Wu Ming 4's Blog, page 98

November 11, 2014

#QuintoTipo. Una collana diretta da Wu Ming 1 per le Edizioni Alegre

Copertina di Diario di zona

Il primo titolo di Quinto Tipo. Progetto grafico di Alessio Melandri. Clicca per aprire la coper6tina completa (fronte, retro, alette). Pdf.


Quinto Tipo è una nuova collana delle Edizioni Alegre e al tempo stesso un nuovo progetto della Wu Ming Foundation.


Che cos’è la Wu Ming Foundation?


A lungo «Wu Ming Foundation» è stato solo un nome: quello del nostro sito e quello esteso del nostro collettivo. Ma sin dall’inizio del nostro percorso, la nostra prospettiva era di farne un network che andasse oltre noi quattro/cinque.

Oggi questo network esiste, una costellazione che tiene insieme diversi ambiti e progetti:

Giap, che da tempo è qualcosa di più di un blog;

le comunità giapster, le mailing list e i gruppi di lavoro nati da discussioni svoltesi qui sopra (se ne parla qui, e intanto continuano a formarsene, il primissimo fu il gruppo di “lettori volontari” noto come iQuindici, quando Giap era ancora una newsletter);

i laboratori di smontaggio delle narrazioni tossiche che abbiamo chiamato Wu Ming Lab e stiamo tenendo in tutta Italia;

la punk-rock band Wu Ming Contingent;

i vari collettivi musicali dei quali fanno parte membri del collettivo Wu Ming e che portano in tour per l’Italia i reading/concerti elencati nella colonna destra di questo blog (Cvasi Ming, Funambolique/WM1, Contradamerla/WM2, FridaX/WM2, il Razza Partigiana combo);

l’associazione sovversiva a fini escursionistici Alpinismo Molotov;


E adesso, Quinto Tipo.


Quinto Tipo è una collana diretta da Wu Ming 1.


Il 19 novembre arriverà in libreria il primo titolo, Diario di zona di Luigi Chiarella, noto qui su Giap e su Twitter con il nickname «Yamunin».


Il secondo titolo uscirà il 3 dicembre. Si tratta della nuova edizione de Il derby del bambino morto di Valerio Marchi, con premessa di WM5 e aggiornamento di Claudio Dionesalvi.


È possibile abbonarsi ai primi quattro titoli della collana. L’abbonamento costa 45 euro, quindi lo sconto è superiore al 30%. Puoi pagare con PayPal…





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…oppure puoi farlo tramite bonifico bancario a questo Iban: IT68I0569603215000003459X60, o fare un versamento con bollettino postale sul ccp n. 6538238 (con oggetto “Abbonamento Quinto Tipo”), entrambi intestati a Edizioni Alegre soc. cooperativa giornalistica, Circonvallazione Casilina 72/74 00176 Roma.


Ovviamente, dal sito di Alegre è possibile comprare, senza abbonamento ma comunque con il 15% di sconto, ciascuno dei libri della collana.


Ecco il “trailer” di Quinto Tipo e, di seguito, la presentazione della collana scritta da WM1, stampata nella parte interna della copertina dei primi tre libri.



QUINTO TIPO

Del «quinto tipo», in ufologia, sono gli incontri ravvicinati dove avviene una comunicazione diretta, bidirezionale e collaborativa fra terrestri e intelligenze aliene, in seguito a una consapevole iniziativa da parte terrestre. Se cerchi un oggetto volante non-identificato, lo avvisti, gli mandi un segnale, ottieni una risposta e si stabilisce un contatto, siamo già nel quinto tipo.


Il quinto tipo non è previsto dalla «Scala di Hynek», che arriva solo al terzo. L’etichetta è entrata in uso più di recente e non tutti gli ufologi sono d’accordo sulla sua necessità, ma a noi che importa? Mica siamo ufologi.


Il «quinto tipo» ci piace come metafora. Noi vorremmo cercare e avvistare oggetti narrativi non-identificati, mandare segnali, stabilire un contatto con le intelligenze aliene al mainstream che li hanno prodotti, e se possibile cooperare per pubblicarli.


Non ci interessano gli UFO (o magari sì, dipende), ma gli UNO. Unidentified Narrative Objects.


Cosa sono gli «oggetti narrativi non-identificati»? C’è bisogno di un’espressione del genere?


Non più di quanto vi sia bisogno di «incontri ravvicinati del quinto tipo». Ma ancora: che ce ne frega a noi? Usiamo le metafore che ci pare, e quando non ci parrà più, passeremo ad altre. Per il momento, questa ci serve ancora. Soprattutto, per dare il nome alla collana.


Ma non abbiamo risposto alla prima domanda: cosa sono gli oggetti narrativi non-identificati?


Se lo sapessimo, non li chiameremmo «non-identificati».

Eppure tentativi di identificarli ce ne sono stati tanti…


«Non-fiction novel».

«Creative non-fiction».

«Reportage narrativo».

«Faction».

«Docufiction».

«Docudrama».

«Mockumentary».

È solo un piccolo campione di locuzioni – alcune ormai «storiche», altre più recenti – usate per indicare narrazioni ibride, nate in una «terra di nessuno» tra i reticolati dei generi, dei macrogeneri e delle tipologie testuali. Terra di nessuno che attraversa tutto il mondo ed è frequentata da sempre più autori – scrittori, registi, videomaker, ma anche giornalisti, storici, antropologi etc. – che vogliono raccontare le loro storie con ogni mezzo necessario.


Se la «contaminazione tra i generi» è ormai faccenda pleonastica, ovvia e realizzata in partenza anche nel più piatto mainstream (in parole povere: anche Dan Brown «contamina i generi»), la distruzione delle cornici, premessa all’ibridazione delle tipologie testuali – saggio/romanzo, guida turistica/inchiesta militante, biografia/mappa, reportage/videogame and so on - può ancora avere effetti perturbanti. La collisione tra le più disparate tecniche e retoriche usate in diversi tipi di testo (narrativi, poetici, espositivi, argomentativi, descrittivi) sprigiona una grande potenza. Potenza che investe da direzioni inattese i temi affrontati e – grazie a numerosi slittamenti negli approcci e nei punti di vista – incoraggia la (ri)scoperta di un mondo


Non è un caso se buona parte dei libri che hanno fatto discutere negli ultimi anni vengono da quella terra di nessuno, dalla quale hanno preso le mosse seguendo ciascuno la propria peculiare traiettoria. Il «gradiente» di ibridazione è variabile: si va da Maximum City di Suketu Mehta a Nell’aria sottile e Nelle terre estreme di Jon Kracauer, da Limonov di Emuanuel Carrère a HHhH di Laurent Binet fino a Z. La guerra dei Narcos di Diego Enrique Osorno. E quanti titoli (anche letterariamente) sorprendenti sono usciti nel calderone della «varia»? Open di André Agassi, per dirne uno. Il mondo senza di noi di Alan Weisman, per dirne un altro. In Italia si va da Gomorra di Roberto Saviano ad Amianto di Alberto Prunetti, da L’aspra stagione di De Lorenzis e Favale all’inchiesta-memoriale-romanzo I buoni di Luca Rastello, già autore – con Andrea De Benedetti – di Binario morto, travelogue/inchiesta sull’alta velocità ferroviaria.


Quel che che accadde in Italia vent’anni fa con la riscoperta della letteratura «di genere» (spinta propulsiva oggi in larga parte esaurita, si vedano il sempre più decotto «noir all’italiana» e le condizioni pietose in cui versa il romanzo storico), oggi potrebbe accadere con gli «oggetti narrativi non-identificati».


Una tradizione è qualcosa che si sceglie, in primis una tradizione rivoluzionaria, e va rivendicato il carattere distintamente italiano di questa «non-fiction creativa». La storia della letteratura italiana è in larga parte una storia di non-fiction scritta con tecniche letterarie, o di ibridazione tra fiction e non-fiction. Molti dei «classici» nostrani non sono romanzi, ma memoriali, trattati, autobiografie, investigazioni storiche, elzeviri impazziti, miscele dei più svariati elementi: la Vita nova, Il Principe, la Vita dell’Alfieri, lo Zibaldone di pensieri, la Storia della Colonna Infame, Se questo è un uomo, Un anno sull’altipiano, Cristo si è fermato a Eboli, Kaputt, La pelle, Il mondo dei vinti, Esperienze pastorali, Scritti corsari, La scomparsa di Majorana, L’affaire Moro… Se la «non-fiction creativa» di oggi può essere percepita come più perturbante e azzardata, è perché le opere appena elencate sono da tempo nel canone. All’epoca in cui furono scritte erano azzardate anch’esse, e comunque inetichettabili.


Da anni, insieme ai miei compagni nel collettivo Wu Ming o lungo tragitti più personali, mi interrogo sull’attitudine e le tecniche necessarie per produrre narrazioni ad alto o altissimo gradiente di ibridazione.


La chiave è proprio nel motto «con ogni mezzo necessario». «Necessario» esclude «superfluo» e «fine a se stesso». Necessario è ogni mezzo che consenta alla narrazione di rimanere tale, senza sbordare e diventare un mero cut-up o una poltiglia di sintagmi. L’ibridazione dev’essere al servizio della storia che si vuole raccontare, deve porsi come obiettivi l’efficacia, l’empatia, la condivisione, e illuminare l’esemplarità di una o più vicende umane.


Ho sperimentato intensamente nella terra di nessuno. Al momento, il risultato più avanzato di questo sperimentare è il libro Point Lenana, che ho scritto insieme a Roberto Santachiara. Un lavoro di anni, durante i quali abbiamo dovuto risolvere problemi di vario tipo, a volte veri e propri rompicapi: questioni di etica del raccontare, di montaggio, di stile, di registro, di chiarezza. Per risolverli, ho guardato a chi ne aveva risolti di simili prima di me. Sono «andato a scuola» dagli autori del New Journalism americano, dai documentaristi, dai romanzieri letti nel corso degli anni, dagli storici più apprezzati per la loro chiarezza.


Sono uscito da quel lavoro con qualche idea sull’arsenale di prassi e tecniche che si possono usare, con alcuni spunti sul rapporto tra ibridazione e «infinitezza dell’archivio» nell’epoca della rete e dei cosiddetti Big Data, e soprattutto con un’accresciuta voglia di gettare ponti, stabilire contatti, tagliare reticolati per far entrare nuovi singoli e gruppi nella terra di nessuno.


Copertina de Il derby del bambino morto

Il secondo titolo di Quinto Tipo. In libreria dal 3 dicembre. Clicca per aprire la copertina completa (pdf).


La proposta di Alegre – la «direzione» di una collana, che messa così è altisonante ma si tratta di proporre libri e seguirne la pubblicazione – è venuta dopo alcune mie consulenze editoriali, una delle quali ha portato alla seconda edizione aggiornata e ulteriormente ibridata di Amianto di Prunetti. Si tratta di proseguire con piglio più deciso in quella direzione, con una continuità di esplorazione e di approccio.


Una delle linee-guida sarà: di tutto tranne i romanzi. Nel senso dei – come vogliamo chiamarli? – «romanzi-romanzi».


Figurarsi se posso avere qualcosa contro i romanzi, dopo mezza vita passata a scriverli. E mi guardo bene dal riproporre l’insensata lagna sulla «morte del romanzo»! Alla larga! No, il punto è un altro: i romanzi-romanzi hanno già tanti canali e tanti sbocchi editoriali possibili. Qui vorremmo concentrarci su altro.


Dopodiché, quello del romanzo è un canone inclusivo, addirittura fagocitante. L’UNO di oggi potrà essere chiamato «romanzo» domani. Ma domani, appunto.


Oggi cerchiamo oggetti alieni.


Perché la definizione può non piacere, e può darsi non fosse strettamente necessaria, ma ne sono convinto: gli «incontri ravvicinati del quinto tipo» sono possibili.


Wu Ming 1, ottobre 2014

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Published on November 11, 2014 12:20

November 9, 2014

«Stramonio», di Alberto Prunetti. L’uomo-cinghiale, una storia vera. #ArmatadeiSonnambuli

Wolfman



«…Ha così notato la figura imponente di un essere che non aveva movenze umane, bensì bestiali, e i cui versi assomigliavano a quelli di un cinghiale ferito – o forse “in calore”.»

(Annette Anthus in L’armata dei sonnambuli, p. 223)



[L’episodio di licantropia raccontato da Wu Ming ne L’armata dei sonnambuli mi ha colpito perché ha riportato a galla il ricordo di un caso molto simile occorso a un amico in Toscana. Ve lo racconto. AP]
Uno. Le voci

Martino: «Non ricordo troppo, devi chiedere alla mia compagna. Sono rimasto nel bosco per una settimana.»


Daniela: «No, sarà stato via per due-tre giorni, al massimo quattro.»


Martino: «Mi sono preparato per mesi e mesi, non avrei bevuto il decotto di fiore di stramonio senza preparazione. 5 milligrammi di fiore che mi hanno fatto deragliare. Ho sfiorato la dose massima per il mio peso. Oltre non sarei tornato indietro. Ci lasciavo le penne. I fiori sono più leggeri ma le radici e i semi possono rovinarti. Forse ho solo sbagliato a fare lo stramonio in un momento di tensione emotiva molto forte. È stato anche un modo per sfidarmi. O torni o ci lasci le bucce. Ma qualcosa doveva cambiare.»


Daniela: «Ha sempre fatto queste cose senza preoccuparsi troppo delle conseguenze».


Martino: «Dopo, odiavo gli spazi domestici. Ricordo il senso di gioia quando tornavo nel bosco, l’umidità. Non gioia. La parola giusta era “sollievo”. Dovevo spogliarmi, togliermi di dosso i vestiti. Dice Daniela che quando comparivo avevo molti graffi. Avevo anche rametti intrigati ai peli del petto. Ricordo il piacere di sfregarmi contro gli arbusti, di sfregarmi il terriccio del sottobosco contro la pelle.»


Daniela: «Era trasformato, fisicamente. Aveva i muscoli… era un toro. Lui non è così forte, lo sai… ma in quei giorni… aveva i muscoli gonfi, segnati da vene che sembravano dover scoppiare da un momento all’altro… e poi era costantemente eccitato.. voglio dire, eretto.» (risate).


Martino: «Per quel che ho letto, lo stramonio, o meglio, la scopolamina, che è l’alcaloide contenuto nei fiori e soprattutto nei semi e nelle radici della pianta, aumenta la circolazione sanguigna periferica. Questo induce l’erezione continua. Al tempo stesso, forse mi spingeva a una certa esasperazione nervosa. Dovevo continuamente muovermi. E poi all’improvviso però mi addormentavo.»


Daniela: «Non stava troppo fermo, soprattutto la notte. Sentivo il bosco, con la bambina, dalla finestra, continuamente rivoltato, frugato da questa presenza. Le dicevo, tranquilla, è il babbo. Ogni tanto urlava. Faceva paura, si muoveva continuamente, come un animale selvatico, un cinghiale che spostava le frasche e frugava la terra.»


Martino: «Si, nel bosco ero attivo, Ho anche camminato molto. Dovevo liberare questa forza, i muscoli sempre tesi… Poi mi sdraiavo di colpo per terra per dormire… Perché tante cose non le ricordo.»


Daniela: «Facevi versi strani.»


Martino: «Ma non è vero che ululavo, come raccontano tutti…»


Daniela: «Ululavi, ululavi. Non proprio come un cane… Ma insomma… Erano grugniti. E poi quegli occhi neri…»


Martino: «Macché, occhi neri… avrò avuto le pupille un po’ ingrossate.»


Due. Il racconto

Il fiore della Datura Stramonium


Martino un tempo sarebbe stato scambiato per un licantropo. Lo avrebbero legato, gli avrebbero fatto un esorcismo. O forse oggi sarebbe stato sottoposto a un trattamento sanitario obbligatorio.


In realtà Martino è un grande conoscitore di erbe e dei loro principi attivi. Ama curarsi con le piante e esplorare le loro proprietà. Vive in una casa colonica a un tiro di schioppo da un bosco di cerri, di lecci e castagni. Ha un orto e raccoglie piante officinali. Coltiva anche menta, rabarbaro, citronella, calendula, melissa, oltre ovviamente a rosmarino, lavanda, timo, salvia, origano e tante altre specie vegetali commestibili. È un botanico dilettante e appassionato, con la tendenza a fare esperimenti con gli usi radicali delle erbe, domestiche e selvatiche, utilizzando se stesso come cavia. In effetti con la cura dei limoni e il tarassaco riesce a depurarsi il fegato dagli effetti nocivi di stagioni di aperol. Quanto all’intestino, lo libera con l’aloe arborescens, di cui coltiva svariati esemplari. Estrae il gel di notte, lo mescola con miele e la grappa e infila il composto in frigo. Una volta ha esagerato con la dose o con la percentuale di aloe: ne ha assunto tre cucchiai per die per poi trascorrere due giorni al cesso, a evacuare l’anima, depurandosi di ogni vizio.


Martino cammina per i boschi. Conosce i funghi e riesce anche a mangiare quelli più velenosi, dopo avergli fatto buttare l’acqua tossica. I suoi risotti con le erbe selvatiche e i funghi sono rinomati. E sono celebri anche le insalate d’erbacce e fiori eduli, di cui vanta la commestibilità.


Martino osserva da quand’era piccolo la natura e sostiene di potersi curare e alimentare con quel che trova nei campi di maggese e nei boschi. È un forager, un moderno gatherer. Una volta, mentre parliamo seri di politica, lo vedo slanciarsi in aria chiudendo le mani a coppa proprio sopra la mia testa. Penso che stia per darmi un biscotto sulla fronte. Poi urla: «Il cervus!» Socchiude le mani e mi fa vedere un enorme coleottero. La gente intorno si allontana spaventata: lui lo studia un poco, poi gli dà la via.


Un giorno dei vicini hanno chiesto il suo aiuto. I loro cavalli sono impazziti. Galoppano, scartano di lato quasi avessero allucinazioni, si lanciano contro le filagne di castagno. Martino studia le piante del pascolo dei quadrupedi. Nel grande recinto trova una pianta selvatica di stramonio, con grosse campanule. Datura stramonium. L’erba del diavolo. Prepara per i cavalli un pastone di semi di lino bolliti, perché si spurghino. Ed estirpa le piante di stramonio. Dopo un paio di giorni i cavalli pascolano placidi.


Pochi giorni dopo Martino, sul finire dell’estate, scompare di casa. La moglie è preoccupata. Torna dopo qualche ora, seminudo. Si infila nella cantina dove tiene le erbacce, poi beve dell’acqua e se ne va. La notte non torna. La compagna non sa cosa fare. Strano è strano, passa intere giornate nei boschi a cercare piante, a volte anche scampoli lunghi delle ore notturne. L’auto non si è mossa, deve essere attorno casa. A metà nottata Martino torna. Si fa annunciare da alcune urla. Quasi degli ululati. Si presenta nudo, sporco di foglie avviluppate ai peli lunghi del petto, esibendo un’imbarazzante erezione. I capelli bianchi sono sconvolti e pieni di legnetti, impastati col terriccio. E gli occhi sono lacrimosi, con le pupille enormi. La moglie rimane allibita ma ha smesso da tempo di farsi sorprendere dalle bizzarrie di Martino. Pensa: meno male che la bimba è a letto. Martino torna in cantina, beve dell’acqua verdastra e si allontana di nuovo nel bosco.


Martino ha bevuto un decotto di fiori di stramonio. L’erba del diavolo. Quella che un tempo regalava alle donne che conservavano i segreti della fitoterapia poteri straordinari, che le rendevano invise ai preti. Streghe, le chiamavano, perché riuscivano a sollevare con le mani ciocchi di legna ardente dai bracieri. Si bruciavano ma non se ne rendevano conto, perché lo stramonio agisce sui centri nervosi e può rendere insensibili al dolore.


A Martino lo stramonio dà un altro problema. Un’erezione continua e dolorosa. Si masturba nella speranza che quelle energie si liberino, che la parte di negatività che ha accumulato in anni di lavoro, di civiltà, di doveri sociali, esca da qualche parte dal suo corpo. Magari dal nerbo. Si masturba nel bosco, a ripetizione, ma il sollievo dura pochi minuti. Dopo un po’ l’erezione si ripresenta. Sta meglio solo quando all’improvviso si addormenta, quando si distende tra le foglie di cerro, cosa che fa quasi continuamente. Poi al risveglio sente un dolore atroce allo stomaco. E una voglia di bere ancora quel decotto diabolico. Allora torna in cantina. È preoccupato perché sa che è un ciclo che fornisce dipendenza: il dolore allo stomaco passa con una nuova assunzione, che però induce l’erezione e un nuovo dolore, al pene. Allora si masturba periodicamente ma il sangue gli defluisce dal nerbo solo quando lo stomaco ricomincia a fargli male, ovvero quando l’organismo chiede altro stramonio. Gli alcaloidi come la scopolamina possono indurre una qualche forma di dipendenza.


La compagna di Martino lo vede spuntare dal bosco. È il terzo giorno che vive nei boschi. Martino dei boschi, è diventato ormai. Adesso è un animale selvaggio, un uomo abominevole delle macchie. L’uomo-cinghiale. Sporco di terriccio, con una mano che impugna il pene eretto quasi fosse un timone che garantisce equilibrio e direzione, Martino punta la casa attaccato al suo membro come a un manubrio. Sembra un rabdomante. L’acqua e lo stramonio. Ma in quella casa le amiche di sua figlia stanno festeggiando un compleanno. Quindici anni. Lo spettacolo di un uomo lupo che procede nudo ed eccitato è tutto quello che la compagna di Martino non vuole regalare alla festeggiata. La donna si guarda attorno. C’è il mobiletto per la raccolta differenziata del vetro. Impugna una bottiglia vuota e la scaglia contro lo Yeti. Poi un’altra. Poi un’altra ancora.


Martino dei boschi


Martino torna nel bosco, respinto. Continua a masturbarsi, poi sente salire il dolore alla pancia. Stavolta non ha potuto bere il decotto di fiori di stramonio. Sente dolore, l’organismo chiede ancora la solanacea delle streghe. Poi si addormenta. Ormai ha fatto un letto di foglie nel bosco. Ha scavato, rimuovendo le foglie. Ha smosso l’humus per sentire un fondo morbido. Si sdraia sul terriccio, poi ricopre le membra nude di foglie di cerro e di ghiande di leccio. Finalmente dorme.


A un certo punto ha un sussulto. Un fruscio, un’ombra, un peso sullo stomaco. Qualcosa è passato sopra di lui! Si spaventa, esce da quel letto primitivista con un salto improvviso. Un riccio lo fissa incuriosito e poi scappa nelle profondità del bosco. Forse si è spaventato anche il riccio: si chiederà su che strano animale è passato. A Martino viene da ridere, per quella strana sveglia. L’erezione è scomparsa. E anche il mal di pancia.


Martino torna a casa. Le adolescenti sono andate via. La figlia è a letto. La compagna pure.


Per tre giorni l’uomo selvaggio non è andato a lavorare, non ha fatto la spesa al supermercato, non ha ascoltato i telegiornali.


Ha mangiato le bacche del corbezzolo e le trombette di morto, i funghi neri che crescono vicino alle carbonaie. Ha raccolto i frutti tardivi di un susino selvatico e le mele dure di un cotogno. E ha bevuto l’acqua della fontana di un borgo, dando scandalo agli ospiti americani di un bed and breakfast.


Per tre giorni, Martino, compagno licantropo, hai ululato al vento e alla luna il rifiuto di una civiltà addomesticata.


Tre. L’epilogo

Due amici nel bosco


«Vedrai che non è difficile trovarla.» Cammino con Martino da quindici minuti lungo un sentiero che attraversa i boschi e lui ha già raccolto un cestino, colmandolo di erbe che a un occhio poco esperto possono sembrare «erbacce». «Che frittata ci facciamo, dopo, con queste e le uova delle tue galline.»


Ancora pochi passi che si stampano sul fondo umido del terreno.


«Ecco, qua in genere la intravedo ogni anno. I semi si sparpagliano in zona e rispunta. Guarda, guarda, eccola!» Mi indica una pianta alta una trentina di centimetri, con grosse foglie frastagliate. Ha un aspetto un po’ patito. Siamo a fine stagione ma un mese fa doveva essere più forte. Non ha il fiore, non c’è la campanula, ma noto un piccolo portaseme, un bozzolo, una capsula spinosa verde dall’aria ostile, pericolosa. Segnala agli animali che toccare fa male. Fa male alle labbra e fa male al fegato. «I semi ti ammazzano e anche le radici». E i fiori non ci sono. «Lascia perdere.»


Guardo le foglie, sono tutte bucherellate.


«Martino», gli dico, «sembrano mangiate come la mia insalata».


«Si, devono averle mangiate le lumache».


E a quel punto ci scambiamo un’occhiata ammiccante. Ma d’istinto ci guardiamo subito le spalle. Vuoi che dietro di noi non ci siano dei lumaconi mannari, turgidi, eccitati e selvatici?


«Rientriamo?», gli dico.


Postilla – di Wu Ming

«Alla domanda se a suo dire tale comportamento sia provocato da un qualche evento scatenante, la Jaranton ha pensato a lungo e alla fine ha risposto che tempo addietro, prima del manifestarsi degli attacchi di satiriasi, il marito avrebbe incontrato un medico itinerante, di nome Eloisius, il quale gli avrebbe consigliato un rimedio per le emorroidi che lo affliggono.»

(L’Armata dei Sonnambuli, pag. 224)



«La seconda domanda di D’Amblanc fu tesa a scoprire in che consistesse tale rimedio, vale a dire una pomata. Il buon Bernard si era fatto rifilare una crema tanto nauseabonda quanto inutile da un ciarlatano come ve n’erano tanti. Vagabondi che giravano per le campagne approfittando della credulità popolare e grattavano qualche risparmio ai contadini spacciando loro finti toccasana per ogni male.»

(L’Armata dei Sonnambuli, pag. 225)



«Stramònio = lat. stramonium.

Pianta della fam. delle solanee, con steli vuoti, ramosi e un poco pelosi, foglie liscie, angolose e con lunghi pezioli, frutti eretti ed ovati, comune ne’ luoghi umidi. Ha fetido odore [...]»

Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana di Ottorino Pianigiani, 1907 – digitalizzato nel 2002 da Francesco Bonomi e consultabile on line.



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Published on November 09, 2014 05:35

November 4, 2014

#Renziscappa. Note su ‘enzi come comunicatore e sullo stato del ‘enzismo

Renzi si prepara un piano B.

Renzi alle prese col piano B.


Raduniamo e riportiamo qui su Giap alcune considerazioni fatte su Twitter nelle ultime ore.



Chiamiamolo ‘enzi. R e maiuscola reverenziale lasciamole a Repubblica e Rivoluzione.


— Wu Ming Foundation (@Wu_Ming_Foundt) November 3, 2014




Questo di @matteorenzi è un tweet disastroso: sbagliati il framing, le parole, le immagini che restano: RENZI – POTERI FORTI – PAURA.


— Wu Ming Foundation (@Wu_Ming_Foundt) November 3, 2014




O @matteorenzi ha uno staff in piena confusione, o – probabilissimo – se li scrive da solo e devono togliergli di mano il furbofono.


— Wu Ming Foundation (@Wu_Ming_Foundt) November 3, 2014




È stato @matteorenzi a puntare sui social e soprattutto su Twitter. Le ultime mosse sbavate qui sopra sono sintomatiche di forte nervosismo.


— Wu Ming Foundation (@Wu_Ming_Foundt) November 4, 2014



Poi arrivano quelli che Twitter non è la realtà di quelli che votano ecc. Grazie al cazzo, eh! Tutt’altro piano del discorso.


— Wu Ming Foundation (@Wu_Ming_Foundt) November 4, 2014




Il punto è che l’immagine di ‘enzi come comunicatore mostra crepe, è stata pompata come il suo essere “nuovo” ed è altrettanto farlocca.


— Wu Ming Foundation (@Wu_Ming_Foundt) November 4, 2014



E mostra crepe perché in questi giorni ‘enzi ha avuto a che fare *direttamente* col conflitto sociale, stress test a cui non era preparato.


— Wu Ming Foundation (@Wu_Ming_Foundt) November 4, 2014




Luna di miele comunque finita. Anche alcuni suoi corifei culturali (giornalisti, “innovatori”, satirici) d’un tratto fanno gli anti-‘enzi.


— Wu Ming Foundation (@Wu_Ming_Foundt) November 4, 2014



Questo non vuole affatto dire che il ‘enzismo sia finito. Ma ha perso l’aura che i media gli disegnavano intorno. Calo di carica magnetica.


— Wu Ming Foundation (@Wu_Ming_Foundt) November 4, 2014




E un calo di carica magnetica del ‘enzismo significa che certe supercazzole verranno recepite come tali. Per le lotte ciò è solo positivo.


— Wu Ming Foundation (@Wu_Ming_Foundt) November 4, 2014



La tattica che funziona? I “controcomitati d’accoglienza”. Le visite ufficiali che sbattono contro muri di rabbia e scherno, ovunque.


— Wu Ming Foundation (@Wu_Ming_Foundt) November 4, 2014




Perché quando il gioco si fa duro lui scompare, tira pacchi, se la svigna, delega ad altri, tace. Riappare su Twitter gradasso e maldestro.


— Wu Ming Foundation (@Wu_Ming_Foundt) November 4, 2014



Summit di #Torino, luglio 2014: disdetto in extremis. Visita in Val Susa, settembre 2014: pacco all’ultimo minuto. #Renziscappa


— Wu Ming Foundation (@Wu_Ming_Foundt) November 4, 2014




#Botte agli operai di #Terni: silenzio x giorni. Accoglienza imprevista a #Brescia: via di corsa. Visita a #Bagnoli: annullata. #Renziscappa


— Wu Ming Foundation (@Wu_Ming_Foundt) November 4, 2014



@Wu_Ming_Foundt annullata anche visita a terni prevista per giovedi. #Renziscappa da #astTerni


— christof erreira (@christoferreir) November 4, 2014



@Wu_Ming_Foundt #Renziscappa anche da Genova.Dopo il 'Saremo a Genova a giorni per non fare passerelle' (per la Concordia si pero') sparito.


— Edoardo Olivari (@Shabine7) November 4, 2014




Insomma, viene fuori per ciò che è. Le lotte sono maieutiche.


— Wu Ming Foundation (@Wu_Ming_Foundt) November 4, 2014



La verità del ‘enzismo è la solita disuguaglianza. La retorica (in parte già logora) è l’usuale finto “nuovo”. Il metodo è il manganello.


— Wu Ming Foundation (@Wu_Ming_Foundt) November 4, 2014




Perché il sedicente “nuovo” è la vecchia merda. Nessun reazionario oggi può presentarsi come tale, va sempre mimato un movimento in avanti.


— Wu Ming Foundation (@Wu_Ming_Foundt) November 4, 2014



Infatti il termine più lercio dell’odierno vocabolario politico è “riforme”. Sempre al plurale, sempre vago. Vuol dire controriforme.


— Wu Ming Foundation (@Wu_Ming_Foundt) November 4, 2014




Trent’anni di #moncler e leopolde. Allora erano appena deposte e ancora fumanti. Oggi sono secche ma fetono ancora. pic.twitter.com/0K0e02U2XB


— Wu Ming Foundation (@Wu_Ming_Foundt) November 3, 2014




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Published on November 04, 2014 04:40

October 29, 2014

#GODIImenti. Abbecedario di resistenza alle Grandi Opere Dannose, Inutili e Imposte

 


Da ieri pomeriggio, sul sito dell’associazione Re:Common, si può navigare una sezione interamente dedicata al Wu Ming Lab GODIImenti, un progetto che è al tempo stesso antologia di racconti collettivi, percorso di scrittura a più mani, reading concerto, archivio di testi/suoni/video/foto e infine stimolo per chi vorrà riproporre il laboratorio, o rielaborare i testi o mettere in scena una lettura.

Tutti i materiali, infatti, sono rilasciati con licenza Creative Commons e con l’invito esplicito a rimontarli, usarli, mescolarli. Per questo motivo, non ci siamo limitati a rendere disponibile l’antologia di racconti che abbiamo selezionato e stampato, ma abbiamo voluto condividere tutti i testi prodotti durante il laboratorio: più di un centinaio di documenti in formato pdf, organizzati per argomento, dalla A di Assemblea alla Z di Zelig, passando per la H di Habitat e la Q di Quarto Potere.

Sulla pagina dedicata, trovate anche l’audio integrale del reading concerto GODIImenti, a cura di Wu Ming 2 e Egle Sommacal, presentato in prima nazionale a Melendugno (LE) il 13 settembre scorso.

Da segnalare anche il video con la lettura in musica del racconto Il Bagagliaio - voce di Wu Ming 2 e chitarra di Simone “Cimo” Nogarin – registrato all’Osteria dai Kankari di Marano di Mira (VE). Il racconto in questione non è inserito nell’antologia, ed è quindi un buon esempio di come si possono utilizzare i contenuti “extra” del progetto.

Infine, la pagina di GODIImenti, il sito di Re:Common, Giap e i sei comitati che hanno partecipato al laboratorio, sono pronti a rilanciare e diffondere tutte le iniziative e gli incontri ispirati al progetto, ai testi, alle musiche, all’idea stessa di mettere insieme territori ed esperienze differenti per ragionare su cosa accomuna le battaglie contro le Grandi Opere Dannose, Inutili e Imposte e, più in generale, per il diritto al paesaggio.

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Published on October 29, 2014 03:21

October 24, 2014

Radio Giap Rebelde | Speciale #RévolutiontouR #ArmatadeiSonnambuli

Scaramouche visto da Alessandro Caligaris.

Scaramouche visto da Alessandro Caligaris.


Mentre scriviamo questo post il Révolution touR, iniziato il 18 aprile scorso, tocca la novantatreesima e novantaquattresima tappa, rispettivamente a Mestre e Padova.

In questi mesi, nelle varie tappe, abbiamo registrato molte letture sceniche dal romanzo, fatte da noi o da altre persone,  spesso attrici e attori, quasi sempre in interazione con musicisti di varie estrazioni e/o basi rumoristico-musicali. Personaggi e momenti del nostro libro hanno assunto molte voci, vissuto molte vite, sollecitato le più diverse interpretazioni. Alcune di queste le abbiamo pubblicate negli «Speciali Armata dei Sonnambuli» apparsi su Giap in primavera e durante l’estate, ma negli ultimi tempi l’archivio audio si è arricchito di tali e tante variazioni sul tema che abbiamo deciso di farne uno speciale di Radio Giap Rebelde. Anzi, più di uno. Questo è solo il primo di una serie.

Come sentirete, continua la particolare “biforcazione” per cui Wu Ming 2 lavora con musicisti rock (e dintorni) e Wu Ming 1 con musicisti jazz (sort of).

Già che ci siamo, proponiamo anche l’audio completo della presentazione palermitana de L’Armata dei Sonnambuli, special guest Franco Berardi Bifo.

Nei prossimi giorni, tutti i file audio verranno immessi anche nel nostro podcast.

Buon ascolto!

N.B. Per scaricare i file da questa pagina, cliccare sulla freccia verticale a destra del miniplayer.


L'Armata dei Sonnambuli a Vittorio Veneto


Live in Vittorio Veneto, 2 ottobre 2014


Live in Vittorio Veneto, 2 ottobre 2014

Estratto dal reading/concerto magnetico tenutosi allo Spazio MAVV di Vittorio Veneto (TV) il 2 ottobre scorso, con

Wu Ming 1 alla voce recitante,

Luigi Vitale al vibrafono,

Mattia Magatelli al contrabbasso,

Yannick Da Re alle percussioni

ed Enrica Bacchia alla voce.

Enrica non era menzionata nel manifesto, ha accettato di partecipare fresca di ritorno dalla Cina e la sua presenza sul palco è stata un valore aggiunto.

Wu Ming 1 e i musicisti non si erano mai incontrati prima.

Si tratta di un’unica suite di 23 minuti, siamo nel territorio dell’improvvisazione jazz/radicale, i brani sono presi dall’Ouverture del romanzo.


L'Armata dei Sonnambuli a Castrì


Live in Castrì, 10 settembre 2014


Live in Castrì, 10 settembre 2014

Registrazione completa del reading/concerto magnetico tenutosi in Piazza Municipio a Castrì (LE) la sera del 10 settembre 2014, con

Wu Ming 2 alla voce

e Valerio Daniele alle chitarre.

È un’unica suite di un’ora e cinque minuti. Le atmosfere musicali sono variegate, tra blues, prog e ambient. I brani sono tratti dai vari filoni del romanzo: c’è Léo, c’è D’Amblanc, c’è Puységur, c’è l’uomo che si fa chiamare Laplace, c’è il Papà Duchesne che racconta della morte di Marat, c’è il funerale di Marat allestito dai folli del padiglione Saint Prix, ci sono Marie e le altre magliare del foborgo che fanno l’autoriduzione alla bottega di Vaillant.

Wu Ming 2 e Valerio Daniele non si erano mai incontrati prima.


L'Armata dei Sonnambuli a Pavia


Zó bòt!!! Live in Pavia, 21 ottobre 2014


Zó bòt!!! Live in Pavia, 21 ottobre 2014

Zó bòt!!! è il progetto di improvvisazione radicale musiche/testo portato avanti dalla band Cvasi Ming, formata da:

Wu Ming 1 alla voce

Francesco Cusa alla batteria

e Vincenzo Vasi al basso e theremin.

La collaborazione di WM1 con Vasi e Cusa è ormai di lunga data. Questa è la registrazione completa del reading/concerto magnetico tenutosi allo Spaziomusica di Pavia la sera del 21 ottobre scorso. È un’unica suite di un’ora e sedici minuti. Nell’ultima parte della serata si è unito a noi un altro musicista (e giapster), Luca Casarotti alla tastiera. Dopo un prologo tratto dall’Ouverture, si narra la genesi del supereroe Scaramouche, se ne raccontano alcune gesta e si conclude con l’omaggio della vox plebis a Robespierre, che sfocia in una cover improvvisata lì per lì (epperciò sguaiata) di Cura Robespierre del Wu Ming Contingent.


Il dub dei sonnambuli


Il dub dei Sonnambuli


Questo è un esperimento di dub prose realizzato la sera dell’11 settembre 2014 allo spazio sociale CEI di Lecce. Wu Ming 2 ha letto brani de L’Armata dei Sonnambuli sulle basi in levare miscelate dalla banda di R & D Vibes, trasmissione dedicata a reggae e dub in onda tutte le settimane su Radio Popolare Salento. Noi siamo grandi fan di dub poets come Linton Kwesi Johnson e Benjamin Zephaniah, perciò – pur senza il minimo tentativo di imitarli – WM2 si è prestato al connubio ben volentieri.


Te lo si conta noi – 3’06″

Te lo si conta noi – 3’06″


Non un fiato – 2’49″

Non un fiato – 2’49″


Zucchero e libertà! – 4’22″

Zucchero e libertà! – 4’22″


Bicêtre – 3’46″

Bicêtre – 3’46″


Nuovo teatro – 2’57″

Nuovo teatro – 2’57″


Il funerale di Marat – 4’01″

Il funerale di Marat – 4’01″


La parte smerda – 4’07″

La parte smerda – 4’07″


Luca Altavilla


Luca Altavilla legge l’Ouverture de L’Armata dei Sonnambuli


Luca Altavilla legge l’Ouverture de L’Armata dei Sonnambuli

Durata: 12’08″.

La sera del 3 ottobre 2014 alla Conigliera, il grande e bellissimo spazio che la compagnia teatrale Anagoor ha a disposizione a Castelminio di Resana (TV), a un tiro di schioppo da Castelfranco Veneto, l’intepretazione lenta, strascicata, rasposa dell’attore Luca Altavilla ha sorpreso e mesmerizzato tutti i presenti. Altavilla non era lì: la voce che, su un tappeto di sinistri clangori predisposto da Mauro Martinuz, diveniva vox plebis, arrivava da lontano. Si trattava di una registrazione. Altri brani del romanzo, letti dal vivo da Marco Menegoni, li proporremo nel prossimo speciale.

Serata curatissima dal punto di vista scenico e drammaturgico. Regia di Simone Derai.


L'Armata dei Sonnambuli a Grugliasco


Diego Viarengo legge il capitolo «Il pensionante» (Scena quarta del primo atto de l’AdS)


Diego Viarengo legge «Il pensionante» (Scena quarta del primo atto de l’AdS).

Durata: 10’41″.

Durante il vero e proprio happening svoltosi alla Casseta Popular di Grugliasco (TO) la sera del 19 settembre scorso, Diego Viarengo ha letto, con una verve e interpretazione personalissime, diversi brani dell’AdS. Ne proponiamo uno dal filone del romanzo dedicato alla follia. La registrazione, effettuata con il tablet di Wu Ming 1 appoggiato sul tavolo, non è impeccabile ma la potenza del reading rimane intatta.


Booq Palermo


AUDIO COMPLETO DELLA PRESENTAZIONE PALERMITANA

Booq – BibliOfficina Occupata di Quartiere, 16 ottobre 2014


Introduzione – 6’48″

Introduzione – 6’48″


Intervento di Franco Berardi Bifo – 16’01″

Intervento di Franco Berardi Bifo – 16’01″


Intervento di Wu Ming 2 – 13’20″

Intervento di Wu Ming 2 – 13’20″


Intervento di Wu Ming 4 – 17’57″

Intervento di Wu Ming 4 – 17’57″


Domande e risposte – 45’14″

Domande e risposte – 45’14″


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Published on October 24, 2014 03:36

October 8, 2014

A #Vicenza, ci facciamo in “4” contro #Expo.

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Giovedì 9 ottobre, alle 18.30, in Piazza Matteotti a Vicenza, di fronte a Palazzo Chiericati, Wu Ming 2 & Frida X andranno in scena con il reading 4NoExpo, accompagnati dalle fotografie del collettivo TerraProject e di Exposed project.

Il reading “4” era in calendario da mesi, abbinato alla mostra di fotoracconti “Wu Ming + TerraProject = 4″. Nel frattempo, però, come abbiamo spiegato qualche settimana fa, l’inaugurazione della mostra è finita nei tentacoli del mostro Expo. Che fare? Ci siamo confrontati con gli organizzatori della mostra e con il C.S. Bocciodromo, che da tempo fa informazione a Vicenza su questi temi, e alla fine abbiamo deciso di rendere pan per focaccia: visto che un boccone della nostra mostra è stato inghiottito da Expo, il nostro reading glielo risputerà in faccia, trasformato in un poema No Expo. Sostituiremo uno dei quattro racconti previsti, quello dedicato all’acqua, con un testo scritto per l’occasione, dove il mostro spiegherà perché e percome invidia i quattro elementi tradizionali – Aria, Acqua, Terra e Fuoco – e perché vorrebbe a tutti i costi essere come loro.

I TerraProject, da parte loro, invece di proiettare le fotografie della sezione Acqua, proporranno un reportage di Exposed Project sulla trasformazione urbana di Milano e le sue connessioni con Expo2015.

Il tutto verrà registrato in presa diretta e diffuso a breve, per consentire anche a chi non potrà esserci di gustare la nostra risposta.


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Published on October 08, 2014 13:50

A #Vicenza, ci facciamo in “4″ contro #Expo.

cantiere_expo-2


Giovedì 9 ottobre, alle 18.30, in Piazza Matteotti a Vicenza, di fronte a Palazzo Chiericati, Wu Ming 2 & Frida X andranno in scena con il reading 4NoExpo, accompagnati dalle fotografie del collettivo TerraProject e di Exposed project.

Il reading “4″ era in calendario da mesi, abbinato alla mostra di fotoracconti “Wu Ming + TerraProject = 4″. Nel frattempo, però, come abbiamo spiegato qualche settimana fa, l’inaugurazione della mostra è finita nei tentacoli del mostro Expo. Che fare? Ci siamo confrontati con gli organizzatori della mostra e con il C.S. Bocciodromo, che da tempo fa informazione a Vicenza su questi temi, e alla fine abbiamo deciso di rendere pan per focaccia: visto che un boccone della nostra mostra è stato inghiottito da Expo, il nostro reading glielo risputerà in faccia, trasformato in un poema No Expo. Sostituiremo uno dei quattro racconti previsti, quello dedicato all’acqua, con un testo scritto per l’occasione, dove il mostro spiegherà perché e percome invidia i quattro elementi tradizionali – Aria, Acqua, Terra e Fuoco – e perché vorrebbe a tutti i costi essere come loro.

I TerraProject, da parte loro, invece di proiettare le fotografie della sezione Acqua, proporranno un reportage di Exposed Project sulla trasformazione urbana di Milano e le sue connessioni con Expo2015.

Il tutto verrà registrato in presa diretta e diffuso a breve, per consentire anche a chi non potrà esserci di gustare la nostra risposta.


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Published on October 08, 2014 13:50

September 28, 2014

Nasce l’Associazione Italiana Studi Tolkieniani

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[Ladies and gentlemen, c'è voluto un po' di tempo, ma alla fine ecco a voi l'AIST. La dichiarazione che trovate qui di seguito è stata letta all'apertura del secondo giorno della festa Fantastika, nella rocca di Dozza Imolese, a trenta chilometri da Bologna, prima delle conferenze del mattino tenute da Roberto Arduini e Thomas Honegger:]


Oggi, sotto i bastioni della rocca sforzesca di Dozza Imolese, nasce l’Associazione Italiana Studi Tolkieniani.

La nascita dell’AIST è il punto d’arrivo di un percorso iniziato almeno dieci anni fa. I soci fondatori dell’associazione hanno già all’attivo una quantità di saggi, traduzioni, articoli di giornale, conferenze, convegni, incontri pubblici, pubblicazioni in inglese e partecipazioni a convegni internazionali in Italia e all’estero. Pur provenendo da aree culturali diverse, i soci fondatori si riconoscono negli obiettivi comuni:


•  promuovere l’opera di J.R.R. Tolkien e studiarne l’impatto e l’influenza sulla letteratura e la cultura contemporanee, da diverse angolazioni (letteraria, linguistica, poetica, teologica, filosofica, ecc.);


•  produrre un contesto di dibattito basato sulla qualità di discorso e su un buon livello di competenza, ovvero essere un punto di riferimento per chi intenda cimentarsi nello studio dell’opera di Tolkien con serietà e onestà intellettuale;


•  attivare collaborazioni con il contesto accademico e con l’ambito di dibattito internazionale, attraverso il dialogo e lo scambio con gli studiosi più riconosciuti nel panorama degli studi tolkieniani a livello mondiale;


•  indagare e favorire le varie forme di narrazione transmediale nelle quali la narrativa di Tolkien viene trasposta e fatta proseguire (come arti figurative, fanfiction, cinema, teatro, cosplaying, giochi di ruolo, videogiochi, giochi da tavolo, ecc.).


Da quanto detto fin qui risulta chiaro che l’AIST non è interessata a una “via italiana a Tolkien”, bensì a un contributo italiano agli studi tolkieniani, collocandosi allo stesso livello delle società tolkieniane anglosassoni. Allo stesso tempo l’AIST intende promuovere la contaminazione e l’interazione tra le varie modalità e i vari campi creativi nei quali si manifesta la passione per l’opera letteraria di Tolkien.


L’attività dell’AIST poggerà su quattro pilastri:


• il più importante sito d’informazione italiano su Tolkien, www.jrrtolkien.it (finora sito dell’Associazione Romana Studi Tolkieniani, la quale confluisce nell’AIST e ne costituisce uno dei nuclei di partenza);


•  la rivista annuale online “Endòre” (www.endore.it), che conta già 16 numeri e che colleziona saggi e articoli italiani, nonché traduce i più interessanti saggi stranieri, ma ospita anche recensioni e contributi di fanfiction;


•  i Tolkien Lab e i Tolkien Seminar, che possono essere organizzati direttamente dall’AIST o in collaborazione con essa, e che sono strutturati su due diversi livelli di approfondimento;


•  la festa annuale Fantastika, l’ultimo weekend di settembre, durante la quale avranno luogo conferenze su Tolkien, sul fantasy e la letteratura fantastica, sfilate di cosplayers, mostre d’arte, conferenze ludologiche, tornei di giochi da tavolo e videogame, ecc.


Fin dalla sua nascita l’AIST annovera sei soci onorari, che sono tra i più importanti studiosi della materia tolkieniana a livello internazionale:


•  la statunitense Verlyn Flieger, insigne studiosa di Tolkien ed editor della rivista Tolkien Studies (West Virginia University);


•  gli inglesi Tom Shippey e John Garth, rispettivamente il più importante allievo di Tolkien in ambito filologico e il più importante biografo vivente di Tolkien;


•  lo svizzero Thomas Honegger, massimo esperto di Tolkien in lingua tedesca e direttore della Walking Tree Publishers (casa editrice interamente dedicata alla saggistica su Tolkien);


•  il canadese Christopher Garbowski, docente a  Lublino, uno dei più importanti studiosi sulla dimensione spirituale nell’opera di Tolkien.


•  l’italiana Emilia Lodigiani, studiosa di autori inglesi e scandinavi, decana degli studi tolkieniani nel nostro paese e fondatrice della casa editrice Iperborea.


A questo elenco si aggiunge il presidente onorario dell’AIST:


•  Franco Manni, direttore di “Endòre”, curatore di pubblicazioni tolkieniane in Italia e autore di numerosi saggi tradotti all’estero.


I soci fondatori dell’AIST:


Claudio A. Testi, Roberto Arduini, Federico Guglielmi (in arte Wu Ming 4), Ivan Cavini, Giampaolo Canzonieri, Lorenzo Gammarelli, Alberto Ladavas, Simona Calavetta, Matthias Carosi, Dario Cellamare, Manuel Chiofi, Robert Cultrara, Aur Drakson, Lorenzo Galeppi, Stefano Giorgianni, Claudia Manfredini, Daniela Mastroddi, Erin Oak, Andrea Piparo, Norbert Spina, Alessio Vissani.


Dozza Imolese (BO), 28 settembre 2014


 


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Published on September 28, 2014 06:54

September 25, 2014

«Salgono sul palco i Wu Ming Contingent». Le recensioni estive di #Bioscop

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Wu Ming Contingent dal vivo in piazza Signorelli a Cortona (AR)


Il 21 settembre, con un concerto dedicato a Federico Aldrovandi, sul palco del festival “Frammenti”, si è concluso il vagabondaggio estivo del Wu Ming Contingent, cuore musicale del Révolution touR.

Oltre a non-esibirci alla Festa Democratica di Firenze, in quest’estate di guerra e “bombe d’acqua” abbiamo suonato per platee a quattro cifre e per quattro gatti, alle feste di Radio Sherwood e Radio Onda d’Urto, in stabilimenti balneari e centri sociali. David Colangeli ha recensito su KeepOn il nostro live del 28 giugno al CSA La Torre di Roma:


«Salgono sul palco i Wu Ming Contingent, iniziando subito con una indiavolata “Soldato Manning”, un brano quasi dark new wave mentre si declama la storia dell’attivista statunitense che ha sputtanato gli Stati Uniti e la loro politica della guerra al terrore.

Il secondo brano è dedicato a “Peter Norman”, sportivo e caposaldo dei diritti civili. Anche qui si tratta di un punk, dove il recitar cantando ricorda le influenze dei CCCP ma con un andamento meno salmodiante e con più feedback. L’idea è quella di stare ad ascoltare una versione punk dell’antologia di Spoon River se fosse stata scritta da uno studente di storia contemporanea del ‘77. L’esperienza dei gloriosi anni bolognesi in cui si vendevano più chitarre elettriche che aperitivi, quell’atteggiamento che ha portato alla formazione dell’orecchio alternative-punk italiano, si fa sentire e molto.

E poi un funky su Peter Kolosimo, un ufologo radicale e partigiano. Sembra di assistere ad un’assemblea studentesca ma musicata. Ironia e impegno politico vanno a braccetto, senza scadere in quell’avanspettacolo che ai giorni nostri sembra l’unico modo per parlare di temi impegnati.[...]

Si passa poi al primo inedito della serata, che farà parte del secondo lavoro dei Wu Ming dedicato alle donne: “Laila’s blues” è, appunto, il bluesaccio partigiano di questa donna che ha dedicato la sua vita alla resistenza. I racconti delle torture, dell’estrema fermezza e fragilità di una ragazza costretta dagli eventi. Il racconto strappa più di una lacrima, ve lo assicuro.

[...] Il mio consiglio è quello, tralasciando la propria indole politica, di andarli a sentire il prima possibile: se siete amanti della loro versione cartacea è un must, e ritroverete le atmosfere e l’ironia. Se non li conoscete, conosceteli: sono una delle poche realtà editoriali (e ora, finalmente, musicali) che propone intrattenimento (perché alla fine, la narrativa ti deve far rimanere incollato il naso alla pagina) che però educa ( ma non nel senso di: la mia opinione è quella giusta, in questo caso è perché ogni cosa è raccontata con un’accuratezza storica capillare) e diverte. Soprattutto diverte, perché non c’è la spocchia autoriale, dato il genere scassone del punk quattro quarti scelto come carroarmato per accompagnare. Andate a divertirvi. E sono sicuro che se non siete d’accordo con quello che dicono, davanti ad una o più birre, saranno direttamente disponibili loro a parlarne con voi.»

(Qui il pezzo integrale)


Quello stesso live – il secondo del tour estivo, dopo la data ferrarese per la Giornata del Rifugiato – era stato annunciato in un’intervista di WM2 con la romana Radio Città Aperta.


Wu Ming 2 intervistato a Radio Città Aperta – Roma.


(Inizia dal min. 5.54)


Un mese prima, il 20 maggio, avevamo pubblicato su Giap un primo florilegio di recensioni bioscopiche. Nel frattempo, sono usciti una valanga di nuovi articoli dedicati all’album, che come al solito montiamo qui sotto in piccoli frammenti, con i link alle versioni complete.

Il primo che vi proponiamo viene da uno dei migliori numeri di Alias che ci sia capitato di leggere quest’anno. Nelle altre pagine, si parla anche di Gabriella Ghermandi, l’autrice di Regina di Fiori e di Perle, e del suo progetto Atze Tewodros: jazz italo-etiope nato per cantare le storie dei patrioti arbegnuoc che combatterono contro l’esercito fascista.

L’articolo-intervista che ci riguarda si intitola “Wu Ming Contingent, visioni pedagogiche” ed è firmato da Simona Frasca:


«Bioscop è una ventata di ilare dissacrazione, un inno al risveglio cadenzato su un pentagramma di note grosse e su un groove punk rock con abbondanti sporcature new wave [...]. Rivoluzione è la parola che risuona durante l’ascolto delle 10 tracce immediate, trascinanti e dichiaratamente militanti.

- Testi e musica in Bioscop descrivono uno scenario rivolto soprattutto alle giovani generazioni che brancolano sempre più nella difficoltà oggettiva di orientarsi nella storia recente del nostro paese, è così?

- Più di un recensore ha sottolineato la dimensione “pedagogica” di Bioscop. A volte con disgusto, altre con sorpresa o entusiasmo, altre ricorrendo a etichette come edutainment e propaganda. E’ una sottolineatura che ci colpisce, perché significa che la canzone politica e di protesta è ormai una stranezza. Brani che raccontano il mondo oltre il cortile di casa, con una prospettiva più vasta della propria esperienza individuale, sono considerati inconsueti, se non sospetti. Più in generale, mi pare che la musica italiana risenta del clima di un Paese dove chi prova a interpretare la realtà viene percepito come supponente, ideologico. Dove un cantante come Cristicchi può fare uno spettacolo sulle foibe e i profughi istriani (Magazzino 18) e poi respingere le critiche politiche e storiografiche dicendo che il suo è teatro, racconto, emozione. “Sono solo canzonette” – gridava Bennato sullo spartiacque tra Settanta e Ottanta – “macché politica, ché cultura”. Oggi sembra che ci si debba giustificare del contrario. L’invito di Calvino alla leggerezza si è trasformato nell’obbligo a non prendersi mai sul serio e con la scusa dell’ironia si sono sdoganate le peggiori schifezze: le serate di musica spazzatura fanno il pienone anche nei centri sociali.

Di fronte a questa situazione, credo che l’Archivio possa svolgere un ruolo fondamentale, se impariamo a rianimarlo. A pochi clic di distanza dalla home page di un motore di ricerca si trovano storie esemplari di conflitto, di lotta, di conquiste popolari, di resistenza. Storie che dobbiamo imparare a smontare, pulire, aggiustare, rimettere in moto. Chi sottolinea l’intento educativo del nostro lavoro di narratori, spesso non capisce che a noi non interessa diffondere contenuti, ma strumenti. Non raccontare la storia di Tizio Caio, ma mostrare cosa si può fare con quella storia. E non ci interessa nemmeno usare le storie come armi: disseppellire il tomahawk è un rituale, poi si combatte con i fucili o con le frecce. Ma per combattere bene, bisogna prima scavare, fino in fondo, con gli attrezzi giusti. I nostri libri, la nostra musica, il blog Giap, sono tutti laboratori per imparare a farlo bene.»

(Simona Frasca su Alias, Supplemento settimanale de “Il Manifesto”, n.29, Anno 17, 19 luglio 2014)



Tra le tante interviste, una menzione speciale va a quella con Tony “Face” Bacciocchi, storico membro dei Not Moving e dei Lilith, autore di libri futbologici come Rock’n’Goal, di un saggio biografico su Gil Scott-Heron e di un memoir dal titolo eloquente: Uscito vivo dagli anni ’80. Le risposte sono di Cesare “Big Mojo” Ferioli, il batteraio della band.


«Il WU MING CONTINGENT ha realizzato “Bioscop”, uno dei migliori album italiani del 2014 caratterizzato da un duro sound, ipnotico e ossessivo che unisce post punk, la new wave più abrasiva (dalle parti dei PIL e Massimo Volume), su cui si parla di alcuni personaggi “minori” ma altamente iconici (dal calciatore Socrates allo scrittore Peter Kolosimo) fino alla rilettura moderna di “Revolution will not be televised” di Gil Scott Heron. Lavoro interessantissimo che ci porta all’intervista di oggi [...]

5) Vivere di musica e “arte” in Italia è possibile ?

- Parlando della mia esperienza personale ti posso dire che in passato e per anni ho vissuto solo suonando, questo ho fatto a tempo pieno dall’87 al 1999 circa. Dal 1990 al 1996 con la blues band Dirty Hands, fondata da me e dal chitarrista Andy Carrieri, con cui già collaboravo nei Jack Daniel’s Lovers, un anno arrivammo a fare 190 concerti.Una bella faticaccia, te lo assicuro, ma era l’unico modo per far stare in piedi i conti. Il nostro mercato di riferimento sia per gli album che per i concerti erano oltre all’Italia, la Svizzera, il Belgio e l’Olanda, la Francia e non da ultimi gli Stati Uniti.

C’era un forte “rinascimento” del blues in quegli anni e noi cavalcavamo la tigre spontaneamente. Avevamo promoters locali che ci organizzavano concerti e partecipazioni ai festivals, vendevamo dischi, anche se poche migliaia di copie ad album. Insomma, come si dice in gergo, ci stavamo dentro. Ora la situazione è più complessa, c’è lo spettro della crisi economica, i budget ora sono praticamente quelli che incassavamo in lire allora ma la benzina per fare un esempio costa quasi tre volte tanto, così anche per autostrade ed alberghi, insomma, ora è molto ma molto più dura. Il liberismo non è più solo una macabra favola uscita dai testi di gruppi come Dead Kennedys o Angelic Upstarts, è ovunque ed è intenzionato ad abbattere il potere d’acquisto e i diritti sociali di tutti, ovunque, anche in Italia.Per dirla molto sinteticamente, girano meno soldi e la gente pensa a spendere per mangiare e sopravvivere, sempre meno per Musica e Arte.E poi non da ultimo, trovo che la cultura generale si è parecchio massificata»

(L’intervista completa è qui)


In versione audio, è rimasta traccia di altre due chiacchierate, una tra Francesca Ognibene e Yu Guerra, su Radio Sherwood, e l’altra con WM2, su Radio Emilia Romagna. Avremmo voluto completare il quadro con la voce di WM5 a Radio Gold di Alessandria, ma purtroppo il file è stato rimosso dal podcast.


«Bioscop è il primo album di canzoni per il collettivo di scrittori Wu Ming, anche se i musicisti e musicisti/scrittori non sono di certo mancati tra gli zoccoli duri coinvolti in questa anima creativa. Il successo di Wu Ming mi ha sempre fatto ben sperare nella rivalutazione dell’umanità che ha voglia di una rivoluzione culturale e ci crede e ama il guizzo creativo di chi dal racconto trova il filo della storia che brucia, che storpia, che ride e attacca, in una dimensione punk new wave, sensata e convincente.»

(Qui l’audio dell’intervista e qui WM2 intervistato a “Scelto per voi” su Radio Emilia Romagna.)


Come sempre, diamo spazio anche alle critiche negative, che spesso contengono spunti interessanti, e quando non li contengono, diventano ottimo materiale per fascette e medaglie da appuntare nella colonna qui a destra.


«I dieci brani di questo Bioscop, mescolando punk e new wave (CCCP, Offlaga Disco Pax, Diaframma), danno vita a un disco che fa dei testi il suo punto di forza e della componente strumentale il suo punto di debolezza. I vari pezzi, infatti, nonostante incuriosiscano con il loro raccontare, coinvolgono ben poco per quanto riguarda la parte suonata (piuttosto scarna e monocorde). Un disco buono solo per gli appassionati di musica “narrata”.»

Francesco Cerisola su In Your Eyes e-zine


«Testi immaginifici. Funambolismi oi!. Karma britannico.

I Wu Ming riescono sempre a sorprenderci. Non questa volta. Così ci tocca ascoltare questo disco nato dall’incontro tra il famoso collettivo di pittori e Idetoshi Buddharuki.

L’album è un (in)credibile esorcismo, burrascosamente kitsch-vintage-pop, che celebra icone cosmopolite e rotondamente mid-cult, adatto a rivoluzioni nella propria camera.

Acid-punk, citazionismo antifrastico ma ottusamente pedante, per un suono che inserisce un folk urbano ed eccessivo in un contesto assolutamente no(w) wave. Ogni riferimento a Kaspar Brotzmann è del tutto casuale.

Il gruppo lo si può immaginare come un incontro tra Al Bano e i Green Day.

Stupefacente. Ma speriamo non abbia seguito.

10 per l’etichetta, 3 per la musica.»

Bianco I. Stefani su Polygen:Recensioni Indie.


«Le parole raccontano dieci storie-biopic di altrettanti vari protagonisti eletti a emblema alternative. Tutti simboli di quella generica protesta contro il potere che da sempre caratterizza l’agire culturale dei Wu Ming e che qui viene ulteriormente glorificata nell’icastica urgenza della più classica e verbosetta canzone di protesta. Il top è il (bel) funk jazzato La Rivoluzione (non sarà trasmessa su You Tube) di Gilscottheroniana memoria, fulcro teorico, diciamo così, di tutto il cucuzzaro, in cui si spiega che la rivoluzione non sarà caricata su YouTube né postata su fessbuc e men che meno trasmessa in televisione ma verrà dal basso e sarà inevitabilmente tremenda oltre che prevedibilmente violenta; diciamo un’analisi non nuovissima ma funzionale. Naturalmente, nell’attesa la Rivoluzione (sic) arrivi a schiantarci tutti, i Wu Ming ingannano l’attesa e allettano il loro pubblico agitandosi su You Tube, fessbuc e blog, con parole che ci raccontano che la Rivoluzione non sarà caricata su You Tube né postata su fessbuc e men che meno trasmessa in televisione (eccetera eccetera); diciamo un comportamento non nuovissimo ma funzionale.»

Stefano I. Bianchi su Blow Up



La Rivoluzione (non sarà trasmessa su You Tube) è uno dei brani del disco più citati. A qualcuno, evidentemente, è sfuggito il senso del verso “La rivoluzione verrà fatta con ogni mezzo necessario, ma nessun mezzo necessario farà la rivoluzione”. Altri lo hanno colto e analizzato meglio:


«Sicuramente in questo lavoro c’è molto punk dei primi anni ’70. Evidente in Soldato Manning (definito un Robyn Hood al silicio) l’eco delle New York Dolls, in un brano tirato, ritmato, punk, più parlato che cantato,così come affiorano Ramones e Television in La Notte del Chueco, punk primi ’70 con un accenno di melodia quasi pop nel ritornello.  Ad un ascolto attento, si scorgono anche influenze black. In La Rivoluzione (non sarà trasmessa su Youtube) rivedono a modo loro la celebre Revolution Will Not Be Televised di Gil Scott-Heron, arricchendola di citazioni relative al mondo della comunicazione contemporanea (Fabio Fazio, Endemol, Youtube, Facebook, Benigni, Grillo, X Factor), ricordandoci che la rivoluzione si fa con ogni mezzo necessario (altra citazione, da Malcom X), ma nessun mezzo è necessario per fare la rivoluzione. Brano splendido, con un sax infuocato che si innalza sulle chitarre incendiando le polveri. Il sax di Guglielmo Pagnozzi introduce Italia Mistero Kosmiko, brano dall’aria funky dedicato all’archeologo spaziale Peter Kolosimo, e in Dio Vulcano! spuntano ritmi black e andatura in levare alla Clash. Ma anche la memoria dei primi C.C.C.P. sembra essere presente nel bagaglio musicale del Wu Ming Contingent, emerge nel ritmo serrato di Peter Norman, e nella splendida Cura Robespierre, in cui, su un ritmo pulsante sostenuto da chitarra e batteria, si propone la cura del celebre rivoluzionario francese per questi tempi idioti e ottusi, e per i moderati (volete Coca–Cola senza caffeina, volete sigarette che non facciano fumo, volete amare il prossimo purché non vi disturbi, né destra né sinistra). [...] Un grande esordio per il Wu Ming Contingent, che ci fa attendere con ancora più interesse il già annunciato secondo capitolo, dedicato a dieci figure femminili.»

(Qui l’intero articolo di Giorgio Zito su Storia della Musica)


La Rivoluzione (non…) figura anche tra le motivazioni che hanno spinto Lino Brunetti a scegliere Bioscop come Disco del Mese, sul numero di giugno del Buscadero:


«La formula è quella dei testi letterari declamati su trame rock, e se vi vengono in mente formazioni come Massimo Volume, Offlaga Disco Pax o certi Bachi da Pietra non siete fuori pista. Così come le tre formazioni citate differiscono però tra di loro, anche il WMC trova una sua ragion d’essere ed una sua peculiarità nell’allestire trame sonore incalzanti e dinamiche. [...] Sopra di esse, Wu Ming 2 declama brevi biografie maschili, spunto per affrontare temi fra i più disparati, spesso scomodi, con l’occhio critico che chi conosce l’opera dei Wu Ming apprezza da tempo. Si scagliano contro l’omologazione, contro il disimpegno e la banalità culturale, soprattutto di questi nostri tempi oscuri, affrescando un disco politicamente lucido e schierato, che nella fenomenale La Rivoluzione (non sarà trasmessa su You Tube) ha un innodico apice. Tematicamente e musicalmente potentissimo e variegato, Bioscop è un ottimo album e una gran bella boccata d’aria fresca. Disco del mese.»

Lino Brunetti su Buscadero, Giugno 2014


Un altro brano molto gettonato nelle recensioni è Stay Human, inserito anche nella compilation Save Gaza, nata per iniziativa della Rete Romana di Solidarietà, con l’intento di sostenere il Centro Italiano di Scambi Culturali VIK. I brani sono tutti in Creative Commons e si possono scaricare da Bandcamp e Jamendo. Le due piattaforme sono collegate a un conto bancario per le donazioni.



«Non è per pura affezione alle storie, che i Wu Ming si muovono. Come hanno dichiarato, queste sono «brevi biografie maschili usate in maniera pretestuosa per parlare d’altro». Quest’altro non è che la coscienza collettiva troppo ferma ad aspettare che ci pensi sempre qualcuno al di fuori, che rimane poco avvezza alla novità e anzi la denigra, optando per una «rivoluzione senza rivoluzione/ossimori a quintali per non ingrassare» (refrain di Cura Robespierre). Sintomi palesi di una società in realtà grassa e sempre più affamata, attaccata selvaggiamente nell’ultima, anatemica, declamazione finale Stay Human, dove il motto di Vittorio Arrigoni viene accostato forse un po’ forzosamente ma con un’efficacia inaudita al motto Stay hungry, stay foolish pronunciato da «un tizio che vendeva smartofoni e calcolatori».

Sebbene questo sia un progetto parallelo, non è stato ideato affatto come svago. E non con leggerezza pretende di essere ascoltato. La dichiarazione esplicita è quella di far riflettere, di far smuovere le idee in quante più forme possibili. Non sarebbero i Wu Ming, altrimenti. Al momento, non ci resta che aspettare con grande entusiasmo il secondo capitolo, dedicato interamente a figure femminili.»

(da”Bioscop, un album di storie firmato Wu Ming Contingent” di Stefano de Romanis, su Dailystorm)


«C’è un filo rosso che lega le storie di questi personaggi tanto diversi tra loro per attributi, provenienza, competenze ed estrazione sociale, che – non si nasconde certo – è quello della rivolta. Sono tutti ribelli e rivoluzionari, ognuno a modo suo, nelle forme e nei campi che gli competono. Il lavoro dei Wu Ming Contingent prende dunque una piega espressamente politica, e sfrutta il genere biografico e la forma canzone per parlarne.

Se sul piano musicale una leggerezza stilistica combinata con questo formato può portare a una ridondanza di riff e melodie, la qualità dei testi e il valore dei temi trattati ricompensa costantemente l’orecchio dell’ascolto – toccando il suo zenit proprio nel brano di chiusura del disco, dedicato ad Arrigoni. A dar man forte ai testi ci sono poi brani di valore assoluto come il già citato Soldato Manning, Cura Robespierre e La rivoluzione (non sarà trasmessa su youtube) – brano paradigmatico sin dal titolo, che occupa la metà esatta del disco non a caso.

Dagli scaffali delle librerie ai blog, dai reading al palco: i Wu Ming – nelle varie forme che il volto di questo noto Sig. Nessuno via via assume – non perdono la capacità di lasciare un segno, e al contrario vengono premiati da ogni nuova frontiera che decidono, brillantemente, di varcare. Rivoluzionari.»

(Qui il resto dell’articolo di Andrea Suverato su outune.net)


«Ci sono storie, storie di persone di cui riconosciamo senza difficoltà il ruolo nella Storia. E poi altre persone delle quali invece spesso sappiamo poco. Ed altre ancora di cui addirittura ignoriamo l’esistenza. Ognuna di queste però ha compiuto delle scelte che hanno inevitabilmente influenzato il corso degli eventi; quel fiume che diventa il corpo della Storia. Ma la Storia, oltre a custodire il senso di ciò che siamo, porta con sé un difetto: tende ad appiattire le figure adagiate sulla freccia del tempo. E soprattutto la Storia è soggetta a reinterpretazioni e cancellazioni a seconda di chi ha il potere, in un dato momento, di riscriverla. Mentre è dovere dello storico riuscire a mantenere per quanto possibile una certa oggettività, spetta sovente alla letteratura il compito, ricorrendo anche a delle invenzioni, di restituire tridimensionalità ai personaggi cercando di rielaborarne una complessità tutta umana nella sua contradditorietà. E proprio sullo slancio della propria avventura letteraria, anche in “Bioscop” il collettivo Wu Ming si concentra nel narrare storie nella Storia, tratteggiando i contorni tanto di personaggi noti (Ho Chi Minh, Sòcrates), tanto quelli dapprima sfumati di altri diversamente relegati al ruolo di comparse (Bradley Manning, Peter Normann): “nel nostro album c’erano le foto che credevamo di conoscere bene…ma c’è vita oltre la cornice e una voce che tace fuori campo” (cit. Peter Normann). E le storie scelte da Wu Ming hanno quasi sempre a che fare con delle rivoluzioni.

Uscito quasi in contemporanea con l’ultimo romanzo collettivo “L’armata dei Sonnambuli”, questo lavoro discografico non stupirà più di tanto i più attenti seguaci dei Senza Nome. A più riprese infatti, alcuni autori del collettivo hanno nel corso degli anni prestato la loro voce e la loro presenza su più di un palco.[...]

Anche se verrebbe la tentazione di citare i veterani CCCP  per via di un limitrofo terreno punk, vale la pena sottolineare come siamo invece molto lontani dalle litanie salmodiate di Ferretti. Non tutti i brani di “Bioscop” raccontano delle storie. In continuità con l’attività di critica militante esercitata in rete attraverso la comunità Giap, il Contingent non risparmia di passare al tritacarne convinzioni e convenzioni di quest’era assolutista di mercificazione del pensiero; l’esaltante La Rivoluzione (non sarà trasmessa su YouTube) non si ferma semplicemente a rendere omaggio al poeta e musicista Gil Scott-Heron, quanto piuttosto sembra suonare come una vera e propria dichiarazione di guerra! Subito dopo ci pensa Cura Robespierre a smantellare alcune stupidità partorite dal basso ventre di “questi tempi idioti” (cit.). Un discorso a parte merita Stay Human, nel quale l’esortazione di Vittorio Arrigoni viene contrapposta, attraverso un’amara oscillazione dei significati e delle attribuzioni, allo ‘stay foolish, stay hungry’ di Steve Jobs. Per concludere, bisogna sottolineare come alle volte, durante l’ascolto, si senta il bisogno di un cambio di dinamica perchè si possa riprender fiato. Ma forse il modo migliore per affrontare “Bioscop” è lo stesso che molti adottano nella lettura di una serrata raccolta di racconti brevi: un po’ per volta. D’altronde è chiaro che questo non è un disco come gli altri.»

(Qui l’intero articolo di Aldo De Sanctis su Distorsioni.)


Di tutte le recensioni, la più lunga e articolata è quella uscita sul blog The Great Complotto Radio (da notare che il titolo di un libro-oggetto che ci sta molto a cuore è Piermario Ciani. Dal Great Complotto a Luther Blissett, AAA, Bertiolo, 2000)


«Wu Ming Contingent è la bella versione musicale di ciò che i Wu Ming continuano ad essere in letteratura. New wave, rock, spirito punk e digressioni jazz: la musica vive di un carattere proprio e non è mera ombra a testi ispirati, curiosi ed interessanti.

Un disco efficace, bello ma soprattutto al posto giusto nel momento giusto.[...] All’inizio Bioscop può sembrare uno strano reading non focalizzato ma superata questa prima errata sensazione si entra appieno nel linguaggio delle 10 tracce, sorrette da un buon e consapevole punk anni ’90, il rock dalle radici new-wave, le digressioni jazzate che esprimono sia la matrice culturale nella quale i nostri crescono sia il gusto e le passioni che si possono evincere anche nei loro testi: il risultato è quindi un substrato sonoro fertile ed in continua mutazione su cui adagiare i testi e rendere partecipe l’ascoltatore dei dubbi, delle circostanze, del mistero e del fascino che ogni “racconto” esprime. [...] Si richiede concentrazione, astenersi i perditempo con il dito facile per skippare selvaggiamente le canzoni.

Come si diceva il primo impatto è spiazzante, poi si inizia a fare amicizia con il suono e con la parola, ci sono momenti in cui cala lo spessore della proposta perché “pesante” la recitazione, perché “sfuocata” la musica in sé, perché tanta sincerità non implica quasi mai simpatia incondizionata e può succedere di trovarsi “contro”, ma presto si torna a catalizzare la propria attenzione sulla musica, sui testi, in alternanza o in comunione: e sentirsi vivi viene da sé, e viene fame di altri dettagli, di altri suoni, di carpire nuovi stimoli che certo sono in abbondanza.[...]

Sono uno che ancora crede che le parole nelle canzoni possano realmente essere “disciplina del vivere” ma, forse, recentemente si sono perse in un’estetica troppo compiaciuta o addirittura in una frivola sostanza che a guardarla meglio risulta un vento leggero. Forse ignoranza, forse paura di esprimere concetti che ai più risultano scomodi. Sicuramente non un vento di rivoluzione.

Tutto questo però prima di BIOSCOP.

Tutto questo perché BIOSCOP dei WU MING CONTINGENT è un incalzare di suggerimenti e stimoli nel rimanere vigili ed attenti non solo al proprio quotidiano ma anche a quel flusso che ci circonda, che potremmo definire storia, ma anche coscienza collettiva, di questi tempi merce rara.[...]

Personalmente credo sia un album necessario, ma soprattutto tempestivo, sicuramente sincero.»

(da “Wu Ming Contingent: Bioscop e le sue gemme di rivoluzione“)


Infine, molti recensori hanno sottolineato l’aspetto poliedrico o multimediale della nostra produzione, sul quale ci eravamo espressi anche nella già citata intervista con Simona Frasca, su Alias:


«- L’attività live non vi manca. Che spazio occupa la musica a questo punto del vostro percorso?

- Fin dalle origini del nostro progetto amiamo definirci “cantastorie” e coltiviamo l’ambizione di “raccontare con ogni mezzo necessario”. Tuttavia, al di là di questa dichiarazione d’intenti, il nostro mestiere è la narrativa scritta, la nostra cassetta degli attrezzi è fatta di parole. Questo comporta, da un lato, la necessità di collaborare con altri soggetti, per farci condurre fuori dalla nostra “zona di comfort”; dall’altro, la natura “creola” di queste collaborazioni,  dove abilità diverse si incontrano, senza la pretesa di fondersi. Se guardi la nostra produzione ci sono fumetti, audiolibri, dischi, libri fotografici, film, cortometraggi, romanzi, oggetti narrativi non identificati, saggi, guide per escursionisti, spettacoli di magia, reportage…  Tuttavia, non siamo scrittori polivalenti ed eclettici, ma narratori che provano a portare il loro linguaggio dentro diverse discipline, con l’aiuto di chi, in quelle discipline, è già un maestro artigiano. La musica – di tutti gli “altrui mestieri” – è indubbiamente quello che sentiamo più vicino, tanto per ragioni biografiche che per attitudine naturale. Di conseguenza, è quello dove ci risulta più immediato – ma non per questo “più comodo” – sperimentare nuove forme narrative.»


«Probabilmente non è un caso che nello stesso periodo d’uscita del loro ultimo romanzo (L’armata dei Sonnambuli) i Wu Ming abbiano deciso di pubblicare un disco, in un certo modo assimilabile al libro, come se fosse una continuazione di un progetto più profondo. La cosa non sorprende affatto data la bella produzione sempre poliedrica e multimediale del collettivo.

[...]Il passato musicale dei membri della band si fa sentire, ma non troppo. Ritroviamo accenni punk, dai Clash ai Ramones, oserei dire anche un po’ di Stooges per non parlare dei nostrani cari vecchi CCCP (non per la qualità testuale, che si discosta profondamente dalle salmodiate di Ferretti), ritroviamo anche il non propriamente cantato ma recitato, alla Massimo Volume e Offlaga Disco Pax giusto per fare due nomi belli e conosciuti. Ma essendo i Wu Ming poco propensi alle classificazioni a livello sonoro ci mettono dentro anche del blues, ritmi funk e quel pizzico di Black music che rende il tutto più accattivante.

Per quanto riguarda i testi invece c’è tutta la carica espressiva dei Wu Ming scrittori. Non sono mai banali ma non per questo pretenziosi, carichi di un bel realismo, spesso crudo ma volontario e necessario per descrivere le ambiguità e i fallimenti del nostro presente.[...]

Bioscop non è un disco da ascoltare in sottofondo, è un disco che va Ascoltato, che va compreso perché può darti realmente qualcosa, può arricchirti, informarti e darti la voglia di resistere e combattere.»

( da “Senza Nome ma con tante cose da dire” di Luca Vecchio su Antecritica)


«Il disco può dirsi davvero un libro da ascoltare, ma quello che emerge non è tanto il lavoro letterario, bensì quello musicale, definito a tuttotondo, ben curato, che non manca di nulla. Perciò al di là del loro passato e del loro futuro che probabilmente non si concentrerà sulla carriera musicale (anche se si vocifera un secondo disco in cantiere pieno di storie di personaggi femminili) i Wu Ming Contingent passano anche il varco di un’altra arte, potendo affermare senza riguardi che se si crede davvero nel messaggio che si vuole comunicare, i risultati si vedono eccome. Questa volta, attraverso il Bioscop.»

(Qui la recensione completa di Ivonne Ucci su Rockshock)


«Quando la musica travalica i confini, spesso si contamina con la letteratura o altre arti come la pittura o il cinema. E’ quello che in parte succede in questa espressione pura del pensiero indipendente che si identifica in Bioscop, opera prima musicale di un collettivo che risponde al nome di Wu Ming Contingent. [...] Se non avete mai sentito parlare di loro sappiate che troverete in Bioscop quelle tipiche sonorità del punk e della new wave che fanno parte del retroterra musicale dei protagonisti del progetto. [...] Il tutto trattato però con un personale approccio che permette ai WMC di costruire convincenti e coinvolgenti brani declamati che ricordano, più che attuali epigoni, le ancora valide provocazioni letterarie-sonore dei gloriosi CCCP.»

Tonino Merolli su Raro


«Intelligente, ispirato e stimolante, “Bioscop” è un gran bel debutto che presto, per nostra fortuna, sarà doppiato da un secondo capitolo dedicato a figure femminili.»

(Qui la rece di Giacomo Messina su kdcobain.it)


«L’operazione messa in atto dal collettivo Wu Ming Contingent a parole potrebbe sembrare forse pretenziosa e dunque pesante, ma l’attitudine squisitamente pop che la pervade la rende fortunatamente godibile e divertente. Un gruppo che non è solo un gruppo musicale, un disco che non è soltanto un disco comunemente inteso. Da provare.»

Francesca Scozzarro su Do You Realize


«La pubblicazione di questo esordio non è casuale. Il collettivo Wu Ming ha sempre collaborato con gruppi come Offlaga Disco Pax, Massimo Volume, Bachi da Pietra, Uochi Tochi, spesso supporter dei loro reading.»

Vittorio Lannutti su La Scena


«C’è l’incalzare rivoluzionario dei Fugazi e il conflitto di Assalti Frontali, le chitarre dei Television e anche derive ritmiche di funk bianco e nero, James Chance e Gil Scott Heron. Tutta musica che è incendio, scontro, barricate e ghigliottine. Rivoluzione. Un disco da suonare ad alto volume, assimilare tutto d’un fiato, come un bicchiere di whisky da trangugiare prima di lanciarsi a capofitto contro l’avversario. A mani nude e testa bassa.

Un disco che è un elenco anthemico ed eccitante di storie di uomini. Uomini sui quali i riflettori della storia hanno fatto, spesso controvoglia, luce. Luce che ha generato mito. E uomini che invece sono rimasti fuori dalla ribalta.»

( da “Cura Robespierre” sul blog Dikotomiko)


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A conclusione di questa lunga cavalcata, ringraziando tutti coloro che hanno recensito il disco, ricordiamo che:


1) Il Wu Ming Contingent ha un profilo Facebook, gestito da Yu Guerra e Cesare Ferioli. Al momento, si tratta dell’unico avamposto wuminghiano su quella piattaforma, una sorta di laboratorio semi-clandestino dove cerchiamo di capire se la creatura di Zuckerberg può essere usata in maniera creativa e contro sé stessa.


2) Bioscop, purtroppo, non ha ricevuto una distribuzione capillare. Con L’Armata dei Sonnambuli sugli scaffali, molte librerie che tengono anche dischi avrebbero di sicuro fatto una buona mossa a proporlo. Non è andata così. Per fortuna, esiste anche il sito dell’etichetta Woodworm, dove si può ordinare il CD a 10€ e il vinile + CD a 18€ più spese di spedizione. Chi volesse accattarsi il leggendario vinile “neon pink” farà bene ad affrettarsi perché sono rimaste le ultime copie.


3) Dal medesimo sito di Woodworm, si possono pure acquistare le magliette grigieCura Robespierre”, e a breve anche quelle nere. Nei banchetti wuminghiani, a latere di concerti e presentazioni, faranno presto la loro comparsa quelle rosse.


4) Prossima data fissa e già confermata per il Contingent:

22 novembre – Festa di compleanno del Centro Sociale Acrobax – Roma

Altre sono in orbita e presto atterreranno, ma in linea di massima ci prenderemo il mese di ottobre per iniziare i lavori sul secondo album.


5) Molti di voi avranno ormai ascoltato le tracce dell’album e qualcuno è venuto a sentirci dal vivo. Nei commenti, attendiamo le vostre impressioni.


The post «Salgono sul palco i Wu Ming Contingent». Le recensioni estive di #Bioscop appeared first on Giap.

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Published on September 25, 2014 13:39

September 24, 2014

Narrazioni digitali non identificate (L’archivio e l’istante)

Aby Warburg (1866 – 1929), de/taglio delle tavole di Mnemosyne, il grande “atlante della memoria” a cui lo storico della cultura, pioniere dell’ipertesto in epoca pre-elettronica, lavorò negli ultimi anni di vita. Clicca per allargare la visuale.


di Flavio Pintarelli (guest blogger)


Quando si cominciò a discutere di Oggetti Narrativi Non Identificati (UNO), nel 2008, in seguito alla pubblicazione del «memorandum sul New Italian Epic», il focus fu immediatamente rivolto verso la letteratura. Gomorra, Asce di Guerra, Sappiano le mie parole di sangue erano libri che ponevano alla riflessione e al dibattito letterario problemi importanti. Erano, in ottica NIE, lavori che mettevano alla prova soprattutto il rapporto tra l’autore e le sue fonti, problematizzando la questione dello sguardo e del punto di vista. Di fronte all’archivio in tutte le sue forme, come doveva porsi e come doveva procedere il narratore interessato a restituire uno sguardo sulla realtà che non si riducesse alla mera cronaca dei fatti ma rivendicasse la possibilità di intervenire sullo stato delle cose? Questa sembrava essere la domanda più pressante, il quesito ineludibile che quei libri ponevano a chi cercava di avvicinarli nonostante la riottosità di quei testi.


Negli anni seguenti il quesito venne approfondito e la riflessione ebbe un incontro fruttuoso con gli studi sul cinema e sul visivo da cui la teoria degli Oggetti Narrativi Non Identificati prese in prestito alcuni concetti fondamentali legati alla riflessione sul montaggio come tecnica di narrazione ed elemento semiotico. Lo scambio tra i due paradigmi avvenne anche grazie al terreno comune caratterizzato dalla riflessione che entrambi portavano avanti sul concetto di archivio, sia dal punto di vista teorico che dal punto di vista pratico.


Oggi, a oltre sei anni di distanza dalla prima apparizione del memorandum di Wu Ming 1, il termine «Oggetti Narrativi» è diventato parte integrante del vocabolario critico. Viene usato comunemente per indicare quelle opere che utilizzano sistematicamente il montaggio di materiali d’archivio per problematizzare la posizione dell’autore rispetto alla vicenda raccontata; a volte includendo direttamente l’autore nella narrazione, altre volte mostrandone l’estraneità o la distanza. In ogni caso si tratta sempre di opere che polverizzano la distanza di sicurezza tra l’autore e la sua narrazione, rispetto alla quale egli è sempre in qualche modo coinvolto, non uscendone mai indenne o incolpevole.


Libri come Point Lenana di Wu Ming 1 e Roberto Santachiara, Timira di Wu Ming 2 e Antar Mohamed, Amianto di Alberto Prunetti o Un giorno triste così felice di Lorenzo Iervolino sono esempi straordinariamente compiuti di questa tipologia di opere.


Di Oggetti Narrativi Non Identificati, fino a oggi, si è parlato soprattutto a proposito di libri o di film, ma credo che sia arrivato il momento per provare ad allargare questa tipologia a un tipo di narrazioni che si stanno ricavando uno spazio sempre più ampio nelle nostre abitudini di lettura: le narrazioni digitali interattive.


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Nel 2008 la rete era abbastanza diversa da quella che siamo abituati a vivere oggi, anche se la transizione è stata meno percepibile di quanto si possa pensare. Facebook era stato creato quattro anni prima e soltanto da due era accessibile anche agli utenti sprovvisti di un account di posta elettronica con dominio universitario. Su Twitter si cinguettava soltanto dall’estate del 2006 e il primo vero successo della piattaforma di microblogging era arrivato solo l’anno successivo, quando durante il South by Southwest festival (un festival musicale e cinematografico che si svolgeva ad Austin, in Texas) il numero dei tweet creati giornalmente triplicò passando da 20.000 a 60.000. My Space era ancora in attività, ma lo sarebbe rimasto ancora per poco. Al di fuori dei primi social network era la blogosfera a fare la parte del leone in quello che allora veniva chiamato il web 2.0, ovvero quell’insieme di protocolli e soluzioni che rendevano gli strumenti digitali di creazione dei contenuti estremamente accessibili anche ad utenti con scarse o nulle competenze informatiche.


Pochi anni dopo lo scenario si presentava completamente mutato, coi social network diventati parte integrante della nostra vita, e la dicotomia tra reale e virtuale, che fino a poco tempo prima aveva guidato la maggior parte delle riflessioni sulla cultura digitale, appariva ormai completamente scavalcata e destituita di senso. Il miliardo di utenti attivi raggiunto da Facebook nel 2012 è uno dei segni più evidenti di questa avvenuta mutazione.


Una mutazione la cui natura abbiamo compreso a fondo in occasione dello scandalo NSA quando, grazie alle rivelazioni del tecnico informatico della CIA Edward Snowden, il giornalista Glenn Greenwald e la documentarista Laura Poitras hanno rivelato l’esistenza di un vasto programma di sorveglianza condotto dal governo americano con l’ausilio delle più importanti corporation dell’information technology.


La raccolta, l’archiviazione e l’utilizzo dei dati degli utenti rappresentano la vera natura del web attuale e queste operazioni non fanno altro che configurarlo come un gigantesco archivio in cui non soltanto sono raccolti tutti i metadati che riusciamo a produrre, ma anche tutte le nostre (auto)narrazioni. Quei racconti frammentati, liquidi e granulari, che distribuiamo in forme diversissime utilizzando i nostri account web: dalle fotografie su Instagram, ai post sui blog, passando per i tweet, gli aggiornamenti di stato su Facebook, le conversazioni sui forum, i loop di Vine e tutte le altre possibile forme di (auto)narrativa digitale che stiamo imparando a padroneggiare.


Per chi fa della pratica e della teoria dell’archivio una questione di politica della narrazione, un modo per ragionare sulle forme di accesso e intervento sulla nostra esperienza del mondo, il web contemporaneo offre uno straordinario e problematico oggetto d’analisi e di sperimentazione. Potenzialmente qualsiasi grano o frammento d’informazione prodotto in rete può diventare parte di un racconto, connettersi e risuonare con altri elementi, ampliando in questo modo i propri significati. Tuttavia questa appare più come una potenzialità inspressa e un plesso problematico che non come una reale opportunità a disposizione del narratore interessato a capitalizzare l’archivio nel proprio lavoro. Questo perché la velocità a cui si muove l’informazione prodotta in rete è elevatissma, come elevatissimo è il rumore di fondo. Il tempo necessario all’elaborazione del materiale si riduce notevolmente e il rischio che si corre è di venire trascinati dalla corrente dei diversi flussi perdendo così la possibilità di organizzarli in un insieme coerente. L’attività di curation, ovvero di curatela dei flussi d’informazione digitali, oscilla sempre tra questo genere di problematiche, ovvero sulla capacità e la possibilità di lavorare i materiali archiviati nei vari flussi senza farsi trascinare nella rapidità degli eventi (perdendo così la possibilità di dar loro un senso compiuto).


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Storify, dare forma all’istante

Rilasciato in beta nel settembre del 2010 come finalista del Disrupt di Techcrunch e reso disponibile al pubblico nell’aprile dell’anno successivo, Storify è un servizio che offre una possibile soluzione a chi cerca una sintesi tra la velocità con cui viene prodotta l’informazione online e la possibilità di organizzare quest’ultima in un oggetto in grado di connettere singoli elementi in una narrazione pienamente compiuta, capace anche di dare vita a specifici effetti di senso.


Ciò significa che l’interfaccia del servizio permette di creare un ipertesto navigabile composto da unità distinte d’informazione digitale. Queste vengono organizzate in un racconto a partire dalle operazioni di ricerca, recupero e archiviazione che il servizio rende possibili. Creare uno storify significa perciò capitalizzare narrativamente quello sterminato  archivio di user generated content che il web mette a nostra disposizione. Tuttavia, poter utilizzare questo strumento in tutta la sua potenzialità significa essere consapevoli della logica di Storify ovvero essere consapevoli che il montaggio è l’operazione fondamentale con cui si opera sul materiale d’archivio che il servizio ci permette di recuperare e maneggiare. Privi di questa consapevolezza si rischia di avvicinarsi a Storify soltanto come a uno strumento per raccogliere e aggregare materiali digitali senza però dar loro alcuna parvenza di organizzazione. Impedendo loro, di fatto, di organizzarsi in una rete di senso in grado di conferire a quei singoli elementi semiotici discreti una voce che sia in grado di fare sintesi della loro unicità. Insomma una sorta di grado zero della potenzialità linguistica di Storify che si è visto spessissimo nella fase di massimo hype intorno al servizio, quando furono in molti ad avvicinarcisi spinti dal passaparola senza però approfondirne davvero le potenzialità. Un po’ come accade oggi su Medium, un servizio che dovrebbe stimolare chi lo usa a confrontarsi con forme di narrazioni pienamente digitali, sfruttando la facilità di utilizzo e le potenzialità grafiche e tipografiche del servizio, ma che troppo spesso viene utilizzato come semplice surrogato del blog.


Ma cosa rende diverso uno storify da un post pubblicato su una qualsiasi piattaforma di blogging? Tutto sommato abbiamo appena detto che non si tratta altro che di un ipertesto realizzato grazie a un’interfaccia che permette il recupero e l’archiviazione dei elementi creati e distribuiti nel web. A parte questa differenza a livello di backend, anche un post scritto con WordPress, a conti fatti, è un ipertesto. A rendere estremamente diversi due oggetti digitali della stessa natura è il modo in cui Storify permette di organizzare le informazioni, mantenedone l’unicità e la specificità semiotica, ovvero quelle marche che rendono la singola unità riconoscibile. Quando citiamo un link all’interno di uno storify quello appare sottoforma di snippet, ovvero di frammento che riporta un certo numero di informazioni sull’elemento a cui rimanda: titolo, data e ora di pubblicazione, metadescription o estratto dal testo, immagine. E lo stesso vale per un tweet, uno status su Facebook, una foto su Instagram, un loop su Vine o qualsiasi altro elemento digitale. L’effetto sul lettore è diverso da quello che si ottiene embeddando un link in una porzione di frase, come siamo abituati a fare quando scriviamo un post sul nostro blog. In questo caso la natura del collegamento è soltanto suggerita dal modo in cui noi lo incorporiamo nel testo, ma non appare come singolo elemento di una narrazione che, è bene ricordarlo, su Storify beneficia moltissimo della possibilità di inserire tra un elemento e l’altro porzioni di testo in grado di fornire un contesto e una guida di navigazione al lettore. Un po’ come se questi elementi testuali fossero le cuciture della narrazione che tengono insieme e danno senso agli elementi archiviati e montati, organizzandoli in un percorso.


Orson Welles


Quello che è importante tenere a mente è che ci sono contenuti o argomenti o formati narrativi che si prestano meglio di altri a essere raccontati attraverso Storify ed è perciò cura del narratore saperli riconoscere e valorizzare al meglio. Ad esempio, in occasione del festival della letteratura di Mantova, Maria Teresa Grillo e Lorenzo Alunni, redattori del blog il lavoro culturale, hanno realizzato una corposa copertura dell’evento concretizzatasi un un live tweeting di due giorni, un post e uno storify dedicato all’evento. è curioso notare come il post e lo storify siano praticamente la stessa cosa, ovvero un glossario delle parole più significative del festival. Tuttavia, tra i due, lo storify si dimostra il format più potente e più significativo, perché al testo di sintesi dei due redattori vengono aggiunti i tweet che contestualizzano la sintesi e la riflessione. Ed essendo quella su Twitter una scrittura che ha forti contaminazioni con l’oralità (come la maggior parte della scrittura dei social network) realizzare uno storify che ha come protagoniste le parole, affiancandole con questa forma di scrittura vocale che sono i tweet, significa aumentarne considerevolmente la portata e l’efficacia narrativa.


Un altro esempio di quanto sia importante scegliere il formato giusto per raccontare qualcosa ce lo forniscono tre post pubblicati di recente qui su Giap:

lo storify dedicato alla lotta del PKK e delle YPG contro le forze dell’ISIS nelle regioni del Kurdistan tra Turchia, Siria e Iraq del nord,

e i due resoconti di montagna del gruppo #AlpinismoMolotov:

No Picnic on Rocciamelone;

Alpinismo Molotov sul Triglav: contro nazionalismi e alpinismi hipster.

Tutti e tre sono lavori di montaggio, il primo nei termini e nelle forme della capitalizzazione narrativa dell’archivio, mentre il secondo e il terzo come forma di polifonia della scrittura di montagna. La domanda è la seguente: questi racconti avrebbero potuto essere realizzati diversamente? L’esperimento di armonizzazzione delle voci di #AlpinismoMolotov avrebbe potuto diventare uno storify? E la lunga rassegna sull’esperienza rivoluzionaria dei Curdi del PKK sarebbe stata ugualmente efficace se fosse stata esposta in un post?


Le risposte sono entrambe negative, ed è lo stesso Wu Ming 1 (coordinatore di tutti e tre gli interventi) a confermarmelo in uno scambio avuto via email che segue una conversazione dal vivo:


«Ho constatato, nei giorni scorsi, che per un montaggio tipo Alpinismo Molotov (che adotta la stessa filosofia di New Thing, e mutua diverse cose da Point Lenana), Storify risulta meno usabile di quanto lo sia per montaggi più lineari e discernibili nella loro diacronia, come appunto quello sul PKK. Per quello, Storify è stato lo strumento *perfetto*. Per una cosa come quest’ultima sul Triglav, molto meno. Inizialmente ho provato a utilizzarlo, ma mi sentivo meno libero.

Come ci siamo detti a La Val, Storify si presta poco alla manipolazione/scomposizione di grossi spezzoni di testo. È invece perfetto per mettere in fila unità di informazione significative che nondimeno ci arrivano come frammenti e necessitano di una “messa in ordine”, con brevi sezioni di testo puramente esplicative, che a volte sono meramente “fàtiche”, servono solo a mantenere il contatto, a far sentire a chi legge che l’autore del montaggio è ancora lì, non è andato via, non delega la narrazione solo ai vari tweet messi in fila.»


Quello che emerge dal confronto tra questi due formati narrativi è il modo in cui Storify sfrutta la possibilità di lavorare con elementi semiotici discreti. Il percorso di lettura sul PKK è più efficace di un post perché anche se il lettore non esce dal discorso in concomitanza con ogni collegamento ipertestuale, il contenuto di questo è comunque presente in una forma autonoma e con un numero di informazioni sufficente per poter seguire il discorso e le sue articolazioni. Mentre un lavoro come quello fatto coi resoconti di #AlpinismoMolotov, caratterizzato da una polifonia di voci che si armonizzano nel corso della narrazione, non avrebbe beneficiato di questa possibilità.


Credo comunque, rispetto all’osservazione di Wu Ming 1, che anche in Storify ci sia spazio per un lavoro sui falsi raccordi e per forme di racconto che non siano necessariamente lineari e discernibili nella loro diacroni.


Tuttavia, avviandomi alla conclusione, quello che mi pare davvero significativo di Storify e del metodo di lavoro che caratterizza questo strumento, è il modo in cui ti porta a contatto con l’essenza della narrazione, con il suo carattere archivistico, combinatorio e manipolatorio (non in senso di mistificazione ma di manualità). Per riattivare la metafora sartoriale usata poco più sopra, rispetto a narrazioni digitali interattive come Snowfall del New York Times o The NSA Decoded del Guardian, Storify assomiglia più all’imbastitura che non alla cucitura definitiva di un abito narrativo. Questo perché la forma di elenco di singole unità discrete d’informazione rende visibile l’operazione di montaggio dei singoli elementi, la fa sentire come un’azione di selezione, raccolta e costruzione del senso messa in atto da una presenza umana riconoscibile, quella presenza dell’autore, il suo rimanere tra gli elementi dell’archivio che, secondo Wu Ming 1, è una delle caratteristiche fondamentali di Storify.


È una forma di montaggio visibile che si contrappone all’invisibilità del lavoro di montaggio che caratterizza narrazioni digitali interattive come quelle citate poc’anzi o un lavoro come quello portato avanti in #AlpinismoMolotov, dove pur essendo presente, il falso raccordo si scioglie nell’armonia delle voci.


È nell’intersezione tra queste due forme di racconto, quelle che rivelano apertamente l’operazione di montaggio e quelle che la sciolgono o la nascondono nella propria sintesi narrativa, che si apre un campo di applicazione della teoria degli UNO ancora poco esplorato, quello delle narrazioni digitali interattive. La possibilità, da parte nostra, di esplorare quel campo non è importante soltanto per poter creare nuove tipologie di oggetti narrativi, ma anche per aprire squarci sul nostro futuro prossimo di abitanti degli spazi digitali, lettori e scrittori di bit e atomi d’informazione.


The post Narrazioni digitali non identificate (L’archivio e l’istante) appeared first on Giap.

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Published on September 24, 2014 00:40

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