Wu Ming 4's Blog, page 95
March 11, 2015
Come si manipola la storia attraverso le immagini: il #GiornodelRicordo e i falsi fotografici sulle #foibe
di Piero Purini*
con la collaborazione del gruppo di lavoro «Nicoletta Bourbaki»
1. UN GIORNO A DANE, SLOVENIA, 31 LUGLIO 1942
Guardate questa foto:
Un plotone d’esecuzione in divisa, cinque fucilati di schiena che attendono la scarica.
Guardate quest’immagine:
E quest’altra:
E questa ancora:
Ce ne sono molte altre simili nei manifesti che pubblicizzano iniziative per il Giorno del ricordo.
A questo punto vi sarete convinti: i fucilati, chiaramente, sono italiani che vengono uccisi dalle truppe jugoslave.
La foto viene messa in onda nella trasmissione Porta a porta condotta da Bruno Vespa per la giornata del ricordo del 2012. Ospiti in studio, tra gli altri, gli storici Raoul Pupo e Alessandra Kersevan.
In quella trasmissione però emerge, con enorme disappunto di Bruno Vespa, che la foto non mostra la fucilazione di vittime italiane da parte dei feroci partigiani titini. Tutt’altro. Alessandra Kersevan fa notare che la foto ritrae la fucilazione di cinque ostaggi sloveni da parte delle truppe italiane durante l’occupazione italiana della Slovenia (1941-1943). Bruno Vespa attacca furiosamente la signora Kersevan (non si sa perché altri ospiti vengono definiti professore o professoressa, titolo che spetterebbe di diritto anche a questa ricercatrice storica); Raoul Pupo interviene sulla questione solo quando viene interpellato direttamente dalla Kersevan e conferma che il contenuto dell’immagine è completamente opposto a quanto viene fatto passare nella trasmissione. Quando è costretto a prendere atto che la foto ritrae effettivamente ostaggi sloveni fucilati da un plotone d’esecuzione italiano, il conduttore si giustifica dicendo che l’immagine è tratta da un libro sloveno.
Bruno Vespa non porgerà mai le proprie scuse alla professoressa Kersevan per il madornale errore.
In effetti la fotografia è stata scattata nel villaggio di Dane, nella Loška Dolina, a sudest di Lubiana. Si sa anche il giorno in cui la foto fu scattata, il 31 luglio 1942, e addirittura i nomi dei fucilati:
Franc Žnidaršič,
Janez Kranjc,
Franc Škerbec,
Feliks Žnidaršič,
Edvard Škerbec.
Come nella Wehrmacht e nelle SS, anche nell’esercito italiano si documentavano stragi e crimini, salvo tenerli nascosti negli anni successivi per confermare il (finto) cliché del «bono soldato italiano».
Il rullino di cui la fotografia faceva parte viene abbandonato dalle truppe italiane dopo l’8 settembre 1943 e finisce nelle mani dei partigiani. Nel maggio del 1946 la foto (insieme ad altro materiale che testimonia la Lotta di liberazione jugoslava ed i crimini di guerra italiani e tedeschi in Slovenia) viene pubblicata a Lubiana nel libro Mučeniška pot k svobodi («La travagliata strada verso la libertà»).
Nello stesso anno, sempre a Lubiana, viene pubblicato – stavolta in italiano – un altro libro sullo stesso tema, Ventinove mesi di occupazione italiana nella provincia di Lubiana: considerazioni e documenti, a cura di Giuseppe Piemontese.
Da quest’ultimo libro è tratta questa pagina, che riporta la foto con la didascalia: «…e un ufficiale si diletta a fotografare…»
…che è la continuazione del commento ad un foto pubblicata accanto: «Prima di venir fucilati devono scavarsi la fossa». Non è la stessa fucilazione ma sono gli stessi fucilatori, è un’esecuzione di ostaggi nella vicina Zavrh pri Cerknici, avvenuta quattro giorni prima.
La stessa immagine però è passata sul Tg3 riferita alle vittime delle foibe:
In un’altra pubblicazione – Tone Ferenc, La provincia “italiana” di Lubiana. Documenti 1941-1942, Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, Udine 1994 – si trova la didascalia con tutte le informazioni necessarie a identificare la fucilazione di Dane:
Eppure non basta: si continua a spacciare la foto dei cinque ostaggi sloveni come italiani vittime degli slavocomunisti.
In alcuni casi l’uso della foto nei manifesti della Giornata del ricordo scatena reazioni internazionali: a protestare contro il clamoroso errore (ammesso e non concesso che non si tratti di una bufala voluta) è addirittura il Ministero degli esteri sloveno che segnala al Comune di Bastia Umbra l’uso improprio della fonte. Altre volte lettere giungono da storici indipendenti come Alessandra Kersevan, Claudia Cernigoi e Sandi Volk. Le reazioni sono spesso di scuse (con la conseguente rimozione del materiale iconografico da siti on line), ma in alcuni casi – quali quella dell’assessore alla cultura di Bastia Umbra Rosella Aristei – si procede ad un’improbabile giustificazione dell’uso della foto come denuncia simbolica della violenza, esecrabile in tutte le sue varie forme.
La vicenda della foto di Dane ha il suo apice in una lettera di protesta spedita direttamente al presidente Napolitano da parte di Miro Mlinar, Presidente dell’Associazione dei combattenti per i valori della lotta di liberazione nazionale di Cerknica (Slovenia), offeso dal fatto che l’immagine fosse stata addirittura pubblicata impropriamente sul sito del Ministero degli interni italiano. Purtroppo non abbiamo lo screenshot del sito del Ministero, tuttavia la lettera di Mlinar è reperibile qui.
Il Presidente dell’Associazione dei combattenti slovena sostiene che è stata proprio la pubblicazione sul sito ufficiale italiano a giustificare in seguito l’uso scorretto della foto, facendola diventare uno strumento improprio per aizzare l’odio verso il popolo sloveno. Per questo suggerisce a Napolitano di spostare la data del Giorno del ricordo al 10 giugno, «data del vero inizio delle tragedie del popolo italiano.» A quanto mi risulta il primo presidente proveniente dal partito italiano che più aveva contribuito alla Resistenza non si è nemmeno degnato di rispondere a Mlinar.
Per la vicenda delle false attribuzioni della foto di Dane rimando a questo dossier e ringrazio Ivan Serra e lo staff del sito diecifebbraio.info per la minuziosa ricostruzione della bufala e delle sue implicazioni internazionali.
In qualche modo, tuttavia, la vicenda dell’abuso della foto di Dane arriva fino ai media nazionali. Finalmente, pochi giorni fa, se ne occupa un articolo sull’Espresso, grazie ad un post pubblicato proprio qui su Giap:
Si spera che con questo passaggio su un periodico a diffusione nazionale finalmente Franc Žnidaršič, Janez Kranjc, Franc Škerbec, Feliks Žnidaršič ed Edvard Škerbec possano avere la giustizia e la collocazione storica che si meritano.
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2. FUCILATI MONTENEGRINI SPACCIATI PER «VITTIME DELLE FOIBE»
Le bufale legate alla giornata del ricordo non si limitano alla fucilazione dei soldati di Dane. Ecco qui un altro esempio:
ed ancora un altro:
Nell’intento di chi ha utilizzato queste foto, la prima rappresenterebbe un gruppo di italiani uccisi dai titini e la seconda un partigiano che prende a calci un povero prigioniero italiano.
Anche in questo caso invece la realtà è un’altra (già le divise dei due militari della seconda immagine non lasciano dubbi che si tratti di un soldato e di un ufficiale italiano): entrambe le foto fanno parte dello stesso rullino e documentano la fucilazione di ostaggi e partigiani in Montenegro, occupato dall’esercito italiano dall’aprile del 1941 all’8 settembre 1943. Ne esiste la sequenza completa (sul sito criminidiguerra.it ), qui le tratteremo una per una perché ogni fotogramma contiene particolari che smentiscono si tratti di italiani.
I prigionieri montenegrini sono presi a calci da un soldato italiano riconoscibile dalla divisa mentre vengono portati sul luogo della fucilazione:
Poi i prigionieri sono schierati davanti al plotone d’esecuzione. Che non si tratti di italiani è intuibile dal copricapo del terzo e del quinto condannato da sinistra che indossano la tipica berretta montenegrina. Quattro ostaggi alzano il pugno chiuso, evidente testimonianza che – almeno quei quattro – sono partigiani comunisti. L’uomo al centro della foto, accanto a quello che mostra il pugno, indossa il berretto partigiano, la cosiddetta “titovka”.
Parte la scarica (italiana)…
Gli ostaggi sono morti. E’ la stessa foto che illustra la notizia del Giorno del ricordo a Cernobbio, ma ora sappiamo che sono vittime montenegrine degli italiani e non italiani vittime degli jugoslavi.
L’ufficiale italiano, la cui mano si intravede in alto a sinistra, spara il colpo di grazia ai fucilati. Anche in questa foto c’è un particolare che conferma il fatto che le vittime non sono italiane: uno dei morti calza le tipiche babbucce serbo-montenegrine, le opanke.
L’ultima foto del rullino:
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3. NUMERO D’INVENTARIO 8318
Altra foto che non rappresenta vittime delle foibe, ma che viene fatta passare come tale:
Fin da subito di questa foto non mi hanno convinto diversi particolari: il paesaggio non è per nulla istriano o carsico, le divise non sembrano assolutamente divise “titine” o anche di partigiani non inquadrati in formazioni regolari, i cadaveri sono troppi e troppo “freschi” per essere stati estratti da una foiba. Nel caso in cui non si trattasse di vittime estratte da una foiba ma di un’esecuzione sommaria da parte degli jugoslavi, colpisce invece il fatto che i morti sembrano essere tutti maschi e che non ci sia tra loro nemmeno una persona in divisa (dal momento che, nella vulgata fascista e neofascista sulle foibe, nel 1943 sarebbero stati eliminati tutti coloro che potevano essere considerati funzionari dello Stato italiano, compresi dunque militari e pure donne).
Dopo innumerevoli supposizioni (Katyn? Stragi di ebrei nel Baltico?), grazie alla solerzia di un giapster, Tuco, troviamo l’originale. Si trova nell’archivio dell’Armata Popolare Jugoslava a Belgrado. Eccola:
Che si tratti di una stampa dal negativo è chiaro dalla pulizia e dalla definizione dell’immagine: in nessuno dei siti italiani che riportano la foto, questa è così nitida e i dettagli così visibili. Ma ciò che è più interessante è quel che c’è scritto dietro. Il sito, infatti, riporta anche il retro della foto, dove ogni archivio fotografico segnala le note e la descrizione relativa all’immagine.
La traduzione è la seguente: «Numero d’inventario 8318. Crimine degli italiani in Slovenia. Negativo siglato A-789/8. Originale: Museo dell’JNA a Belgrado»
Dunque non si tratta, nemmeno in questo caso, di vittime delle foibe, ma piuttosto del contrario: vittime slovene uccise dall’esercito italiano.
Ciò che è impressionante è la velocità con cui su internet un’immagine diventa virale (e dunque “vera”): cercando nel web il 10 febbraio alle otto di sera, quest’immagine – secondo le mie modeste conoscenze informatiche – appariva sette volte, tutte e sette associata al descrittore “foibe”. Due giorni dopo (giovedì 12 verso le 23.00) la foto era reperibile su ben 103 siti, a dimostrazione dell’incredibile potenza moltiplicativa di Internet, pur trattandosi di una bufala.
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4. SI PARLA DEL «DRAMMA DEGLI INFOIBATI» E SI MOSTRA UN UFFICIALE DELLE SS
Su internet si trova anche la seguente immagine:
Immagine generalmente associata al massacro degli ufficiali polacchi a Katyn, alla liquidazione degli Shtetl in Polonia ed Ucraina, alle uccisioni delle foibe, addirittura ad esecuzioni da parte austro-ungarica di prigionieri catturati durante la disfatta di Caporetto nel 1917. Non ho trovato un archetipo, ma escludo tanto Katyn quanto le foibe in quanto non esistono testimonianze fotografiche delle esecuzioni ed in entrambi i casi non avrebbe avuto senso spogliare le vittime. L’attribuzione più plausibile mi sembra quella dell’eliminazione di prigionieri (russi?) in qualche villaggio dell’est o in un campo di concentramento, vista anche la divisa del boia, che sembra essere delle SS-Totenkopfverbände (Testa di morto), reparto adibito alla custodia dei campi nazisti.
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5. BRUNO VESPA CI RICASCA: I PARTIGIANI IMPICCATI A PREMARIACCO
Torniamo ora a Bruno Vespa. Oltre a non essersi mai scusato ufficialmente con Alessandra Kersevan per l’errore (?) dei fucilati di Dane, nella trasmissione dedicata alla Giornata del ricordo di quest’anno (2015), mentre sta parlando di «esecuzioni sommarie a Trieste», manda in onda questa foto:
Chiaramente lo spettatore ignaro viene indotto a pensare che si tratti di italiani impiccati dai partigiani titini. Invece non è così: come nel caso di Dane, Vespa mostra in un contesto un’immagine che è esattamente l’opposto. Si tratta infatti di partigiani friulani (più uno goriziano ed uno sloveno) impiccati a Premariacco in Friuli il 29 maggio del 1944. Anche i nomi delle vittime di questa strage sono conosciuti:
Sergio Buligan, 18 anni;
Luigi Cecutto, 19 anni;
Vinicio Comuzzo, 18 anni;
Angelo Del Degan, 18 anni;
Livio Domini, 18 anni;
Stefano Domini, 19 anni;
Alessio Feruglio, 19 anni;
Aniceto Feruglio, 17 anni;
Pietro Feruglio, 18 anni;
Ardo Martelossi, 19 anni;
Diego Mesaglio, 20 anni;
Mario Noacco, 20 anni;
Mario Paolini, 18 anni,
tutti di Feletto Umberto.
Inoltre:
Ezio Baldassi di San Giovanni al Natisone, 16 anni;
Guido Beltrame di Manzano, 60 anni;
Sergio Torossi di Corno di Rosazzo, 17 anni;
Antonio Ceccon di Dogna, 19 anni;
Luigi Cerno di Taipana, 21 anni;
Bruno Clocchiatti di Corno di Rosazzo, 17 anni;
Oreste Cotterli di Udine, 41 anni;
Agostino Fattorini di Reana del Rojale, 24 anni;
Dionisio Tauro di Chions, 41 anni;
Guerrino Zannier di Clauzetto, 25 anni;
Mario Pontarini o Pontoni;
Luigi Bon di Gorizia, 35 anni;
Jože Brunič di Novo Mesto.
Ecco la foto non deturpata dal logo della trasmissione di Vespa:
Dal momento che in contemporanea ci fu un’esecuzione collettiva anche a San Giovanni al Natisone e non è perfettamente chiaro quali dei partigiani elencati sopra siano stati uccisi a Premariacco e quali a San Giovanni, pubblichiamo qui di seguito anche la foto dei caduti per la libertà di San Giovanni al Natisone, sperando in questo modo di evitare preventivamente che si insulti anche la loro memoria (anche considerando che l’Anpi di Udine, pochi giorni dopo la bufala di Bruno Vespa, ha tolto dal proprio sito foto e riferimenti ai martiri del 29 maggio. Speriamo si tratti di un caso.)
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6. CHE C’ENTRA SREBRENICA CON LE FOIBE?
C’è poi l’articolo de «Il Piccolo» di Trieste che sarebbe esilarante se non trattasse di un argomento, anzi due, così macabro e doloroso.
Il sottotitolo della foto reca la dicitura: «L’esumazione di una parte dei cadaveri rinvenuti in una foiba». Peccato che la foto sia a colori, gli esumatori indossino jeans e sia evidente come l’immagine sia di decenni più recente. Facendo una rapida ricerca su internet si trova l’originale: è una fossa comune nel villaggio di Kamenica in Bosnia, nel Cantone di Tuzla, in cui sono stati sepolti musulmani bosniaci dopo la deportazione da Srebrenica.
L’errore è così grossolano che il giornale nel giro di poche ore sostituisce la foto con questa (che si riferisce effettivamente al recupero di corpi dalla foiba di Vines, 1943):
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7. LA «VERA STORIA» CON COPERTINA FALSA
Passiamo poi ad uno dei taroccamenti più evidenti dell’intera vicenda “foibe”, che richiama alcuni dei luoghi comuni più triti sulla bestialità dei partigiani, la sanguinarietà truculenta e la partecipazione delle partigiane (le terribili “drugarice”) alle azioni più violente. Si tratta della copertina del libro Una grande tragedia dimenticata. La vera storia delle foibe, di Giuseppina Mellace, edito da Newton Compton.
Nella copertina si vede un trio (ad occhio: un partigiano e due partigiane) nell’atto di sgozzare una vittima (presumibilmente un povero italiano). Anche qui però il taroccamento è palese. La foto originale infatti è questa:
Anche in questo caso si assiste ad un totale ribaltamento del senso dell’immagine. I carnefici della foto infatti sono una Crna trojka (“Terzetto Nero”), unità četniche, cioè appartenenti all’esercito nazionalista serbo. Si trattava di una sorta di tribunale volante che aveva il compito di eliminare collaborazionisti dell’occupatore. Con l’evolversi della guerra e con l’avvicinamento di Draža Mihailović ai tedeschi, le Crne trojke si dedicarono sempre più all’esecuzione sommaria di partigiani comunisti, di simpatizzanti del movimento partigiano e dei loro familiari. Che si tratti di četnici e non di partigiani è facilmente deducibile dall’abbigliamento: anziché la bustina partigiana (la cosiddetta titovka, già citata nel caso dei fucilati montenegrini), gli individui fotografati sul libro della Mellace hanno in testa una šajkača, il tipico copricapo serbo, utilizzato dai nazionalisti serbi.
Qui di seguito la differenza tra una titovka (che peraltro è sempre ornata da una stella rossa) e una šajkača (che solitamente ha in fronte uno scudo con l’aquila serba, decisamente più grande, come si può notare dal copricapo del četniko in piedi al centro della foto).
Il fatto poi che siano četnici esclude che le due persone in piedi siano donne: è noto che i nazionalisti serbi portavano i capelli lunghi alle spalle.
Inoltre che la vittima non sia un italiano è nuovamente intuibile dalle calzature, che sono – come nel caso di alcuni dei fucilati del Montenegro – opanke, cioè le babbucce tipiche della Serbia e del Montenegro.
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8. MORTI NEI LAGER NAZISTI E FASCISTI SPACCIATI PER… INDOVINATE COSA?
Per taroccare le immagini relative alla Giornata del ricordo non si è disdegnato di utilizzare anche i campi di concentramento e sterminio nazisti.
Il Comune di Brisighella (ma a grandi linee mi pare che l’utilizzo della foto sia più diffuso) commemora le foibe con questa foto:
…che in realtà è una foto di cadaveri nel campo di Bergen-Belsen; mentre su alcuni siti e addirittura in un manifesto della Provincia di Foggia appare quest’altra foto di bambini in un campo nazista…
…spacciandola – non si capisce bene in che modo – per una foto relativa alle foibe.
Sempre in tema di campi di concentramento ecco un’altra foto clamorosamente sbagliata:
In realtà si tratta di un deportato croato nel campo di concentramento italiano dell’isola di Arbe.L’immagine è addirittura sulla copertina di un libro di Alessandra Kersevan:
Ancora una volta le fotografie utilizzate per la Giornata del ricordo girano la verità storica di 180°, presentando le vittime come aguzzini e viceversa.
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9. FRANCESI IN FUGA DA HITLER SPACCIATI PER ESULI ISTRIANI
Non basta, manca l’esodo. Ecco qui una foto che negli ultimi tempi ha girato parecchio su internet: una bambina e la sua famiglia scappano dall’occupazione jugoslava di una città istriana.
Ma ecco la sorpresa:
La didascalia dice: «Bambini fuggono dall’avanzata di Hitler nel 1940». Si tratta di una foto scattata nel giugno del 1940 quando le truppe del Reich invasero la Francia. Dunque sbagliata la collocazione (non Istria, ma Francia), sbagliato l’anno (non 1945-47, ma 1940), sbagliato l’invasore (non Tito, ma Hitler).
La foto si trova addirittura sulla copertina di questo libro di Hanna Diamond, storica e francesista, docente all’Università di Bath in Inghilterra, ma come ben si sa, raramente in Italia si prendono in considerazione gli studi stranieri…
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10. BRIGANTI INFOIBATI
Appare su un sito la seguente foto di infoibati:
Peccato che queste vittime delle foibe siano state uccise circa ottant’anni prima, e non dall’esercito jugoslavo, bensì da quello italiano. Infatti è una delle tante foto che le armate sabaude scattavano ai cadaveri dei briganti appena uccisi, nell’intento di dimostrare la semibestialità delle masse rurali meridionali, di documentarlo con scientificità lombrosiana e di assecondare il gusto morboso dell’epoca. Al di là dell’errore marchiano (ma ci siamo abituati) in questo caso è interessante vedere la genesi dell’errata attribuzione che dimostra la superficialità assoluta con cui molti scelgono la documentazione fotografica da allegare agli articoli. L’immagine, infatti, è evidentemente tratta da quest’altro sito, in cui appaiono tre foto di briganti uccisi, stigmatizzando il fatto che esista la Giornata del ricordo per gli infoibati, ma non per le vittime della lotta al brigantaggio.
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11. DOVEROSE RIFLESSIONI
Colpisce il fatto che, mentre per le foibe manca una documentazione fotografica delle uccisioni e le immagini relative al recupero dei corpi sono abbastanza rare (il che potrebbe essere un ulteriore riscontro che le effettive uccisioni nelle cavità carsiche furono relativamente poche, nell’ordine di grandezza delle centinaia e non delle migliaia), immagini dell’esodo sono invece piuttosto diffuse, soprattutto quello da Pola, ma in occasione della Giornata del ricordo non si disdegna di adoperarne di fasulle. Perché?
Una parte di responsabilità va sicuramente attribuita al fatto che spesso queste ricorrenze sono organizzate (o pubblicizzate graficamente) da persone senza una sufficiente preparazione storica, quando non del tutto estranee all’ambito. Mi pare possibile che le foto vengano selezionate in base all’impatto emotivo che possono suscitare su chi le guarda e dunque non si vada troppo per il sottile. La foto dell’esodo “francese” ha in primo piano un’adolescente dall’espressione spaventata, che sicuramente è un elemento di grande presa emotiva e ha l’effetto di rappresentare l’esodo istriano per quello che non è stato: una fuga disordinata da un invasore sanguinario (come invece lo fu quella dei profughi francesi dalla Wehrmacht) invece che un processo migratorio sviluppatosi nell’arco di un decennio abbondante, come i dati statistici permettono di rilevare.
Tuttavia ciò che colpisce di più è il fatto che la maggior parte dei falsi che siamo riusciti a smascherare presenti un totale ribaltamento del contenuto: sono foto che mostrano vittime slovene (o croate o partigiane) uccise dagli italiani, ma vengono presentate come l’opposto, italiani vittime delle violenze slavocomuniste.
Una spiegazione “tecnica” potrebbe essere quella che gli addetti al reperimento del materiale si siano limitati a digitare su Google qualcosa tipo “Jugoslavia”, “crimini” o “vittime” e “italiani” e senza accorgersi siano capitati in siti dove vengono documentate le violenze italiane in Jugoslavia: l’utilizzo di quelle immagini sarebbe dunque semplicemente un errore di superficialità. Se è vero che la cura nella corretta identificazione delle immagini fotografiche è significativamente inferiore a quella riservata ad altre tipologie documentali, nel caso delle immagini delle foibe questa pessima pratica sembra quasi essere la norma.
Non mi sento però di escludere che questa totale inversione sia invece dolosa: che si tratti di un atto volontario nato proprio per instillare on line confusione e il dubbio che le foto delle vittime della resistenza siano effettivamente tali (e rendere questo dubbio virale attraverso l’incredibile forza di replica di internet), o forse più semplicemente per provocare, offendere e screditare la memoria della Lotta di liberazione jugoslava.
Un altro aspetto che salta agli occhi ricercando in questo campo è la carenza di immagini testimonianti la repressione violenta degli italiani ad opera dell’Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo, se confrontate alle foto esistenti di violenze italiane in Jugoslavia, decisamente più numerose e dettagliate. D’altra parte ciò è fisiologico: i popoli jugoslavi subirono un’invasione che provocò un numero enorme di vittime. La Jugoslavia ebbe un milione di morti su una popolazione di quindici milioni (cfr. John Keegan, Atlas of the Second World War); nella provincia di Lubiana vi furono 30.299 vittime su una popolazione totale di 336.300 abitanti (9% degli abitanti). Nella Venezia Giulia, invece, il numero delle vittime “italiane” dell’Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo arriva a poche migliaia (contando anche coloro che morirono in prigionia di stenti e malnutrizione, cosa che accadeva anche nei campi di prigionia angloamericani), tra cui alcune centinaia di “infoibati”. Non lo dico io ma il rapporto della Commissione storica italo-slovena, che certo non si può accusare di “titoismo”.
A dispetto della risonanza mediatica che viene data alle foibe e alle vicende del confine orientale, si trattò di un episodio minore e periferico in quell’immane catastrofe che fu la seconda guerra mondiale.
L’attribuzione a sé da parte italiana di questo materiale iconografico potrebbe semplicemente mascherare la consapevolezza di non averne o di averne pochissimo e di volersi opportunisticamente appropriare di quello dell’avversario per colmare le proprie lacune, in un’epoca come quella odierna in cui le immagini contano di più dei concetti.
L’idea che alla base di questi errori vi sia un opportunismo di questo tipo viene in qualche modo confermata anche dall’analisi di chi sono gli autori. Se nel caso di singoli utenti di Facebook o di blogger che arricchiscono con immagini i propri commenti, l’errore in buona fede può sicuramente starci; nel caso di giornalisti, di grafici o di impiegati comunali che cercano materiale fotografico per la Giornata del ricordo l’errore mi sembra possibile, ma abbastanza più grave. Del tutto ingiustificabile invece risulta un’attribuzione sbagliata quando si tratta di media a diffusione nazionale e di opinion maker come Bruno Vespa, oppure di istituzioni pubbliche nazionali, come nel caso del sito del Ministero degli interni denunciato da Mlinar. Un ultimo caso in questo senso è stata la foto allegata ai tweet per il 10 febbraio di quest’anno della Camera dei deputati…
…e del presidente della Camera Laura Boldrini:
L’originale di questa foto si trova alla Sezione storia della Biblioteca Nazionale e degli studi di Trieste (Narodna in študijska knjižnica – Odsek za zgodovino). A quanto ne so è stata pubblicata solo una volta, nel libro di Jože Pirjevec Foibe. Una storia d’Italia (Einaudi 2009). La foto completa è questa:
Si noti la didascalia presente sotto la foto.
Non appena alcuni utenti segnalano via tweet la falsificazione, lo staff comunicazione di @montecitorio e @lauraboldrini si affretta a rimuovere la foto da twitter scusandosi per l’errore ma, considerando che quell’immagine è stata pubblicata solo ed esclusivamente con una didascalia che ne spiega con chiarezza il contesto, è difficile pensare che il suo utilizzo per raffigurare le foibe sia dovuto soltanto a un’ingenuità. Ciò che inquieta è che siano le stesse istituzioni dello Stato a prestarsi a questo gioco, ma dal momento che la Giornata del ricordo è diventata uno dei pilastri della creazione di una mitologia collettiva nazionale italiana e della memoria condivisa, non stupisce che il travisamento della realtà storica e delle immagini venga portato avanti anche ad alto livello politico.
Il materiale fotografico è documentazione storica. Dovrebbe essere utilizzato come tale, con rigore e consentendo a chi lo guarda di avere tutte le informazioni che gli permettano di utilizzarlo al meglio: che cosa mostra la foto, dove è stata scattata, quando, da chi, dov’è conservata. Dovrebbe essere uno strumento per capire meglio gli avvenimenti storici, per poter comprendere gli eventi non solo attraverso la lettura, il racconto e la riflessione, ma anche attraverso la vista. L’utilizzo che invece si è fatto del materiale fotografico che abbiamo preso in esame è l’opposto di questo. Le immagini sono state utilizzate (e manipolate) per colpire le emozioni e non la ragione, sono state usate come santini della vittima di turno, come oggetti devozionali, reliquie con le quali esprimere e consolidare la propria fede, sono state manipolate per dimostrare l’esatto opposto di ciò che rappresentano. E, come buona parte delle reliquie, si sono dimostrate false.
A noi il compito di resistere, continuando a segnalare le manipolazioni della storia e a contrastare l’omologazione e il pensiero unico.
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* Piero Purini (Trieste, 1968) si è laureato in storia contemporanea all’Università di Trieste sotto la guida del prof. Jože Pirjevec. Ha poi frequentato corsi di perfezionamento post laurea presso l’Università di Lubiana e quindi ha conseguito il dottorato di ricerca presso l’Università di Klagenfurt sotto la guida del prof. Karl Stuhlpfarrer. Si occupa principalmente di movimenti migratori, di spostamenti di popolazione e di questioni legate all’identità e all’appartenenza nazionale: il fatto di aver studiato in Italia, Slovenia ed Austria gli ha permesso di analizzare la storia di una regione etnicamente complessa come la Venezia Giulia in una prospettiva più internazionale ed europea. È autore dei libri Trieste 1954-1963. Dal Governo Militare Alleato alla Regione Friuli-Venezia Giulia (Trieste, Circolo per gli studi sociali Virgil Šček – Krožek za družbena vprašanja Virgil Šček, 1995) e Metamorfosi etniche.
I cambiamenti di popolazione a Trieste, Gorizia, Fiume e in Istria. 1914-1975 (KappaVu, Udine 2010; nuova edizione: 2014). Per Giap ha scritto il saggio Quello che Cristicchi dimentica. Magazzino 18, gli «italiani brava gente» e le vere larghe intese (febbraio 2014). Affianca all’attività di storico anche quella di musicista.
Nicoletta Bourbaki è l’eteronimo usato da un gruppo di inchiesta su Wikipedia e le manipolazioni storiche in rete, formatosi nel 2012 durante una discussione su Giap. Con questa scelta, il gruppo omaggia Nicolas Bourbaki, collettivo di matematici attivo in Francia dal 1935 al 1983.
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March 10, 2015
Sulle lotte dei lavoratori nell’editoria: «Resistere un minuto più del padrone»
di Wu Ming 4
Alla vigilia della Grande Fusione, ovvero dell’acquisto di RCS da parte di Mondadori, una notizia giunge a rompere un po’ di uova nel paniere grande quanto il colosso editoriale che nascerà, equivalente a metà del mercato librario italiano.
No, non è l’appello lanciato da Umberto Eco e sottoscritto da svariati autori, contro l’avvento del supersoggetto editoriale, in nome della libertà di stampa, di espressione, di pensiero, eccetera. In quell’appello si tirano in ballo molti principi ma non si parla del precipitato reale e immediato. In un post sull’argomento Loredana Lipperini ha messo i puntini sulle i, facendo notare che «dacché finanza è finanza, ci si fonde, o si acquisisce, per licenziare» e che «la questione dei lavoratori dei due gruppi, fin qui ignorata, dovrebbe essere invece prioritaria: il SuperSoggetto non porterà soltanto al monopolio contenutistico e distributivo, ma all’eliminazione di chi rende possibile il libro, almeno in moltissima parte.»
Forse si potrebbe aggiungere che, dacché finanza è finanza, dopo l’acquisizione e la razionalizzazione avviene la svendita per coprire i debiti. Più di un tycoon straniero è già in allerta.
La notizia che rovina la festa annunciata riguarda proprio la realtà concreta di chi nelle case editrici ci lavora, e ci lavora da freelance, vale a dire i precari e le precarie che si occupano di leggere inediti, correggere bozze, fare editing, impaginare i libri, ecc. Il loro lavoro è parte integrante dell’attività produttiva di un grande gruppo editoriale, ma non è riconosciuto in termini di stabilità contrattuale.
Si è appena conclusa un’indagine dell’Ispettorato del lavoro iniziata nel 2013, che ingiunge a Mondadori e RCS Libri di assumere in pianta stabile i precari che svolgono mansioni fondamentali dentro le redazioni.
Questa ingiunzione non cade dal cielo, è il frutto dell’attività della Rete dei Redattori Precari, che ha spinto il sindacato a prendere l’iniziativa e a chiamare in causa l’Ispettorato del lavoro.
Va da sé che il gruppo che deve essere acquisito, cioè RCS, non ha posto problemi e ha già stabilizzato 21 redattori precari. L’acquirente Mondadori invece si affretta a fare ricorso (e ciò lascia intendere che quanto paventa Loredana sulle reali intenzioni dopo l’acquisto è fondato).
Va fatta notare una cosa. Questo punto non sarebbe mai stato messo a segno se quei liberi professionisti avessero deciso di abbandonare sdegnati il gruppo Mondadori anni fa, invece di fare resistenza là dentro. Provare a ingrippare quell’ingranaggio significa anche ostacolare il cammino verso il monopolio. «Resistere un minuto più del padrone»…
Non è l’unica notizia positiva che giunge dal fronte delle lotte dei lavoratori dell’editoria. Recentemente la storica casa editrice bolognese Il Mulino (il cui nome a più di un lettore ricorderà gli anni universitari) ha decretato la crisi e avviato la cessione di ramo d’azienda a una cosiddetta “newco”, cioè una nuova azienda che prende in carico la produzione editoriale. Anche in questo caso, mentre soffia il vento del Jobs Act, era facile prospettare una drastica “razionalizzazione” aziendale a discapito dei lavoratori. Per la prima volta nella storia della casa editrice i lavoratori sono scesi in sciopero. C’è stata una vertenza sindacale, chiusa con un accordo che impegna Il Mulino e la newco a mantenere i livelli occupazionali, a non applicare il Jobs Act, e ad applicare invece l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori anche al di sotto dei 15 dipendenti. Sono stati infranti tre tabù in un colpo solo, a dimostrazione che si può fare e che non c’è nulla di ineluttabile nell’andazzo renzista (a patto di non introiettarlo, ovviamente…).
Insomma mentre probabilmente si prepara la svendita in blocco dell’editoria italiana a qualche colosso straniero, c’è chi guarda il dito, chi contempla la Luna e chi lotta nella bufera.
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March 9, 2015
Vi presentiamo Guido e Adele #Cantalamappa

«Ehi, ma quei due non ti ricordano…?»
In anteprima, l’inizio di Cantalamappa (pdf).
Tra pochi giorni in libreria.
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March 4, 2015
Intervista su #Cantalamappa
[Quest’intervista, strano a dirsi, appare oggi sui giornali del consorzio Quotidiano Nazionale (Il Resto del Carlino, La Nazione e Il Giorno). Meno strano se si pensa che l’intervistatore è uno che di controculture se ne intende: critico musicale, organizzatore di eventi nella Bologna post-77 e post-punk, co-fondatore dell’etichetta Century Vox che nei primi anni Novanta lanciò buona parte dell’hip-hop italiano. Buona lettura.]
di Pierfrancesco Pacoda
Sulle rotte di geografie possibili, mai completamente reali, anche quando tracciano percorsi immersi nella storia, i quattro Wu Ming approdano nei territori della scrittura per l’infanzia. E lo fanno con Cantalamappa (Electa Kids), un atlante che sarebbe piaciuto a Borges, per la sua capacità di essere al tempo stesso catalogo fantasy e, come sempre nei loro lavori, decalogo morale. Il libro verrà presentato in anteprima il 31 marzo (ore 9.30) a Bologna alla Biblioteca dell’Archiginnasio (prenotazioni info@electakids.com).
Come è nato il desiderio di scrivere un libro per bambini?
«Ormai più di anno fa, Annalisa Angelini della libreria Ulisse di Bologna, contattò Wu Ming 2 per proporgli di raccontare ai bambini le magiche cartografie del libro Mappe, pubblicato da Electa, e fresco vincitore del Premio Andersen 2013. Grazie al successo di quel primo laboratorio fatto di storie, giochi e canzoni l’esperimento venne ripetuto più volte, tra scuole e biblioteche, su e giù per l’Italia. Da lì è nata l’idea di provare a scrivere un libro di racconti legati a luoghi bizzarri della Terra, rocce leggendarie, montagne, episodi storici, rotte marine e utopie».
Quali sono stati i riferimenti letterari e le ispirazioni?
«I nostri protagonisti sono due vecchi hippies, quindi abbiamo attinto alle controculture libertarie e psichedeliche anni ’60-’70, quelle che si esprimevano su riviste come Oz, Gandalf’s Garden, IT e, in Italia, Pianeta fresco e Re Nudo. Guido e Adele sembrano usciti da Play Power di Richard Neville, che fu un vero manuale di stile e di sopravvivenza per viaggiatori freak».
In questo libro il messaggio è importante quanto la narrazione avventurosa?
«Siamo convinti che qualunque racconto contiene un messaggio, un tema, una presa di posizione, dentro e al di là della trama, indipendentemente dalla volontà dell’autore. Spesso con i bambini si commettono due errori opposti: o ci si rivolge loro con racconti apparentemente neutri, edulcorati, perché certe cose non le capiscono, oppure gli si impone una morale diretta, esplicita, senza scampo. Noi ci siamo sforzati di trovare un equilibrio tra questi due precipizi: raccontiamo il mondo con il nostro punto di vista, che è fatto di stupore, curiosità, domande, e non di lezioni da imparare».
Con quale criterio avete scelto i luoghi da raccontare?
«I luoghi e le storie di Cantalamappa parlano di apertura verso la realtà, della possibilità di una vita libera, di una magia concreta e tangibile che può operare nel quotidiano, di resistenza contro la catastrofe ecologica, di giustizia, di rifiuto dell’antropocentrismo. Sono le cose alle quali ognuno di noi cerca di educarsi nel quotidiano. I luoghi servono da innesco a storie e riflessioni: quello che hanno in comune è che invitano ad aprire le ali verso una narrazione distesa, ma anche straniante, che spinge i lettori a guardare le cose con occhi nuovi. Così da reagire ai pregiudizi che ci impediscono di cogliere la bellezza e la vastità delle cose che accadono sul pianeta».
Ci sono, nel libro, ricordi delle vostre letture d’infanzia e ricordi di vostri viaggi, reali o immaginari?
«In alcuni posti siamo stati davvero: la vetta del Monte Kenya, l’Islanda, la campagna inglese, la diga del Vajont… Gli altri li abbiamo immaginati. Quanto alle letture d’infanzia, sicuramente dentro Cantalamappa sono finiti Salgari, un po’ di Verne, qualcosa di Rodari, e vecchie enciclopedie geografiche come Imago Mundi».
Cosa auspicate che del libro rimanga ai giovani lettori?
«Ci piacerebbe innanzitutto che i lettori si divertissero. Vorremmo che Cantalamappa funzionasse come una macchina per inventare e scoprire altre storie, altri luoghi, e che facesse riflettere sulla responsabilità verso gli altri e verso le cose attorno a noi. Questo implica un atteggiamento altruista e il senso di una resistenza possibile contro la sopraffazione e contro chi la incarna, cioè i prepotenti».
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March 1, 2015
#AlpinismoMolotov in Istria: defascistizzato l’Učka / Monte Maggiore

Spedizione antitetanica di Alpinismo Molotov in Istria, contro i nazionalismi. Clicca per ingrandire.
«L’unione di terra e sangue può solo far venire il tetano».
Questa frase di Karl Kraus ci è tornata in mente una ventina di giorni fa, vedendo le cupe foto di un manipolo di neofascisti italiani salito sul Monte Učka – la vetta più alta dell’Istria – per lasciarvi un messaggio revanscista, vittimista e blut und boden.
Dopo la tetra pagliacciata, alcun* compagn* di Alpinismo Molotov hanno deciso di fare un’incursione in quelle lande ed eseguire un rituale che “disinfettasse” la vetta. Sono partiti ieri mattina dal Carso triestino, in nove. Hanno raggiunto la vetta e l’hanno “defascistizzata”. Qui sotto, un breve dispaccio e alcune immagini. Un racconto più dettagliato sarà pubblicato nei prossimi giorni sul blog Alpinismo Molotov.
⁂
A Sinistra del P*rcod*o.
Questa la conclusione a cui giunge Tuco in vetta all’Učka riguardo alla sua collocazione politica, raggiunta attraverso il suo peculiare background familiare. #AlpinismoMolotov risponde così, attraverso Tuco, alla domanda identitaria che pende su questa montagna croata.

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L’Učka o Monte Maggiore, massima vetta dell’Istria, è una montagna che infatti sconta – come altre – una pesante cappa identitaria tossica, una sovrastuttura artificiale pesante e brutta come gli antennoni piazzati sulla cuspide. Sarà colpa di quel Carnaro, o Kvarner, o Quarnero, che rimiriamo a est e che secondo Dante chiude l’Italia e i suoi termini bagna e je fa il bidet… Non importa se queste contrade parlano croato ciacavo o istrorumeno ciccio, per colpa di una cazzo di rima questa povera cima oltre a un discutibile traforo e orribili installazioni radio-TV deve vedersi sfilare sopra oscene parate, come quella di Casapau del 9 febbraio 2014, venuti qua a inneggiare al sangue italiano e ai martiri di e-allora-le-foibe, sventolando tricolori.Il bello è che nel loro stesso comunicato scrivono «Quel Tricolore che per istriani, fiumani e dalmati è stato causa di morte o di esilio è stato nuovamente alzato nel cielo dell’Istria».
Tutto vero, niente come quel tricolore in questa terra ha portato altrettanta morte, divisione e lacerazione. Soprattutto qui nell’Istria Orientale dove troneggia l’Učka e che nella sua storia ha udito ben poche parole di italiano e non solo, gli italofoni che abitavano qualche miglio più a sud edificarono la Repubblica Sovietica di Albona nel 1921. Altro che Casapau.

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Storie che vengono evocate dal passo oratorio della spedizione #AlpinismoMolotov in questo primo giorno di marzo del 2015, che riporta in vetta la complessità di queste terre contro le stupide rivendicazioni degli eredi di quella stagione politica che a queste stesse contrade tanta sciagura portò.
Siamo una buona parte della componente orientale della Spedizione TriglavMolotov dello scorso 16 agosto: io che sono @MisterLoFi, Tuco, @rikutrulla, @alessandro2412 (che porta in dono una splendida versione del nostro logo) a cui si è aggiunta la sua compagna Barbara, Vigj, @Scalva, Federico e @ciopsa. Siamo in nove.
Proprio Vigj ha la trovata decisiva per defascistizzare a dovere la vetta dopo la demenziale sortita dei fasci del 3° millennio. Un’intera biblioteca portata in vetta, un’intera biblioteca perché conoscere e far conoscere la storia è il modo migliore per combattere il fascismo, figlio e padre di Ignoranza e Slogan. Ecco i titoli (nella foto in apertura, da sinistra a destra):
In Spagna per la libertà. Antifascisti friulani, giuliani e istriani nella guerra civile spagnola 1936-1939 di Marco Puppini
La Scintilla Zapatista di Jérôme Baschet
Lotte contadine nel Friuli orientale 1891 – 1923, di Renato Jacumin
Fucilate i fanti della Catanzaro, di Marco Pluviano e Irene Guerrini
Cime irredente di Livio Isaak Sirovich
Battaglione Alma Vivoda di Marietta Bibalo, Aldo Soia e Paolo Sema
Operazione “Foibe”: tra storia e mito, di Claudia Cernigoi
Ma non ci facciamo mancare nulla e abbiamo anche la nostra nemesi: sulla strada innevata per la vetta si materializza lo spettro de “il porco fascista”.
Ecco però comparire Scaramouche che con lo Spirito di Marat e il suo gran naso neutralizza rapidamente l’intruso!
Sul cippo della vetta può ora risplendere la scritta SFSN. Si legge: Smrt fašizmu, sloboda narodu.

«Morte al fascismo, libertà al popolo.»
Dopo le facezie, però, discesi dal monte, una parte del gruppo raggiunge l’abitato di Lipa, ora sul confine sloveno-croato. Ci rechiamo in pellegrinaggio, maschere e prese per il culo rimangono in bagagliaio. Veniamo a commemorare 269 tra donne, vecchi e bambini massacrati dalla Wehrmacht con la collaborazione italiana il 30 aprile 1944.

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Passeggiamo tra i ruderi delle case lasciati cosi com’erano dopo l’incendio e il massacro, a suo eterno ricordo.
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Poche le anime che si aggirano per il paese questa domenica, un puledro che ci guarda “storto”, una coppia di anziani e un paio di persone di mezza età ci guardano incuriositi. Non sono molti gli italiani che vengono davanti a questo monumento con il cappello in mano.
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[Foto di Barbara, Lo.Fi., Rikutrulla e Scalva]
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February 25, 2015
Loredana Lipperini e Wu Ming 1 su «Questo trenino a molla che si chiama il cuore»
[WM1] Si sente nella mia voce, si avvertiva durante l’incontro: leggere questo libro di Loredana e poi presentarlo con lei mi ha coinvolto, commosso e fatto anche incazzare, perché – come suol dirsi per dire altro: ridendo e scherzando… – ormai conosco Loredana e le voglio bene da vent’anni e quei vent’anni sono distillati qui dentro; più nello specifico, questo «oggetto narrativo non identificato» che ha come titolo un verso di Pessoa racconta – tra le tante vite, le trasformazioni, le resistenze, le perseveranze e pure le nefandezze che racconta – un pezzo di vita e sofferenza e rinuncia e lutto vissuto dell’autrice e io, con pochi altri e certamente meno di altri ma abbastanza per riviverlo leggendo, l’ho condiviso con lei.
Per una manciata di anni, dal 2008 al 2012, sono stato tra i pochissimi a sapere che l’autrice di letteratura fantastica Lara Manni, la sfortunata Lara Manni che è morta troppo presto, era un eteronimo di Loredana. Leggere, ricordare la fine di Lara, mi ha riportato alla mente la squallida campagna diffamatoria, il branco di cani e cagne rabbiose che aggredì Loredana tre anni fa. E la fine di Lara non può non sovrapporsi alla morte della nostra collega Chiara Palazzolo, avvenuta in quegli stessi giorni. Tutto è doppio in questo libro, anche il lutto. Per tante persone Loredana è una voce, è quella che senti a Radio 3, ma quella voce è parte di un corpo e quel corpo, si racconta nel libro, dopo quegli eventi perse ventisei chili in un anno.
C’è anche altro: come dico nella registrazione, leggere della morte annunciata del genius loci della Val di Chienti, leggere di quello scempio del territorio e del paesaggio che chiamano «Quadrilatero» mi ha fatto pensare alla mia terra, dove sono nato e cresciuto, quella parte di basso Ferrarese che è già protesa verso il Delta del Po e infatti fa parte, nominalmente, del Parco del Delta del Po, e contiene diverse aree protette, ultimissimi rimasugli di ecosistemi soppressi da secoli, ed è un territorio in parte dismesso, sparsamente abitato da umani in grave sofferenza e crisi d’identità, e allora quale “cura” migliore di farlo attraversare da una nuova autostrada di molto dubbia utilità, la Orte – Cesena – Mestre, altrimenti detta «Romea commerciale»? E dalle mie parti nessuno sa nulla e nessuno dice nulla, mentre più a nord, oltre l’estuario, qualcuno lotta.
Ecco, è venuto fuori questo e molto altro durante la presentazione del libro di Loredana alla libreria Modo Infoshop di Bologna, la sera del 21 febbraio. Questo è l’audio dell’incontro, per chi non ha potuto esserci. Buon ascolto.
N.B. I file si possono ascoltare in streaming oppure scaricare, cliccando sulla freccia verticale a destra.
INTRODUZIONE DI WU MING 1 - 14’12”
INTRODUZIONE DI WU MING 1 – 14’12”
Stasera la questione sarà un po’ diversa – Dalla scrittura giornalistica all’ibridazione: diario sentimentale, inchiesta su una grande opera inutile, ritorno alla Val di Chienti, storia di Lara Manni, racconti di famiglia, impressionante catalogo di leggende popolari (santi, banditi, sibille, madonne), memorie del terremoto del ’97… – Non capita spesso di sorprendersi per come un libro è scritto – Una sintesi di Loredana e Lara – E il passare del tempo scandito dai figli che crescono – Confusione ed enorme differenza tra ibridazione e “contaminazione dei generi”: quest’ultima è già predeterminata dal mercato – Sono le tipologie testuali che vengono ibridate – Trieste. Un romanzo documentario, di Daša Drndic – UNO e «aria di famiglia» – E ora mi tolgo un sassolino dall’anfibio – Non c’era modo migliore di questo.
LOREDANA LIPPERINI: IL DOPPIO E LA PERDITA – 22’47”
LOREDANA LIPPERINI: IL DOPPIO E LA PERDITA – 22’47”
Ho cominciato a scrivere il libro su un quaderno di appunti di Modo Infoshop – Il doppio e la perdita – La valle è doppia perché sul confine tra Marche e Umbria, la statale 77 è doppia perché è «Romea» e «Lauretana» – La notte che Giacomo Casanova dormì nella casa dei miei nonni – Da quelle parti sono passati tutti – Leggende della Sibilla appenninica – Ancora il doppio: Sibilla e Madonna – Doppio è il territorio che cambia – Dopo il terremoto arriva il mostro – Qui passa veloce lui – Strane scatole opache – «Si arriva mezz’ora prima al mare» – PRATI ARMATI® – I marchigiani sono stati disinformati – la voce di Eugenio Duca contro il mostro – Sono anch’io ufficialmente una «nemica delle Marche» – La perdita: perdi un luogo, perdi il padre e la madre, perdi Chiara Palazzolo, perdi Lara – Nascita di Lara – Una stagione di felicità – Poi una persona che non ho nominato e non nominerò – Mi sono spesso chiesta perché – Stephen King e Richard Bachman – Lara vendeva molto meno di Loredana – Elena Ferrante – La valle si perderà ma rimarrà la storia – Il doppio, l’ibrido: Loredana e Lara insieme – Fernando Pessoa: «Il poeta è un fingitore…»
BOTTA E RISPOSTA WU MING 1 E LIPPERINI – 16’57”
BOTTA E RISPOSTA WU MING 1 E LIPPERINI – 16’57”
WM1: una botta sul ghiaccio – L’autostrada da Orte a Mestre, 400 km. di asfalto – «Incontaminata» è un aggettivo esagerato, ma di certo la Riviera del Brenta non merita l’aggressione – Come l’Alta Velocità sull’Appennino Toscoemiliano – Quasi nessuno ha detto nulla – Cosa collega la Quadrilatero, la Orte-Mestre e l’AV Bologna-Firenze? Il PD, le cooperative – la CMC «di Ravenna» – L’inappetenza per il conflitto nelle regioni «rosse» – Nel basso Ferrarese non ci sarà una Val di Susa – La domanda che fa male a Simona Baldanzi – Conformismo incancrenito all’ombra di un potere «buono» che ti devasta – LL: Questo spirito «nostalgico» – Come dice Franco Arminio, bisogna risalire alle montagne – Salvatore Settis e Tomaso Montanari: l’Italia si sta sbriciolando – E Naomi Klein – «Passatismo» è il cemento – All you can eat – La storia di Rocco Girlanda – Cronache criptofasciste dell’inaugurazione – L’alternativa c’era – La «sinistra» – WM1: Le larghe intese servono soprattutto a fare le «Grandi Opere» – Arturo Benedetti Michelangeli – I carnefici italiani di Simon Levis Sullam – Un concerto a Venezia – LL: Il concerto K466, il Mozart della «vecchiaia» – La leggenda della madonnella e del lago di Pilato – Pungere i buoi.
ALTRE DOMANDE, CODA – 12’15”
ALTRE DOMANDE, CODA, CHE LA SIBILLA SIA CON VOI – 12’15”
LL: Perché qualcuno si sente «tradito» da un eteronimo? – La malefica aura sacrale degli scrittori – Supermegafusioni (a freddo) – Discutevamo su come rispondere alla campagna d’odio – «Al tavolo dei bari non ci si siede» – Rimane lo stupore – WM1: «La stragrande maggioranza degli scrittori sono delle merde» – LL: Riprendendo quanto scritto in Morti di fama – WM1: Un commosso ricordo di Indymedia – LL: Un minuto di fiele e sei appagato, paralisi generale, niente conflitto – La fusione Mondadori-Rizzoli e i licenziamenti – Che la Sibilla sia con voi.
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February 22, 2015
Da D’Annunzio a Ciccio Franco, ovvero: un paio di frottole neofasciste sulla #Calabria

A Gabriele D’Annunzio viene spesso attribuita la frase «Il lungomare di Reggio è il chilometro più bello d’Italia», ma… l’ha detta davvero? La risposta è nell’articolo qui sotto.
di Lou Palanca 2 *
Questo mare è pieno di voci e questo cielo è pieno di visioni.
Questo è un luogo sacro, dove le onde greche vengono a cercare le latine.
Qui dove è quasi distrutta la storia, resta la poesia.
- Giovanni Pascoli, Pensieri e discorsi, 1914
Gli anni d’inizio secolo li ho dedicati alla storia locale, ricostruita in particolare a partire dalle fonti orali. Mentre lavoravo ad un saggio sulla Rivolta di Reggio Calabria del 1970, ho avuto modo di consultare, presso il locale Archivio di stato, un’ampia documentazione di volantini e manifesti stampati nel giro dei due anni che incendiarono la città dello Stretto nella disputa per il capoluogo di regione, in quella che Tonino Perna ha definito:
«l’ultima grande lotta popolare del nostro Mezzogiorno, la prima lotta “etnica” di un ciclo di lotte e guerre che hanno insanguinato gli ultimi trent’anni del XX secolo .»
Tra i comunicati, molti ciclostilati in proprio, dei vari comitati spontanei nati in appoggio della causa pro “Reggio capoluogo”, uno mi aveva colpito in particolare. Portava in calce la firma di vari studiosi reggini ed elencava motivazioni, ragioni storiche, monumenti e giudizi sulla città da parte di poeti, scrittori, intellettuali, di ogni epoca.
La chiosa finale non lasciava dubbi sulla contesa con Catanzaro, Reggio doveva essere il capoluogo: «Perché, come sostenuto dal D’Annunzio, Vate d’Italia, ha il chilometro più bello d’Italia!»

Reggio Calabria, Lungomare Falcomatà. Foto di Saverio Autellitano.
Al tempo ancora muovevo i primi passi nella scoperta del filosofo Gilles Deleuze. Il mio orizzonte si poteva racchiudere fra il Pollino e lo Stretto, la citazione non aggiungeva nulla di più alla mia appartenenza e alla scelta già matura di restare in Calabria, del resto come insegnante in tutti i licei dove ho messo piede, in barba ad ogni programma ministeriale, non ho mai fatto studiare “Gabriele Rapagnetta” , né mai penso che lo farò.
M’incuriosiva invece la capacità del neofascismo di storpiare slogan, appropriarsi o deformare i miti e parole altrui a proprio uso e consumo, di creare leggende metropolitane ad hoc.
Di lì a qualche mese, l’uscita del bel libro di Agazio Trombetta La Via Marina di Reggio, che dedica un intero capitolo alla questione, ha contribuito in maniera decisiva a fugare ogni dubbio, con fonti e ricerche accurate sulla paternità della celebre frase.
A Reggio Calabria D’Annunzio non c’è mai stato.
L’unica volta che attraversò lo Stretto di Messina, in direzione della Grecia, a bordo del panfilo “Fantasia” era il 1895, trascorse gran parte del viaggio in cabina a lottare con il mal di mare, una debolezza sulla quale la pubblicistica dell’eroe-poeta ha sempre glissato.
Del resto come sottolinea Trombetta:
«La sua visione del mare potrebbe eventualmente riferirsi alla Reggio presismica e quindi in un periodo in cui la Via Marina non aveva l’aspetto di viale alberato, ma piuttosto quello della Real Palazzina che si snodava lungo l’asse più prospiciente il mare .»
Né al Vittoriale né fra le migliaia di documenti e libri custoditi nella Biblioteca Dannunziana c’è traccia della frase di D’Annunzio.
Questo non ha impedito che nel maggio del 2013 la regione Calabria, allora guidata dal governatore Scopelliti, lo stesso che da sindaco di Reggio Calabria dedicò al fascista Ciccio Franco un anfiteatro, finanziasse eventi in memoria di D’annunzio da realizzarsi al Salone del Libro di Torino.

Sul Lungomare c’è anche il monumento al capopolo neofascista Ciccio Franco, voluto dall’amministrazione Scopelliti.
In quell’occasione il neopresidente della Fondazione Il Vittoriale degli Italiani, Giordano Bruno Guerri, senza esitazione in conferenza stampa ha dichiarato:
«Per D’Annunzio il lungomare di Reggio era ‘Il più bel chilometro d’Italia’ e anche se non sappiamo esattamente in quale contesto abbia pronunciato questa frase possiamo attribuirla con tranquillità al poeta, vista l’assenza di smentite.»
Le dovute smentite Guerri le avrebbe trovate proprio a casa sua, se solo avesse avuto la compiacenza di leggere quanto aveva scritto Michela Rizzieri quand’era direttrice della Biblioteca Dannunziana.
Rispondendo allo storico Trombetta, la Rizzieri già nel marzo del 2001 afferma:
«La informiamo che, nelle ricerche da noi effettuate controllando l’indice dei nomi relativi alle lettere, alle biografie e alle opere di D’Annunzio, non abbiamo trovato nessuna citazione del poeta riguardante la via Marina di Reggio Calabria e neppure “il più bel chilometro d’Italia”» .
Una leggenda metropolitana che non risente del trascorrere del tempo né delle smentite storiche. Inizialmente creata ad arte per esaltare le bellezze rivierasche reggine, successivamente ha finito per avvalorare una primogenitura storica in prospettiva campanilistica, fino a diventare con il tempo verità indiscutibile di chiara matrice neofascista.
In realtà, la prima testimonianza storica che abbiamo dell’espressione «il più bel chilometro d’Italia» arriva da un evento sportivo.
E’ il 27 marzo del 1955 e a pronunciare la frase durante la radiocronaca dell’arrivo in volata del giro della Provincia di Reggio è – come testimoniato anche dall’allora giovane collega Adriano De Zan - il giornalista Nando Martellini.

Il cronista sportivo Nando Martellini, vero autore della frase sul chilometro più bello d’Italia.
I detrattori di Catanzaro al tempo, lavorando con più cura, avrebbero potuto scoprire molte fonti, più antiche, più nobili, più verificabili, sulla bellezza del lungomare reggino, ma nessuna di queste avrebbe potuto giustificare il loro revanscismo.
Tralasciando per motivi di spazio le citazioni greche e latine – del resto non credo che i boia-chi-molla avessero dimestichezza con le lingue classiche – basterebbe citare Boccaccio, il quale nel Decameron sostiene:
«Credesi che la marina da Reggio a Gaeta sia quasi la più dilettevole parte d’Italia»
Senza tornare al medioevo, chi veramente ha potuto ammirare le meraviglie del lungomare reggino e descriverlo con occhi di poeta, sono stati Pascoli e Quasimodo. Quest’ultimo ha anche vissuto e lavorato in riva allo Stretto prima di spiccare il volo verso gli ambienti dell’ermetismo.
«Boia chi Molla», come ti creo il mito.
L’onda lunga della retorica neofascista ha trovato linfa anche in altre narrazioni tossiche che meritano di essere decostruite.
Sempre della Calabria è Ciccio Franco, capopolo fascista ed in seguito senatore per ben cinque legislature, che nella sua ascesa politica durante la rivolta reggina si attribuisce la paternità del motto «Boia chi Molla».

Ciccio Franco intervistato da Oriana Fallaci durante la latitanza.
Una bugia ripetuta all’infinito secondo lo stile di Goebbels finisce per diventare verità acriticamente assunta dai media e dalla vulgata popolare.
«Ho inventato io il motto Boia chi Molla», taglia corto Ciccio Franco.
Ecco che nel corso dei decenni la rivolta neofascista di Reggio è stata identificata come la “Rivolta del Boia chi molla” e molti dei manifestanti, soprattutto quelli della seconda fase marcatamente fascista e violenta si sono spesso presentati con la definizione: «Sono un boia-chi-molla».

Febbraio 1971, i blindati dei carabinieri presidiano le strade del quartiere di Sbarre. Foto di Lello Spinelli – archivio Dia.
Lo slogan che si fa persona è la manipolazione realizzata della mente e del corpo dell’individuo.
In realtà il motto fu coniato anni prima dal fascista Roberto Mieville, divenuto, dopo il perdonismo togliattiano, deputato della Repubblica italiana nelle elezioni del ’48.
Durante la seconda guerra mondiale Mieville venne catturato e rinchiuso in un campo di prigionia in territorio statunitense. In quell’occasione ebbe modo di scrivere delle memorie pubblicate poi in Italia, nelle quali si manifesta tutt’altro che pentito della scelta fascista e dell’alleanza coi nazisti, e lancia per la prima volta lo slogan:
«E a Santa Fè, al tubercolosario erano stati avviati parecchi dei soldati costretti ai lavori nelle fonderie. E nel campo 6 da quaranta giorni, all’aperto, trecento sottufficiali vivevano a pane e acqua e non mollavano. E nel campo ufficiali era la medesima cosa: Boia chi molla!»
D’Annunzio e Ciccio Franco, il proto- e il post- fascista, il poeta “laureato” che detestava il popolo e il rozzo sindacalista che voleva guidare le masse, così lontani, così diversi, ma entrambi legati da vulgate che per lungo tempo hanno creduto di essere storia.
NOTE
* Lou Palanca 2 fa parte del collettivo di scrittori Lou Palanca, autori del romanzo Blocco 52 (Rubbettino, 2012). Qui un’intervista sul libro realizzata da Wu Ming 2.
Dalla prefazione a Cinque anarchici del Sud. Una storia negata di Fabio Cuzzola Città del Sole Edizioni, Reggio Calabria 2001.
Il documento è conservato nel fondo intitolato alla memoria del giornalista Antonio Latella, all’epoca corrispondente de Il Tempo, e consultabile presso l’Archivio di stato di Reggio Calabria.
Sulle vicende del cognome del poeta si veda questa pagina.
Agazio Trombetta, La Via Marina di Reggio, Editrice Culture, 2001.
Trombetta, op. cit., pag. 121.
Il testo della dichiarazione è qui.
Il testo della lettera è riprodotto in Trombetta, op. cit., pag. 119.
L’episodio è riportato in Antonio Calabrò, Reggio è un blues, Disoblio Edizioni, 2013.
Giovanni Boccaccio, Decameron, giornata II, novella IV.
Sulla figura di Ciccio Franco, al di là della pubblicistica locale, si veda in particolare il 4° capitolo (Ciccio Franco: da capopopolo a senatore) in: Fabio Cuzzola, Reggio 1970. Storie e memorie della Rivolta, Donzelli 2007
Ciccio Franco, intervista tratta dal DVD Reggio Calabria 1970. La Rivolta, a cura di Domenico Calabrò, 2005
[Sito di camerati da non confondersi con il quasi omonimo campifascisti.it, dove invece si sta ricostruendo la mappa dei campi di concentramento fascisti, un arcipelago lager italianissimo e misconosciuto, realtà rimossa per decenni in nome del precetto “Italiani brava gente”, N.d.R.]
Mieville al rientro dalla prigionia fonda prima i Far (Fasci di Azione Rivoluzionaria) e successivamente entra a far parte del primo nucleo che darà vita al MSI.
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February 16, 2015
Marzo 2015: esce «Cantalamappa», un libro per sovversive e sovversivi dagli 8 ai 108 anni

La copertina di «Cantalamappa». Clicca per aprire l’immagine completa (PDF).
Dopo gli annunci “carbonari” dati in giro per l’Italia, tra le pieghe del Révolution touR, e le anticipazioni date su Twitter, finalmente diamo la notizia. Eccolo qui, sulla rampa di lancio. Cantalamappa, il primo libro che abbiamo scritto pensando a lettrici e lettori under 11. Non solo, ma soprattutto a loro.
Chi ha più fortuna e/o vive in una grande città (il che non sempre è una fortuna) potrebbe trovare Cantalamappa in libreria già sabato 15 marzo, ad ogni modo esce in tutta Italia due giorni dopo, cioè lunedì. Però, però… Non sarebbe male se lo prenotaste già ora alla vostra libreria di fiducia. Non sarebbe niente male.
Abbiamo un coautore: Paolo Domeniconi è l’artefice di tutte le illustrazioni, copertina compresa, e ha fatto davvero un gran lavoro. Ha interpretato al meglio lo spirito che abbiamo cercato di mettere nell’opera.
Non vogliamo rovinare nessuna sorpresa, se cliccate qui sopra e aprite il pdf della copertina troverete qualche accenno in più, il minimo indispensabile a incuriosire, compreso l’indice delle storie, che riproduciamo anche qui sotto… con un’aggiunta.
Ma, prima dell’indice, rispondiamo alla domanda che tutti avete sulle labbra, o meglio, negli occhi: com’è nata questa storia dei Wu Ming che diventano scrittori per l’infanzia?
L’idea nasce da Annalisa Angelini della Libreria Ulisse, in via degli Orti a Bologna, e da Tiziana Mascia della casa editrice Electa.
Nasce con una mail che Annalisa scrive a Wu Ming 2 il 19 settembre 2013:
«Mi ricordo della sua passione per il viaggio e il viaggiare, così ho pensato che ci piacerebbe averla come “conduttore” per una presentazione di uno dei più bei libri per ragazzi che si intitola Mappe.”
All’epoca, WM2 non sa nemmeno cosa sia, questo Mappe, ma Annalisa gliene regala una copia e da quel momento il libro – vincitore del Premio Andersen – diventa il protagonista di numerosi laboratori per piccoli lettori, dove WM2 parte dalle illustrazioni del volume, che sono appunto mappe, per raccontare storie legate a strani luoghi, rocce vulcaniche, vermi elettrici, mani che spuntano dal deserto e tazze di chai maziwa.
I bimbi e le bimbe si divertono, i laboratori piacciono, e così da un’idea ne nasce un’altra: quella di scrivere, questa volta con il collettivo al completo, un libro di racconti ispirati a luoghi della Terra: luoghi abitati da antiche leggende, oppure teatro di eventi memorabili, o ancora a mezza strada tra la realtà e la fantasia.
D’altra parte, Wu Ming ha sempre avuto un rapporto stretto con le mappe e i territori: dalla psicogeografia di Luther Blissett alla Terra di Mezzo di Tolkien, dal Sentiero degli Dei a Point Lenana, dalle carte d’epoca che punteggiano Manituana al viaggio di Grand River.
E quanto ai piccoli lettori, beh, abbiamo cominciato a frequentarne alcuni, tutti i giorni, da una decina d’anni…
Così ci siamo messi al lavoro. Il risultato sono le diciannove storie dei Cantalamappa.
LE STORIE DEI CANTALAMAPPA
Il cane di Glastonbury [Si svolge qui]
Il Verme Mongolo della Morte [Si svolge qui]
Dolcino e Margherita [Si svolge qui]
Hvítserkur [Si svolge qui]
Da Monte Scrocchiazeppi al Monte Kenya [Si svolge qui]
Micronazioni [Si svolge qui]
L’Isola del Tesoro [Si svolge qui]
Dov’è il centro del mondo? [Si svolge qui]
L’albero di Bottego… o di Mahamed? [Si svolge qui]
Il cinema nel deserto [Si svolge qui]
Toc e Patòc [Si svolge qui]
I naufraghi di Tristan da Cunha [Si svolge qui]
Rapa Nui [Si svolge qui]
Le repubbliche dell’ex-Rastovja [Si svolge qui]
Paperelle [Si svolge qui]
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February 12, 2015
Ascolta «Emilio Comici Blues», radiodramma musicale tratto da #PointLenana

Emilio Comici
Segnatevi l’appuntamento: domenica 15 febbraio alle 11:30 am su Radiouno Rai Friuli – Venezia Giulia (streaming qui) va in onda la prima puntata di Emilio Comici Blues, radiodramma musicato in tre atti di e con Wu Ming 1 e Funambolique. Presentazione di Piero Pieri. Tecnicamente sarebbe un «melologo», ma «radiodramma musicale» si capisce meglio.
Emilio Comici Blues è tratto dal libro Point Lenana di WM1 e Roberto Santachiara e racconta la vita di Emilio Comici (1901 – 1940), grande alpinista triestino, uno dei più grandi della prima metà del XX secolo, che potete vedere in azione nel video qui sotto, un vero e proprio “tutorial” di arrampicata filmato in Val Rosandra, vicino a Trieste.
Emilio Comici Blues nasce come reading musicale dal vivo, qui la scheda scritta un anno fa (pdf).
I Funambolique sono:
Paolo Corsini – piano, Fender Rhodes, tastiere
Sebastiano Crepaldi – flauto traverso, flauti di varie parti del mondo
Luca Demicheli – basso elettrico, voce
Ermes Ghirardini – batteria
Con Wu Ming 1 hanno già realizzato l’album (scaricabile qui) e lo spettacolo dal vivo (qui un live in Friuli) Arzèstula.
Date e orari della messa in onda di Emilio Comici Blues:
Puntata 1 – Domenica 15/02/2015 h. 11:30 (dur 21’22″)
Puntata 2 – Domenica 22/02/2015 h 11:30 (dur 20’23″)
Puntata 3 – Domenica 01/03/2015 h 11:30 (dur 25’51″)
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February 11, 2015
La famigerata foto. Chi manipola le fonti falsifica il presente e allontana la verità sulle #Foibe
Questo è solo un piccolo addendo al bellissimo post di Lorenzo Filipaz «Foibe o esodo? Frequently Asked Questions sul Giorno del Ricordo», che negli ultimi due giorni ha avuto un vero boom di visite.
Ripubblichiamo qui sopra la famigerata foto, stavolta con didascalia incorporata.
Infatti, un modo per contrastarne la falsificazione è farne apparire il senso già in Google Immagini, a colpo d’occhio.
Perché se ci limitiamo a pubblicarla con la spiegazione a parte, come abbiamo fatto nel post di Lorenzo, rafforziamo comunque la sua associazione con la parola chiave «foibe», e continuerà a essere “pescata” ignorando il contesto.
Diverso se la si fa girare per il web, pubblicata su un gran numero di blog, con avviso incorporato.
Il consiglio è: ripubblicatela ovunque potete, in questa versione, con un breve testo che, come questo che state leggendo, spieghi il senso della cosa. Aggiungete i nomi dei cinque fucilati la cui memoria viene costantemente negata:
Franc Žnidaršič
Janez Kranjc
Franc Škerbec
Feliks Žnidaršič
Edvard Škerbec
Aggiungete poi un link diretto all’intera sequenza fotografica di cui quest’immagine è parte.
Aggiungete un link al dossier sulle manipolazioni che questa foto da troppi anni subisce.
Aggiungete un link all’opinione di Michele Smargiassi, giornalista di Repubblica e studioso di fotografia, intitolata «Non dire falsa testimonianza».
E, se volete, un link alle FAQ preparate da Lorenzo.
Soprattutto, mantenete la calma di fronte a reazioni furibonde. Sono di corto respiro. L’importante è che questa foto non venga più travisata. Ci vorrà un po’ di tempo, ma otterremo il risultato. Per Franc Žnidaršič, Janez Jranjc, Franc Škerbec, Feliks Žnidaršič ed Edvard Škerbec.
@ervenrossetti è un’invenzione che quella foto parli di #foibe. Ti sembra lecito falsificare le fonti? @giuseppemaria
— Wu Ming Foundation (@Wu_Ming_Foundt) February 11, 2015
.@Serena_Scarpia offende i morti chi falsifica le fonti, li priva della loro identità e occulta le colpe di chi li uccise @manginobrioches
— Wu Ming Foundation (@Wu_Ming_Foundt) February 11, 2015
.@Serena_Scarpia e ti sembra “rispetto dei morti” quello che viene fatto ai fucilati sloveni di questa foto? @darkamex @manginobrioches
— Wu Ming Foundation (@Wu_Ming_Foundt) February 11, 2015
.@VoceIdealista ma avete la coda di paglia? Quella foto è un falso e va detto con forza. Vi vanno bene i falsi? @MezzadridItalia — Wu Ming Foundation (@Wu_Ming_Foundt) February 11, 2015
.@VoceIdealista pensate si possa combattere una battaglia di memoria e rispetto per i caduti usando fonti falsi? @MezzadridItalia
— Wu Ming Foundation (@Wu_Ming_Foundt) February 11, 2015
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