catalogo, continuamente aggiornato e annotato, di libri e documenti in formato digitale su illusionismo, mentalismo, mesmerismo, ipnosi e metapsichica – tutto ad accesso gratuito. Sparso su molti siti diversi, tale materiale è spesso difficile da individuare e consultare senza una guida. Grazie all’aiuto di Mauro Ballesio, oggi la “Biblioteca magica del popolo” è uno strumento a disposizione degli appassionati che vogliono approfondire storia e tecniche dell’illusionismo, senza la necessità di spendere cifre enormi nelle librerie antiquarie. L’archivio – il cui materiale supera oggi le 500 unità tra libri, articoli e documenti – testimonia un’inesauribile e appassionata ricerca di stupore dall’antichità ai giorni nostri.


Programmi e impulsi utopici


Se la rivoluzione si dovrà fare con ogni mezzo necessario, sottovalutare la bacchetta magica sarebbe un errore. Allargando lo sguardo oltre i confini dei circoli magici, gli illusionisti hanno scoperto intellettuali come Furio Jesi, Yves Citton (e gli stessi George Lakoff e Wu Ming), i cui contributi hanno un’enorme portata nel dibattito sul ruolo delle illusioni, delle storie e dei miti nel mondo contemporaneo. Durante l’edizione carpigiana del Laboratorio di magnetismo rivoluzionario abbiamo messo in scena un esplicito (e surreale) “spettacolo della goffaggine” che – mettendo in burletta la figura muscolare del mago – nasceva all’incrocio tra le riflessioni di Wu Ming 4 ne L’eroe imperfetto (Bompiani 2010) e quelle di Citton in Mitocrazia (Alegre 2013). Ma se il Laboratorio ha offerto l’occasione di concepire a tavolino un preciso “programma utopico”, in questi mesi abbiamo individuato “impulsi utopici” un po’ in tutto il mondo. Al mago svedese Arkadia basta piegare e spiegare il programma degli Sverige Demokraterna (“Democratici Svedesi”) per svelarne le quattro (inquietanti) parole d’ordine.


Alcune performance del duo Penn & Teller avrebbero entusiasmato Furio Jesi; in due numeri davvero sorprendenti (“Il gioco dei tre bussolotti”“L’uomo tagliato in tre”) gli illusionisti di Las Vegas svelano senza scrupoli il trucco utilizzato: contro ogni aspettativa, ciò non minaccia in alcun modo lo stupore dell’esibizione. Nella prima parte del numero l’appello è all’emozione e all’irrazionalità; la seconda invoca un piacere di segno opposto, del tutto razionale, che nasce dall’apprezzamento dei tecnicismi dietro la magia – quella “sutura” che nella prima parte non si scorgeva.


Penn & Teller

Chi dubita dei risvolti filosofici della magia si ricrederà davanti al contributo sovversivo e raffinato di Penn & Teller.


Le narrative teatrali dei maghi (e in primis dei mentalisti) possono essere tanto convincenti da produrre effetti di vera e propria fede nel paranormale. L’ideale sarebbe mantenere (come spettatori) e coltivare (come illusionisti) un equilibrio che metta insieme incanto e disincanto. Definire strategie che contribuiscano a tale bilanciamento è piuttosto complesso, e il tema è ampiamente dibattuto tra gli addetti ai lavori. Il problema se l’era già posto Furio Jesi, suggerendo di usare – per ogni mito di cui si voglia denunciare la genesi artificiale – l’arma dell’ironia. Ampliando l’analisi, Wu Ming 1 ha coniato l’espressione di “evidenziare la sutura” per definire un ottimo (e complementare) antidoto all’ipnosi incantatoria, potenzialmente indotta da qualunque narrativa fittizia.


La magia: un’arte marziale?


Tra le pagine de L’eroe imperfetto mi sono imbattuto nell’espressione “arte marziale” per definire la letteratura. Secondo le più recenti interpretazioni della sua figura, il prestigiatore non è che uno storyteller con gli effetti speciali. L’incontro tra queste due idee mi ha costretto a rileggere le storie dell’illusionismo in una nuova ottica, offrendomi un punto di vista che dava le vertigini. In questa prospettiva la magia può trascendere di gran lunga la semplice ricreazione. Concentrando il focus sullo stupore, l’illusionista può offrire agli spettatori una scintilla preziosa; violando le aspettative, costringendo a cambiare punto di vista e mettendo in scena l’incredibile, un gioco di prestigio ben calibrato può risvegliare dallo stato di sonnambulia e costringere ad aprire gli occhi su frammenti in ombra della realtà.


NOMA The Master Mystery

L’iconografia dei trucchi magici da palcoscenico abbonda di elementi gore – e sotto le lame c’è sempre una donna.


Non necessariamente stimoli del genere richiedono un’esibizione live. Il mio cortometraggio “Donne a metà” racconta la storia di una performance illusionistica vecchia di un secolo – la donna segata in due – per mostrarne le narrative implicite e incoraggiare uno sguardo più consapevole. “Magic for Palestine” individua nella tecnica del deja-vu uno strumento potente nell’arsenale di un prestigiatore. “Magia e rivoluzione” ritrae l’illusionista più importante della mia vita, il cui unico strumento magico è stata l’inversione della narrativa dominante.


E se Nicolas Bergasse fosse stato vivo oggi, avrebbe certamente sfruttato la Rete per diffondere i suoi esercizi rivoluzionari; due secoli più tardi, ci abbiamo pensato noi a realizzare i videotutorial su YouTube che avrebbe firmato lui.


Magia militante e mainstream


Il 9 maggio 2014, prima di una presentazione congiunta a Bologna, Wu Ming 1 mi ha portato a vedere il murales di Blu sul centro sociale Xm24. Quella del writer bolognese gli era parsa una vicenda del tutto allineata alla concezione di stupore cui facevo riferimento nel libro L’arte di stupire: una meraviglia non fine a se stessa, ma con precisi risvolti politici. Qualche mese più tardi la storia mi è sembrata perfetta per il palcoscenico di WIRED 2014, l’evento londinese cui sono stato invitato a intervenire come illusionista il 16 ottobre 2014. La vicenda mostrava il meccanismo fondamentale alla base di quello che con Wu Ming avevamo battezzato “magnetismo rivoluzionario”. Fulcro dell’azione di Blu — che con la sua opera aveva salvato dalla distruzione la struttura bolognese — era il “gigantismo stuporoso” utilizzato per paralizzare psicologicamente il nemico. La tecnica ha una controparte oscura nello “Shock and Awe”, la dottrina militare teorizzata durante l’attacco sull’Iraq, in nome della quale la messa in campo di una forza bellica spropositata servì per annientare — anche e soprattutto dal punto di vista psicologico — il nemico.


Durante la mia magic lecture “How magic can be the elixir of life” (rivedila qui | guarda dietro le quinte) ho commentato l’imponente opera di Blu facendo riferimento all’ultimo film di Sorrentino: «Questa è La grande bellezza di cui andiamo orgogliosi in Italia.»


Per definire questa forma insolita di illusionismo, gli organizzatori dell’evento hanno scritto sul mio badge “Militant Magic”: una definizione ambiziosa, per onorare la quale dovevo evidenziare la capacità dello stupore di portare a galla il conflitto e raccontare gli ultimi. Ho preparato il pubblico al finale del mio intervento citando una nota (e cinica) battuta sul genere umano: «La cosa più difficile da spiegare a un uomo vissuto 50 anni fa? In tasca ho un dispositivo con cui potrei accedere all’intero scibile umano e lo uso per guardare fotografie di gatti.» La risata che ne è seguita non si è ripetuta quando ho raccontato della migrante siriana che ha portato a bordo di un barcone un gatto, conquistando così (e solo così) l’attenzione di tutti i quotidiani: in sala è calato il gelo, e a quella temperatura ho potuto “somministrare” l’ultima regola – quella che invitava a usare la meraviglia per fottere il Sistema.


Hack the system with oddballs

“Fotti, ehm… manometti il sistema con le stranezze”


Qualche mese prima, a Mountain View (California), Google mi aveva invitato a esibirmi nel suo quartier generale e lì avevo presentato uno degli esercizi di magnetismo rivoluzionario – “Distinti ma concordi” – intitolandolo “L’esperimento di mesmerismo più veloce e divertente del mondo”.


@marianotomatis questo è l'hangout più obliquo nella recente ma già densa storia del romanzo! #ArmatadeiSonnambuli #SilvanInLasVegas


— Wu Ming Foundation (@Wu_Ming_Foundt) August 9, 2014




Oggetti narrativi non identificati


wm11Gli spettatori del Laboratorio di Magnetismo di Torino e Mantova hanno trovato, nel foyer dei rispettivi teatri, il playbill dell’evento: un libretto souvenir illustrato, ispirato a quelli in vendita a Broadway, contenente foto di scena, la biografia degli autori, la presentazione dello spettacolo e i suoi retroscena. Per farne un oggetto narrativo ancora più spiazzante, e dal momento che accompagnava uno spettacolo di illusionismo, lo abbiamo strutturato (anche) come una collezione di giochi di prestigio interattivi; le cinque storie raccontate riprendono i cinque atti in cui è suddiviso lo spettacolo e coinvolgono il lettore in altrettanti “esercizi” di magnetismo che può sperimentare a distanza, limitandosi a seguire le istruzioni sul libro. Il playbill può essere scaricato nelle due versioni: Torino 6 maggio 2014 | Mantova 5 settembre 2014.


Il 21 settembre 2014 un secondo playbill, declinato in chiave di guida turistica, manuale di debunking ufologico e riflessione sull’arte di stupire, ha accompagnato la Camminata spirituale sul Monte Musinè, che in origine avrebbe dovuto condurre Wu Ming 1 ma che, in seguito a un infortunio, è stata assegnata a me. La presenza di diversi Giapster, l’escursione preparatoria di due settimane prima e la scelta delle storie per accompagnare l’ascesa ha collocato l’evento nel contesto dell’Alpinismo Molotov, una delle più recenti e oblique associazioni nate nell’ambito della Wu Ming Foundation. Il playbill escursionistico può essere scaricato da qui.


Circo! (paragrafo a cura di Wu Ming 2)


Il Piccolo Circo Magnetico Libertario (PCML) nasce dall’incontro tra Giacomo Costantini, Mariano Tomatis e Wu Ming 2. L’idea è quella di innestare giocolieri e acrobati nel già collaudato Laboratorio di Magnetismo Rivoluzionario, così da ottenere una presentazione-spettacolo de L’Armata dei Sonnambuli che possa calcare la pista di un circo.

Questa pazza miscela di letture, musica, illusioni, funamboli & magie doveva debuttare il 6 novembre scorso, a Brindisi, sotto il tendone del Circo El Grito, con il nome-ombrello di Laboratorio Circense di Magnetismo Rivoluzionario. Poi, all’ultimo momento, l’improvvisa defezione di Mariano ha portato a un’ulteriore rimescolamento degli ingredienti. Wu Ming 2 si è lanciato in alcuni numeri di magnetismo rivoluzionario – tra i quali la Novissima Oftalmo Terapia con Allucinazioni Percettive (NO TAP) – mentre Giacomo e Fabiana Ruiz Diaz si sono fatti aiutare nei loro numeri dall’artista e clown cileno Gon Alarcon e da Timoteo Grignani alla batteria.

La serata ha visto la partecipazione di 200 spettatori, con le tribune dello chapiteau riempite di un pubblico molto vario: il bello del circo, infatti, è che non ci sono né porte né scale all’ingresso. Entrare sotto il tendone è più facile che sedersi in un teatro o in una libreria, eppure, una volta dentro, si rimane catturati, presi da una bolla narrativa che nessuno spazio all’aperto riesce a riprodurre.

Per questo motivo, Fabiana, Giacomo, Gon e WM2 hanno deciso di riproporre il PCML, con l’aggiunta di Robert Tiso al cristallofono, sorta di organo fatto di bicchieri, antenato fai-da-te della glassharmonica, lo strumento – inventato da Benjamin Franklin – che Franz Anton Mesmer faceva suonare in sottofondo alle sue sedute magnetiche.

Lo spettacolo si terrà a Roma, il 27 e 28 dicembre, h. 21, sempre sotto il tendone del Circo El Grito, già montato in questi giorni di fronte all’Auditorium Parco della Musica, per la prima edizione di ECCÌ! El Grito Christmas Circus – Festival di Circo Contemporaneo Italiano. Dal momento che i posti sono limitati, consigliamo di prenotarsi.

Info, numeri e contatti si trovano qui.


Europe’s Troublemakers, 19.2.2014.


Marzia Gandolfi, “Una comédie au champagne, dove si accetta il soccorso dell’illusione delle immagini, dei giochi di prestigio e di qualche nota jazz sul nero”, MyMovies, novembre 2014.


Paolo Sorrentino, Tony Pagoda e i suoi amici, Feltrinelli, Milano 2012.


George Lakoff, Non pensare all’elefante!, Fusi orari, Roma 2007.


 “[Luther] Blissett usò il nome di uno dei fondatori del progetto, l’ex punk Harry Kipper, quando sguinzagliò le troupe di “Chi l’ha visto?” sulle tracce di un presunto illusionista inglese – mister Kipper, appunto – scomparso nel nulla: e non in circostanze normali, ma mentre tracciava la parola ART in mountain bike, nel Nord Italia. Disparve sulla T, grossomodo a Udine.” in Loredana Lipperini, “La beffa firmata da Luther Blissett”, Repubblica.


 Ad esempio in Claude Alexander Conlin, The life and mysteries of the celebrated dr. Q, Nelson Enterprises, Columbus, 1946 (I ed. 1921).


Mémoires de J.-P. Brissot (Vol. 2), Perroud, Parigi 1911, p. 54 cit. in Robert Darnton, Il mesmerismo e il tramonto dei lumi, Medusa, Milano 2005, p. 79. L’estratto si trova anche sul Playbill del Laboratorio di Magnetismo Rivoluzionario del 6 maggio 2014 a Torino.


L’intero lavoro è descritto nei dettagli in Mariano Tomatis, “Il Laboratorio di magnetismo rivoluzionario”, Blog of Wonders, 23.6.2014.


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Published on December 04, 2014 07:02

December 3, 2014

Da oggi in libreria «Il derby del bambino morto» di Valerio Marchi #QuintoTipo

La libreria Rebel Storie fondata da Valerio in via dei Volsci 41, S. Lorenzo, Roma.

La libreria Rebel Storie fondata da Valerio in via dei Volsci 41, S. Lorenzo, Roma.


Oggi, due settimane dopo Diario di zona di Luigi Chiarella (Yamunin), arriva “nelle migliori librerie” il secondo titolo della collana Quinto Tipo diretta da Wu Ming 1, ovvero torna in libreria Il derby del bambino morto di Valerio Marchi (1955 – 2006).


Non si tratta solo di una riedizione ma di un vero e proprio aggiornamento a cura di Claudio Dionesalvi e Wu Ming 5.  Tante persone si sono impegnate perché questo libro importante, attualissimo e necessario tornasse a circolare. Tra tutte, qui ringraziamo Emanuela Del Frate.


In questo post vi proponiamo un estratto del primo capitolo, carrellata storica e sociologica sulle tensioni legate al derby Roma – Lazio.


Ricordiamo che è possibile abbonarsi ai primi quattro titoli della collana. L’abbonamento costa 45 euro, quindi lo sconto è superiore al 30%. Puoi pagare con PayPal…





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…oppure puoi farlo tramite bonifico bancario a questo Iban: IT68I0569603215000003459X60, o fare un versamento con bollettino postale sul ccp n. 6538238 (con oggetto “Abbonamento Quinto Tipo”), entrambi intestati a Edizioni Alegre soc. cooperativa giornalistica, Circonvallazione Casilina 72/74 00176 Roma.


Ovviamente, dal sito di Alegre è possibile comprare, senza abbonamento ma comunque con il 15% di sconto, ciascuno dei libri della collana.



Copertina de Il derby del bambino morto


Innanzitutto è tensione. La città non parla d’altro, un esorcismo di massa per acquietare il senso di ansiosa attesa, di speranza e di timore, che il derby porta in sé.

Nei giorni che precedono la partita lo avverti in chiunque, anche se per motivi differenti. Nel popolo dell’Olimpico come in quello di Sky Tv, in chi odia il calcio e sa che ne sarà subissato e in chi semplicemente teme il disordine, il traffico, la violenza. La stampa locale sforna pagine, la forza pubblica flette i muscoli.

Il derby strappa l’anima alla città e la strizza per un lungo istante.


Si dice che questo clima sia frutto della storica mediocrità delle due società, della supremazia cittadina vissuta come unico traguardo possibile in stagioni spesso fallimentari. Alla consueta tensione da derby si andrebbe a sommare l’ansia indotta dall’equivalente di una finale, un’andata-ritorno che può valere un intero campionato.

Pur presentando elementi di verità – la possibilità di raggiungere traguardi extra-cittadini può mitigare in alcuni il tormento – questa lettura “provinciale” cozza però con la storia stessa del calcio romano e delle sue radicate faziosità.


Già dal primo incontro (campo della Rondinella, 8 dicembre 1929, Lazio-Roma 0-1) i dirigenti laziali dovettero infatti portare i loro giocatori in ritiro ai Castelli, «onde non farli condizionare dall’atmosfera caldissima che si respirava nella capitale». Inoltre le autorità, temendo incidenti, tennero il giorno prima della partita un vertice in cui si decise di schierare seicento uomini tra polizia, carabinieri e volontari della milizia.

A suscitare i timori dei gerarchi era di certo il temperamento sanguigno dei popolani romanisti, che tra parentesi tenne ben lontani dallo stadio i borghesi laziali, ma soprattutto la possibilità che schiamazzi e turbolenze potessero turbare l’immagine – diremmo oggi – della città-vetrina del regime.

Il clima cittadino, insomma, era già allora accesissimo.


Derby Lazio - Roma, campionato 1929 - 1930, subito prima della partita.

Derby Lazio – Roma, 8 dicembre 1929, subito prima della partita.


E già allora la rivalità sociale e culturale, oltre che calcistica, tra le due tifoserie – una radicata nelle enclave borghesi della zona nord e l’altra nei rioni ancora popolari del centro storico, in quelli operai del boom edilizio umbertino e nei ghetti delle estreme periferie – non restava limitata alle consuete forme dello sberleffo quotidiano o domenicale.

Il 24 maggio del 1931, per esempio, in un Lazio-Roma disputato allo stadio Nazionale, la turbolenza del pubblico conquista l’attenzione della stampa:


«L’arbitro ha appena fischiato la fine che vediamo giocatori laziali e romanisti alle prese; accorrono dirigenti a separarli e accorre anche la folla che stazionava sulla pista; la confusione è grande e ad accrescerla sopravviene l’invasione di campo da parte del pubblico. La forza pubblica ha un gran da fare per sgomberare il terreno di gioco e vi riesce solo dopo molti stenti e senza aver potuto impedire molte colluttazioni non precisamente verbali.»


Per la cronaca, a entrambe le società viene squalificato il campo per una giornata: la Lazio perché gioca in casa e la Roma per «le gravi responsabilità della sua tifoseria».

Che intorno al calcio, alle due squadre cittadine, al derby si avverta uno stato di tensione, traspare, sempre nel 1931, anche dalla denuncia di un avvocato sul


«malvezzo che da qualche tempo va dilagando nell’ambiente sportivo della capitale: le telefonate anonime. Insulti triviali contro la Roma o contro la Lazio, spesso raccolti da donne e da bambini in assenza di genitori. Mascalzonate!».


L’utilizzo del telefono, all’epoca ancora socialmente limitato, si tinge nella denuncia del solerte avvocato di tinte teppistiche che cozzano con la conclamata asserzione di un “tifo” come malattia di matrice strettamente

popolare.


Un anonimo fondo della metà degli anni Trenta, che riporto – per dirla in termini calcistici – in ampia sintesi, sembra confermare l’ansia sociale che già in quei primi anni di dispute circonda il derby. Linguaggio arcaico a parte, potrebbe essere dei nostri giorni:


«Ci viene segnalato da più parti un caso increscioso, avvenuto domenica scorsa a campo Testaccio durante e in fine della partita tra i pulcini della Roma e della Lazio. Una parte del pubblico ha inveito con le più basse e triviali espressioni contro i piccoli azzurri […] Quei ragazzini sarebbero stati fatti bersaglio anche di qualche […] proiettilino a portata di mano. Persino la gentile signora di uno dei più attivi dirigenti laziali è stata svillaneggiata e insultata […] Giunte le cose a un punto simile, è necessario parlare alto e ben chiaro.

È notorio, senza tema di smentita, come nella grande, entusiasta, educata, sportivissima massa di tifosi che segue la Roma si sia da qualche tempo infiltrata una minoranza tumultuosa di mascalzoni, che macchiano con il loro contegno teppistico il buon nome della gloriosa società romana.

Crediamo perciò di gettare un buon seme rivolgendoci ai dirigenti della Roma, invitandoli a intervenire con energia per un’eliminazione severa dalle scalee del Testaccio degli elementi indesiderabili. Essi sono pochi, sempre gli stessi,

e con molta facilità individuabili […] una minoranza fuori della legge che sbava solo livori e provocazioni […] Testaccio deve essere ripulito presto. Non sarà difficile, volendo.»


La realtà del derby romano, oltre i ricordi un po’ bonari della tendenza “Il bel tempo che fu”, sono dunque le continue scazzottate sugli spalti, ma soprattutto il clima di tensione e attesa che coinvolge l’intera città, a cui i giornali contribuiscono da par loro “pompando” a dovere l’avvenimento.

Nei derby del 24 maggio 1931 e del 21 febbraio 1937, ad esempio, ci si inizia a picchiare prima tra giocatori e quindi tra tifosi nel frattempo scesi in campo.

La polizia stenta non poco in entrambe le occasioni a ristabilire il perturbato ordine.


Da quei lontani anni d’anteguerra in tema di derby è cambiato quasi tutto, ovvero quasi niente. Sono scomparse le differenze socio-culturali tra le due tifoserie che continuano imperterrite a odiarsi e disconoscersi, le due società si sono dotate di moderni centri sportivi ma hanno perso la propria casa-stadio; l’odore dell’Olimpico non sarà mai quello di campo Testaccio, ma a controllare la baracca sono sempre le stesse società. Il calcio nel suo insieme è divenuto una fogna, ma non è che l’esterno, il mondo reale, profumi di rosa.

Di nuovo, almeno rispetto ad allora, c’è da un lato la comparsa sugli spalti dello stadio della cultura ultras e dall’altro il ruolo totalitario assunto nel soccer dal sistema televisivo; di antico, ma ormai a livelli di densità e spessore allarmanti, la coltre d’ansia che ammanta l’intera società, e che nelle cento sfaccettature del sistemacalcio trova contemporaneamente impulso e sfogo.

A partire dal 1973 la cultura ultras muta la geografia dello stadio. Dopo una lunga e sempre più violenta serie di scontri, l’11 marzo 1973 i tifosi laziali vengono infatti… [Prosegui la lettura]


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Published on December 03, 2014 02:48

December 2, 2014

#Evola: fermare il virus!

Julius EvolaSincronicità. Abbiamo ricevuto questo appello poco prima delle ultime notizie che stanno mettendo in subbuglio vasti ambienti della destra romana, “post”-fascista e neofascista, istituzionale e “di sottobosco”. Arresti, perquisizioni, imputazioni per associazione mafiosa… Indagato anche l’ex-sindaco Gianni Alemanno.


L’operazione della Procura di Roma, secondo i giornali, si chiama «Terra di Mezzo». Il riferimento tolkieniano ci è subito risuonato alle orecchie: da anni lavoriamo per smontare la strumentalizzazione di J.R.R. Tolkien fatta dall’estrema destra “nostrana”, soprattutto romana, e più precisamente di derivazione “evoliana”. Per dire, uno dei sedicenti massimi “esperti” di Tolkien è segretario della Fondazione Julius Evola.

Ribadiamo che è un unicum in tutto il pianeta: solo in Italia Tolkien era finito in simili luoghi. Quando lo racconti all’estero strabuzzano gli occhi.


Perché l’operazione della Procura contro fasciomafiosi di vario calibro porta l’allusivo nome di «Terra di Mezzo»?

Forse solo perché sonda una “terra di mezzo” tra (post-)fascismo e criminalità organizzata, connubio che peraltro non è una novità? Oppure c’è dell’altro, un riferimento più preciso? Ci sono “fans del Tolkien in salsa Evola” tra gli arrestati e i semplici inquisiti? Plausibilissimo. Lo stesso Alemanno è uso citare a tutto spiano brani del Signore degli Anelli. E alcuni dei nomi usciti sui media sono a un solo grado di separazione – al massimo due – dal “pensatore” razzista e antisemita. Persino nell’immaginario pop: pensiamo a quel Massimo Carminati che ha ispirato “il Nero” di Romanzo criminale, ex-discepolo di Evola.


Sincronicità, si diceva. Proprio mentre rimuginavamo su tutto questo, ci è arrivato – quanto mai attuale – il testo sul “virus Evola” che pubblichiamo sotto. Ce l’ha mandato uno degli autori, Enrico Manera, che i lettori di questo blog ben conoscono. Il lavoro di Enrico su Furio Jesi è stato molto utile anche per la decostruzione del “Tolkien evoliano” propinato in Italia.


È in corso da anni un tentativo di “ripulitura” e riabilitazione della figura e del pensiero razzista di Evola. Tentativo che trova terreno fertile nella fase che stiamo vivendo, durante la quale si moltiplicano conflitti “diversivi” contro capri espiatori non certo nuovi (migranti, Rom e Sinti ecc.) e le destre xenofobe europee fanno con rinnovato vigore lo sporco lavoro di sempre: deviare le proteste, fomentare guerre tra poveri, confondere gli sfruttati, salvare il sistema da conflitti reali che ne minerebbero le basi.


Prima di augurarvi buona lettura, ricordiamo una frase di Alemanno del settembre 2012: «Un’oscura maledizione pesa sulla regione Lazio». Noi l’abbiamo anche spiegato, da dove inizia. E abbiamo predetto che avrebbe continuato a colpire la destra “post”-fascista di Roma e provincia. Di questo racconto-realtà (la “maledizione abissina” di Affile) abbiamo parlato il 27 aprile 2013 alla European Resistance Assembly di Correggio (RE), l’audio dell’intervento è qui, c’è anche la traduzione consecutiva in tedesco, il tutto dura un’ora e venticinque minuti.

Nuovi modi di raccontare la Resistenza – WM1 & WM2 a Correggio, feat. Lidia Menapace

Nuovi modi di raccontare la Resistenza – WM1 & WM2 a Correggio, feat. Lidia Menapace


E ora, davvero, buona lettura.


Aggiornamento. Qualche ora dopo, sui giornali l’operazione era chiamata non più «Terra di Mezzo», ma «Mondo di Mezzo». Il riferimento resta comunque “tolkieniano”, preso dalla cosmogonia norrena a cui Tolkien si ispirò.



Chi fu Julius Evola e quale virus diffonde chi lo celebra

«Ma qui vale attirare l’attenzione anche sull’opera distruttrice che l’ebraismo, così come secondo le disposizioni dei “Protocolli”, ha effettuata nel campo propriamente culturale, protetto dai tabù della Scienza, dell’Arte, del Pensiero. E’ ebreo Freud, la cui teoria s’intende a ridurre la vita interiore ad istinti e forze inconscie, o a convenzioni e repressioni; lo è Einstein, col quale è venuto di moda il “relativismo”; […] lo è lo Stirner, il padre dell’anarchismo integrale e lo sono Debussy […], Schönberg e Mahler, principali esponenti di una musica della decadenza. Ebreo è Tzara, creatore del dadaismo, limite estremo della disgregazione della cosidetta arte d’avanguardia, e così sono ebrei Reinach e molti esponenti della cosiddetta scuola sociologica, cui è propria una degradante interpretazione delle antiche religioni.»


Julius Evola, Introduzione a I “Protocolli” dei “Savi Anziani” di Sion, (terza edizione, 26°- 35° migliaio), La Vita Italiana, Roma 1938 (datata settembre 1937), pp. XXV-XXVI


Stanno accadendo alcune cose in un contesto molto specifico della cultura italiana, apparentemente marginale e poco rilevante, che sono però sintomatiche e forse paradigmatiche di alcuni processi culturali in corso nella nostra società.


In una lettera redatta in inglese e inviata alle mailing list della European Association for the Study of Religion (EASR), sigla che include il gotha della storia delle religioni europea, un professore italiano, vicepresidente di quella stessa associazione e membro del consiglio direttivo dell’organizzazione federata italiana (SISR), pubblicizza un convegno dedicato all’«eredità» culturale di un noto esoterista, fascista e propagandista antisemita italiano del secolo scorso: Julius Evola (1898-1974). Nel testo della mail si accredita Evola come studioso di calibro, autore di pubblicazioni notevoli nel campo della storia delle religioni, e si invita alla rivalutazione del suo lavoro senza animosità né pregiudizi, per assegnargli finalmente il posto che merita nella storia della storiografia. L’intento dichiarato è quello di riabilitare accademicamente e scientificamente le opere dedicate alle religioni e al religioso di un pensatore fascista.


Chi promuoveva e organizzava il convegno


Per comprendere il tipo di operazione che si è svolta a Roma il 29 novembre scorso, è utile fornire qualche informazione sul contesto in cui si è celebrato il convegno. Patrocinato da un folto gruppo di logge massoniche, l’incontro è organizzato da un centro studi sulle «scienze ermetiche» che nel la sua « mission », improntata alla tolleranza universale e a un umanesimo spiritualizzante, menziona per ben due volte l’intento di affratellare le diverse «razze umane». La presentazione del convegno è affidata a un cerimoniere dai titoli altisonanti che si diffonde sul valore culturale del pensiero evoliano «a prescindere dai suoi presunti [sic] orientamenti politici, più o meno condivisibili [sic]». L’opacità di questa breve e retorica contestualizzazione della figura di Evola nella storia italiana risulta evidente al lettore esperto. Last but not least , il convegno è organizzato in collaborazione con la Fondazione Julius Evola, un ente notoriamente lontano dall’interrogazione critica del pensiero dell’eroe cui è dedicata.


Intendiamoci: in un regime democratico e liberale un’operazione del genere è legittima, nella misura in cui, entro i limiti di legge, chiunque può studiare ciò che vuole e organizzare simposi anche stravaganti . In questo caso, un problema serio di opportunità si pone, però, se tra i relatori figurano diversi docenti di discipline differenti che insegnano nelle università italiane. Non per nulla l’iniziativa, pubblicizzata nell’ambito degli studi religionistici, ha scatenato un putiferio presso la comunità scientifica internazionale informata dell’evento. L’autore di un importante volume sullo studio della religione in ambito accademico sotto il fascismo interbellico ha immediatamente risposto censurando una riabilitazione mascherata da interesse storico-storiografico, additandone la continuità con alcuni passati tentativi “alchemici” di filtraggio dello studioso serio dall’ideologo fascista e antisemita e richiamando al carattere esausto (oltre che molesto) di questo genere di iniziative.


Altre mail sono seguite, più o meno ostili all’iniziativa: alcune, tra cui un paio provenienti da studiosi di fama e calibro mondiali, gridano apertamente allo scandalo, altre cercano di gettare acqua sul fuoco, altre ancora mostrano di condividere l’atteggiamento metodologico difensivo per cui si tratta di saper distinguere il valore (scientifico e culturale) dell’opera dall’eventuale disvalore dell’uomo. Il parallelo apologetico, prevedibile quanto ormai logoro, con le vicissitudini politiche di Martin Heidegger e Carl Schmitt è stato puntualmente utilizzato dall’estensore della lettera iniziale.


Lo scambio epistolare elettronico si fa a questo punto articolato e complesso, ma la questione che ci sentiamo di sollevare concerne la situazione storico-culturale in cui questo episodio si inscrive e di cui è al tempo stesso sintomo e paradigma. Durante il lungo ventennio berlusconiano, nell’accademia italiana si sono aperte le porte della redenzione al pensiero pseudoscientifico, pseudostoriografico e antimodernista: un processo sottilmente revanscista che ha accompagnato le ben più crasse riabilitazioni promosse o tollerate dai governi di centro-destra. In pratica, ciò che prima non poteva essere messo per iscritto perché svergognatamente ideologico, è stato possibile dirlo e farlo passare come rispettabile risultato di una volenterosa pratica storiografica. Nella storia delle religioni italiana si è assistito così all’ingresso prepotente di ogni sorta di infiltrazione metafisica, filoesoterica e perennialista: una paradossale reazione contro quell’unica accademia europea che aveva da sempre coerentemente sviluppato ed espresso i corretti anticorpi storicisti contro le prospettive ermeneutico-fenomenologiche destrorse, irradiantisi dalla figura controversa di uno studioso pur importante e significativo come il romeno Mircea Eliade.


Ma torniamo all’oggetto dello scandalo. Chi è Julius Evola?


Stravaganze di Google

Stravaganze di Google. Come si vede, abbiamo cercato «Evola» e basta. Sarà che molti ispanofoni latinoamericani digitano il nome del virus confondendo – com’è normale dalle loro parti – la b e la v, e quindi il nome «Evola» è frequentemente associato all’epidemia. Ad ogni modo, visti i molti sottotesti (nemmeno troppo “sotto”!) razzistici dell’informazione sull’allarme-Ebola (allarme divenuto ben presto cavallo di battaglia di fascisti e leghisti), l’accostamento risulta fecondo di “sguardi obliqui” su entrambi gli argomenti e perciò produttivo di senso.


Nato a Roma nel 1898, ha una educazione filosofica ed estetica tipica per il periodo e un’attività giovanile di pittura dadaista. Ufficiale nella Grande guerra, è turbato dai cambiamenti dovuti all’impatto della società di massa su quello che restava dell’ancien régime europeo. Nel dopoguerra arriva l’“illuminazione” con la scoperta di uno spiritualismo di marca indoeuropea che si associa alla speculazione filosofica del più spinto irrazionalismo tedesco. In Teoria e fenomenologia dell’individuo assoluto, 1927-1930 compaiono gli elementi caratteristici del suo pensiero: una sintesi di metafisica ottocentesca, esoterismo e spiritualismo. Frequenta circoli mistico-magici, collabora con riviste del settore («Ultra», «Ignis», «Atanor»). Interessato al fascismo italiano e alla romanità, ne critica la vicinanza con il cattolicesimo (1928, Imperialismo pagano ), per poi fondare la rivista «La Torre», votata a un fascismo eroico e aristocratico. Apprezzato in Germania, Evola non farà breccia nella profana, essoterica e provinciale mentalità fascista, per poi venire riscoperto dal neofascismo esoterico post-bellico.


Per tutti gli anni Trenta si dedica a ricerche sul mondo dei simboli, sullo spiritualismo, sull’alchimia e pubblica su riviste del fascismo intransigente e antisemita («La Vita Italiana» e «Il Regime Fascista » ) articoli legati a una visione del mondo antiborghese e cavalleresca. Nel 1934 pubblica Rivolta contro il mondo moderno , nel 1937 Il mito del sangue , nel 1941 Sintesi di dottrina della razza . Nel 1938 in Romania incontra, ammirato, Corneliu Codreanu, leader della Guardia di ferro, il movimento paramilitare fascista cristiano integralista, violentemente antisemita, dedicato all’arcangelo Michele.


Dopo la scoppio della guerra chiede di partire volontario a combattere contro l’Unione sovietica, ma non viene arruolato. Nel 1943, in Germania, sarebbe tra i pochi italiani che ricevono Mussolini liberato dal Gran Sasso. C ollaboratore del Sichereitsdienst (SD), il servizio di sicurezza delle SS, aderisce alla RSI su posizioni aristocratiche e reazionarie. Vive le ultime fasi della guerra come lo scontro dei custodi della “Tradizione” e dello “Spirito” occidentale contro le forze materialiste e corrotte delle odiate democrazie europee e dei partigiani attivi nei movimenti di liberazione.


In seguito a un bombardamento su Vienna rimane paralizzato agli arti inferiori. Tornato a Roma trova lo spirito legionario per sostenere ideologicamente i movimenti della destra italiana con il testo Orientamenti (1950), pubblicato sulla rivista Imperium . Nei documenti giudiziari è indicato come il “padre spirituale” del gruppo che sotto il nome di Far (Fasci di azione rivoluzionaria-Legione nera) nei primi anni cinquanta mette a segno attentati dinamitardi nella capitale: tra i personaggi coinvolti figurano noti rappresentanti dell’Msi. Il 1953 è l’anno del fondamentale Gli uomini e le rovine , in cui trovano posto i consolidati concetti di tradizione, gerarchia e diseguaglianza. Di fronte a una modernità che erode le fondamenta e distrugge l’ordine sociale, il credo politico esposto consiste nella restaurazione di un ordine tradizionale e gerarchico per mano del soldato politico in piedi tra le rovine del mondo occidentale. Dopo Cavalcare la tigre (1961), nel 1963 pubblica Il Fascismo visto dalla Destra , in cui attribuisce al fascismo il merito di aver rivitalizzato antichi simboli e di aver teorizzato un nuovo tipo di uomo. A partire dal 1968 verrà venerato da giovani discepoli, che riconoscono in lui un “Maestro” (e che ne sono ancora oggi i divulgatori). Nel 1974, dopo ulteriori difficoltà cardiache, muore a Roma.


Dopo la morte, Evola è rimasto punto di riferimento costante per tutte le realtà della destra radicale. Nel 1998 il suo centenario è stato riccamente celebrato dall’intera destra italiana: libri, mostre, convegni, centinaia di pagine web sono a lui dedicati. È un autore di culto anche per l’euroasiatismo ed è di interesse per alcuni ambienti di fondamentalismo islamico.


Tutto questo è, in estrema sintesi, l’Evola uomo, pensatore e mito politico che un certo bipolarismo metodologico, ricorrente nelle scienze umane, vorrebbe separare dallo studioso di religione/i con il cordone sanitario della bibliografia promossa, citata, edita e riedita in genere dagli stessi impresari del suo successo. Ma chi è l’Evola storico delle religioni?


Nella sua opera si trovano soggetti e principi espressi dal perennialismo esoterico di René Guénon (cicli storici, crisi della modernità, simbolismo) che appaiono estremizzati e politicizzati in direzione di un differenza qualitativa tra mondo moderno e mondo tradizionale. Quest’ultimo è caratterizzato dalla dimensione spirituale: come tale non è affrontabile con i concetti validi nel consueto spazio-tempo e dunque non può essere adeguatamente studiato con il metodo storico. Laddove autorevoli storici delle idee sostengono che il pensiero evoliano non abbia prodotto nulla di significativo in termini di conoscenza e guadagno scientifici , chi ne raccoglie l’eredità invece esalta il valore delle varie monografie su argomenti come ermetismo, tantra, buddhismo, taoismo, alchimia, Sacro Graal.


Ora, Evola certamente conosceva la vasta produzione letteraria in materia tra ‘800 e ‘900. Nella sua opera si trovano continui riferimenti ai miti di una età aurea, di una “Tradizione” primordiale, di Iperborea, di Atlantide e in particolare di una civiltà nordica portatrice di una superiore spiritualità “maschile” e “solare”, contrapposta a tratti “femminili” e “lunari” di rango inferiore. La spiritualità nordica è per lui espressione della razza “aria”, aristocratica e guerriera, «dello spirito», un argomento che si affianca all’esaltazione di un modello sapienziale “eroico”: da qui il valore sacrale degli archetipi e dell’azione, la centralità degli aspetti magici del reale e il fascino per i presunti poteri paranormali esperibili dai più “elevati” spiritualmente.


Tali dati relativi a un sapere ermetico ed erudito non avevano pertinenza storico-storiografica rispetto ai criteri standard dei termini: si tratta piuttosto di veri e propri “materiali mitologici”, su cui la storia della storiografia ha effettivamente e legittimamente molto da dire e da indagare, per mettere in luce i pregiudizi ideologici e gli interessi pratici degli autori che se ne occupavano, come su Evola è stato fatto da studi storici solidi e documentati, non suscettibili di fascinazione per l’oggetto della loro ricerca. Il punto che intendiamo sottolineare è che proprio nei lavori dell’Evola “storico delle religioni” si produce – a detta dei suoi stessi apologeti – una “rottura di livello” sul piano ermeneutico, che non può essere accettata senza problemi da chi non ne condivida i presupposti metafisici. Evola deve essere cioè considerato a partire da un “neo- paganesimo” teorizzato, creduto e, per così dire, “praticato”. I suoi lavori tradiscono infatti una chiara intenzione pragmatica, cioè una funzione indistinguibile dalla riflessione politica e dal razzismo nel segno della rivoluzione conservatrice. Sono appunto quegli studi che, violando i principi elementari dell’epistemologia scientifica dell’antropologia e della storia, ne hanno fatto un punto di riferimento per il neofascismo e le destre radicali; e da questo punto di vista è noto come la teoria evoliana dell’azione abbia influenzato i protagonisti dell’eversione “nera” nella storia politica italiana.


Come tutto questo, se anche fosse possibile prescindere dal nazismo e dall’antisemitismo di Evola, sia compatibile con uno studio scientifico della religione, è davvero per noi un mistero. Non lo è invece il fatto che la storia delle religioni italiana attraversa da anni una profonda crisi, teorica e metodologica: zavorrata da simili ipoteche – responsabili di un tentativo di indottrinamento all’apprezzamento del paranormale, del sovrannaturale e persino delle ideologie di destra estremista – la ricerca accademica in chiave localistica e antiscientifica ha raggiunto livelli di retroguardia allarmanti.


Se torniamo al nostro scambio di lettere iniziale e lo prendiamo come segnale di un incendio, vediamo ora chiaramente che qui è in corso un tentativo di ammantare di rispettabilità scientifica uno dei principali esponenti del fascismo e dell’antisemitismo del secondo dopoguerra da parte di docenti delle università di stato, alcuni dei quali sono anche rappresentanti di importanti associazioni di settore e tradiscono rapporti di promiscuità intellettuale con controverse figure dell’estrema destra nostrana. Questi intellettuali, che come tutti gli accademici sono anche responsabili dell’avanzamento delle carriere e dell’accreditamento di giovani ricercatori , insegnano, fanno didattica, propagano idee: formano cervelli e persone. In quanto studiosi, crediamo che l’università sia costituita in primo luogo dalle comunità di ricerca che vi lavorano e dagli studenti che la popolano, pagano le rette e meritano di accedere a un sapere critico, intellettualmente onesto, fondato scientificamente ed epistemologicamente, ancorato ai valori costituzionali e antifascisti della Repubblica italiana.


A fronte di tutto questo, riteniamo che l’episodio che viene qui raccontato sia molto grave e tale da sollecitare il mondo accademico italiano, in primis i docenti afferenti al settore disciplinare direttamente coinvolto, a prendere posizione con sollecitudine e forza, perché l’istituzione universitaria non risulti più compromessa con iniziative para-scientifiche di analoga ­ambiguità.


Il testo, espressione del comune sentire di un gruppo di lavoro di studiosi di differenti discipline storiche, è stato redatto con il contributo di Roberto Alciati, Leonardo Ambasciano, Luca Arcari, Sergio Botta, Francesco Cassata, Cristiana Facchini, Enrico Manera, Emiliano Rubens Urciuoli.


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Published on December 02, 2014 04:28

Wu Ming 4's Blog

Wu Ming 4
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