Wu Ming 4's Blog, page 96

February 6, 2015

Don #Inzoli manda avanti l’avvocato. Solidarietà a Matteo Pucciarelli

maroni_inzoli


[Prosegue l’inchiesta di Giap sull’uso politico di querele e cause civili. Stavolta Luca Casarotti si occupa dell’ultima mossa di don Inzoli, uno dei potenti del mondo CL, per quindici anni presidente del Banco Alimentare, condannato dalla stessa Chiesa cattolica per abusi su minori.


Siamo stati tra i primissimi (e pochissimi) a occuparci della vicenda fuori da Crema, dove la notizia è rimasta a lungo confinata. Sono dovuti trascorrere sette mesi dal nostro post perché il suo nome apparisse nei media nazionali, dopo la sua imbarazzante comparsata a un convegno omofobo, occasione che ha radunato in una sola sala milanese il jet set catto-camerata-leghista lombardo.


Chiariamo un punto: noi abbiamo denunciato per anni – erano i tempi del Luther Blissett Project – gli abusi giornalistici e giudiziari generati dall’isteria di massa sulla pedofilia. Abbiamo fatto contrinformazione, ci siamo occupati di persecuzioni mediatiche, ingiuste detenzioni, condanne frettolose. La pece e le piume non sono dunque parte del nostro percorso. Il giudice, lo sbirro, il giustiziere che agita un cappio, l’indignato in zona Cesarini… Sono ruoli che lasciamo volentieri ad altri. Il punto era ed è un altro: abbiamo iniziato a seguire il caso perché i media nazionali, in piena concordia multipartisan, lo hanno fin da subito sepolto nel silenzio. Per lunghi mesi nessun grande mezzo di informazione ha dato la notizia – piuttosto rilevante per la vita pubblica! – che un boss ciellino, capo carismatico di un ente caritatevole di quelli che tutti hanno l’istinto di difendere, era stato riconosciuto dalla chiesa stessa colpevole di gravi abusi.


L’impressione, davvero forte, è che Inzoli sia stato tutelato dai media, e con impressionante serratezza di ranghi. Caso più unico che raro, in circostanze del genere. Chiunque altro – magari innocente – lo avrebbero spolpato vivo, lui invece restava innominato, persino nei giorni in cui le pagine si riempivano di chiacchiere sui preti pedofili.


Tutto ciò emanava cattivo odore, forse di «larghe intese», chissà… e a dire il vero lo emana ancora. Sì, perché dopo l’affaire del convegno milanese, tutti hanno parlato di Inzoli, ma descrivendolo perlopiù come un pretonzolo qualsiasi. Pochi hanno ricordato le sue cariche, i suoi incarichi nel braccio economico di CL, le sue amicizie ai vertici del mondo politico e nel cuore del capitalismo italiano.


Matteo Pucciarelli ha perforato quel velo, soprattutto nell’intervista al parlamentare di SEL Franco Bordo. Intervista che, come state per leggere, a Inzoli ha dato molto fastidio. Buona lettura – WM]


di Luca Casarotti


Nei giorni scorsi Matteo Pucciarelli, cronista di Repubblica reo di aver scritto due articoli sulla presenza di don Mauro Inzoli al noto convegno milanese sulla “famiglia tradizionale” (organizzato dalla Regione Lombardia con tanto di logo Expo 2015), ha ricevuto una diffida dal legale del sacerdote, che ritiene i due pezzi gravemente diffamatori e chiede al giornalista e a Repubblica di smentire tutto.



“Notizie altamente infamanti e offese, linciaggio mediatico”. Don Inzoli schiera gli avvocati pic.twitter.com/bWxCzfngaL


— Matteo Pucciarelli (@il_pucciarelli) February 4, 2015




Nell’ultimo anno su Giap si è parlato sia della vicenda Inzoli, con il corredo di silenzio mediatico che a lungo l’ha accompagnata, sia dell’uso politico del reato di diffamazione e delle relative cause civili per il risarcimento dei danni. La diffida a Pucciarelli, al quale va la solidarietà dei giapster, sta al punto di incrocio di questi due temi. Incrinatosi appena il riserbo con cui Repubblica ha trattato il caso Inzoli da giugno a pochi giorni fa, ecco che scendono in campo gli avvocati.




La diffida che #Inzoli ha fatto spedire a @il_Pucciarelli. Presto la commenterà su Giap @lucacasarotti. pic.twitter.com/wdhdFzluf8 — Wu Ming Foundation (@Wu_Ming_Foundt) February 5, 2015




Diciamo anzitutto che la diffida è una lettera con cui il legale di qualcuno che si ritiene in qualche modo danneggiato dal comportamento di qualcun altro chiede a questo qualcun altro di riparare al torto, perché in caso contrario ricorrerà alle vie legali. La diffida non è una querela né una citazione in giudizio: Inzoli non ha iniziato nessun procedimento, né penale né civile, contro Pucciarelli. E sarà difficile che lo faccia in futuro, per i motivi che spiegheremo.

Ciò non toglie che se io mi vedo recapitare la lettera di un avvocato in cui si dice che ho scritto degli articoli diffamatori nei confronti di un personaggio potente, e questa lettera è indirizzata anche al direttore del giornale per cui lavoro e al gruppo editoriale che possiede il giornale per cui lavoro, qualche timore, almeno sulle prime, mi può anche venire.


Vediamo allora cosa dicono gli articoli che l’ex presidente del Banco alimentare ed ex-vicepresidente della Compagnia delle opere ritiene gravemente lesivi della sua persona, e quali argomenti vengono spesi nella diffida.


I due pezzi in questione sono questa cronaca e quest’intervista al deputato di Sel Franco Bordo, che conosce bene Inzoli, perché è cremasco come lui.

Dice il difensore di Inzoli che Pucciarelli non può scrivere che il suo assistito è un prete pedofilo, perché la giustizia italiana non lo ha mai stabilito. Ma la Congregazione per la dottrina della fede sì, e in via definitiva. Per farlo ha svolto un’istruttoria, ha raccolto e valutato delle prove: quindi, ritenendo fondata l’accusa, ha irrogato una pena nell’esercizio dei poteri che le competono. Il provvedimento sanzionatorio è stato emesso da un’autorità riconosciuta dall’Italia, tanto che le restrizioni alla libertà di movimento (divieto di svolgere attività di accompagnamento di minori, divieto di entrare nella diocesi di Crema) che il decreto vaticano impone ad Inzoli si applicano sul territorio italiano.


Se assumiamo per valido (come in effetti dobbiamo fare, perché normalmente è così che accade) il criterio per cui si può attribuire a Tizio di aver commesso un fatto che gli porta discredito nell’opinione pubblica quando questo fatto sia accertato definitivamente dall’autorità preposta, allora dobbiamo concluderne che i titoli e le frasi degli articoli di Repubblica in cui si attribuisce ad Inzoli di essere pedofilo, rientrano nell’esercizio del diritto di cronaca, dal momento che il fatto è accertato inoppugnabilmente dall’autorità che ha su di lui la “giurisdizione spirituale”.


Compito della giustizia italiana semmai è stabilire se il cittadino italiano Mauro Inzoli abbia commesso atti che la legge italiana prevede come delitti, e, nel caso, irrogare la relativa pena. Ma una cosa è stabilire che Tizio, cittadino dello stato X, ha commesso un reato secondo le leggi dello stato X (compito del potere giudiziario dello stato X, di cui un cronista potrà dar conto), altra cosa è poter liberamente e fondatamente scrivere che Tizio, sacerdote, ha fatto cose contrarie ai doveri del sacerdozio, e quelle cose sono atti di pedofilia, dal momento che così dice la Congregazione per la dottrina della fede (ciò che, allo stato degli atti, un cronista può già scrivere).


A seguire il ragionamento del legale di Inzoli, si dovrebbe coerentemente sostenere, chessò, che il Corriere della Sera non può definire Al Capone un notorio criminale, perché è stato giudicato negli Stati Uniti, o viceversa che il New York Times non può qualificare Riina come mafioso stragista, perché non è stato giudicato da un tribunale americano.


Non può essere infamante, lesivo della personalità e condurre al peggior discredito sociale – com’è detto nella diffida – il fatto che Pucciarelli riferisca che ad Inzoli è stato imposto un trattamento psicoterapeutico, perché di nuovo è la Congregazione per la dottrina della fede a dirlo, in un atto pubblicamente consultabile, tanto da esser stato diffuso con un comunicato riportato dal sito della stessa diocesi di Crema. Pucciarelli, che di mestiere fa il cronista, riferisce il fatto: la fonte è verificabile da chiunque.


Non può essere infamante, lesivo della personalità e condurre al peggior discredito sociale – com’è detto nella diffida – il fatto che negli articoli si riporti il soprannome di “Don Mercedes”. È vero che un nomignolo del genere non evidenzia la vocazione alla vita pauperistica del religioso, il che non giova alla sua reputazione, ma l’appellativo non è certo un’invenzione di Pucciarelli, che di mestiere fa il cronista, e infatti ne riporta l’esistenza. Perché non lo dovrebbe fare?


È un’inversione logica sostenere – com’è fatto nella diffida – che «Emerge dalla lettura che tutti i presenti al convegno sulla Famiglia avrebbero dovuto evitare Inzoli e gli organizzatori bandirlo»: Pucciarelli, che di mestiere fa il cronista, si limita a riportare le dichiarazioni dei politici di centrodestra che prendono le distanze dal sacerdote, confrontandole poi con i ben più calorosi atteggiamenti che le stesse persone avevano dimostrato in passato verso di lui.

Se «discredito» e «completa emarginazione del sacerdote» ci sono stati, se ne chieda conto agli autori delle dichiarazioni, non al giornalista che le riferisce.


Dice la diffida che tra le restrizioni cui è sottoposto Inzoli non c’è il divieto di presenziare a convegni sulla famiglia: ma Pucciarelli non ha mai sostenuto il contrario. Ha invece espresso un giudizio di opportunità: la presenza di un sacerdote sottoposto a restrizioni per gravi atti di abuso su minori è compatibile con i valori della famiglia tradizionale che il convegno dichiara di difendere? Il dubbio non pare essere peregrino, dato che le personalità presenti al convegno si sono precipitate a stigmatizzare l’apparizione di Inzoli in platea.



Don Inzoli, Maroni: Non lo conoscevo’. Ecco una foto de La Provincia che li ritrae a un convegno del 2004 http://t.co/ozDPnoPWy7


— Provincia di Cremona (@laprovinciacr) January 20, 2015




 




#Maroni insieme a #Inzoli a #Crema nel 2004 e a #Milano nel 2014. «Non conosco quella persona». Via @DanielaPF75 pic.twitter.com/MqSho1tJcE — Wu Ming Foundation (@Wu_Ming_Foundt) January 19, 2015




Ultima questione sollevata dalla diffida, l’intervista a Franco Bordo conterrebbe frasi insinuanti e sproporzionate.

Ora, a parte che non si capisce cosa ci sia di sproporzionato nelle dichiarazioni di una persona che dice di aver presentato un esposto in procura; Pucciarelli, che di mestiere fa il cronista, ha riportato le opinioni dell’intervistato. È rilevante l’opinione dell’intervistato? Sì, perché si tratta di un personaggio pubblico, un parlamentare. È rilevante il contenuto delle opinioni espresse? Sì, perché riguarda un personaggio pubblico, che ha rivestito ruoli apicali in Comunione e Liberazione e nella Compagnia delle opere.

Quindi, l’ho già scritto nell’altro mio post ma giova ripeterlo, questo è ciò che ritiene la Cassazione a proposito dei contenuti delle interviste:


«[l’intervista] è da ritenere penalmente lecita, quando il fatto in sé dell’intervista, in relazione alla qualità dei soggetti coinvolti, alla materia in discussione e al più generale contesto in cui le dichiarazioni sono rese, presenti profili di interesse pubblico all’informazione tali da prevalere sulla posizione soggettiva del singolo e da giustificare l’esercizio del diritto di cronaca». [Cass., N. 37140/2001]


Il legale di Inzoli dovrebbe sapere anche un’altra cosa: il fatto che il suo assistito non sia ancora stato interrogato e non abbia ancora ricevuto l’informazione di garanzia non significa necessariamente che non ci siano procedimenti penali aperti a suo carico. Le indagini preliminari hanno i loro tempi, fissati dal codice. Trascorsi quelli senza che sia recapitato un avviso di conclusione delle indagini, si potrà escludere con certezza che ci siano procedimenti aperti: ma prima no.


La diffida a un singolo giornalista si è resa possibile per una ragione precisa, e cioè che in questi mesi gli articoli sulla vicenda di Don Inzoli si contano sulle dita di una mano. Se il caso avesse ricevuto – come sarebbe dovuto accadere – una copertura diffusa e costante, sarebbe stato molto più difficile additare la “responsabilità” del cronista che rompe il cordone di silenzio mediatico e decide di occuparsi di un caso che è, a tutti gli effetti e sotto ogni aspetto, una notizia, e della più alta rilevanza.


Solidarietà a Matteo Pucciarelli e massima attenzione agli sviluppi del caso Inzoli.


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Published on February 06, 2015 12:44

February 5, 2015

Una nota a «Patria e morte» di Wu Ming 1 | Lettera dello storico Luca Di Mauro

Saint Edme

Pagine della prima apparizione su stampa del «Patto sociale costituzionale dell’Ausonia», 1820.


[WM1:] La pubblicazione dei primi appunti sparsi sul vittimismo ha di nuovo attirato l’attenzione sulla mia conferenza del 2011 Patria e morte. L’Italianità dai carbonari a Benigni. Nell’ultimo mese il file audio è stato ascoltato/scaricato migliaia di volte. L’ha ascoltato anche lo storico Luca Di Mauro, studioso delle società segrete ottocentesche e del Risorgimento, che mi ha mandato un’interessante lettera, disamina che diventa perorazione e difesa dei Carbonari, o meglio, dell’ala radicale ed egualitaria della Carboneria. Col permesso del mittente, la pubblico qui sotto.

Ricordo a tutt* che quella sera dopo di me parlò Wu Ming 2, il quale celebrò il centocinquantenario dell’Unità d’Italia… ricordando il centenario della guerra di Libia. La sua conferenza si intitolava Tripoli, suol del dolore e si può ascoltare qui.

[Chi ha letto Timira e Point Lenana capirà subito che quella sera, nella biblioteca di Rastignano, stavamo rovesciando e mescolando sul tavolo materiali di lavoro, dando in pratica anteprime mascherate dei due libri.]



Caro Wu Ming 1,


ti scrivo dopo aver ascoltato la conferenza Patria e morte. L’Italianità dai carbonari a Benigni, spezzone ormai decisamente datato ma di cui vengo a conoscenza solo adesso. Le mie osservazioni, quindi, possono giungere ormai fuori tempo massimo quando gli interessi di chi ha pronunciato quel discorso possono essersi spostati su altri argomenti.


Premetto che, da studioso del Risorgimento, ho molto apprezzato il tuo intervento e quanto sto per scrivere non scalfisce in alcun modo il mio accordo generale sulle cose da te dette ma riguardano unicamente un tassello che hai utilizzato per costruire il tuo discorso: il patto sociale costituzionale dell’Ausonia.

A mio avviso il suo inserimento in un filone risorgimentale nazionalista ed “aggressore” (pur certamente esistente) andrebbe quantomeno ripensato, come un’analisi ed una contestualizzazione del testo possono dimostrare.


Pierre-Joseph Briot (1771 - 1827)

Pierre-Joseph Briot (1771 – 1827)


La prima cosa che andrebbe corretta è la datazione: nella conferenza presentavi il testo come del 1820 (come del resto viene fatto acriticamente da moltissimi autori), presumibilmente sulla base del fatto che il testo appare per la prima volta in quell’anno in un libro francese intitolato Constitution et organisation des Carbonari e firmato da tal Saint Edme, personaggio assolutamente sconosciuto ma che storici autorevoli – come Francesco Mastroberti - identificano come il nom de plume del giacobino Pierre Joseph Briot, che certamente durante la propria permanenza nell’Italia meridionale durante il decennio francese aveva avuto “contatti” (e forse molto di più) con quegli ambienti che nello stesso periodo fondavano le prime vendite carbonare. Secondo Bianca Marcolongo – ed una serie di particolari del testo tendono ad accreditare questa versione – la costituzione ausoniana sarebbe, al momento della pubblicazione, già vecchia di un decennio e dunque ascrivibile all’attività clandestina della fine del regno di Giuseppe Bonaparte o, probabilmente, all’inizio di quello di Murat.


Venendo al fulcro delle mie osservazioni, l’articolo che determina i limiti geografici dell’Ausonia – una repubblica federale democratica ed egualitaria – è il primo che, nel testo originale francese, recita:


«L’Ausonie se compose de toute la péninsule italienne, limitée au levant par la Méditerranée, au sud par la même mer, à l’ouest par la crête des plus hautes Alpes, depuis la Méditerranée jusqu’aux montagnes les plus élevées du Tyrol, qui la sépareront, au septentrion, de la Bavière et de l’Autriche. Tous les anciens états vénitiens seront compris dans l’Ausonie jusqu’aux bouches du Cattaro. Ses limites avec la Turquie seront bornées par les monts de Croatie, Trente et Sienne comprises. Toutes les iles de l’Adriatique et de la Méditerranée, situées à moins de cent milles des côtes de cette nouvelle république, feront aussi partie de son territoire, et les troupes à sa solde les occuperont.»


La prima cosa da notare è l’estrema imprecisione dei riferimenti geografici presenti nel testo: se i confini meridionali ed occidentali sono dati dal mare e dalle cime più alte delle Alpi, la presenza di Sienne (Siena) tra le città vicine al confine orientale testimonia di una conoscenza dei luoghi per lo meno perfettibile da parte di chi (probabilmente un borghese della provincia lucana) aveva originariamente redatto il testo.


Venendo all’inglobamento di «tutti gli antichi stati veneziani» (che, concordo con quanto da te scritto altrove, non hanno alcuna base di continuità con l’italianità come oggi viene intesa), si tenga presente la situazione durante il decennio francese e, più in generale durante le guerre napoleoniche: il riferimento alle isole si riferisce con chiarezza alla Repubblica delle Sette Isole Unite – cedute da Venezia alla Francia con Campoformio – dove le lingue maggioritarie erano il “giudeo-italiano” ed il veneto. Le si voleva “annettere” per mantenerle nella forma repubblicana e sottrarle alla “tirannia” del protettorato turco e russo.


Nessun riferimento ai Balcani, dunque, e soprattutto un concetto di nazione che, per un carbonaro dell’Italia meridionale nel 1810, non è assolutamente scindibile dalla Rivoluzione e dalla Repubblica. L’Unità “familiare” non esiste ancora, tanto che l’Ausonia è una repubblica federale con amplissima autonomia locale e l’unico fattore di unità a priori è la lingua, che comunque nelle zone adriatiche dell’ex Serenissima, nel 1810 (da cui le mie osservazioni puntigliose sulla datazione), era rispettata.


Per concludere, e senza voler in alcun modo invalidare il ragionamento generale sul Risorgimento che – lo ripeto – condivido in toto, ritengo che il Patto d’Ausonia sia da ascrivere a quella componente (o, se preferisci, a quel Risorgimento tra i tanti) egualitaria, democratica, poi uscita sconfitta dal processo unitario. Ad immaginare il suffragio universale, le cariche elettive nell’esercito (come poi nella Comune di Parigi) ed addirittura un’embrione di Stato sociale ed eguaglianza sostanziale è l’ala più estrema e radicale della carboneria, che non è una formazione unitaria ma un arcipelago di posizioni diversissime unite praticamente solo dal rifiuto dell’assolutismo e dalla forma latomica di diffusione politica prescelta.


Con questo mi congedo, esprimendo ancora il mio apprezzamento per quanto in generale da te detto e la speranza di leggere presto qualche nuovo prodotto del tuo/vostro impegno.


Cordialmente,


Luca Di Mauro


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Published on February 05, 2015 15:51

February 4, 2015

Radio Giap Rebelde | Lo Hobbit: un viaggio di crescita individuale – di Wu Ming 4

hobbit1rst


L’11 gennaio scorso Wu Ming 4 ha tenuto una lezione su Lo Hobbit al Museo del Videogioco di Roma, all’interno del ciclo di conferenze organizzato dall’Associazione Italiana Studi Tolkieniani e dedicate al primo romanzo di J.R.R.Tolkien. Nelle quasi due ore di conferenza è racchiuso un buon condensato della riflessione di WM4 sull’opera in questione, portata avanti anche su Giap.

Mettiamo a disposizione l’audio, corredato da un indice.

Durata: un’ora e cinquanta.

N.B. Se all’ascolto in streaming preferite il download, cliccate sulla freccia a destra del player (quella che punta agli antipodi).


Wu Ming 4 – Lo Hobbit: un viaggio di crescita individuale

Wu Ming 4 – Lo Hobbit: un viaggio di crescita individuale


Intro – 00:00

Libro e meta-libro – 3’41”

«In un buco nel terreno…» – 7’12”

Gandalf – 28’18”

I nani – 35’19”

Lo scassinatore borghese – 48’41”

Risveglio & partenza – 57’37”

Padre, madre… e solitudine – 1h02’07”

Troll, elfi, goblin… – 1h08’45”

…e Gollum – 1h13’27”

Nel bosco – 1h26’30”

Smaug il Terribile – 1h31’38”

Il tradimento onesto e il compimento dell’eroe – 1h42’43”


Pro memoria: domani sera, giovedì 5 febbraio, alle 19:00, Wu Ming 4 sarà alla libreria Gogol & Company, in via Savona 101, a Milano, insieme alla fondatrice della casa editrice Iperborea Emilia Lodigiani e al prof. Fulvio Ferrari, germanista e scandinavista, per parlare di “Tolkien e gli altri: miti e leggende nordiche nella fantasy contemporanea”.


[P.S. Non fatevi spaventare dall’eventuale neve… visto che si parla di Nord! ]


Gollum-Bilbo


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Published on February 04, 2015 11:00

Due #WuMingLab al Centro: «Racconti d’Oltremare» e «Bottega Bottego»

WuMingOltremare


Anche quest’anno, come nel 2014, siamo riusciti a organizzare due Wu Ming Lab a sud della Linea Gotica: Macerata (7/8 marzo) e Tagliacozzo (8/10 maggio) , in provincia dell’Aquila.


In entrambi i casi, i laboratori seguiranno la struttura del Fantarchivio: due giorni di esperimenti narrativi intorno a un documento d’archivio, proposto e selezionato da Wu Ming 2. Scopo del lavoro: imparare attraverso quali trasformazioni è possibile costruire un racconto a partire da un frammento di mondo (una vecchia foto, un articolo di giornale, una sentenza, un contratto, una testimonianza orale…).


Il primo in ordine di tempo, sarà il Fantarchivio Racconti d’Oltremare, che userà come cavia la storia di Carlo Abbamagal e dei 50 (o 70) africani concentrati a Villa Spada di Treia (MC).

Su questa vicenda, la documentazione di partenza si fa via via più interessante, grazie a Matteo Petracci e all’Istituto Storico della Resistenza “Mario Morbiducci”. Pochi giorni fa, ad esempio, è arrivata in mailbox la scansione di una lettera, conservata all’Archivio Centrale dello Stato, Segreteria Capo della Polizia RSI, b. 49, f. “PAI Gruppo Neri”, Ministero dell’Interno, 14 maggio 1944:


Posta Civile 307


14 maggio 44 XXII


MINISTERO DELL’INTERNO

GABINETTO

ROMA


Gruppo dei neri della P.A.I.


Per il possibile interessamento, si comunica la seguente nota 5 corrente del Capo della provincia di Macerata:

“Si prega di voler intervenire presso i competenti organi affinché si provveda per l’immediato trasferimento da questa ad altra provincia del gruppo dei neri della P.A.I. (70 circa) concentrati nella Villa Spada di Treia.

Tale gruppo rappresenta un serio pericolo per la tranquillità di quella zona.

Infatti alcuni di essi si sono dati alla macchia unendosi ai ribelli (uno è persino capo di una banda); esplicano considerevole attività e sono quanto mai feroci.

Urge provvedere prima che abbiano a verificarsi nuovi e più spiacevoli incidenti”


PEL MINISTRO

(firma illeggibile)



Il Fantarchivio Racconti d’Oltremare si terrà  il 7 e 8 marzo presso il CSA Sisma di Macerata. Per info e prenotazioni, potete far riferimento a questa pagina.


***


Il Fantarchivio Bottega Bottego è collegato a quello di Macerata tramite la figura di Vittorio Bottego, il più sanguinario di tutti gli esploratori-soldato spediti in Africa dalla Società Geografica Italiana.

Bottego morì a Daga Roba, vicino a Gidami, in Etiopia, durante uno scontro con gli Oromo. La sua spada, però, attraverso vari passaggi di mano, riuscì a tornare a Parma, la sua città natale. Da Parma, la sciabola venne spedita a Napoli, per la stessa ragione che portò sotto il Vesuvio una settantina di Etiopi, Eritrei e Somali: la 1^ Mostra Triennale delle Terre italiane d’Oltremare. Chiusa la mostra, mentre “i neri” finirono a Villa Spada di Treia, il prezioso cimelio sparì nel nulla. Un primo spunto narrativo potrebbe essere proprio questo: che fine ha fatto la sciabola di Vittorio Bottego?

Un secondo, più interessante aspetto della vita dell’esploratore, riguarda invece un altro “ricordo” delle sue scorrerie africane. Ecco come ne parla lo stesso Bottego, nel suo resoconto Il Giuba Esplorato, in data 21, 22 e 23 novembre 1892:



«Quasi tutti, me compreso, siamo colpiti da fortissime febbri, che, per qualche giorno, non ci lasciano. Acquazzoni torrenziali improvvisi, con folgori e tuoni, accompagnati da vento, bagnano e sconquassano la tenda che, non più ben tesa, mal può ripararmi. La mia gente, sebbene inferma, deve dormire allo scoperto su terreno umido e fangoso. […] Un giovinetto, con una mano tagliata, s’avvicina al campo, ripetendo lamentevolmente: «Mischin, mischin [1]». Lo faccio venire innanzi, e lo accolgo nella carovana. […] Il meschino Galla, Mahammed Chéder (fig. 22) mi racconta le sue sventure.Mahammed


È di Bàle, vasta regione abitata da Arùssi, tuttora sconosciuta. Gli Scioani, tre volte, con intervallo di qualche anno, posero questa regione a ferro e fuoco. L’ ultima, qualche mese fa, anche la parte ove il meschino abitava fu devastata dagl’invasori: la sua capanna distrutta, gli animali rapiti, la famiglia dispersa; de’ suoi cari più nulla sa; ne ha perduto affatto la traccia. Rammenta, come fosse oggi, che, mentre tentava di togliere ai nemici uno dei cavalli portatigli via, fu da loro raggiunto, preso e condotto innanzi al Ras Amhàra. Questi, valendosi della ragion del forte, condannò come ladro lui, che giustamente riprendeva il suo, e gli fece, secondo la legge scioana, tagliare la destra. Dicendo così, Mahammed mi va mostrando il suo moncherino, la cui ferita non è ancora cicatrizzata. Egli, venuto una volta in questi paesi da bambino, col padre suo commerciante d’avorio, ricorda bene la strada fino al Ganàle, ma non dove sia l’acqua: mi seguirà volentieri, e ci condurrà purché lo prenda al mio servizio e lo assicuri del cibo.» [2]



Immagine tratta da L.Vannutelli, C. Citerni, L'Omo. Viaggio di esplorazione nell'Africa orientale, 1899

Immagine tratta da L.Vannutelli, C. Citerni, L’Omo. Viaggio di esplorazione nell’Africa orientale, 1899


Durante il laboratorio Bottega Bottego, come pretesto per far pratica di svariate tecniche narrative, utilizzeremo la storia di Mahamed Keder, e in particolare il “silenzio archivistico” che coincide con la sua permanenza a Parma, prima di ripartire con Bottego per la sua seconda, fatale missione africana.


Il laboratorio si terrà dall’8 al 10 maggio al Casale Le Crete di Tagliacozzo. Info e contatti li trovate qui.



[1] Parola araba dalla quale derivò l’italiana «meschino»


[2] «Ora, tornato in Italia, posso dire che non ebbi a pentirmene. In più circostanze il povero Galla mi diede prove di fedeltà non dimenticabili. Per ciò l’ho condotto meco a San Lazzaro di Parma e ve lo tengo, vivente ricordo di questo viaggio.»


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Published on February 04, 2015 04:34

January 31, 2015

Radio Giap Rebelde | Laboratoire Marie Nozière, #Diariodizona, #PointLenana

Da sinistra: Nella Zorà, Eleonora Frida Mino, Manuela Grippi, Lilyth (Laura Luchino), Gaia Elisa Rossi, Fantasy (Silvia Agnello) e Mariano Tomatis. Fotografia di Veronica Maniscalco.

Da sinistra: Nella Zorà, Eleonora Frida Mino, Manuela Grippi, Lilyth (Laura Luchino), Gaia Elisa Rossi, Fantasy (Silvia Agnello) e Mariano Tomatis. Fotografia di Veronica Maniscalco.


È integralmente online il Laboratoire Marie Nozière, presentazione/performance/séance di magnetismo femminista ispirata alla protagonista del nostro romanzo L’armata dei sonnambuli.

Il Laboratoire è andato in scena il 28 gennaio 2015 nel teatro del Circolo Amici della Magia di Torino. Mattatrici dell’evento sono state Eleonora Frida Mino, Manuela Grippi, Fantasy (Silvia Agnello), Gaia Elisa Rossi, Lilyth (Laura Luchino) e Nella Zorà.


Dell’evento sono anche disponibili il programma di sala (vero e proprio «oggetto narrativo non-identificato»)  e l’album fotografico realizzato da Veronica Maniscalco.



Sempre a Torino, poche ore dopo il Laboratoire, ci siamo ritrovati alla libreria «Il ponte sulla Dora» per una scintillante presentazione del libro Diario di zona di Luigi Chiarella (Yamunin) e della collana Quinto Tipo diretta da WM1 per Edizioni Alegre.

Ecco la batteria degli interventi iniziali: Wu Ming 1, Yamunin, Stefano Jugo (il “Bot” di Einaudi su Twitter) e Mariano Tomatis. Durata: 46 minuti.

Qualcuno si chiederà: perché solo gli interventi iniziali e non la discussione?

La risposta è semplice: si è scaricata la batteria del tablet :-(


Un diario di zona del Quinto Tipo. «Messa cantata» per il compagno Yamunin

Un diario di zona del Quinto Tipo

(«Messa cantata» per il compagno Yamunin)



Dal Nordovest al Nordest. L’11 dicembre 2014 su Radio Rai Friuli – Venezia Giulia è andata in onda una puntata speciale del programma Riverberi, condotto dal critico musicale e sassofonista Piero Pieri.

Ospite negli studi di Trieste c’era Wu Ming 1, che ha parlato della sua produzione “solista” e “para-solista”, ovvero di New Thing (2004) e Point Lenana (2013). Pieri ha anche trasmesso brani dell’album Bioscop del Wu Ming Contingent.

Ecco la puntata integrale. Durata: 36’41”.


Riverberi. Piero Pieri intervista Wu Ming 1

Riverberi. Piero Pieri intervista Wu Ming 1


Cogliamo l’occasione per annunciare che Pieri ha prodotto una versione radiofonica di Emilio Comici Blues, reading/concerto di Funambolique + WM1 tratto da Point Lenana. Andrà in onda – sempre su Rai FVG, ascoltabile in streaming urbi et orbi – in tre puntate a febbraio-marzo. Comunicheremo con buon anticipo giorni e orari delle messe in onda.


Buon ascolto.


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Published on January 31, 2015 15:09

January 21, 2015

#AlpinismoMolotov diventa un blog

Logo per il lancio di Alpinismo Molotov, realizzato da Simone Vecchioni

Clicca e vai al blog.


Chi ha letto i racconti collettivi No Picnic on Rocciamelone e Alpinismo Molotov sul Triglav (Contro nazionalismi e alpinismi hipster, dal mondo di Julius Kugy) sa già cosa si intende per «Alpinismo Molotov».


L’idea è nata quando Point Lenana ha stimolato ripetuti incontri fra lettori/lettrici di Giap che amano andare in montagna ma detestano certi modi di andarci.


Una “banda di disparati” sparsi per il Nord Italia si è ritrovata in Val Susa ed è salita sulla montagna-simbolo della lotta No Tav. In quell’occasione è nata, quasi per accidente, l’espressione «Alpinismo Molotov».


Poco tempo dopo, una banda solo in parte coincidente con la prima si è ritrovata a Trieste, è andata in Slovenia e ha affrontato i saliscendi che portano alla groppa e alla testa di «Babbo Triglav», come lo chiamava Kugy.


Poi si sono aggiunte altre persone, si è discusso fitto fitto, ci sono state altre sortite… e si è deciso di aprire un blog, per analizzare e organizzare, riflettere e scarpinare. Come dicono gli zapatisti: «Camminare domandando».


Ebbene, da oggi quel blog è on line. Il primo post è una semplice, essenziale presentazione. Seguirà il manifesto dell’Alpinismo Molotov e poi, con calma, un sacco di roba. Un sacco da montagna, ovviamente. Buona lettura, buone escursioni.


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Published on January 21, 2015 03:13

January 18, 2015

#Expo2015 e i quattro elementi primordiali

ExpoStatale


Ieri, 17 gennaio, all’Università Statale di Milano, doveva tenersi una giornata di laboratori e un’assemblea nazionale contro Expo 2015, per confrontarsi sui tanti motivi di opposizione al Grande Evento Dannoso, Inutile e Imposto.

L’Università, però, ha deciso di dare a tutte quanti una bella lezione di libero pensiero e libertà d’espressione, chiudendo la sede di via Festa del Perdono per tre giorni consecutivi – da venerdì 16 a domenica 18 – e giustificando lo spostamento di esami, lezioni e colloqui con la “necessaria tutela della sicurezza di studenti, personale e docenti, a fronte della manifestazione nazionale autoproclamata da alcuni centri sociali e dall’area antagonista”.


Alla faccia di una simile risposta, almeno 500 persone si sono ritrovate in via Mascagni, 6 – spazio occupato per consentire all’iniziativa di svolgersi comunque.


Inizia ora la plenaria conclusiva dell’assemblea #noexpo a Milano pic.twitter.com/ubKoatJVx9


— Marco Neitzert (@marconeitzert) January 17, 2015



Anche WM2 doveva partecipare alla giornata No Expo, ma un imprevisto lo ha costretto a rientrare a Bologna nottetempo, subito dopo il reading 4NoExpo al SOS Fornace di Rho.

Come forma di partecipazione anticipata, in ritardo e a distanza, riportiamo qui sotto la registrazione (rough & live) dell’ultimo racconto/monologo dello spettacolo, quello dove proprio Expo prende la parola e grida la sua invidia nei confronti dei quattro elementi primordiali.

Buon ascolto.



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Published on January 18, 2015 01:42

January 13, 2015

Carlo Abbamagal e i cinquanta dell’Oltremare

Oltremerda

Se esistessero le Olimpiadi del Contrattempismo, credo che la categoria Fiere ed Esposizioni verrebbe vinta a mani basse [1] dalla Prima Mostra Triennale delle Terre Italiane d’Oltremare: costruita in soli sedici mesi nella zona Flegrea di Napoli, inaugurata dal Re Imperatore il 17 maggio 1940, fu chiusa e smantellata appena un mese dopo, per via dell’entrata in guerra dell’Italia. Nei tre anni successivi, i bombardamenti aerei distrussero più di metà dei 36 padiglioni e l’area andò in malora fino al 1952, quando venne rimessa in ghingheri per ospitare la Mostra Triennale del Lavoro Italiano nel Mondo: un esempio da manuale della continuità tra Regime fascista e Repubblica, con i suoi trasformismi, le sue arabe fenici camuffate da colombe, i tic e i trucchi da quattro spicci.



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Quella seconda mostra, però, fu un fiasco epocale [2] e costrinse gli organizzatori ad abbandonare sogni di gloria e investimenti in ulteriori carrozzoni. L’area tornò ad essere uno spazio indeciso, un lapsus urbano, un atto mancato di cemento e cartongesso. Ciononostante, grazie alla costruzione di strade, tunnel e binari, l’exposizione ottenne lo stesso uno dei suoi scopi primitivi: la crescita della città verso nuovi territori.


Nel 1980 vi alloggiarono gli sfollati del terremoto e solo negli anni Novanta partì un progetto di recupero e riqualificazione, sul quale di sicuro ci sarebbe molto da dire, se non dovessimo tornare rapidi al giugno del ’40 e alla mostra che chiude baracca.

Come in tutte le esposizioni coloniali, anche alla Triennale d’Oltremare la presenza dei sudditi dell’Impero era elemento irrinunciabile: il caffè moresco, il villaggio africano, la chiesa copta e altri esotismi d’accatto, venivano proposti in uno stile ibrido tra zoo, safari, freak-show e presepe vivente.


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Abortita la celebrazione della “millenaria opera di civiltà svolta dall’Italia e da Roma”, si pone il problema di dove sistemare e’ nire. I figuranti coloniali sono una cinquantina: la maggioranza fa parte della PAI, la Polizia dell’Africa Italiana, ma ci sono anche donne, bambini, artigiani. Dice il federale: vabbuò, che problema c’è? Li rispediamo subito a casa: gli ascari a far la guerra contro la perfida Albione e gli altri ai loro tucul. Eh, voi la fate semplice, gli risponde lo squadrista. Ma ora che organizzate il viaggio in piroscafo, c’è caso che il loro tucul gliel’hanno distrutto gl’inglesi, e la questione del collocamento ci si ripropone. E poi, aggiunge un altro, il Mediterraneo è un campo di battaglia. Non è che mandi un piroscafo così, dall’oggi al domani. Ci vuole tempo. E nel mentre, dove ce li mettiamo a questi? Boh. Le donne e i bambini si possono stivare con gli sfollati. Gli uomini li mandiamo sulle Alpi a sparare contro i gallici. Quelli c’hanno i senegalesi, i marocchini e allora noi…Per carità! Mica vogliamo abbassarci al loro livello. Le razze inferiori, qua in Europa, non le facciamo combattere, è un fatto di prestigio. No, bisogna trovare un posto tutto per loro, mica possiamo mischiarli coi nostri…


Da quel giugno 1940 fino alla primavera del ’43, non sappiamo di preciso quale fu la sorte di somali, eritrei, etiopi e libici della Triennale d’Oltremare. Probabilmente se li dimenticarono lì, nelle baracche di legno  dov’erano alloggiati fin dall’inizio.


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Famiglie dell’Africa Orientale nelle loro baracche, aprile 1940. ⓒ F. Patellani. Regione Lombardia – Museo di Fotografia Contemporanea


Di sicuro c’è che lo smantellamento della mostra fu un vero bordello, nel quale scomparvero cimeli e paccottiglia. La sciabola di Vittorio Bottego, ad esempio, non tornerà più a Parma, “nel museo della R. Università che porta il nome dell’Intrepido Esploratore, fulgida gloria nostra” [3]. E pensare che l’arma era arrivata nella città ducale dalla remotissima Lugh, in Somalia, nel trentunesimo anniversario della morte del suo proprietario (17 marzo 1928). A noi piace pensare che quella spada l’abbia rubata un somalo, o un oromo, entrato nottetempo nel padiglione dell’Africa Orientale Italiana, magari per vendicare la memoria di un nonno o di una zia, vittima dei massacri bottegai.[4]


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Nella primavera del ’43, i documenti tornano a parlare e ci dicono che i cinquanta dell’Oltremare sono finiti nelle Marche, a Treia, in provincia di Macerata. I documenti sono gli atti di nascita di alcuni “sudditi coloniali” nel territorio del comune, e purtroppo non raccontano il motivo del trasferimento, a più di due anni dalla chiusura della mostra. Forse fu l’inizio dei bombardamenti giornalieri su Napoli, a partire dal 1° gennaio ‘43, che riaccese il problema di dove sistemare “i neri della Triennale”. Ma perché proprio a Treia? Il luogo prescelto – le scuderie di Villa La Quiete, detta anche Villa Spada[5] – era stato un campo di internamento per donne “di dubbia condotta morale e politica” [6], chiuso a dicembre ’42 dopo varie denunce della Croce Rossa “per le deficienti condizioni igienico-sanitarie” e a causa di un incendio scoppiato all’interno.

Facile immaginare che i nuovi internati aspettino solo un’occasione buona per scappare.

E l’occasione buona è il bailamme che fa seguito all’8 settembre ’43. Ecco il racconto che ne fa il partigiano e storico Gualtiero Simonetti [7]:



“Il tenente Giulio [nome di battaglia di Jule Kačič, medico jugoslavo. NdR], comandante la banda di Valdiola, era venuto a conoscenza che a Villa Spada, a circa tre chilometri da Treia, c’era un deposito di armi custodite da un piccolo nucleo di carabinieri che avevano anche la sorveglianza di famiglie etiopiche trasportate a Napoli, prima dello scoppio della guerra, per la Mostra d’Oltremare, e di qui internate nelle Marche, dove erano confinati anche studenti somali iscritti nelle nostre Università.

Queste informazioni erano state portate da due negri riusciti a sfuggire alla sorveglianza dei carabinieri e a raggiungere le formazioni partigiane del Monte San Vicino.

Il tenente Giulio ne parlò al Comando di Roti, e insieme si convenne di assalire nottetempo Villa Spada, liberare i prigionieri e impossessarsi delle armi.

A questa spedizione presero parte una trentina di partigiani tra slavi, inglesi, italiani. Comandavano i partigiani di Roti il capitano Antony Pyne e il tenente Baldini; quelli di Valdiola, il tenente Giulio.

I partigiani di Roti partirono alle ore 16 del 25 ottobre. La notte era piovigginosa, e i monti avvolti nella nebbia. Si procedeva per sentieri fangosi, spesso fiancheggiati da burroni. La congiunzione delle due formazioni era stata fissata al Passo di Treia. Durante il tragitto il capitano Antony e il maresciallo Douglas caddero in un burrone per una altezza di cinque o sei metri; ma ne vennero fuori quasi incolumi. Sostarono successivamente in due case coloniche per riposarsi e rifocillarsi, accolti con generosa ospitalità.

Verso la mezzanotte le due bande si congiunsero. La banda di Giulio aveva già interrotto ogni comunicazione telegrafica e telefonica con Macerata e bloccate le strade di accesso alla Villa. Picchetti di partigiani erano stati dislocati nei punti strategici.

Villa Spada è un agglomerato di case recinte da mura, alte dai quattro ai cinque metri. Tutto l’edificio fu circondato. Alcuni partigiani, guidati da un negro e comandati dal tenente Baldini, scavalcarono le mura mentre Douglas feriva e immobilizzava il maresciallo dei carabinieri che era corso ad aprire la porta d’ingresso della Villa, certo che si trattasse di una delle solite pattuglie tedesche.

Nell’interno tre feroci cani mastini avevano dato l’allarme e si erano lanciati contro i partigiani. Immediatamente si accese il combattimento tra assalitori e difensori, che si protrasse per circa due ore e che terminò con la resa della guarnigione che ebbe quattro feriti; due feriti leggeri i partigiani.

Questa azione audace fruttò 16 pezzi tra mitra e fucili mitragliatori; bombe a mano, moschetti, rivoltelle. Alcuni indigeni, giovani e senza famiglia, seguirono le bande. Tra questi era il Principe somalo Aden.

Al ritorno il maresciallo Douglas e Antony furono costretti a sostare in una casa colonica per le ferite riportate nella caduta e per altre ai piedi causate dagli zoccoli. Raggiunsero Roti al tramonto dello stesso giorno.

I somali di Villa Spada formarono un gruppo a sé, al comando del Principe Aden, ed ebbero ospitalità presso le famiglie coloniche di Roti. Ricevevano i viveri direttamente dall’ufficiale addetto al vettovagliamento che procurava anche animali da cortile che uccidevano essi stessi, secondo il rito mussulmano.”



L’assalto a Villa Spada/La Quiete avviene alla fine di ottobre del ’43 e da quel momento, nelle brigate della zona, oltre ad australiani, francesi, britannici, jugoslavi e russi – fuggiti dai campi di prigionia  – cominciano a combattere anche etiopi, somali ed eritrei. [8]


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Il battaglione “Mario”. In piedi, da sx: Nikola Budrinić, Mirko Gubić, Ivan Dovcopoli, Stefano Ponomarenco, Mosé Di Segni, Frane Trlaja, Don Lino Ciarlantini, Cesare Manini, Ivan Rjenicenko, Cesare Cecconi Gonnella. In basso: Rajko Djurić, Bruno Taborro, Vassili Simonjenko, Ivan Vasiljenko, Carlo Abbamagal,, Sergio Cernjejev, Luigi Verdolini, Mate Gispić (Djapić?).


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Di loro si sa pochissimo, spesso soltanto il nome di battaglia, a volte il luogo del decesso.


Carlo Abbamagal [9] morì il 24 novembre 1943, sulla strada che porta da San Severino Marche a Frontale d’Apiro. Viaggiava su un’auto con il comandante Mario e altri due partigiani, quando incapparono in una pattuglia di altoatesini della Wermacht. Carlo saltò giù dal mezzo, sparò un paio di colpi e venne ucciso, ma i suoi compagni ebbero la meglio: catturarono due nemici e seppellirono il corpo del caduto sulle montagne. Dopo la Liberazione, la salma venne trasportata a San Severino e tumulata in fretta, insieme ad altri stranieri, nella cripta di una confraternita religiosa, senza lasciare tracce nei registri del cimitero.


Settant’anni dopo, grazie alle ricerche di Matteo Petracci – che è dottore di ricerca in storia, istituzioni e politica dell’area euromediterranea presso l’Università di Macerata – la bara con il nome di Carlo Abbamagal inchiodato sul coperchio è stata ritrovata.


Ero inciampato in questa storia grazie a un consiglio di lettura del mio amico e fratello Antar Mohamed. Senza di lui, forse non avrei mai letto un libro intitolato: “Colonia e post-colonia come spazi diasporici. Attraversamenti di memorie, identità e confini nel Corno d’Africa. A cura di Uoldelul Chelati Dirar, Silvana Palma, Alessandro Triulzi e Alessandro Volterra”, pubblicato da Carocci nel 2011. Così mi sarei perso, tra gli altri, il contributo di Luigi Goglia: Ascari partigiani. Il caso dei “neri” della PAI raccolti a Villa Spada a Treia.

Nell’articolo di Goglia, mancavano diversi dettagli rintracciati da Petracci. Quella storia, nel 2011, era ancora un’ascia di guerra mezza sepolta, ma alla prima occasione utile ne avevo parlato in un commento su Giap, in margine a un post su Rodolfo Graziani e il vespasiano di Affile.

Quel breve, rapido commento, è però sfuggito a Simone Vecchioni, giapster marchigiano e alpinista-molotov d’Appennino. Passano due anni e Simone mi invita a tenere un laboratorio Fantarchivio presso l’Azienda Agricola “La Distesa” di Cupramontana. In margine al laboratorio, la sera, Simone infila anche una presentazione di Timira, giusto per vedere se mi riesce di sproloquiare per dieci ore filate. Poco prima di cominciare, a cena, mi guarda con occhio sornione e fa: “Stasera te presento un amico che sta facendo ricerche su una storia in-cre-di-bi-le. Un partigiano etiope che ha combattuto vicino Macerata…”

– Ma chi – lo interrompo – Carletto Abbamagal?

C’è mancato poco che mi mandasse affanculo.


Così ho conosciuto Matteo Petracci e ho saputo che di lì a poco, il 6 luglio 2014, in occasione del 70° anniversario della Liberazione di San Severino Marche, il comune avrebbe dato degna sepoltura al partigiano Abbamagal, con tanto di lapide in suo ricordo nel cimitero monumentale.


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Da quella sera, insieme a Simone a ai compagni del CSA Sisma, abbiamo iniziato a ragionare su una nuova edizione del Fantarchivio: un laboratorio per imparare a estrarre le narrazioni dai documenti storici, usando come “cavia” proprio la vicenda di Abbamagal. Che per di più non si conclude con la sua morte e con la Liberazione della provincia di Macerata.

Esistono infatti un carteggio e diversi atti giudiziari relativi a un africano, che diceva di essere il fratello di Abbamagal, arrestato e processato nel ’46 per l’uccisione di spie fasciste durante la Resistenza. Secondo gli atti, l’uomo avrebbe fucilato 5 persone: i due altoatesini catturati dai partigiani a Frontale d’Apiro, due ladri che si tingevano il volto di fuliggine così da essere scambiati per “partigiani africani” e infine una presunta spia.


In agosto, ho rivisto Simone a Corridonia, dopo il concerto del Wu Ming Contingent a Villa Fermani, e gli ho promesso che avrei fatto subito un post estivo su Giap, per raccontare questa storia e presentare il prossimo Fantarchivio maceratese.

A settembre, Simone mi ha telefonato per richiamarmi all’ordine – “Allora, ‘sto post su Giap?” – e segnalarmi l’imminente uscita dell’ultimo libro di Matteo Petracci.

– Quale, – gli ho risposto – I matti del duce? Me lo sono fatto spedire dalla casa editrice e l’ho già cominciato. La storia di Secondo Biamonti è spettacolare…

Se mi ha mandato affanculo, lo ha fatto sottovoce.

Questo alla fine dell’estate. Poi rimanda oggi, rimanda domani, sono passate le settimane ed è arrivato l’inverno.

Fortuna che le buone storie non hanno data di scadenza.

E che al Fantarchivio Racconti d’Oltremare , al centro sociale Sisma di Macerata, mancano ancora due mesi. Come detto, partiremo dalla storia di Carlo Abbamagal e ne faremo una palestra narrativa, per raccontare il rimosso che ancora oggi – ai tempi di Triton – pesa sul rapporto tra l’Italia e le terre oltre il mare. 7 e 8 marzo. Se siete interessati, segnatevi la data. I posti disponibili non sono molti. Info e prenotazioni: www.csasisma.org e info[at]csasisma.org.


NOTE, AGGIUNTE, CREDITI e BIBLIOGRAFIA


[1] Ovviamente anche l’Esposizione Universale di Roma (E.U.R.) si piazza molto in alto in questa speciale classifica. A mio parere, tuttavia, non supera il contrattempismo della Triennale d’Oltremare perché quest’ultima venne inaugurata e poi subito smantellata, mentre l’EUR fu soltanto parzialmente costruita.


[2] Sul destino della Triennale d’Oltremare, e della sua continuazione sotto mentite spoglie, come Triennale del Lavoro italiano, sembra gravare la stessa “maledizione abissina” che colpisce tuttora il centrodestra italiano (e laziale in particolare) a causa della costruzione del Monumento di Affile, intitolato a Rodolfo Graziani. Agli storici della jattura, il compito di approfondire la questione.


[3] A. Adorni, Due cimeli di Vittorio Bòttego, in Aurea Parma, Anno XIV, pp. 20 – 27, Tipografia “La Bodoniana”, Parma, 1930


[4] Vittorio Bottego ci teneva moltissimo a scrivere il suo nome con l’accento sulla prima o (Bòttego). Tuttavia, sembra che all’anagrafe quell’accento non sia mai esistito. La premura del Bottego mirava ad evitare che il suo fulgido cognome venisse pronunciato “Bottégo”. Ci pare dunque una giusta ricompensa che l’aggettivo per riferirsi alle sue imprese sia “bottegaie”.


[5] A. Cegna, «Di dubbia condotta morale e politica». L’internamento femminile in Italia durante la Seconda Guerra Mondiale, in DEP. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile, n. 21, gennaio 2013. Il file PDF dell’articolo si può scaricare qui.


[6] Villa La Quiete ha cambiato spesso nome a seconda dei diversi proprietari, ma è generalmente nota come Villa Spada. Questo, tra l’altro, crea un nesso particolare con chi scrive, visto che uno dei parchi più belli di Bologna era la vecchia proprietà di un altro ramo della stessa famiglia, e tuttora si chiama “Villa Spada”. Inoltre, al momento della trasformazione della tenuta in campo d’internamento, la villa era di proprietà dei conti Vannutelli. Lamberto Vannutelli accompagnò Vittorio Bottego nella spedizione alla foce dell’Omo, dove il soldato-esploratore trovò la morte. Non so dire se Lamberto avesse legami di parentela con i Vannutelli di Villa La Quiete, ma nel caso sarebbe un altro nesso interessante.


[7] G. Simonetti, La resistenza a Matelica. Storia dei gruppi partigiani, Matelica, Geronimo, 2004


[8] Non tutti i confinati di Villa Spada/La Quiete si unirono alle formazioni partigiane. Secondo il prof. Brian L. McLaren della University of Washington di Seattle , il bilancio (parziale) della loro persecuzione è il seguente: 8 nuovi nati, 6 morti (4 uomini – dei quali due in battaglia, una donna, un bambino), 2 imprigionati per crimini contro ufficiali italiani, 1 ricoverato in ospedale, 8 uomini e una donna sicuramente fuggiti (due di questi deceduti in battaglia). Nel luglio 1944 un gruppo consistente viene trasportato a Bari dagli Alleati. Di tutti gli altri si perdono le tracce.


[9] Naturalmente, “Carlo” non era il suo vero nome, e probabilmente “Abbamagal” non era il suo cognome. “Abbà Magal” è il titolo di un romanzo di F.C. Piovan sull’esploratore pesarese Antonio Cecchi, pubblicato nel 1929. Abba Magal era anche il nome di un capo dei Diggo Oromo.


Le fotografie che abbiamo qui riprodotto, sono nell’ordine:


- G. Mancioli (illustratore), Cartolina della Prima Mostra Triennale delle terre italiane d’Oltremare, Wolfsonian Library, www.wolfsonian.org (con una piccola aggiunta scatologica).


- G.Arena, The city of the colonial museum. The forgotten case of the Mostra d’Oltremare of Naples. in D.Poulot, F. Bodenstein, J.M. Lanzarote Guiral (eds), Great Narratives of the Past. Traditions and Revisions in National Museum, EuNaMus Report n.4, Linköping Univesrity Electronic Press, 2011. Il file PDF dell’articolo si trova qui.


- Ibidem


- Brian L. McLaren, Architecture and wararticolo postato il 4/02/14 su Arch[BE]log, blog del Dipartimento di Architettura della University of Washington di Seattle.


- A. Adorni, Due cimeli di Vittorio Bòttego, op.cit.


- Archivi fotografico ANPI San Severino Marche. La didascalia con i nomi dei partigiani è tratta dal sito www.partgianijugosalvi.it, espansione on line di A. Martocchia, I partigiani jugoslavi nella Resistenza italiana, Roma, Odradek, 2011


- Archivio privato Danilo Baldini – Cerreto d’Esi


- Fotografia di Matteo Petracci


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Published on January 13, 2015 02:50

January 8, 2015

Terrorismo, migranti, foibe, marò, fascismo… Appunti sul vittimismo italiano

Colpevole di essere italiano


di Wu Ming 1


Ho cominciato a prendere questi appunti ormai molti mesi fa, dopo aver letto in sequenza il libro di Federico Tenca Montini Fenomenologia di un martirologio mediatico. Le foibe nella rappresentazione pubblica dagli anni Novanta a oggi (KappaVu, 2014) e il pamphlet Critica della vittima di Daniele Giglioli (Nottetempo). I due libri sono complementari. Tenca Montini e Giglioli affrontano gli stessi nodi di fondo. Il primo lo fa analizzando un case study molto significativo, ricostruendo genesi, sviluppo e affermazione, nel corso degli anni Novanta e degli anni Zero, del discorso sulle «foibe». Discorso quintessenzialmente vittimistico, perfettamente coerente con l’autonarrazione deresponsabilizzante spesso riassunta nell’espressione «Italiani brava gente»; Il secondo, invece, fotografa la tendenza egemone dei nostri tempi, la centralità della «vittima» nell’immaginario italiano e occidentale contemporaneo.


Quella che era partita come riflessione ispirata dalla lettura quasi contemporanea dei due saggi, si è gonfiata come un torrente a fine inverno e ha trascinato a valle detriti di polemiche di cronaca, storiografiche e di costume.


duelibri




RIMUOVERE TUTTE LE PREMESSE TRANNE UNA


Ovviamente, le vittime sono sempre esistite. Quelle vere e quelle presunte. Anche il vittimismo – il “fare la vittima”, l’atteggiarsi a vittima – non è una novità, e si manifesta da sempre in tutto il mondo.

Anche il vittimismo dei poteri costituiti, il vittimismo di stato, ha una lunga storia, e plausibilmente un radioso futuro. Per ragioni facilmente intuibili, nella storia non c’è guerra d’aggressione che non sia stata scatenata da una sedicente vittima, da qualcuno che affermava di doversi difendere, reagire a una minaccia, riparare un torto subito, far valere un diritto negato ecc. Ogni volta si fa iniziare la storia dove fa più comodo, per negare le proprie colpe e responsabilità e poter dire che «hanno cominciato gli altri».


Su chi siano esattamente questi altri è meglio che le idee rimangano confuse, in modo da poter attribuire loro, con elasticità e senza dover spiegare troppo, il maggior numero possibile di nefandezze, anche in contraddizione l’una con l’altra.

Ad esempio, dando all’opinione pubblica un’idea disinformata e dozzinale sugli “islamici”, i “musulmani”, i “terroristi arabi”, insomma quelli là con gli stracci in testa, gli USA poterono attaccare l’Iraq in nome delle vittime newyorkesi dell’11 settembre 2001, anche se l’Iraq e il suo regime (notoriamente laico) erano totalmente estranei all’attentato, e la guerra aveva evidentemente altri scopi.


Saddam non aveva mai appoggiato Al Qaeda. Al contrario, gli USA avevano a lungo e pubblicamente foraggiato – in chiave antisovietica e antipanarabista – lo stesso fanatismo islamico che ora dicevano di voler combattere. Lo avevano fatto in tutto il mondo musulmano, dal Nordafrica alla Palestina all’Afghanistan, creando mostri un po’ ovunque. Ma tutta la storia precedente l’11 settembre 2001 era stata rimossa dal racconto. Bisogna sempre rimuovere il maggior numero possibile di premesse, lasciandone solo una di comodo: quella che ci deresponsabilizza.  L’abbattimento delle Twin Towers era diventato quella premessa.


In seguito, le catastrofiche guerre di Bush sono state rimosse a loro volta, come è stato rimosso tutto il razzismo, tutto l’imperialismo culturale vomitato su arabi e musulmani negli anni della War on Terror, come sono stati rimossi gli abusi di Abu Ghraib e – soprattutto – Guantanamo. Scomparse le extraordinary renditions, scomparse le torture CIA.


Oggi si blatera dell’ISIS senza mai spiegare che quel movimento ultrareazionario, schiavista, islamonazista, è l’esito di decenni di precise scelte politiche, militari ed economiche. È senz’altro più comodo parlarne come se fosse nato dal nulla, o meglio, da una misteriosa predilezione dei musulmani (tutti!) per il fanatismo e la violenza politica. In questo modo, si può piegare la lotta al terrorismo a una generica “politica della paura”, come la chiama Serge Quadruppani, finalizzata a un sempre più capillare controllo sociale.


E fateci caso: ogni volta si riparte da capo.

L’11 settembre 2001 tutti i commentatori dissero: «Da oggi, abbiamo la guerra in casa».

Quando fu colpita la metropolitana di Madrid, tutti i commentatori dissero: «Da oggi, abbiamo la guerra in casa».

Quando fu colpita la metropolitana di Londra, tutti i commentatori dissero: «Da oggi, abbiamo la guerra in casa».

Dopo la strage nella sede di Charlie Hebdo, tutti i commentatori hanno detto: «Da oggi, abbiamo la guerra in casa».

Non si va mai più indietro di oggi. E quindi non si capisce un cazzo.

Anche perché scompaiono le lotte vere, le resistenze popolari concrete all’ISIS, come quella che ha luogo da mesi a Kobane.


Troviamo la stessa strategia discorsiva quando si parla di immigrazione. Normale, perché il dibattito sul terrorismo maschera quello sull’immigrazione, o meglio, quello mai esplicito sulla forza-lavoro migrante, forza-lavoro da sfruttare riconoscendole il minimo dei diritti – o meglio ancora, nessuno.

Si parte inveendo contro l’ISIS… e  si finisce subito a parlare dei “barconi”, si ripropone tutto il repertorio di bufale razziste sui soldi immaginari che lo stato darebbe agli “extracomunitari” ecc.


Anche qui, viene rimosso il maggior numero possibile di premesse.

Il colonialismo europeo – compreso quello dell’Italia – ha invaso, devastato e depredato Africa e Asia.

Le multinazionali nordamericane ed europee – comprese quelle italiane – continuano a sfruttare e depredare quelle terre, a sottrarne sistematicamente le risorse, in un sistema di “scambio ineguale” e divisione internazionale del lavoro che ha come principio regolatore un razzismo oggi non più dichiarabile ma pienamente operativo. Ai popoli implicitamente ritenuti “inferiori” toccano lavori peggiori e salari più bassi.

Ma quando si parla di immigrazione, tutto questo scompare. Non siamo più “noi” (bianchi, occidentali, capitalisti, colonialisti) ad avere invaso l’Africa, sterminato popolazioni, sfruttato il lavoro dei colonizzati, rubato terra e materie prime ecc.

Macché, sono gli africani che stanno “invadendo” noi. Stop invasione!


Perché noi siamo le vittime. Sempre. Da sempre.


Soprattutto noi italiani.




ALLE RADICI DEL VITTIMISMO ITALIANO: I MITI DI ROMA E VENEZIA


Si diceva: il vittimismo non è una novità. Parlare del vittimismo è, per molti versi, parlare dell’acqua calda. Ma quello dell’ideologia dominante italiana è un vittimismo peculiare, specifico, e negli ultimi decenni si è caricato di ulteriori connotazioni. Ogni paese ha le sue sorgenti, la sua acqua, con diverse percentuali di stronzio e altri minerali.


L’Italia come nazione è pressoché interamente edificata su un immaginario vittimista, a partire dall’Inno di Mameli: «noi fummo sempre calpesti e derisi». Vittimismo chiagni e fotti: rileggiamo La grande proletaria si è mossa di Pascoli, pensiamo al mito della «vittoria mutilata» (espressione coniata da D’Annunzio)… L’Italia, che è stata molto più spesso carnefice, non sa rappresentarsi se non come vittima. Vittima di soprusi antichi e recenti. Si veda com’è raccontata la vicenda diplomatica dei due Marò, «i nostri ragazzi», l’India cattiva, gli oscuri complotti…


A monte di tutto è implicito un sopruso più grande, il sopruso. L’Italia sarebbe vittima di una caduta in disgrazia rispetto ad «antichi fasti» come quelli dell’Impero Romano, del Rinascimento o di Venezia come potenza coloniale. Una “pappa” di entità e periodi diversi che con l’Italia intesa come stato-nazione (sabaudo, fascista e poi repubblicano) non c’entrano assolutamente nulla.


Quello della continuità tra Roma e lo stato-nazione italiano è un mito tecnicizzato, nato nell’Ottocento ma portato al parossismo durante il Ventennio, e poiché col fascismo non abbiamo mai fatto i conti fino in fondo, la “romanità” farlocca del fascismo è ancora oggi largamente accettata e riproposta senza alcuna messa in discussione (ad esempio, nel 2011 da Roberto Benigni durante la sua lectio magistralis sull’Inno di Mameli, che ho analizzato qui), a dispetto della sua infondatezza.


Benigni sul cavallo bianco


In nessuna fase della sua storia Roma si pensò «Italia», né i Romani si sentivano «italiani». Roma era Balcani, Nordafrica, Asia Minore, Iberia, Europa settentrionale ecc. Roma fu poi Bisanzio, la «romanità» non fu mai «italianità», ci si diceva «romani» in Anatolia, nel Mediterraneo orientale e in luoghi oggi definiti “Oriente”. Alcuni imperatori romani non misero mai piede sulla penisola italica. Diocleziano vide Roma una volta sola nella vita, al momento di abdicare.

Prima dell’Ottocento, l’idea dell’Italia come nazione non era nella testa di nessuno.

Quanto a noi, non siamo mai stati la “stirpe romana”. Mai. Siamo i discendenti meticci di tutte le popolazioni che hanno invaso la penisola o vi si sono stabilite, ibridandosi con quelle che c’erano arrivate prima, processo il cui inizio si perde nella notte dei tempi e tuttora prosegue. Siamo etruschi, celti, longobardi, ostrogoti, normanni, arabi, spagnoli e chissà chi altri. Siamo da sempre terra di immigrazione. Siamo immigrati di n-esima generazione.


Fittizia anche la continuità con Venezia nel discorso revanscista sull’Adriatico orientale, recentemente riproposto da Simone Cristicchi e Jan Bernas nel fortunato e disonestissimo spettacolo Magazzino 18, dove si afferma che in Istria «anche le pietre parlano italiano».

[N.B. In quella parte di spettacolo Cristicchi cita, senza dirlo, il verso di una canzone neofascista – Di là dall’acqua della Compagnia dell’Anello – che a sua volta citava un autore fascista, franchista e collaborazionista, Renzo Lodoli.]


Il piedestallo di questo discorso, a malapena verniciato di culturalismo, è il solito, rancido concetto di stirpe. Gli scambi che derivano dalla premessa sono tutti sintetizzabili così:


– L’Istria, Fiume e la Dalmazia erano terre italiane, parte dell’Italia!

– Veramente no, sono sempre state terre multietniche e plurilingui. L’Istria fece parte del regno d’Italia per un periodo molto breve, dal Trattato di Rapallo del 1920 alla sconfitta dei nazifascisti nella seconda guerra mondiale. Quanto alla Dalmazia, solo una piccola porzione fu inclusa per breve tempo del regno d’Italia. Solo il 5% della popolazione dalmata parlava italiano, ed erano quasi tutti concentrati in una sola città, Zara. Quanto a Fiume, fu “italiana” per un periodo ancora più limitato, in seguito al colpo di stato fascista contro lo Stato Libero di Fiume, nel 1922, che portò all’annessione del 1924.


[Pausa…]


– E allora i secoli di dominazione veneziana dove li mettiamo?!!

– Beh, io una mezza idea ce l’avrei!


Se a far valere la patente di «italianità» sono i secoli di dominazione veneziana, perché mai nel 1915 si riteneva “italianissima” e perciò “irredenta” Trieste, che era asburgica da più di mezzo millennio (lo fu dal 1382 al 1918) e si era posta sotto la protezione del duca d’Austria proprio per non finire sotto Venezia, con cui era già stata in guerra?


Se a far valere la patente di «italianità» sono i secoli di dominazione veneziana, perché nel 1918 il Regno d’Italia occupò militarmente e dichiarò italiane parti dell’entroterra e della montagna slovena dove Venezia non aveva mai messo piede e – soprattutto – dove non viveva un solo parlante italiano?


E magari gli avi di chi rivendica tale continuità di stirpe con Venezia-che-era-già-Italia erano arabi di Sicilia o normanni di Basilicata, ai quali non passava nemmeno per l’anticamera del cervello di avere come patria “l’Italia”, o di pensarsi medesima stirpe del patriziato veneziano che, mille chilometri più a nord, si godeva i frutti delle razzie compiute oltreadriatico (e anche nell’entroterra della Serenissima, se è per questo).


Insomma, anche quella della stirpe italica in continuità col dominio veneziano è una supercazzola con scappellamento all’estrema destra, anche quando viene da bocca “di sinistra” (sempre per modo di dire, eh!), inconsapevole o paracula che sia. A volte inconsapevole e anche paracula. Le due cose non si escludono.


-

LA STORIA DEL CONFINE ORIENTALE COME «INSTRUMENTUM REGNI» E IL RUOLO DEL PD


Il vittimismo non è una novità. Ciò non toglie che, come strategia discorsiva, non sia mai stato vincente come appare oggi.


La novità è l’onnipervasività del «paradigma vittimario», come lo ha chiamato Giovanni De Luna. Oggi, scrive Giglioli, «chi sta con la vittima non sbaglia mai». La possibilità di dichiararsi vittima è «una posizione strategica da occupare a tutti i costi». Abbiamo assistito e tuttora assistiamo a guerre per «stabilire chi è più vittima, chi lo è stato prima, chi più a lungo». Chi combatte queste guerre lo fa in nome di una «aristocrazia del dolore», di una «meritocrazia della sfortuna»: – Io sono vittima perché è stato vittima mio padre, e prima di lui lo è stato mio nonno! Ho avuto la sfortuna di essere loro figlio e nipote, e quindi merito di essere considerato vittima!


Giglioli parla di «tragedie per procura», di «risentimento in appalto», ma io parlerei di usu capione: la mia famiglia vive in questa condizione vittimale da decenni, adesso è mia per forza di legge. Da qui la richiesta di uno status particolare, fatto di cerimoniali ad hoc, giornate commemorative, vie intitolate, bonus di vario genere, risarcimenti, riconoscimenti… Giglioli si chiede, retoricamente: «Chi, sano di mente e retto di cuore, prescriverebbe ai suoi discendenti di continuare a soffrire per lui?»


Simone Cristicchi


Eccoci, entriamo a pie’ pari nella vicenda del cosiddetto «Esodo giuliano-dalmata», innervata a quella delle «foibe».


Dapprima è stata la destra post-fascista (e sul «post» ovviamente ci sarebbe da dire) a «nazionalizzare» l’immaginario vittimale del confine orientale e a trasformarlo in instrumentum regni. Questo è avvenuto grazie alla fine di quegli «impedimenti» post-bellici che l’avevano confinata in una nicchia.


Nel suo libro Tenca Montini lo ricostruisce molto bene: fino agli anni Novanta del XX secolo, soltanto in Venezia Giulia l’immaginario vittimale “giuliano-dalmata” si era compiutamente trasformato in instrumentum regni. Persino l’urbanistica di Trieste e altri centri urbani nei dintorni furono radicalmente modificate dall’immaginario vittimale.

Molto chiara in questo senso la storia dei nuovi sobborghi per profughi costruiti per «italianizzare» zone ad alta presenza slovena ed alterarne gli equilibri non solo etnici ma anche elettorali, come spiegano con dovizia di esempi Piero Purini nel suo libro  Metamorfosi etniche. I cambiamenti di popolazione a Trieste, Gorizia, Fiume e in Istria. 1914-1975 (KappaVu, 2010) e Sandi Volk nel suo Esuli a Trieste. Bonifica nazionale e rafforzamento dell’italianità sul confine orientale (KappaVu, 2004).

Nel resto d’Italia, nulla di paragonabile.


Ma con la caduta dell’URSS, la fine della Jugoslavia, la fine della «Prima Repubblica» e dell’arco costituzionale ecc. la situazione cambia all’improvviso, scompaiono i «blocchi» e la destra post-missina, soggetto di importanza strategica nel blocco di potere berlusconiano, può darsi subito un gran daffare.

Raccontata così, però, sarebbe davvero troppo semplice. Fin da subito aiuta la destra il cosiddetto «centrosinistra». Si sviluppa una forma di «consociativismo della memoria» funzionale alle «larghe intese» che – molti anni prima di essere ufficializzate in parlamento – già hanno luogo nell’economia e nella società.


In quest’epoca, a metà degli anni ’90, si verifica quella che Tenca Montini definisce «inclusione dei postcomunisti nella storiografia nazionalistica». Sono gli anni in cui Luciano Violante cerca la conciliazione con gli eredi dei “ragazzi di Salò”, espressione edulcorante per i soldati  di uno stato-fantoccio collaborazionista voluto da Hitler.


Oggi siamo andati molto più in là, il testimone è quasi interamente passato di mano e il ruolo principale ce l’ha l’intellighenzia dell’area PD. E’ stato  Giorgio Napolitano la figura politica e istituzionale più attiva su quel versante. Solo per ricordare l’episodio più recente, poco tempo fa ha commemorato il capo neofascista Almirante, già redattore della rivista La difesa della razza.

Se Napolitano è primus inter pares, rivalutazioni del genere le troviamo a tutti i livelli del partito, ovunque giriamo lo sguardo: il governo Renzi si era appena insediato quando il neoministro della difesa Roberta Pinotti ha omaggiato l’aviatore fascista Luigi Gnecchi, reduce della guerra civile spagnola, tra i responsabili dei bombardamenti a tappeto su Barcellona, cioè di un famigerato massacro di civili.


Locandina dell’incontro Memòria i justícia: Barcelona sota les bombes feixistes (Memoria e giustizia, Barcellona sotto le bombe fasciste, tenutosi al centro Pati Llimona di Barcelona il 30 gennaio 2013 con la partecipazione di Xavier Domènech, storico, Jaume Asens, avvocato e Ida Mauro del’Associazione AltraItalia.

Locandina dell’incontro Memòria i justícia: Barcelona sota les bombes feixistes (Memoria e giustizia, Barcellona sotto le bombe fasciste), tenutosi al centro Pati Llimona di Barcelona il 30 gennaio 2013 con la partecipazione di Xavier Domènech, storico, Jaume Asens, avvocato e Ida Mauro del’Associazione AltraItalia.


Del tutto logico. Il PD ambisce a essere il «partito della nazione», e quindi il partito di tutti, e quindi il partito della «memoria condivisa».


E quindi anche il nuovo partito dell’Esodo istriano.


[E forse anche il nuovo partito dei cosiddetti “rimasti”, le comunità italiane ancora presenti in Slovenia e Croazia, dopo la fine della Jugoslavia non più etichettabili come “titine”. Si è prestata meno attenzione del dovuto a come Cristicchi ha inserito nello spettacolo una parte strappalacrime sui “rimasti”. Ancor meno attenzione si è prestata a certe manovre politiche intorno all’Università Popolare di Trieste, «soggetto privilegiato di collegamento tra il Governo italiano e la minoranza in Istria, Fiume e Dalmazia.»]


Dal 1918 al 1941 (anno in cui l’Italia invase la Jugoslavia insieme a Hitler), il nostro confine orientale venne spostato con la forza sempre più a est. Si veda la progressione in quattro mappe proposta in questo post. In quelle terre l’imperialismo italiano fu responsabile di stragi, deportazioni, persecuzioni.

Il trucco che consente di far sparire tutto questo è, come si diceva sopra, far cominciare la storia più tardi.

Per la precisione, farla cominciare dal 1943 in Istria, e dal 1945 a Trieste e Gorizia.

In questo modo, e con qualche altro accorgimento, gli italiani sono solo vittime.

Vittime, come disse Napolitano in un discorso del 2007, di un presunto «disegno annessionistico slavo».

Sin troppo facile da denunciare, dopo che si è rimosso il reale annessionismo italiano.


Il ruolo del PD emerge con ulteriore chiarezza seguendo gli sviluppi del caso Cristicchi, artista sponsorizzato e difeso dal PD triestino e nazionale. Certe scritte sui muri sbagliano: è vero che Cristicchi ripete pappagallescamente luoghi comuni tipici di ambienti e gruppi “nazional-patriottici”, neoirredentisti e neofascisti, ma non è in senso stretto un fascista; è dalla radice dei capelli alle unghie dei piedi, antropologicamente e narrativamente, in tutto e per tutto Homo Piddinus, e perciò maschera da commedia dell’arte dell’italiano medio “post-ideologico”.


Nella figura di Cristicchi, e nel modo in cui risponde alle critiche, possiamo leggere ancora una volta l’autobiografia della nazione: l’uomo medio, l’uomo che oggi vota Renzi, è convinto – intempestivamente, visto cosa ribolle nel ventre d’Europa  – che il fascismo sia “fenomeno del passato”, ma al tempo stesso incarna tutte le tare, le rimozioni e i clichés che la cultura italiana si porta dietro dall’esperienza fascista, mai davvero elaborata e quindi mai superata.


Magazzino 18 è una storia vincente perché non c’è nessuna complessità, la sua è la versione più facile da raccontare, è unilaterale, tutte le addizioni sembrano funzionare senza riporti, «i conti tornano». Ne abbiamo già parlato in maniera dettagliata. Ho pensato a Cristicchi quando leggevo i passaggi in cui Giglioli scrive che nessuna vittima o testimonial della vittima si sentirà mai dire: «Che solfa, è la solita storia». La storia vittimaria è sempre «autorevole», e la si ascolta, se non commossi, almeno compunti, altrimenti tocca navigare in un mare di insulti, accuse di insensibilità o, peggio, di complicità coi carnefici.

Il vittimismo è funzionale al ricatto morale, che è finalizzato al dominio.


Leo Gullotta

A destra, Leo Gullotta.


Lo spettacolo di Cristicchi ha dei precedenti, uno dei quali va ricordato. Mi riferisco alla fiction Il cuore nel pozzo, andata in onda sulla Rai una decina di anni fa.

Si tratta di una delle più immonde porcate mai trasmesse dalla TV italiana. Tenca Montini ne esamina in modo esaustivo il razzismo, la rivalutazione sottotraccia del collaborazionismo coi nazisti, il profondo sessismo, le panzane…. Il cuore nel pozzo è stato visto come operazione della destra, voluta espressamente da Gasparri, allora ministro delle telecomunicazioni. Vero, ma si è prestata poca attenzione alla presenza attiva di figure bipartisan. Uno dei protagonisti dello sceneggiato era Leo Gullotta, un uomo per tutte le stagioni.


Gullotta è stato per anni la “signora Leonida” del Bagaglino, ovvero tra i protagonisti del più becero avanspettacolo di destra, diretto da quel Pierfrancesco Pingitore che, da caporedattore del settimanale fascistoide “Specchio”, aveva teso odiosi agguati mediatici a don Milani, Pasolini e molti altri.

[Cfr. Carlo Galeotti, Don Milani il prete rosso. Un caso di killeraggio giornalistico, Stampa Alternativa, 1999, e Franco Grattarola, Pasolini, una vita violentata. Pestaggi fisici e linciaggi morali, storia di una Via Crucis laica attraverso la stampa dell’epoca, Coniglio Editore, 2005.]

Epperò – misteriosamente –  Gullotta è anche considerato “uomo di sinistra”. Non ho idea del motivo. Vero, è amico di Bertinotti, ma nel corso degli anni abbiamo visto che di per sé vuol dire poco.


Prima Gullotta recita in una fiction nazistoide poi, facendo finta di niente, va al congresso del PRC a leggere le lettere dei condannati a morte della Resistenza, e giustamente viene contestato.

Nel marzo 2005 la “memoria condivisa” non si è ancora affermata del tutto, e l’episodio ha conseguenze limitate. Nove anni dopo, quando qualcuno oserà contestare Magazzino 18, la reazione a difesa del nuovo uomo per tutte le stagioni, cioè Cristicchi, sarà vastissima e trasversale. I media additeranno i contestatori come “nemici pubblici” e parleranno all’unisono di “violenza”, di “squadrismo”, financo di “anti-italianità”.




QUALI VITTIME NON VANNO BENE


Che cos’è la «memoria condivisa» se non la storia d’Italia riscritta in base al paradigma vittimario?

Non più diverse cause per cui morire: solo morti ammazzati, strumentalmente descritti come «tutti uguali»;

non più una dialettica oppressi-oppressori, solo generiche «vittime» di conflitti resi astratti, mai spiegati;

la colpa è delle sempre comode da scomodare «ideologie», dei «fanatismi» ecc.


Come spiega Giglioli, solidarizzare con le vittime è diverso dal solidarizzare con gli oppressi: quest’ultima opzione implicherebbe una lettura della realtà, una sua presa in carico, e quindi un’istanza di liberazione, «non una semplice scarica emotiva». Per questo il racconto vittimario è consolatorio e difende lo stato delle cose. Per questo è un racconto vincente. Per questo non tutte le vittime vanno bene e la selezione dev’essere accurata.


Ci sono vittime che, per i motivi e i modi delle loro persecuzioni e uccisioni, se ricordate riporterebbero nel quadro la discordia, ovvero il conflitto sociale nella sua concretezza. Ergo, operai e studenti uccisi dalle forze dell’ordine non vanno bene.


Non vanno bene nemmeno vittime come Enzo Baldoni, Vittorio Arrigoni, Ilaria Alpi, Miran Hrovatin e altre persone ammazzate o scomparse mentre “non si facevano i cazzi loro”, in circostanze che, se raccontate, disturberebbero la buona coscienza dell’Italia e il nostro quieto vivere geopolitico.


Ma le vittime meno adatte alla bisogna sono senz’altro le vittime non-italiane di italiani. Le vittime dei nostri pogrom in nome dell’italianità (Lojze Bratuž non va bene, per dirne uno), dei nostri crimini di guerra (i trucidati di Debra Libanos non vanno bene), delle nostre politiche genocide (la popolazione della Cirenaica non va bene), della nostra guerra chimica… Troppo complicato, troppe cose da spiegare, troppa Storia da scomodare, troppi fantasmi scomodi. Tutto troppo contrario ai dettami di concordia nazionale.


Molto meglio raccontare degli italiani buoni trucidati dagli slavi cattivi. Trucidati «solo perché italiani».


Perché la storia ha inizio dove vogliamo noi.


[Continua]


N.d.R. I commenti a questo post saranno attivati dopo il 12 gennaio 2015, per consentire una lettura ragionata e – nel caso – interventi meditati (ma soprattutto, pertinenti).

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Published on January 08, 2015 06:58

January 3, 2015

Laboratoire Marie Nozière, #Torino, 28/01/2015 #ArmatadeiSonnambuli

Laboratoire Marie Nozière

A lei gli occhi. E le orecchie. 28 gennaio. A Torino.


Nel suo rapporto segreto sul magnetismo animale, Benjamin Franklin (1706-1790) fece notare che erano sempre gli uomini a magnetizzare le donne. Due secoli più tardi, l’antropologa Clara Gallini lo confermerà: «Nella mia esperienza di ricerca non mi sono mai imbattuta in donne magnetizzatrici di professione. Il “volere” della gestione del fluido fu sempre un “potere” maschile.»


Il punto di vista sulla questione lo offrì in modo fulmimante Georges Méliès (1861-1938): interpretando la parte di Franz Anton Mesmer (1734-1815)  il padre del cinema fece apparire dalla tinozza magnetica alcune ragazze, per poi trasformarle… in altrettante oche! (Vedi il cortometraggio “Le baquet de Mesmer”, 1905)


Solo qualche magnetista illuminato osava mettere in discussione lo status quo.

Nell’Ottocento Lisimaco Verati (1797-1879) aveva eletto a proprio medico personale una donna, ritenendo che siccome le donne «posseggono le più cospicue e principali [qualità dei maschi], così parmi provato che la loro attiva capacità magnetica debbe emulare quella degli uomini.»

Joseph P. F. Deleuze (1753-1835) fu ancora più netto; nella sua lista di princìpi alla base del magnetismo animale, il 23° recitava: «le virtù magnetiche esistono in egual misura nello stesso grado nei due sessi.»

Se Alessandro Manzoni (1785-1873) leggeva i libri di Aubin Gauthier era anche per la meticolosità con cui il magnetista curava la lingua; sui suoi scritti si leggeva: «Quando abbiamo detto che la facoltà di magnetizzare esiste in tutti gli uomini […] abbiamo inteso parlare dell’uomo e della donna, perché infatti il sesso non cagiona differenza notabile nella forza magnetica, e le donne magnetizzano egualmente che gli uomini. L’azione magnetica delle donne è generalmente più dolce di quella degli uomini, e l’esperienza dimostra che non è meno salutare.» (Sfoglia qui i tre libri).


Lo scenario non cambia nell’ambito del magnetismo in forma teatrale, dove quasi sempre la figura femminile è stata subalterna a quella dell’illusionista: spogliata per sviare l’attenzione, oggetto di tortura per evidenziare il potere maschile sulla vita e sulla morte, taciturna assistente di uomini il cui ego non lascia spazio ad altri sul palcoscenico.


Se l’obiettivo della magia è di generare stupore, la strada più breve (ed efficace) è quella di mettere il mondo sottosopra: è qui che la secolare subalternità della donna offre uno straordinario spunto creativo. Cosa accadrebbe a capovolgere gli elementi in gioco e mettere al centro della scena un’illusionista di sesso femminile?


Una riflessione su questi temi non può prescindere da Marie Nozière, la donna parigina al cuore delle vicende raccontate da Wu Ming ne L’armata dei sonnambuli. Sarà intitolata alla «popolana vendicatrice che si oppose, ferri alla mano, al potere dei maschi e dei padroni» (come l’ha definita Alberto Prunetti qui) la prossima séance del Laboratorio di Magnetismo Rivoluzionario che andrà in scena a Torino mercoledì 28 gennaio 2015 alle ore 18 presso il Circolo Amici della Magia: il Laboratoire Marie Nozière sarà un’insolita presentazione del romanzo che vedrà sul palcoscenico – oltre a Wu Ming – una dozzina di artiste. Alcune di loro presenteranno dal vivo esperimenti di magnetismo: Silvia Agnello, esperta di magia matematica, coordina da anni il gruppo Pink Magic per mantenere in contatto le illusioniste di diversi paesi; Laura “Lilith” Luchino, tra le poche a praticare l’arte del trasformismo teatrale, ha scelto per sé il nome di una divinità simbolo del femminile che non si assoggetta al maschile; Gaia Elisa Rossi ha 14 anni ed è la Billy Elliot della magia: come il giovane ballerino voleva danzare in un mondo di donne, Gaia vuole essere un illusionista in un mondo di uomini. Quello di Nella Zorà sarà un ritorno, visto che la sonnambula ha già partecipato alle edizioni di Torino e Mantova del Laboratorio.


Altre maghe saranno presenti in spirito: Julia Garrett, Lulu Hurst, Salomè Simon, Minerva. La voce narrante sarà quella dell’attrice Eleonora Frida Mino, autrice e protagonista dello spettacolo Per questo! che racconta la storia di Giovanni Falcone. I reading saranno affidati a Manuela Grippi, tra le protagoniste di Ferite a morte di Serena Dandini (a Bruxelles) e dell’edizione torinese della pièce teatrale Finché morte non ci separi, entrambe dedicate al femminicidio.


Per una sera, grazie alla loro magia, il mondo si arbalta.



I posti sono limitati, è necessario prenotare scrivendo a mariano.tomatis@gmail.com



Poche ore dopo, alle ore 21, Luigi “Yamunin” Chiarella presenterà il suo Diario di zona presso la Libreria “Il ponte sulla Dora” (via Pisa 46, Torino). All’incontro interverranno Wu Ming 1, Stefano Jugo (alias il “bot” di Einaudi Editore su Twitter) e Mariano Tomatis. Svariati gli ospiti a sorpresa.


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Published on January 03, 2015 07:52

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Wu Ming 4
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