Wu Ming 4's Blog, page 100

October 8, 2014

A #Vicenza, ci facciamo in “4″ contro #Expo.

cantiere_expo-2


Giovedì 9 ottobre, alle 18.30, in Piazza Matteotti a Vicenza, di fronte a Palazzo Chiericati, Wu Ming 2 & Frida X andranno in scena con il reading 4NoExpo, accompagnati dalle fotografie del collettivo TerraProject e di Exposed project.

Il reading “4″ era in calendario da mesi, abbinato alla mostra di fotoracconti “Wu Ming + TerraProject = 4″. Nel frattempo, però, come abbiamo spiegato qualche settimana fa, l’inaugurazione della mostra è finita nei tentacoli del mostro Expo. Che fare? Ci siamo confrontati con gli organizzatori della mostra e con il C.S. Bocciodromo, che da tempo fa informazione a Vicenza su questi temi, e alla fine abbiamo deciso di rendere pan per focaccia: visto che un boccone della nostra mostra è stato inghiottito da Expo, il nostro reading glielo risputerà in faccia, trasformato in un poema No Expo. Sostituiremo uno dei quattro racconti previsti, quello dedicato all’acqua, con un testo scritto per l’occasione, dove il mostro spiegherà perché e percome invidia i quattro elementi tradizionali – Aria, Acqua, Terra e Fuoco – e perché vorrebbe a tutti i costi essere come loro.

I TerraProject, da parte loro, invece di proiettare le fotografie della sezione Acqua, proporranno un reportage di Exposed Project sulla trasformazione urbana di Milano e le sue connessioni con Expo2015.

Il tutto verrà registrato in presa diretta e diffuso a breve, per consentire anche a chi non potrà esserci di gustare la nostra risposta.


The post A #Vicenza, ci facciamo in “4″ contro #Expo. appeared first on Giap.

flattr this!



 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on October 08, 2014 13:50

September 28, 2014

Nasce l’Associazione Italiana Studi Tolkieniani

[image error]


[Ladies and gentlemen, c'è voluto un po' di tempo, ma alla fine ecco a voi l'AIST. La dichiarazione che trovate qui di seguito è stata letta all'apertura del secondo giorno della festa Fantastika, nella rocca di Dozza Imolese, a trenta chilometri da Bologna, prima delle conferenze del mattino tenute da Roberto Arduini e Thomas Honegger:]


Oggi, sotto i bastioni della rocca sforzesca di Dozza Imolese, nasce l’Associazione Italiana Studi Tolkieniani.

La nascita dell’AIST è il punto d’arrivo di un percorso iniziato almeno dieci anni fa. I soci fondatori dell’associazione hanno già all’attivo una quantità di saggi, traduzioni, articoli di giornale, conferenze, convegni, incontri pubblici, pubblicazioni in inglese e partecipazioni a convegni internazionali in Italia e all’estero. Pur provenendo da aree culturali diverse, i soci fondatori si riconoscono negli obiettivi comuni:


•  promuovere l’opera di J.R.R. Tolkien e studiarne l’impatto e l’influenza sulla letteratura e la cultura contemporanee, da diverse angolazioni (letteraria, linguistica, poetica, teologica, filosofica, ecc.);


•  produrre un contesto di dibattito basato sulla qualità di discorso e su un buon livello di competenza, ovvero essere un punto di riferimento per chi intenda cimentarsi nello studio dell’opera di Tolkien con serietà e onestà intellettuale;


•  attivare collaborazioni con il contesto accademico e con l’ambito di dibattito internazionale, attraverso il dialogo e lo scambio con gli studiosi più riconosciuti nel panorama degli studi tolkieniani a livello mondiale;


•  indagare e favorire le varie forme di narrazione transmediale nelle quali la narrativa di Tolkien viene trasposta e fatta proseguire (come arti figurative, fanfiction, cinema, teatro, cosplaying, giochi di ruolo, videogiochi, giochi da tavolo, ecc.).


Da quanto detto fin qui risulta chiaro che l’AIST non è interessata a una “via italiana a Tolkien”, bensì a un contributo italiano agli studi tolkieniani, collocandosi allo stesso livello delle società tolkieniane anglosassoni. Allo stesso tempo l’AIST intende promuovere la contaminazione e l’interazione tra le varie modalità e i vari campi creativi nei quali si manifesta la passione per l’opera letteraria di Tolkien.


L’attività dell’AIST poggerà su quattro pilastri:


• il più importante sito d’informazione italiano su Tolkien, www.jrrtolkien.it (finora sito dell’Associazione Romana Studi Tolkieniani, la quale confluisce nell’AIST e ne costituisce uno dei nuclei di partenza);


•  la rivista annuale online “Endòre” (www.endore.it), che conta già 16 numeri e che colleziona saggi e articoli italiani, nonché traduce i più interessanti saggi stranieri, ma ospita anche recensioni e contributi di fanfiction;


•  i Tolkien Lab e i Tolkien Seminar, che possono essere organizzati direttamente dall’AIST o in collaborazione con essa, e che sono strutturati su due diversi livelli di approfondimento;


•  la festa annuale Fantastika, l’ultimo weekend di settembre, durante la quale avranno luogo conferenze su Tolkien, sul fantasy e la letteratura fantastica, sfilate di cosplayers, mostre d’arte, conferenze ludologiche, tornei di giochi da tavolo e videogame, ecc.


Fin dalla sua nascita l’AIST annovera sei soci onorari, che sono tra i più importanti studiosi della materia tolkieniana a livello internazionale:


•  la statunitense Verlyn Flieger, insigne studiosa di Tolkien ed editor della rivista Tolkien Studies (West Virginia University);


•  gli inglesi Tom Shippey e John Garth, rispettivamente il più importante allievo di Tolkien in ambito filologico e il più importante biografo vivente di Tolkien;


•  lo svizzero Thomas Honegger, massimo esperto di Tolkien in lingua tedesca e direttore della Walking Tree Publishers (casa editrice interamente dedicata alla saggistica su Tolkien);


•  il canadese Christopher Garbowski, docente a  Lublino, uno dei più importanti studiosi sulla dimensione spirituale nell’opera di Tolkien.


•  l’italiana Emilia Lodigiani, studiosa di autori inglesi e scandinavi, decana degli studi tolkieniani nel nostro paese e fondatrice della casa editrice Iperborea.


A questo elenco si aggiunge il presidente onorario dell’AIST:


•  Franco Manni, direttore di “Endòre”, curatore di pubblicazioni tolkieniane in Italia e autore di numerosi saggi tradotti all’estero.


I soci fondatori dell’AIST:


Claudio A. Testi, Roberto Arduini, Federico Guglielmi (in arte Wu Ming 4), Ivan Cavini, Giampaolo Canzonieri, Lorenzo Gammarelli, Alberto Ladavas, Simona Calavetta, Matthias Carosi, Dario Cellamare, Manuel Chiofi, Robert Cultrara, Aur Drakson, Lorenzo Galeppi, Stefano Giorgianni, Claudia Manfredini, Daniela Mastroddi, Erin Oak, Andrea Piparo, Norbert Spina, Alessio Vissani.


Dozza Imolese (BO), 28 settembre 2014


 


Council_of_Elrond_-_FOTR


The post Nasce l’Associazione Italiana Studi Tolkieniani appeared first on Giap.

flattr this!



[image error]
 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on September 28, 2014 06:54

September 25, 2014

«Salgono sul palco i Wu Ming Contingent». Le recensioni estive di #Bioscop

10429478_681075055313159_8757964538414091321_n

Wu Ming Contingent dal vivo in piazza Signorelli a Cortona (AR)


Il 21 settembre, con un concerto dedicato a Federico Aldrovandi, sul palco del festival “Frammenti”, si è concluso il vagabondaggio estivo del Wu Ming Contingent, cuore musicale del Révolution touR.

Oltre a non-esibirci alla Festa Democratica di Firenze, in quest’estate di guerra e “bombe d’acqua” abbiamo suonato per platee a quattro cifre e per quattro gatti, alle feste di Radio Sherwood e Radio Onda d’Urto, in stabilimenti balneari e centri sociali. David Colangeli ha recensito su KeepOn il nostro live del 28 giugno al CSA La Torre di Roma:


«Salgono sul palco i Wu Ming Contingent, iniziando subito con una indiavolata “Soldato Manning”, un brano quasi dark new wave mentre si declama la storia dell’attivista statunitense che ha sputtanato gli Stati Uniti e la loro politica della guerra al terrore.

Il secondo brano è dedicato a “Peter Norman”, sportivo e caposaldo dei diritti civili. Anche qui si tratta di un punk, dove il recitar cantando ricorda le influenze dei CCCP ma con un andamento meno salmodiante e con più feedback. L’idea è quella di stare ad ascoltare una versione punk dell’antologia di Spoon River se fosse stata scritta da uno studente di storia contemporanea del ‘77. L’esperienza dei gloriosi anni bolognesi in cui si vendevano più chitarre elettriche che aperitivi, quell’atteggiamento che ha portato alla formazione dell’orecchio alternative-punk italiano, si fa sentire e molto.

E poi un funky su Peter Kolosimo, un ufologo radicale e partigiano. Sembra di assistere ad un’assemblea studentesca ma musicata. Ironia e impegno politico vanno a braccetto, senza scadere in quell’avanspettacolo che ai giorni nostri sembra l’unico modo per parlare di temi impegnati.[...]

Si passa poi al primo inedito della serata, che farà parte del secondo lavoro dei Wu Ming dedicato alle donne: “Laila’s blues” è, appunto, il bluesaccio partigiano di questa donna che ha dedicato la sua vita alla resistenza. I racconti delle torture, dell’estrema fermezza e fragilità di una ragazza costretta dagli eventi. Il racconto strappa più di una lacrima, ve lo assicuro.

[...] Il mio consiglio è quello, tralasciando la propria indole politica, di andarli a sentire il prima possibile: se siete amanti della loro versione cartacea è un must, e ritroverete le atmosfere e l’ironia. Se non li conoscete, conosceteli: sono una delle poche realtà editoriali (e ora, finalmente, musicali) che propone intrattenimento (perché alla fine, la narrativa ti deve far rimanere incollato il naso alla pagina) che però educa ( ma non nel senso di: la mia opinione è quella giusta, in questo caso è perché ogni cosa è raccontata con un’accuratezza storica capillare) e diverte. Soprattutto diverte, perché non c’è la spocchia autoriale, dato il genere scassone del punk quattro quarti scelto come carroarmato per accompagnare. Andate a divertirvi. E sono sicuro che se non siete d’accordo con quello che dicono, davanti ad una o più birre, saranno direttamente disponibili loro a parlarne con voi.»

(Qui il pezzo integrale)


Quello stesso live – il secondo del tour estivo, dopo la data ferrarese per la Giornata del Rifugiato – era stato annunciato in un’intervista di WM2 con la romana Radio Città Aperta.


Wu Ming 2 intervistato a Radio Città Aperta – Roma.


(Inizia dal min. 5.54)


Un mese prima, il 20 maggio, avevamo pubblicato su Giap un primo florilegio di recensioni bioscopiche. Nel frattempo, sono usciti una valanga di nuovi articoli dedicati all’album, che come al solito montiamo qui sotto in piccoli frammenti, con i link alle versioni complete.

Il primo che vi proponiamo viene da uno dei migliori numeri di Alias che ci sia capitato di leggere quest’anno. Nelle altre pagine, si parla anche di Gabriella Ghermandi, l’autrice di Regina di Fiori e di Perle, e del suo progetto Atze Tewodros: jazz italo-etiope nato per cantare le storie dei patrioti arbegnuoc che combatterono contro l’esercito fascista.

L’articolo-intervista che ci riguarda si intitola “Wu Ming Contingent, visioni pedagogiche” ed è firmato da Simona Frasca:


«Bioscop è una ventata di ilare dissacrazione, un inno al risveglio cadenzato su un pentagramma di note grosse e su un groove punk rock con abbondanti sporcature new wave [...]. Rivoluzione è la parola che risuona durante l’ascolto delle 10 tracce immediate, trascinanti e dichiaratamente militanti.

- Testi e musica in Bioscop descrivono uno scenario rivolto soprattutto alle giovani generazioni che brancolano sempre più nella difficoltà oggettiva di orientarsi nella storia recente del nostro paese, è così?

- Più di un recensore ha sottolineato la dimensione “pedagogica” di Bioscop. A volte con disgusto, altre con sorpresa o entusiasmo, altre ricorrendo a etichette come edutainment e propaganda. E’ una sottolineatura che ci colpisce, perché significa che la canzone politica e di protesta è ormai una stranezza. Brani che raccontano il mondo oltre il cortile di casa, con una prospettiva più vasta della propria esperienza individuale, sono considerati inconsueti, se non sospetti. Più in generale, mi pare che la musica italiana risenta del clima di un Paese dove chi prova a interpretare la realtà viene percepito come supponente, ideologico. Dove un cantante come Cristicchi può fare uno spettacolo sulle foibe e i profughi istriani (Magazzino 18) e poi respingere le critiche politiche e storiografiche dicendo che il suo è teatro, racconto, emozione. “Sono solo canzonette” – gridava Bennato sullo spartiacque tra Settanta e Ottanta – “macché politica, ché cultura”. Oggi sembra che ci si debba giustificare del contrario. L’invito di Calvino alla leggerezza si è trasformato nell’obbligo a non prendersi mai sul serio e con la scusa dell’ironia si sono sdoganate le peggiori schifezze: le serate di musica spazzatura fanno il pienone anche nei centri sociali.

Di fronte a questa situazione, credo che l’Archivio possa svolgere un ruolo fondamentale, se impariamo a rianimarlo. A pochi clic di distanza dalla home page di un motore di ricerca si trovano storie esemplari di conflitto, di lotta, di conquiste popolari, di resistenza. Storie che dobbiamo imparare a smontare, pulire, aggiustare, rimettere in moto. Chi sottolinea l’intento educativo del nostro lavoro di narratori, spesso non capisce che a noi non interessa diffondere contenuti, ma strumenti. Non raccontare la storia di Tizio Caio, ma mostrare cosa si può fare con quella storia. E non ci interessa nemmeno usare le storie come armi: disseppellire il tomahawk è un rituale, poi si combatte con i fucili o con le frecce. Ma per combattere bene, bisogna prima scavare, fino in fondo, con gli attrezzi giusti. I nostri libri, la nostra musica, il blog Giap, sono tutti laboratori per imparare a farlo bene.»

(Simona Frasca su Alias, Supplemento settimanale de “Il Manifesto”, n.29, Anno 17, 19 luglio 2014)



Tra le tante interviste, una menzione speciale va a quella con Tony “Face” Bacciocchi, storico membro dei Not Moving e dei Lilith, autore di libri futbologici come Rock’n’Goal, di un saggio biografico su Gil Scott-Heron e di un memoir dal titolo eloquente: Uscito vivo dagli anni ’80. Le risposte sono di Cesare “Big Mojo” Ferioli, il batteraio della band.


«Il WU MING CONTINGENT ha realizzato “Bioscop”, uno dei migliori album italiani del 2014 caratterizzato da un duro sound, ipnotico e ossessivo che unisce post punk, la new wave più abrasiva (dalle parti dei PIL e Massimo Volume), su cui si parla di alcuni personaggi “minori” ma altamente iconici (dal calciatore Socrates allo scrittore Peter Kolosimo) fino alla rilettura moderna di “Revolution will not be televised” di Gil Scott Heron. Lavoro interessantissimo che ci porta all’intervista di oggi [...]

5) Vivere di musica e “arte” in Italia è possibile ?

- Parlando della mia esperienza personale ti posso dire che in passato e per anni ho vissuto solo suonando, questo ho fatto a tempo pieno dall’87 al 1999 circa. Dal 1990 al 1996 con la blues band Dirty Hands, fondata da me e dal chitarrista Andy Carrieri, con cui già collaboravo nei Jack Daniel’s Lovers, un anno arrivammo a fare 190 concerti.Una bella faticaccia, te lo assicuro, ma era l’unico modo per far stare in piedi i conti. Il nostro mercato di riferimento sia per gli album che per i concerti erano oltre all’Italia, la Svizzera, il Belgio e l’Olanda, la Francia e non da ultimi gli Stati Uniti.

C’era un forte “rinascimento” del blues in quegli anni e noi cavalcavamo la tigre spontaneamente. Avevamo promoters locali che ci organizzavano concerti e partecipazioni ai festivals, vendevamo dischi, anche se poche migliaia di copie ad album. Insomma, come si dice in gergo, ci stavamo dentro. Ora la situazione è più complessa, c’è lo spettro della crisi economica, i budget ora sono praticamente quelli che incassavamo in lire allora ma la benzina per fare un esempio costa quasi tre volte tanto, così anche per autostrade ed alberghi, insomma, ora è molto ma molto più dura. Il liberismo non è più solo una macabra favola uscita dai testi di gruppi come Dead Kennedys o Angelic Upstarts, è ovunque ed è intenzionato ad abbattere il potere d’acquisto e i diritti sociali di tutti, ovunque, anche in Italia.Per dirla molto sinteticamente, girano meno soldi e la gente pensa a spendere per mangiare e sopravvivere, sempre meno per Musica e Arte.E poi non da ultimo, trovo che la cultura generale si è parecchio massificata»

(L’intervista completa è qui)


In versione audio, è rimasta traccia di altre due chiacchierate, una tra Francesca Ognibene e Yu Guerra, su Radio Sherwood, e l’altra con WM2, su Radio Emilia Romagna. Avremmo voluto completare il quadro con la voce di WM5 a Radio Gold di Alessandria, ma purtroppo il file è stato rimosso dal podcast.


«Bioscop è il primo album di canzoni per il collettivo di scrittori Wu Ming, anche se i musicisti e musicisti/scrittori non sono di certo mancati tra gli zoccoli duri coinvolti in questa anima creativa. Il successo di Wu Ming mi ha sempre fatto ben sperare nella rivalutazione dell’umanità che ha voglia di una rivoluzione culturale e ci crede e ama il guizzo creativo di chi dal racconto trova il filo della storia che brucia, che storpia, che ride e attacca, in una dimensione punk new wave, sensata e convincente.»

(Qui l’audio dell’intervista e qui WM2 intervistato a “Scelto per voi” su Radio Emilia Romagna.)


Come sempre, diamo spazio anche alle critiche negative, che spesso contengono spunti interessanti, e quando non li contengono, diventano ottimo materiale per fascette e medaglie da appuntare nella colonna qui a destra.


«I dieci brani di questo Bioscop, mescolando punk e new wave (CCCP, Offlaga Disco Pax, Diaframma), danno vita a un disco che fa dei testi il suo punto di forza e della componente strumentale il suo punto di debolezza. I vari pezzi, infatti, nonostante incuriosiscano con il loro raccontare, coinvolgono ben poco per quanto riguarda la parte suonata (piuttosto scarna e monocorde). Un disco buono solo per gli appassionati di musica “narrata”.»

Francesco Cerisola su In Your Eyes e-zine


«Testi immaginifici. Funambolismi oi!. Karma britannico.

I Wu Ming riescono sempre a sorprenderci. Non questa volta. Così ci tocca ascoltare questo disco nato dall’incontro tra il famoso collettivo di pittori e Idetoshi Buddharuki.

L’album è un (in)credibile esorcismo, burrascosamente kitsch-vintage-pop, che celebra icone cosmopolite e rotondamente mid-cult, adatto a rivoluzioni nella propria camera.

Acid-punk, citazionismo antifrastico ma ottusamente pedante, per un suono che inserisce un folk urbano ed eccessivo in un contesto assolutamente no(w) wave. Ogni riferimento a Kaspar Brotzmann è del tutto casuale.

Il gruppo lo si può immaginare come un incontro tra Al Bano e i Green Day.

Stupefacente. Ma speriamo non abbia seguito.

10 per l’etichetta, 3 per la musica.»

Bianco I. Stefani su Polygen:Recensioni Indie.


«Le parole raccontano dieci storie-biopic di altrettanti vari protagonisti eletti a emblema alternative. Tutti simboli di quella generica protesta contro il potere che da sempre caratterizza l’agire culturale dei Wu Ming e che qui viene ulteriormente glorificata nell’icastica urgenza della più classica e verbosetta canzone di protesta. Il top è il (bel) funk jazzato La Rivoluzione (non sarà trasmessa su You Tube) di Gilscottheroniana memoria, fulcro teorico, diciamo così, di tutto il cucuzzaro, in cui si spiega che la rivoluzione non sarà caricata su YouTube né postata su fessbuc e men che meno trasmessa in televisione ma verrà dal basso e sarà inevitabilmente tremenda oltre che prevedibilmente violenta; diciamo un’analisi non nuovissima ma funzionale. Naturalmente, nell’attesa la Rivoluzione (sic) arrivi a schiantarci tutti, i Wu Ming ingannano l’attesa e allettano il loro pubblico agitandosi su You Tube, fessbuc e blog, con parole che ci raccontano che la Rivoluzione non sarà caricata su You Tube né postata su fessbuc e men che meno trasmessa in televisione (eccetera eccetera); diciamo un comportamento non nuovissimo ma funzionale.»

Stefano I. Bianchi su Blow Up



La Rivoluzione (non sarà trasmessa su You Tube) è uno dei brani del disco più citati. A qualcuno, evidentemente, è sfuggito il senso del verso “La rivoluzione verrà fatta con ogni mezzo necessario, ma nessun mezzo necessario farà la rivoluzione”. Altri lo hanno colto e analizzato meglio:


«Sicuramente in questo lavoro c’è molto punk dei primi anni ’70. Evidente in Soldato Manning (definito un Robyn Hood al silicio) l’eco delle New York Dolls, in un brano tirato, ritmato, punk, più parlato che cantato,così come affiorano Ramones e Television in La Notte del Chueco, punk primi ’70 con un accenno di melodia quasi pop nel ritornello.  Ad un ascolto attento, si scorgono anche influenze black. In La Rivoluzione (non sarà trasmessa su Youtube) rivedono a modo loro la celebre Revolution Will Not Be Televised di Gil Scott-Heron, arricchendola di citazioni relative al mondo della comunicazione contemporanea (Fabio Fazio, Endemol, Youtube, Facebook, Benigni, Grillo, X Factor), ricordandoci che la rivoluzione si fa con ogni mezzo necessario (altra citazione, da Malcom X), ma nessun mezzo è necessario per fare la rivoluzione. Brano splendido, con un sax infuocato che si innalza sulle chitarre incendiando le polveri. Il sax di Guglielmo Pagnozzi introduce Italia Mistero Kosmiko, brano dall’aria funky dedicato all’archeologo spaziale Peter Kolosimo, e in Dio Vulcano! spuntano ritmi black e andatura in levare alla Clash. Ma anche la memoria dei primi C.C.C.P. sembra essere presente nel bagaglio musicale del Wu Ming Contingent, emerge nel ritmo serrato di Peter Norman, e nella splendida Cura Robespierre, in cui, su un ritmo pulsante sostenuto da chitarra e batteria, si propone la cura del celebre rivoluzionario francese per questi tempi idioti e ottusi, e per i moderati (volete Coca–Cola senza caffeina, volete sigarette che non facciano fumo, volete amare il prossimo purché non vi disturbi, né destra né sinistra). [...] Un grande esordio per il Wu Ming Contingent, che ci fa attendere con ancora più interesse il già annunciato secondo capitolo, dedicato a dieci figure femminili.»

(Qui l’intero articolo di Giorgio Zito su Storia della Musica)


La Rivoluzione (non…) figura anche tra le motivazioni che hanno spinto Lino Brunetti a scegliere Bioscop come Disco del Mese, sul numero di giugno del Buscadero:


«La formula è quella dei testi letterari declamati su trame rock, e se vi vengono in mente formazioni come Massimo Volume, Offlaga Disco Pax o certi Bachi da Pietra non siete fuori pista. Così come le tre formazioni citate differiscono però tra di loro, anche il WMC trova una sua ragion d’essere ed una sua peculiarità nell’allestire trame sonore incalzanti e dinamiche. [...] Sopra di esse, Wu Ming 2 declama brevi biografie maschili, spunto per affrontare temi fra i più disparati, spesso scomodi, con l’occhio critico che chi conosce l’opera dei Wu Ming apprezza da tempo. Si scagliano contro l’omologazione, contro il disimpegno e la banalità culturale, soprattutto di questi nostri tempi oscuri, affrescando un disco politicamente lucido e schierato, che nella fenomenale La Rivoluzione (non sarà trasmessa su You Tube) ha un innodico apice. Tematicamente e musicalmente potentissimo e variegato, Bioscop è un ottimo album e una gran bella boccata d’aria fresca. Disco del mese.»

Lino Brunetti su Buscadero, Giugno 2014


Un altro brano molto gettonato nelle recensioni è Stay Human, inserito anche nella compilation Save Gaza, nata per iniziativa della Rete Romana di Solidarietà, con l’intento di sostenere il Centro Italiano di Scambi Culturali VIK. I brani sono tutti in Creative Commons e si possono scaricare da Bandcamp e Jamendo. Le due piattaforme sono collegate a un conto bancario per le donazioni.



«Non è per pura affezione alle storie, che i Wu Ming si muovono. Come hanno dichiarato, queste sono «brevi biografie maschili usate in maniera pretestuosa per parlare d’altro». Quest’altro non è che la coscienza collettiva troppo ferma ad aspettare che ci pensi sempre qualcuno al di fuori, che rimane poco avvezza alla novità e anzi la denigra, optando per una «rivoluzione senza rivoluzione/ossimori a quintali per non ingrassare» (refrain di Cura Robespierre). Sintomi palesi di una società in realtà grassa e sempre più affamata, attaccata selvaggiamente nell’ultima, anatemica, declamazione finale Stay Human, dove il motto di Vittorio Arrigoni viene accostato forse un po’ forzosamente ma con un’efficacia inaudita al motto Stay hungry, stay foolish pronunciato da «un tizio che vendeva smartofoni e calcolatori».

Sebbene questo sia un progetto parallelo, non è stato ideato affatto come svago. E non con leggerezza pretende di essere ascoltato. La dichiarazione esplicita è quella di far riflettere, di far smuovere le idee in quante più forme possibili. Non sarebbero i Wu Ming, altrimenti. Al momento, non ci resta che aspettare con grande entusiasmo il secondo capitolo, dedicato interamente a figure femminili.»

(da”Bioscop, un album di storie firmato Wu Ming Contingent” di Stefano de Romanis, su Dailystorm)


«C’è un filo rosso che lega le storie di questi personaggi tanto diversi tra loro per attributi, provenienza, competenze ed estrazione sociale, che – non si nasconde certo – è quello della rivolta. Sono tutti ribelli e rivoluzionari, ognuno a modo suo, nelle forme e nei campi che gli competono. Il lavoro dei Wu Ming Contingent prende dunque una piega espressamente politica, e sfrutta il genere biografico e la forma canzone per parlarne.

Se sul piano musicale una leggerezza stilistica combinata con questo formato può portare a una ridondanza di riff e melodie, la qualità dei testi e il valore dei temi trattati ricompensa costantemente l’orecchio dell’ascolto – toccando il suo zenit proprio nel brano di chiusura del disco, dedicato ad Arrigoni. A dar man forte ai testi ci sono poi brani di valore assoluto come il già citato Soldato Manning, Cura Robespierre e La rivoluzione (non sarà trasmessa su youtube) – brano paradigmatico sin dal titolo, che occupa la metà esatta del disco non a caso.

Dagli scaffali delle librerie ai blog, dai reading al palco: i Wu Ming – nelle varie forme che il volto di questo noto Sig. Nessuno via via assume – non perdono la capacità di lasciare un segno, e al contrario vengono premiati da ogni nuova frontiera che decidono, brillantemente, di varcare. Rivoluzionari.»

(Qui il resto dell’articolo di Andrea Suverato su outune.net)


«Ci sono storie, storie di persone di cui riconosciamo senza difficoltà il ruolo nella Storia. E poi altre persone delle quali invece spesso sappiamo poco. Ed altre ancora di cui addirittura ignoriamo l’esistenza. Ognuna di queste però ha compiuto delle scelte che hanno inevitabilmente influenzato il corso degli eventi; quel fiume che diventa il corpo della Storia. Ma la Storia, oltre a custodire il senso di ciò che siamo, porta con sé un difetto: tende ad appiattire le figure adagiate sulla freccia del tempo. E soprattutto la Storia è soggetta a reinterpretazioni e cancellazioni a seconda di chi ha il potere, in un dato momento, di riscriverla. Mentre è dovere dello storico riuscire a mantenere per quanto possibile una certa oggettività, spetta sovente alla letteratura il compito, ricorrendo anche a delle invenzioni, di restituire tridimensionalità ai personaggi cercando di rielaborarne una complessità tutta umana nella sua contradditorietà. E proprio sullo slancio della propria avventura letteraria, anche in “Bioscop” il collettivo Wu Ming si concentra nel narrare storie nella Storia, tratteggiando i contorni tanto di personaggi noti (Ho Chi Minh, Sòcrates), tanto quelli dapprima sfumati di altri diversamente relegati al ruolo di comparse (Bradley Manning, Peter Normann): “nel nostro album c’erano le foto che credevamo di conoscere bene…ma c’è vita oltre la cornice e una voce che tace fuori campo” (cit. Peter Normann). E le storie scelte da Wu Ming hanno quasi sempre a che fare con delle rivoluzioni.

Uscito quasi in contemporanea con l’ultimo romanzo collettivo “L’armata dei Sonnambuli”, questo lavoro discografico non stupirà più di tanto i più attenti seguaci dei Senza Nome. A più riprese infatti, alcuni autori del collettivo hanno nel corso degli anni prestato la loro voce e la loro presenza su più di un palco.[...]

Anche se verrebbe la tentazione di citare i veterani CCCP  per via di un limitrofo terreno punk, vale la pena sottolineare come siamo invece molto lontani dalle litanie salmodiate di Ferretti. Non tutti i brani di “Bioscop” raccontano delle storie. In continuità con l’attività di critica militante esercitata in rete attraverso la comunità Giap, il Contingent non risparmia di passare al tritacarne convinzioni e convenzioni di quest’era assolutista di mercificazione del pensiero; l’esaltante La Rivoluzione (non sarà trasmessa su YouTube) non si ferma semplicemente a rendere omaggio al poeta e musicista Gil Scott-Heron, quanto piuttosto sembra suonare come una vera e propria dichiarazione di guerra! Subito dopo ci pensa Cura Robespierre a smantellare alcune stupidità partorite dal basso ventre di “questi tempi idioti” (cit.). Un discorso a parte merita Stay Human, nel quale l’esortazione di Vittorio Arrigoni viene contrapposta, attraverso un’amara oscillazione dei significati e delle attribuzioni, allo ‘stay foolish, stay hungry’ di Steve Jobs. Per concludere, bisogna sottolineare come alle volte, durante l’ascolto, si senta il bisogno di un cambio di dinamica perchè si possa riprender fiato. Ma forse il modo migliore per affrontare “Bioscop” è lo stesso che molti adottano nella lettura di una serrata raccolta di racconti brevi: un po’ per volta. D’altronde è chiaro che questo non è un disco come gli altri.»

(Qui l’intero articolo di Aldo De Sanctis su Distorsioni.)


Di tutte le recensioni, la più lunga e articolata è quella uscita sul blog The Great Complotto Radio (da notare che il titolo di un libro-oggetto che ci sta molto a cuore è Piermario Ciani. Dal Great Complotto a Luther Blissett, AAA, Bertiolo, 2000)


«Wu Ming Contingent è la bella versione musicale di ciò che i Wu Ming continuano ad essere in letteratura. New wave, rock, spirito punk e digressioni jazz: la musica vive di un carattere proprio e non è mera ombra a testi ispirati, curiosi ed interessanti.

Un disco efficace, bello ma soprattutto al posto giusto nel momento giusto.[...] All’inizio Bioscop può sembrare uno strano reading non focalizzato ma superata questa prima errata sensazione si entra appieno nel linguaggio delle 10 tracce, sorrette da un buon e consapevole punk anni ’90, il rock dalle radici new-wave, le digressioni jazzate che esprimono sia la matrice culturale nella quale i nostri crescono sia il gusto e le passioni che si possono evincere anche nei loro testi: il risultato è quindi un substrato sonoro fertile ed in continua mutazione su cui adagiare i testi e rendere partecipe l’ascoltatore dei dubbi, delle circostanze, del mistero e del fascino che ogni “racconto” esprime. [...] Si richiede concentrazione, astenersi i perditempo con il dito facile per skippare selvaggiamente le canzoni.

Come si diceva il primo impatto è spiazzante, poi si inizia a fare amicizia con il suono e con la parola, ci sono momenti in cui cala lo spessore della proposta perché “pesante” la recitazione, perché “sfuocata” la musica in sé, perché tanta sincerità non implica quasi mai simpatia incondizionata e può succedere di trovarsi “contro”, ma presto si torna a catalizzare la propria attenzione sulla musica, sui testi, in alternanza o in comunione: e sentirsi vivi viene da sé, e viene fame di altri dettagli, di altri suoni, di carpire nuovi stimoli che certo sono in abbondanza.[...]

Sono uno che ancora crede che le parole nelle canzoni possano realmente essere “disciplina del vivere” ma, forse, recentemente si sono perse in un’estetica troppo compiaciuta o addirittura in una frivola sostanza che a guardarla meglio risulta un vento leggero. Forse ignoranza, forse paura di esprimere concetti che ai più risultano scomodi. Sicuramente non un vento di rivoluzione.

Tutto questo però prima di BIOSCOP.

Tutto questo perché BIOSCOP dei WU MING CONTINGENT è un incalzare di suggerimenti e stimoli nel rimanere vigili ed attenti non solo al proprio quotidiano ma anche a quel flusso che ci circonda, che potremmo definire storia, ma anche coscienza collettiva, di questi tempi merce rara.[...]

Personalmente credo sia un album necessario, ma soprattutto tempestivo, sicuramente sincero.»

(da “Wu Ming Contingent: Bioscop e le sue gemme di rivoluzione“)


Infine, molti recensori hanno sottolineato l’aspetto poliedrico o multimediale della nostra produzione, sul quale ci eravamo espressi anche nella già citata intervista con Simona Frasca, su Alias:


«- L’attività live non vi manca. Che spazio occupa la musica a questo punto del vostro percorso?

- Fin dalle origini del nostro progetto amiamo definirci “cantastorie” e coltiviamo l’ambizione di “raccontare con ogni mezzo necessario”. Tuttavia, al di là di questa dichiarazione d’intenti, il nostro mestiere è la narrativa scritta, la nostra cassetta degli attrezzi è fatta di parole. Questo comporta, da un lato, la necessità di collaborare con altri soggetti, per farci condurre fuori dalla nostra “zona di comfort”; dall’altro, la natura “creola” di queste collaborazioni,  dove abilità diverse si incontrano, senza la pretesa di fondersi. Se guardi la nostra produzione ci sono fumetti, audiolibri, dischi, libri fotografici, film, cortometraggi, romanzi, oggetti narrativi non identificati, saggi, guide per escursionisti, spettacoli di magia, reportage…  Tuttavia, non siamo scrittori polivalenti ed eclettici, ma narratori che provano a portare il loro linguaggio dentro diverse discipline, con l’aiuto di chi, in quelle discipline, è già un maestro artigiano. La musica – di tutti gli “altrui mestieri” – è indubbiamente quello che sentiamo più vicino, tanto per ragioni biografiche che per attitudine naturale. Di conseguenza, è quello dove ci risulta più immediato – ma non per questo “più comodo” – sperimentare nuove forme narrative.»


«Probabilmente non è un caso che nello stesso periodo d’uscita del loro ultimo romanzo (L’armata dei Sonnambuli) i Wu Ming abbiano deciso di pubblicare un disco, in un certo modo assimilabile al libro, come se fosse una continuazione di un progetto più profondo. La cosa non sorprende affatto data la bella produzione sempre poliedrica e multimediale del collettivo.

[...]Il passato musicale dei membri della band si fa sentire, ma non troppo. Ritroviamo accenni punk, dai Clash ai Ramones, oserei dire anche un po’ di Stooges per non parlare dei nostrani cari vecchi CCCP (non per la qualità testuale, che si discosta profondamente dalle salmodiate di Ferretti), ritroviamo anche il non propriamente cantato ma recitato, alla Massimo Volume e Offlaga Disco Pax giusto per fare due nomi belli e conosciuti. Ma essendo i Wu Ming poco propensi alle classificazioni a livello sonoro ci mettono dentro anche del blues, ritmi funk e quel pizzico di Black music che rende il tutto più accattivante.

Per quanto riguarda i testi invece c’è tutta la carica espressiva dei Wu Ming scrittori. Non sono mai banali ma non per questo pretenziosi, carichi di un bel realismo, spesso crudo ma volontario e necessario per descrivere le ambiguità e i fallimenti del nostro presente.[...]

Bioscop non è un disco da ascoltare in sottofondo, è un disco che va Ascoltato, che va compreso perché può darti realmente qualcosa, può arricchirti, informarti e darti la voglia di resistere e combattere.»

( da “Senza Nome ma con tante cose da dire” di Luca Vecchio su Antecritica)


«Il disco può dirsi davvero un libro da ascoltare, ma quello che emerge non è tanto il lavoro letterario, bensì quello musicale, definito a tuttotondo, ben curato, che non manca di nulla. Perciò al di là del loro passato e del loro futuro che probabilmente non si concentrerà sulla carriera musicale (anche se si vocifera un secondo disco in cantiere pieno di storie di personaggi femminili) i Wu Ming Contingent passano anche il varco di un’altra arte, potendo affermare senza riguardi che se si crede davvero nel messaggio che si vuole comunicare, i risultati si vedono eccome. Questa volta, attraverso il Bioscop.»

(Qui la recensione completa di Ivonne Ucci su Rockshock)


«Quando la musica travalica i confini, spesso si contamina con la letteratura o altre arti come la pittura o il cinema. E’ quello che in parte succede in questa espressione pura del pensiero indipendente che si identifica in Bioscop, opera prima musicale di un collettivo che risponde al nome di Wu Ming Contingent. [...] Se non avete mai sentito parlare di loro sappiate che troverete in Bioscop quelle tipiche sonorità del punk e della new wave che fanno parte del retroterra musicale dei protagonisti del progetto. [...] Il tutto trattato però con un personale approccio che permette ai WMC di costruire convincenti e coinvolgenti brani declamati che ricordano, più che attuali epigoni, le ancora valide provocazioni letterarie-sonore dei gloriosi CCCP.»

Tonino Merolli su Raro


«Intelligente, ispirato e stimolante, “Bioscop” è un gran bel debutto che presto, per nostra fortuna, sarà doppiato da un secondo capitolo dedicato a figure femminili.»

(Qui la rece di Giacomo Messina su kdcobain.it)


«L’operazione messa in atto dal collettivo Wu Ming Contingent a parole potrebbe sembrare forse pretenziosa e dunque pesante, ma l’attitudine squisitamente pop che la pervade la rende fortunatamente godibile e divertente. Un gruppo che non è solo un gruppo musicale, un disco che non è soltanto un disco comunemente inteso. Da provare.»

Francesca Scozzarro su Do You Realize


«La pubblicazione di questo esordio non è casuale. Il collettivo Wu Ming ha sempre collaborato con gruppi come Offlaga Disco Pax, Massimo Volume, Bachi da Pietra, Uochi Tochi, spesso supporter dei loro reading.»

Vittorio Lannutti su La Scena


«C’è l’incalzare rivoluzionario dei Fugazi e il conflitto di Assalti Frontali, le chitarre dei Television e anche derive ritmiche di funk bianco e nero, James Chance e Gil Scott Heron. Tutta musica che è incendio, scontro, barricate e ghigliottine. Rivoluzione. Un disco da suonare ad alto volume, assimilare tutto d’un fiato, come un bicchiere di whisky da trangugiare prima di lanciarsi a capofitto contro l’avversario. A mani nude e testa bassa.

Un disco che è un elenco anthemico ed eccitante di storie di uomini. Uomini sui quali i riflettori della storia hanno fatto, spesso controvoglia, luce. Luce che ha generato mito. E uomini che invece sono rimasti fuori dalla ribalta.»

( da “Cura Robespierre” sul blog Dikotomiko)


unnamed-1-576x576


A conclusione di questa lunga cavalcata, ringraziando tutti coloro che hanno recensito il disco, ricordiamo che:


1) Il Wu Ming Contingent ha un profilo Facebook, gestito da Yu Guerra e Cesare Ferioli. Al momento, si tratta dell’unico avamposto wuminghiano su quella piattaforma, una sorta di laboratorio semi-clandestino dove cerchiamo di capire se la creatura di Zuckerberg può essere usata in maniera creativa e contro sé stessa.


2) Bioscop, purtroppo, non ha ricevuto una distribuzione capillare. Con L’Armata dei Sonnambuli sugli scaffali, molte librerie che tengono anche dischi avrebbero di sicuro fatto una buona mossa a proporlo. Non è andata così. Per fortuna, esiste anche il sito dell’etichetta Woodworm, dove si può ordinare il CD a 10€ e il vinile + CD a 18€ più spese di spedizione. Chi volesse accattarsi il leggendario vinile “neon pink” farà bene ad affrettarsi perché sono rimaste le ultime copie.


3) Dal medesimo sito di Woodworm, si possono pure acquistare le magliette grigieCura Robespierre”, e a breve anche quelle nere. Nei banchetti wuminghiani, a latere di concerti e presentazioni, faranno presto la loro comparsa quelle rosse.


4) Prossima data fissa e già confermata per il Contingent:

22 novembre – Festa di compleanno del Centro Sociale Acrobax – Roma

Altre sono in orbita e presto atterreranno, ma in linea di massima ci prenderemo il mese di ottobre per iniziare i lavori sul secondo album.


5) Molti di voi avranno ormai ascoltato le tracce dell’album e qualcuno è venuto a sentirci dal vivo. Nei commenti, attendiamo le vostre impressioni.


The post «Salgono sul palco i Wu Ming Contingent». Le recensioni estive di #Bioscop appeared first on Giap.

flattr this!



 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on September 25, 2014 13:39

September 24, 2014

Narrazioni digitali non identificate (L’archivio e l’istante)

Aby Warburg (1866 – 1929), de/taglio delle tavole di Mnemosyne, il grande “atlante della memoria” a cui lo storico della cultura, pioniere dell’ipertesto in epoca pre-elettronica, lavorò negli ultimi anni di vita. Clicca per allargare la visuale.


di Flavio Pintarelli (guest blogger)


Quando si cominciò a discutere di Oggetti Narrativi Non Identificati (UNO), nel 2008, in seguito alla pubblicazione del «memorandum sul New Italian Epic», il focus fu immediatamente rivolto verso la letteratura. Gomorra, Asce di Guerra, Sappiano le mie parole di sangue erano libri che ponevano alla riflessione e al dibattito letterario problemi importanti. Erano, in ottica NIE, lavori che mettevano alla prova soprattutto il rapporto tra l’autore e le sue fonti, problematizzando la questione dello sguardo e del punto di vista. Di fronte all’archivio in tutte le sue forme, come doveva porsi e come doveva procedere il narratore interessato a restituire uno sguardo sulla realtà che non si riducesse alla mera cronaca dei fatti ma rivendicasse la possibilità di intervenire sullo stato delle cose? Questa sembrava essere la domanda più pressante, il quesito ineludibile che quei libri ponevano a chi cercava di avvicinarli nonostante la riottosità di quei testi.


Negli anni seguenti il quesito venne approfondito e la riflessione ebbe un incontro fruttuoso con gli studi sul cinema e sul visivo da cui la teoria degli Oggetti Narrativi Non Identificati prese in prestito alcuni concetti fondamentali legati alla riflessione sul montaggio come tecnica di narrazione ed elemento semiotico. Lo scambio tra i due paradigmi avvenne anche grazie al terreno comune caratterizzato dalla riflessione che entrambi portavano avanti sul concetto di archivio, sia dal punto di vista teorico che dal punto di vista pratico.


Oggi, a oltre sei anni di distanza dalla prima apparizione del memorandum di Wu Ming 1, il termine «Oggetti Narrativi» è diventato parte integrante del vocabolario critico. Viene usato comunemente per indicare quelle opere che utilizzano sistematicamente il montaggio di materiali d’archivio per problematizzare la posizione dell’autore rispetto alla vicenda raccontata; a volte includendo direttamente l’autore nella narrazione, altre volte mostrandone l’estraneità o la distanza. In ogni caso si tratta sempre di opere che polverizzano la distanza di sicurezza tra l’autore e la sua narrazione, rispetto alla quale egli è sempre in qualche modo coinvolto, non uscendone mai indenne o incolpevole.


Libri come Point Lenana di Wu Ming 1 e Roberto Santachiara, Timira di Wu Ming 2 e Antar Mohamed, Amianto di Alberto Prunetti o Un giorno triste così felice di Lorenzo Iervolino sono esempi straordinariamente compiuti di questa tipologia di opere.


Di Oggetti Narrativi Non Identificati, fino a oggi, si è parlato soprattutto a proposito di libri o di film, ma credo che sia arrivato il momento per provare ad allargare questa tipologia a un tipo di narrazioni che si stanno ricavando uno spazio sempre più ampio nelle nostre abitudini di lettura: le narrazioni digitali interattive.


server-room-hd-free-23325111


Nel 2008 la rete era abbastanza diversa da quella che siamo abituati a vivere oggi, anche se la transizione è stata meno percepibile di quanto si possa pensare. Facebook era stato creato quattro anni prima e soltanto da due era accessibile anche agli utenti sprovvisti di un account di posta elettronica con dominio universitario. Su Twitter si cinguettava soltanto dall’estate del 2006 e il primo vero successo della piattaforma di microblogging era arrivato solo l’anno successivo, quando durante il South by Southwest festival (un festival musicale e cinematografico che si svolgeva ad Austin, in Texas) il numero dei tweet creati giornalmente triplicò passando da 20.000 a 60.000. My Space era ancora in attività, ma lo sarebbe rimasto ancora per poco. Al di fuori dei primi social network era la blogosfera a fare la parte del leone in quello che allora veniva chiamato il web 2.0, ovvero quell’insieme di protocolli e soluzioni che rendevano gli strumenti digitali di creazione dei contenuti estremamente accessibili anche ad utenti con scarse o nulle competenze informatiche.


Pochi anni dopo lo scenario si presentava completamente mutato, coi social network diventati parte integrante della nostra vita, e la dicotomia tra reale e virtuale, che fino a poco tempo prima aveva guidato la maggior parte delle riflessioni sulla cultura digitale, appariva ormai completamente scavalcata e destituita di senso. Il miliardo di utenti attivi raggiunto da Facebook nel 2012 è uno dei segni più evidenti di questa avvenuta mutazione.


Una mutazione la cui natura abbiamo compreso a fondo in occasione dello scandalo NSA quando, grazie alle rivelazioni del tecnico informatico della CIA Edward Snowden, il giornalista Glenn Greenwald e la documentarista Laura Poitras hanno rivelato l’esistenza di un vasto programma di sorveglianza condotto dal governo americano con l’ausilio delle più importanti corporation dell’information technology.


La raccolta, l’archiviazione e l’utilizzo dei dati degli utenti rappresentano la vera natura del web attuale e queste operazioni non fanno altro che configurarlo come un gigantesco archivio in cui non soltanto sono raccolti tutti i metadati che riusciamo a produrre, ma anche tutte le nostre (auto)narrazioni. Quei racconti frammentati, liquidi e granulari, che distribuiamo in forme diversissime utilizzando i nostri account web: dalle fotografie su Instagram, ai post sui blog, passando per i tweet, gli aggiornamenti di stato su Facebook, le conversazioni sui forum, i loop di Vine e tutte le altre possibile forme di (auto)narrativa digitale che stiamo imparando a padroneggiare.


Per chi fa della pratica e della teoria dell’archivio una questione di politica della narrazione, un modo per ragionare sulle forme di accesso e intervento sulla nostra esperienza del mondo, il web contemporaneo offre uno straordinario e problematico oggetto d’analisi e di sperimentazione. Potenzialmente qualsiasi grano o frammento d’informazione prodotto in rete può diventare parte di un racconto, connettersi e risuonare con altri elementi, ampliando in questo modo i propri significati. Tuttavia questa appare più come una potenzialità inspressa e un plesso problematico che non come una reale opportunità a disposizione del narratore interessato a capitalizzare l’archivio nel proprio lavoro. Questo perché la velocità a cui si muove l’informazione prodotta in rete è elevatissma, come elevatissimo è il rumore di fondo. Il tempo necessario all’elaborazione del materiale si riduce notevolmente e il rischio che si corre è di venire trascinati dalla corrente dei diversi flussi perdendo così la possibilità di organizzarli in un insieme coerente. L’attività di curation, ovvero di curatela dei flussi d’informazione digitali, oscilla sempre tra questo genere di problematiche, ovvero sulla capacità e la possibilità di lavorare i materiali archiviati nei vari flussi senza farsi trascinare nella rapidità degli eventi (perdendo così la possibilità di dar loro un senso compiuto).


storify-dragndrop-ui


Storify, dare forma all’istante

Rilasciato in beta nel settembre del 2010 come finalista del Disrupt di Techcrunch e reso disponibile al pubblico nell’aprile dell’anno successivo, Storify è un servizio che offre una possibile soluzione a chi cerca una sintesi tra la velocità con cui viene prodotta l’informazione online e la possibilità di organizzare quest’ultima in un oggetto in grado di connettere singoli elementi in una narrazione pienamente compiuta, capace anche di dare vita a specifici effetti di senso.


Ciò significa che l’interfaccia del servizio permette di creare un ipertesto navigabile composto da unità distinte d’informazione digitale. Queste vengono organizzate in un racconto a partire dalle operazioni di ricerca, recupero e archiviazione che il servizio rende possibili. Creare uno storify significa perciò capitalizzare narrativamente quello sterminato  archivio di user generated content che il web mette a nostra disposizione. Tuttavia, poter utilizzare questo strumento in tutta la sua potenzialità significa essere consapevoli della logica di Storify ovvero essere consapevoli che il montaggio è l’operazione fondamentale con cui si opera sul materiale d’archivio che il servizio ci permette di recuperare e maneggiare. Privi di questa consapevolezza si rischia di avvicinarsi a Storify soltanto come a uno strumento per raccogliere e aggregare materiali digitali senza però dar loro alcuna parvenza di organizzazione. Impedendo loro, di fatto, di organizzarsi in una rete di senso in grado di conferire a quei singoli elementi semiotici discreti una voce che sia in grado di fare sintesi della loro unicità. Insomma una sorta di grado zero della potenzialità linguistica di Storify che si è visto spessissimo nella fase di massimo hype intorno al servizio, quando furono in molti ad avvicinarcisi spinti dal passaparola senza però approfondirne davvero le potenzialità. Un po’ come accade oggi su Medium, un servizio che dovrebbe stimolare chi lo usa a confrontarsi con forme di narrazioni pienamente digitali, sfruttando la facilità di utilizzo e le potenzialità grafiche e tipografiche del servizio, ma che troppo spesso viene utilizzato come semplice surrogato del blog.


Ma cosa rende diverso uno storify da un post pubblicato su una qualsiasi piattaforma di blogging? Tutto sommato abbiamo appena detto che non si tratta altro che di un ipertesto realizzato grazie a un’interfaccia che permette il recupero e l’archiviazione dei elementi creati e distribuiti nel web. A parte questa differenza a livello di backend, anche un post scritto con WordPress, a conti fatti, è un ipertesto. A rendere estremamente diversi due oggetti digitali della stessa natura è il modo in cui Storify permette di organizzare le informazioni, mantenedone l’unicità e la specificità semiotica, ovvero quelle marche che rendono la singola unità riconoscibile. Quando citiamo un link all’interno di uno storify quello appare sottoforma di snippet, ovvero di frammento che riporta un certo numero di informazioni sull’elemento a cui rimanda: titolo, data e ora di pubblicazione, metadescription o estratto dal testo, immagine. E lo stesso vale per un tweet, uno status su Facebook, una foto su Instagram, un loop su Vine o qualsiasi altro elemento digitale. L’effetto sul lettore è diverso da quello che si ottiene embeddando un link in una porzione di frase, come siamo abituati a fare quando scriviamo un post sul nostro blog. In questo caso la natura del collegamento è soltanto suggerita dal modo in cui noi lo incorporiamo nel testo, ma non appare come singolo elemento di una narrazione che, è bene ricordarlo, su Storify beneficia moltissimo della possibilità di inserire tra un elemento e l’altro porzioni di testo in grado di fornire un contesto e una guida di navigazione al lettore. Un po’ come se questi elementi testuali fossero le cuciture della narrazione che tengono insieme e danno senso agli elementi archiviati e montati, organizzandoli in un percorso.


Orson Welles


Quello che è importante tenere a mente è che ci sono contenuti o argomenti o formati narrativi che si prestano meglio di altri a essere raccontati attraverso Storify ed è perciò cura del narratore saperli riconoscere e valorizzare al meglio. Ad esempio, in occasione del festival della letteratura di Mantova, Maria Teresa Grillo e Lorenzo Alunni, redattori del blog il lavoro culturale, hanno realizzato una corposa copertura dell’evento concretizzatasi un un live tweeting di due giorni, un post e uno storify dedicato all’evento. è curioso notare come il post e lo storify siano praticamente la stessa cosa, ovvero un glossario delle parole più significative del festival. Tuttavia, tra i due, lo storify si dimostra il format più potente e più significativo, perché al testo di sintesi dei due redattori vengono aggiunti i tweet che contestualizzano la sintesi e la riflessione. Ed essendo quella su Twitter una scrittura che ha forti contaminazioni con l’oralità (come la maggior parte della scrittura dei social network) realizzare uno storify che ha come protagoniste le parole, affiancandole con questa forma di scrittura vocale che sono i tweet, significa aumentarne considerevolmente la portata e l’efficacia narrativa.


Un altro esempio di quanto sia importante scegliere il formato giusto per raccontare qualcosa ce lo forniscono tre post pubblicati di recente qui su Giap:

lo storify dedicato alla lotta del PKK e delle YPG contro le forze dell’ISIS nelle regioni del Kurdistan tra Turchia, Siria e Iraq del nord,

e i due resoconti di montagna del gruppo #AlpinismoMolotov:

No Picnic on Rocciamelone;

Alpinismo Molotov sul Triglav: contro nazionalismi e alpinismi hipster.

Tutti e tre sono lavori di montaggio, il primo nei termini e nelle forme della capitalizzazione narrativa dell’archivio, mentre il secondo e il terzo come forma di polifonia della scrittura di montagna. La domanda è la seguente: questi racconti avrebbero potuto essere realizzati diversamente? L’esperimento di armonizzazzione delle voci di #AlpinismoMolotov avrebbe potuto diventare uno storify? E la lunga rassegna sull’esperienza rivoluzionaria dei Curdi del PKK sarebbe stata ugualmente efficace se fosse stata esposta in un post?


Le risposte sono entrambe negative, ed è lo stesso Wu Ming 1 (coordinatore di tutti e tre gli interventi) a confermarmelo in uno scambio avuto via email che segue una conversazione dal vivo:


«Ho constatato, nei giorni scorsi, che per un montaggio tipo Alpinismo Molotov (che adotta la stessa filosofia di New Thing, e mutua diverse cose da Point Lenana), Storify risulta meno usabile di quanto lo sia per montaggi più lineari e discernibili nella loro diacronia, come appunto quello sul PKK. Per quello, Storify è stato lo strumento *perfetto*. Per una cosa come quest’ultima sul Triglav, molto meno. Inizialmente ho provato a utilizzarlo, ma mi sentivo meno libero.

Come ci siamo detti a La Val, Storify si presta poco alla manipolazione/scomposizione di grossi spezzoni di testo. È invece perfetto per mettere in fila unità di informazione significative che nondimeno ci arrivano come frammenti e necessitano di una “messa in ordine”, con brevi sezioni di testo puramente esplicative, che a volte sono meramente “fàtiche”, servono solo a mantenere il contatto, a far sentire a chi legge che l’autore del montaggio è ancora lì, non è andato via, non delega la narrazione solo ai vari tweet messi in fila.»


Quello che emerge dal confronto tra questi due formati narrativi è il modo in cui Storify sfrutta la possibilità di lavorare con elementi semiotici discreti. Il percorso di lettura sul PKK è più efficace di un post perché anche se il lettore non esce dal discorso in concomitanza con ogni collegamento ipertestuale, il contenuto di questo è comunque presente in una forma autonoma e con un numero di informazioni sufficente per poter seguire il discorso e le sue articolazioni. Mentre un lavoro come quello fatto coi resoconti di #AlpinismoMolotov, caratterizzato da una polifonia di voci che si armonizzano nel corso della narrazione, non avrebbe beneficiato di questa possibilità.


Credo comunque, rispetto all’osservazione di Wu Ming 1, che anche in Storify ci sia spazio per un lavoro sui falsi raccordi e per forme di racconto che non siano necessariamente lineari e discernibili nella loro diacroni.


Tuttavia, avviandomi alla conclusione, quello che mi pare davvero significativo di Storify e del metodo di lavoro che caratterizza questo strumento, è il modo in cui ti porta a contatto con l’essenza della narrazione, con il suo carattere archivistico, combinatorio e manipolatorio (non in senso di mistificazione ma di manualità). Per riattivare la metafora sartoriale usata poco più sopra, rispetto a narrazioni digitali interattive come Snowfall del New York Times o The NSA Decoded del Guardian, Storify assomiglia più all’imbastitura che non alla cucitura definitiva di un abito narrativo. Questo perché la forma di elenco di singole unità discrete d’informazione rende visibile l’operazione di montaggio dei singoli elementi, la fa sentire come un’azione di selezione, raccolta e costruzione del senso messa in atto da una presenza umana riconoscibile, quella presenza dell’autore, il suo rimanere tra gli elementi dell’archivio che, secondo Wu Ming 1, è una delle caratteristiche fondamentali di Storify.


È una forma di montaggio visibile che si contrappone all’invisibilità del lavoro di montaggio che caratterizza narrazioni digitali interattive come quelle citate poc’anzi o un lavoro come quello portato avanti in #AlpinismoMolotov, dove pur essendo presente, il falso raccordo si scioglie nell’armonia delle voci.


È nell’intersezione tra queste due forme di racconto, quelle che rivelano apertamente l’operazione di montaggio e quelle che la sciolgono o la nascondono nella propria sintesi narrativa, che si apre un campo di applicazione della teoria degli UNO ancora poco esplorato, quello delle narrazioni digitali interattive. La possibilità, da parte nostra, di esplorare quel campo non è importante soltanto per poter creare nuove tipologie di oggetti narrativi, ma anche per aprire squarci sul nostro futuro prossimo di abitanti degli spazi digitali, lettori e scrittori di bit e atomi d’informazione.


The post Narrazioni digitali non identificate (L’archivio e l’istante) appeared first on Giap.

flattr this!



 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on September 24, 2014 00:40

September 22, 2014

La storia come follia e come rappresentazione. Franco Berardi «Bifo» su L’#ArmatadeiSonnambuli

Franco Berardi Bifo


[Riprendiamo su Giap un saggio/recensione del compagno Bifo, che noi abbiamo sempre chiamato «Franco».

Un anno e mezzo fa un giornale bolognese si è inventato uno scazzo tra noi e lui, dopodiché un giornalista voleva una nostra dichiarazione al riguardo. Lo abbiamo mandato affanculo. Il giornalista, non Franco. Il giornalista non franco.

Uno di noi lo ha incontrato in treno. Franco, non il giornalista. Doveva essere fine giugno o inizio luglio. Ci ha detto che stava scrivendo qualcosa su di noi. Poi ha aggiunto che, se lo scazzo ci fosse stato, avremmo avuto ragione noi.

Il testo è apparso su Facebook il 9 settembre. Lo pubblichiamo affinché abbia una circolazione anche nel mondo di fuori. Nella versione che appare qui, le sottolineature sono nostre. Buon divenire rivoluzionari(e).]

-

«Life’s but a walking shadow, a poor player

That struts and frets his hour upon the stage

And then is heard no more: it is a tale

Told by an idiot, full of sound and fury,

Signifying nothing.»

(William Shakespeare, Macbeth)


Deleuze nell’Abbecedario dice che le rivoluzioni falliscono, tutte. Chi fa la rivoluzione per vincerla è un ingenuo o un mascalzone. Gli ingenui, coloro che pensano che la rivoluzione faccia passare il mal di denti sono delusi perché il mal di denti non gli è passato e qualche volta anzi va peggio. I mascalzoni prendono il potere, e la loro vittoria è per l’appunto la sconfitta della rivoluzione.

E allora, perché abbiamo partecipato a tutte le rivoluzioni che ci capitavano a tiro in questi ultimi duecento anni, e perché volentieri parteciperemmo alla prossima, se ci fosse?

Interessanti, dice Deleuze ancora, non sono le rivoluzioni, ma i rivoluzionari, o meglio quel che capita ai rivoluzionari, quello che cambia nelle loro vite.

Ribellarsi, parlare con altri che si ribellano, organizzarsi, immaginare soluzioni strampalate, darsi appuntamento nel cuore della notte, bastonare l’assassino che ti ha ammazzato il fratello, provare in un modo provare in un altro. Alla fine il mal di denti non se n’è andato, ma stai pensando ad altro e al mal di denti non ci pensi più, almeno per un po’.

Prendere parte al movimento rivoluzionario significa comprendere che la tua vita non è scritta nei piani del potere, ma puoi scriverla tu, almeno fino a un certo punto. Tutto si gioca su quel certo punto. La felicità individuale, la giustizia collettiva, un grado di eguaglianza crescente, e soprattutto la fratellanza: un sentimento di fratellanza, la forza che deriva dalla fratellanza, l’amicizia che si fa regola universale dei riporti fra gli uomini e le donne. Fino a un certo punto, lo so. Ma quanto tempo passa prima che i padroni riprendano il sopravvento, prima che la fratellanza si incrini, prima che il mal di denti torni a farsi sentire? Tutto qua. Prova a farla durare una vita, la fratellanza, prova a mantenere i padroni a distanza per una vita intera, prova a non subire lo sfruttamento per tutto il tempo in cui vivi. Ecco l’utopia realizzata, anche se la rivoluzione non vince mai. La rivoluzione ti insegna che è possibile una linea di fuga dall’inferno terrestre.


Mitopoiesi e genealogia

L’armata dei sonnambuli è (per ora) l’ultimo libro dei Wu Ming, un gruppo di scrittori senza nome che discende da una ormai lunga storia che comincia con i Luther Blissett nella seconda metà del decennio ’90.

L’ultimo in ordine di tempo, prima che l’immaginazione narrativa di quella piccola banda inventi un altro mondo e un altro tempo. Ma anche l’ultimo di un ciclo lungo che costituisce forse la più grande impresa epica nella letteratura del nostro tempo.

L’opera dei Luther Blissett poi divenuti Wu Ming costituisce una sorta di ricostruzione della mitopoiesi moderna, una rivisitazione genealogica (nel senso propriamente foucaultiano) delle narrazioni che costituiscono il fondo mitologico su cui si fondano e si motivano i processi di soggettivazione dell’epoca moderna.

Mitopoiesi infatti è l’azione che costruisce narrazioni condivise nelle quali è possibile riconoscere il passato, il destino, il presente, l’utopia, l’aspirazione e il possibile di collettivi che riconosciamo come movimenti.

Alla fine del secolo scorso, quando ancora si firmavano Luther Blissett, con una composizione leggermente diversa da quella con cui oggi si firmano Wu Ming, questa piccola band letteraria pubblicò il romanzo Q che ottenne un vasto successo di pubblico. Subito dopo il gruppetto compì un gesto assolutamente irragionevole. Affermare un nome, un’etichetta, è l’operazione più difficile per uno scrittore esordiente. Loro ci riuscirono al primo colpo, poi cambiarono nome con sublime sprezzo delle regole del marketing. Presero un nuovo nome che significa non-nome, e continuarono con una serie di romanzi tra i quali a mio parere eccellono 54, New thing, Altai.

Un’epigrafe foucaultiana apre L’Armata dei sonnambuli. Foucault è visibilmente il riferimento filosofico di molte delle scelte narrative, di molte ambientazioni e riferimenti disseminati in questo libro dedicato alla Rivoluzione Francese.

Michel Foucault dedicò la prima parte del suo percorso intellettuale alla ricostruzione genealogica delle forme epistemiche e delle forme di vita che definiscono la modernità e Foucault è sempre presente sullo sfondo delle opere a carattere storico dei Wu Ming. Se il contributo di questi scrittori consiste in una sorta di genealogia della mitopoiesi moderna, il contributo di Foucault si è manifestato in forma di genealogia dell’episteme moderna. Sia la mitopoiesi della piccola banda sia l’episteme foucaultiana hanno come centro pulsante la corporeità, il corpo che parla, che manda segni, che dissemina segni nella sofferenza, nell’esaltazione, nella follia e nella rappresentazione.


La storia come follia e come rappresentazione

Ho letto un sacco di libri sulla storia della Rivoluzione francese, eppure non posso dire di aver capito bene: perché un giorno Robespierre è il capo riconosciuto e amato e il giorno dopo gli vogliono far la pelle perfino molti dei suoi sostenitori? Perché si prendevano decisioni che non avevano alcun senso e perché dopo aver volato sulle ali dell’entusiasmo ci si ritrovava a dover fronteggiare un’imprevista ondata di malinconia popolare o di furibonda violenza? Questo romanzo (puntuale, ricco, preciso dal punto di vista della documentazione storica) mi ha permesso di capire la cosa essenziale: che non c’è proprio niente da capire. Non c’è una legge storica che agisca dietro le quinte, non c’è una necessità economica o sociale che diriga i movimenti e la reazione. C’è un palco, su cui si svolge la rappresentazione, e c’è la follia,che muove le sue pedine. Il giorno dopo lo chiamiamo storia, e ci mettiamo pure la S maiuscola: la Storia.

Ma quel giorno lì, nel giorno in cui le cose accadono davvero quel che conta è il dolore individuale e l’illusione collettiva, insomma il flusso di desiderio e di paura che corre attraverso la città.

Per raccontare la storia della rivoluzione francese i Wu Ming concentrano l’attenzione narrativa sulla follia e sulla messa in scena. Tra i personaggi principali del romanzo ci sono una tricoteuse e un attore: Marie Nozière e Léo Modonnet.

Marie Nozière è una delle tante operaie tessili, sartine e ricamatrici che negli anni della rivoluzione si trasferirono sulla piazza dove la ghigliottina faceva il suo lugubre lavoro. Il corpo di Marie Nozière parla, eccome se parla: parla della violenza sessuale subita da un padrone feudale che la ingravidò poi la scacciò con un figlio, parla dell’amore per un uomo che le è stato portato via dalla guerra, parla della solitudine e della fatica del lavoro e della maternità. E parla anche dell’odio per gli aristocratici, del desiderio di violenza, del desiderio di fargliela pagare col sangue. Quella che gli psichiatri hanno a lungo definito “isteria femminile” viene riletta come espressione politica di un corpo troppo a lungo represso. Si tratta di un corpo sessuato individuale, ma anche di un affollarsi di corpi che stanno sullo sfondo poi a un certo punto si fanno avanti, invadono la scena, si toccano, si battono, si accarezzano.

Léo Modonnet è un bolognese fuggito a Parigi dove si guadagna la vita facendo l’attore. Nel vortice degli eventi Léo confonde la rappresentazione teatrale con l’azione collettiva, confonde il palco con la strada e il teatro con la vita. Per questo perde il lavoro. Ma perduto il lavoro di attore finalmente può scoprire che un nuovo teatro sta nascendo, un teatro che si fa azione, che entra nella storia collettiva della rivolta così che la rivolta riconosca la propria teatralità, mentre l’arte si fa vita vissuta. Léo diviene Scaramouche per mettere in scena la fusione tra arte teatrale, azione criminale e processo rivoluzionario. Ciò che i Wu Ming descrivono attraverso le vicende di Léo Modonnet è l’inizio della storia dell’avanguardia, collocando la sua prima esplosione nella rivoluzione francese.

Questo romanzo racconta la storia delle rivoluzioni moderne come follia del corpo che cerca il suo linguaggio e lo trova nei manicomi, nelle urla incomprensibili,nella violenza. Ma racconta anche l’altra faccia del medesimo processo: racconta la formazione del potere secondo le stesse linee della rivolta. Se la rivolta è follia, anche il potere ha qualcosa a che fare con gli stati alterati della mente, anche il potere trae la sua forza dalla s-ragione. Qui il potere nasce dall’ipnosi.

Se la rivolta è liberazione dei corpi, il potere lavora sulla sofferenza dei corpi, sulla paura della libertà e sul bisogno di rassicurazione, di ordine, di sottomissione.

I narratori ci parlano del rapporto tra Illuminismo e Ipnotismo mesmerista rivisitando magistralmente alcuni luoghi foucaultiani come i manicomi cittadini,  Bicetre, la Salpetriere, dove i folli mettono in scena il trionfo della ragione.


Follia ragione potere

Nel libro che porta il titolo Histoire de la folie à l’age classique Foucault analizza la formazione della società disciplinare moderna attraverso l’intreccio della Ragione e della De-Raison. La follia deve essere nominata, separata, segregata, perché la razionalità borghese possa affermare il suo primato. Ma questo atto di separazione istituisce le due sfere separate (ragione e s-ragione) come se fossero indipendenti, mentre non lo sono affatto. La luce della Ragione è indissociabile dall’oscurità della de-raison: la ragione penetra profondamente negli spazi dell’Inconscio sociale, modellandolo secondo le sue strategie produttive, mentre la s-ragione dilaga negli spazi nascosti dellavita quotidiana rivelandosi talora con esplosioni improvvise, e a volte e rompe prepotente, dominatrice e maggioritaria.

La storia della modernità si arrampica proprio lungo questi tornanti della ragione che sottomette la vita, ma anche della ragione che si ribella contro l’oppressione,rivendicando razionali valori di giustizia e di uguaglianza. Questa ragione è però indistricabile dalla follia che permette al corpo incatenato di scatenarsi, e dalla follia che cerca rassicurazione e rifugio e perciò si sottomette all’ipnosi del potere come servitù volontaria.

Nell’Inconscio si trova il motore più forte dei processi di identificazione e di espressione collettiva, perché l’inconscio non è un teatro (in cui si svolge un dramma già scritto) bensì un laboratorio in cui le linee del dramma si scrivono collettivamente, nell’andirivieni continuo tra desiderio e interesse,eccitazione e paura. Il conflitto e la fusione di flussi mitopoietici differenti animano questo inconscio. Qui agisce la poesia, qui agisce la narrazione, qui agisce la produzione artistica: nel punto di incontro tra mitopoiesi ed inconscio, che è il punto in cui si formano le attese di mondo. Non la speranza, non l’utopia, ma l’attesa di un mondo immaginato e quindi possibile.

Costruendo una metafora che ha movenze narrative di tipo fantascientifico, Wu Ming racconta non solo la storia dei tormenti e delle speranze dei rivoluzionari, ma anche quella di un reazionario che vuole restaurare il potere. Non il potere della Monarchia capetingia, retaggio del passato, ma il potere razionale e produttivo della modernità. Chi sono i sonnambuli mesmerizzati e indotti a subire? L’armata dei sonnambuli sono le folle dei commuters della subway londinese all’ora di punta, sono le folle che si accalcano all’entrata del supermercato il giorno in cui c’è uno sconto, sono i milioni di oppressi che vanno a votare per il loro oppressore, sono l’immenso pubblico della televisione multiforme e uniforme.

Grazie all’azione ipnotica di un cospiratore reazionario si forma l’armata dei sonnambuli: un esercito di schiavi che si identificano con il loro padrone e ne eseguono ciecamente i disegni perché la loro coscienza e la loro sensibilità sono state ipnotizzate, anestetizzate. Da questo punto di vista il romanzo racconta(anche) il divenire automa dell’umanità moderna.


E allora perché ribellarsi?

L’armata dei sonnambuli è un libro terribilmente amaro, doloroso, disperato forse.  L’attesa di una società migliore, la pretesa di un governo razionale sul corso degli eventi si rivelano illusioni. Tagliare la testa al re non ci libera dalla fame, e neppure incarcerare gli accaparratori di farina ci permette di avere quello che ci occorre.

E proprio dalle rivoluzioni il potere trae la sua potenza. La potenza che le rivoluzioni esprimono, la potenza del lavoro e del teatro, del sapere e del desiderio si ossifica nelle forme sempre nuove del potere.

E allora cosa resta? E allora perché ribellarsi?

Marie Nozière a un certo punto se lo chiede, quando si rende conto del fatto che tutte le speranze suscitate dalla rivoluzione si sono dissolte, quando Robespierre che fino a ieri era il beniamino del popolo e il capo riconosciuto dell’Assemblea viene abbandonato dal popolo e giustiziato per volere dell’assemblea. E Marie Nozière risponde alla sua propria domanda.

Risponde che la rivolta serve a sapere che esistiamo, serve a dare un senso alla sofferenza e anche alla sconfitta. Prima non sapevo di esistere e subivo la violenza del potere come se fosse naturale: la rivoluzione mi ha permesso di riconoscermi, ho capito che potevo ribellarmi, ho capito che esisto, che posso rifiutare e quindi cominciare a essere, ho capito che posso posso incontrare altri che come me si ribellano, ho conosciuto l’amicizia, impensabile prima della rivolta.

L’esperienza della rivolta rende possibile la costruzione di senso, cioè quell’indipendenza dal potere che consiste nella coscienza di sé, nel disprezzo e nell’odio. L’esperienza della rivolta rende anche possibile l’amicizia, la tenerezza, l’avventura, sconosciute a chi subisce l’ipnosi del salario, della paura, della legge.


Te lo si conta noi

L’Armata dei sonnambuli è anche, forse la più compiuta espressione del metodo di narrazione che prima Luther Blissett poi Wu Ming hanno dichiarato e adottato fin dalla metà del decennio ’90 . Sempre il loro metodo si è fondato sulla mobilità del soggetto narrante e sulla fuga continua dell’identità. I personaggi di Q e di Altai cambiano nome molte volte, durante le loro peripezie, le loro fughe, le loro clandestinità. Gert dal Pozzo, personaggio centrale di Q, ricompare con molti nomi diversi durante le vicende di quel romanzo, per poi ritornare in Altai, invecchiato, ma più lucido e carismatico che mai, sotto il nome di Ismail.

Il metodo narrativo di questa banda di scrittori che non sono soltanto scrittori ma anche molte altre cose (musicisti, ribelli, teorici, storici, e soprattutto compagni) viene fuori con particolare chiarezza dalle pagine di un libretto che ebbe una certa risonanza quando uscì nel 2009 con il titolo New Italian Epic:


«il punto di vista narrativo continua a slittare da un personaggio all’altro grazie al vecchio espediente del discorso libero indiretto, vecchio ma ancora in grado di sorprendere se usato al momento giusto e con la giusta intensità»,


scriveva Wu Ming 1, che aggiungeva in nota una spiegazione utile: il discorso libero indiretto consiste nell’adottare il punto di vista del personaggio pur continuando a scrivere in terza persona, cioè consiste nel far sentire la sua voce senza virgolettarla.

In realtà dietro questo espediente ci sta di più che una scelta di tecnica narrativa, cista una concezione dello svolgersi storico, che nel libro sulla rivoluzione francese emerge con nettezza. Leggendo questo romanzo è come se ci trovassimo di fronte a una folla dalla quale vengono fuori delle voci che non possiamo identificare in maniera molto precisa, voci che ci raccontano la stessa storia da punti di vista diversi in modo tale che da uno slittamento all’altro la storia procede,si arricchisce di nuove possibilità interpretative, e talvolta presenta contraddizioni irrisolte, irrisolvibili, perché la realtà storica non può essere identificata con alcuna verità interpretativa di ultima istanza.

Non solo i personaggi cambiano nome identità orizzonte, ma la voce narrante si sposta fino al punto che in certi momenti non possiamo identificarne l’origine. L’espressione «te lo si conta noi com’è che andò» diviene quindi una sorta di shifter che permette di spostare sia la scena in cui la narrazione si sta svolgendo, sia il narratore individuale o collettivo. Te la si conta noi. Noi chi?

La voce narrante è quella di una folla che si sta muovendo, una folla che tende l’orecchio, che si nasconde o che sbuca fuori dal buio all’improvviso. E l’effetto che ne risulta è quello di trovarsi al centro di un evento magmatico,in perenne movimento, ma anche di trovarsi in un mezzo a un flusso di eventi il cui senso medesimo cambia, sprofonda, si rovescia.

Nell’Introduzione al suo libro Du Sens (1970) scrive Algesirdas Greimas:


«La significazione non è altro che questa trasposizione d’un piano di linguaggio in un altro, di un linguaggio in un linguaggio diverso, mentre il senso è semplicemente questa possibilità di transcodifica. Drammatizzando un po’ la cosa, si potrebbe dire che il parlare metalinguistico è soltanto una serie di menzogne e che la comunicazione è soltanto una successione di malintesi.»


L’infosfera

Il tema delle tecnologie di comunicazione come fattore di mutamento decisivo del processo storico, e particolarmente dei processi di soggettivazione è una costante dell’opera LB/WM.

In Q la diffusione della tecnologia di stampa è lo sfondo su cui si disegna un mutamento relazionale, culturale, etico, che prepara il mutamento sociale.

In Q e in Altai si parla continuamente della stampa e diffusione della Bibbia e  di opuscoli religiosi e politici. La diffusione della stampa è l’evento tecno-mediatico che nutre la coscienza della borghesia urbana nei secoli della prima modernità. La predicazione di massa tra i contadini degli Anabattisti e degli altri eretici di quel tempo si accompagna alla distribuzione di volantini ricavati dagli scarti dei volumi della Bibbia.

Ma la replicazione del testo mette in questione l’identificazione della verità, rende possibile la falsificazione, l’invenzione. La replicazione del testo mette in moto un’inflazione del senso. Il diffondersi del verbo produce un salto nella sfera dell’immaginabile, e quindi nella sfera dell’esperibile. Segue allora un riassetto traumatico della sintonia Mente/Infosfera. La parola si diffonde in circuiti che la decodificano secondo codici imprevisti, imprevedibili, e i codici sono sottoposti a una pressione che li deforma, li trasforma, o li cancella.

Con questa consapevolezza del rapporto tra media e linguaggio Wu Ming si misura con l’infosfera di rete.

La deterritorializzazione costante del luogo da cui proviene la parola è il sound dell’Armata dei sonnambuli.

Solo una voce narrante molteplice e mobile può esprimere la soggettività dell’epoca della rete.


E adesso?

Leggendo L’armata dei sonnambuli mi sono chiesto: qual è il futuro di questa piccola banda?  Con questo libro hanno portato a compimento una ricognizione sull’immaginario delle rivoluzioni moderne, ma alla fine ci hanno portato nel cuore dell’epoca presente. Chi aprirà la strada a un’immaginazione del secolo che viene?

L’epoca delle rivoluzioni è finita, ma anche l’epoca dell’illusione razionalista e democratica è finita. La mitologia contemporanea è piena fino alla saturazione di narrazioni distopiche, nelle forme ciniche di Hunger Games (romanzo di Suzanne Collins, film diretto da Gary Ross) o in quelle rabbiose di The Purge (il film splatter di James de Monaco), o in quelle orwelliane di The Circle (il romanzo di Dave Eggers), o in quelle disperate dei film di Je Zhang Khe (Unknown pleasuresStill life, A touch of sin).

È possibile immaginare il nuovo secolo fuori e oltre le categorie distopiche che emergono dall’immaginazione estetica contemporanea?

È possibile immaginare vie di fuga dall’inferno del capitalismo finanziario e della guerra frammentaria totale?

È possibile pensare i processi di formazione di una soggettività cosciente al di fuori dalla tenaglia: automazione bio-finanziaria/identità  aggressive di tipo etnico religioso o nazionalista?

Alla poesia, alla narrazione tocca il compito di immaginare le vie di fuga dal totalitarismo bicefalo che disegna il prossimo secolo  come un inferno.


LEGGI ANCHE


Franco Berardi Bifo recensisce Q di Luther Blissett (1999)


Franco Berardi Bifo recensisce New Thing di Wu Ming 1 (2006)


The post La storia come follia e come rappresentazione. Franco Berardi «Bifo» su L’#ArmatadeiSonnambuli appeared first on Giap.

flattr this!



 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on September 22, 2014 13:29

September 18, 2014

Come difenderci dai tentacoli di #Expo2015? Dateci una mano!

I tentacoli di Expo 2015
Premessa: cosa pensiamo di Expo 2015

Riteniamo Expo 2015 – «Nutrire il pianeta. Energie per la vita» – un Grande Evento Deturpante, Insensato e Indecente, preceduto e accompagnato da Grandi Opere Dannose, Inutili e Imposte.


Le inchieste della magistratura stanno rivelando un alto livello di corruzione e una robusta presenza delle mafie nel sistema di appalti e subappalti di Expo 2015. Finora i poteri che vogliono il megaevento sono riusciti a far finta di nulla, dando la colpa all’occasionale «mela marcia», ma a essere marcio è il cesto, la corruzione è insita nella logica del Grande Evento Devastante, Inaccettabile e Idiota.


Come lo stanno tirando su questo baraccone mangiasoldi pieno di fuffa?



Lo tirano su a colpi di deroghe e poteri speciali, come già visto per altre “grandi opere” e “grandi eventi”, dal post-terremoto in Abruzzo al TAV Torino-Lione.


Lo tirano su accaparrando risorse: costerà almeno 10 miliardi di fondi pubblici.


Lo tirano su sfruttando la gente: per tipologie contrattuali e condizioni di lavoro Expo 2015 è stata definita «un vero e proprio laboratorio della precarietà».


Lo tirano su aggredendo i territori, spianando parchi, gettando grandi colate di cemento, progettando nuove autostrade.


Lo tirano su lavorando insieme alla mafia, ed è una cosa segnalata da tempo, si vedano questi articoli:

«Expo, le mani della mafia» (L’Espresso, 29/11/2012)

«Quanti affari tra mafia ed Expo» (L’Espresso, 17/07/2014).


Lo tirano su fingendo di essere “trasparenti”, come accade con quasi ogni “osservatorio” su una Grande Opera, dove in realtà controllati e controllori sono gli stessi soggetti, e allora ecco a voi Open Expo!


Lo tirano su senza che ci sia stata alcuna discussione democratpffffffff… Ah! Ah! Ah! Ah! Dovevi vedere la tua faccia mentre leggevi!


Lo tirano su cercando di cooptare anche le voci critiche, non solo con la lusinga del denaro, ma anche con un classico ricatto ideologico: «Ormai l’Evento si fa, perché non ci aiuti a renderlo migliore? Noi siamo aperti e democratici, c’è spazio anche per il tuo punto di vista.» A patto che la critica non riguardi l’opportunità dell’Evento stesso. Come per le Grandi Opere, l’opzione zero non è contemplata.


In estrema sintesi: Expo 2015 lascerà in eredità una montagna di debiti, cemento e nuovi elementi di «stato d’eccezione».


Allora, è abbastanza chiaro come la pensiamo al riguardo? Sì? Bene, adesso spieghiamo cosa ci sta succedendo e perché abbiamo bisogno di aiuto.


La verità su Expo


Quel che ci sta capitando

Expo 2015 è una voragine spalancata per inghiottire denaro. Ma perché la trappola funzioni, bisogna almeno coprirla con qualche cespuglio, qualche brandello di vita.


Così, per “gonfiare” il pallone del megaevento e far comparire nel programma e in bilancio - abracadabra! – migliaia di eventi in tutta Italia, magari con contenuti sfruttabili per greenwashing e socialwashing, si è messo a punto un meccanismo che permette a Expo 2015 di cannibalizzare e far propria ogni sorta di iniziativa organizzata da qualunque comune d’Italia.


Il nome del meccanismo è ANCI per Expo. In sostanza, l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani ha fatto un accordo con Expo e ora qualunque municipalità, se vuole, può segnalare un evento (anche già programmato), metterlo “in linea” con i temi di Expo (non abbiamo ancora capito tramite quale procedura) e quindi avvalersi del logo di Expo 2015, e probabilmente anche di altro.

Dopodiché, la macchina promozionale del megaevento provvede a ghermire il tutto. Dalla fiera del rutto diplofonico alla sagra del pidocchio fritto in olio di calli asportati.


Questo gioco di prestigio ci sta colpendo direttamente. Succede che iniziative – reading, partecipazioni a rassegne ecc. – concordate e fissate da mesi senza alcuna menzione di Expo 2015 né sentore da parte nostra che quest’ultima potesse entrarci, all’improvviso e all’ultimo momento vengano riqualificate come parte del baraccone.


È quello che sta capitando a Vicenza, dove senza che ci venisse chiesto né detto nulla, il nostro nome è apparso in un terrificante comunicato stampa del comune, e il reading «Quattro» di Wu Ming 2 e Frida X è diventato parte di «un ricco cartellone di eventi sui temi dell’Expo 2015».


Vale la pena raccontarla bene, questa storiaccia.


Vicenza per Expo

E’ ormai dall’anno scorso che il Centro di Cultura Fotografica lavora per portare a Vicenza la mostra «Wu Ming + TerraProject = 4» e il reading, ad essa collegato, di WM2 + Frida X. Di sicuro, al momento dei primi contatti, non c’era traccia di Expo 2015 tra i promotori dell’iniziativa. Solo una collaborazione tra il Comune, che finanzia, e un’associazione del territorio.


Poi, con la candidatura di Vicenza a «testimonial per il Veneto del progetto Anci per Expo», ecco che il 21 settembre – già fissato come «domenica ecologica» – è diventato «il culmine di una rassegna pensata in ottica di territorio per sensibilizzare il pubblico sulle aree tematiche dell’Expo».


Traduzione: tutte le inaugurazioni possibili di iniziative, fiere, sagre, cartelloni, spettacoli, eventi sono magicamente confluite sul 21 settembre, «tanto che l’Anci stesso si è complimentato per la ricchezza e la varietà offerta da una città di piccole dimensioni come la nostra».


Questa valanga di lustrini ha travolto anche l’inaugurazione della mostra, che infatti si terrà proprio il 21 settembre.

Come ci ha scritto Pietro Paolini, del collettivo TerraProject:



«In questi anni abbiamo lavorato su tematiche che si legano alle contraddizioni di un evento come Expo: da una parte, la sua voracità e la violenza sul territorio, punta di diamante dell’Italian Style del XXI secolo; dall’altra, la produzione di cibo nel mondo, l’agricoltura industriale, l’ambiente».



Ma questo a Expo non interessa. Expo ha fame - sta hungry! - e deve nutrire sé stessa, altro che il pianeta.


In questo quadro, non ci è di nessun conforto sapere che nel materiale promozionale per il reading del 9 ottobre non è presente alcun logo di Expo, Anci per Expo, Vicenza per Expo ed altre exploitations. Non possiamo sopportare, infatti, che il nostro lavoro venga inserito di soppiatto, e con uno stratagemma da quattro soldi, in una vetrina che ci auguriamo di vedere frantumata.


È come scrivere un articolo per la rivista del Circolo dei Fotografi e il giorno dopo trovarselo pubblicato su Libero.


Il mostro Expo


L’octopus arriva ovunque

Non è accaduto solo a Vicenza, purtroppo.


Wu Ming 1 doveva guidare una camminata con racconti sul Monte Musiné, Val di Susa, nell’ambito del festival «Torino Spiritualità», poi si è infortunato sul Triglav e la missione è passata a Mariano Tomatis, che ha lavorato davvero sodo e in due settimane ha costruito un’iniziativa bellissima, anch’essa prevista per il 21 settembre. Ebbene, a un certo punto abbiamo scoperto tra gli sponsor Expo 2015.


Superfluo dire che spirito e contenuti di quella salita al Musinè sono in totale contrasto con valori e ideologia del megaevento. Al momento non ci risulta un comunicato stampa come quello emetico emesso a Vicenza, ma il problema c’è lo stesso. È un problema, nello specifico, di imperialismo culturale.

Come ci ha scritto un attivista del comitato No Tav Spinta dal Bass:



«All’epoca delle olimpiadi invernali, Torino e provincia erano invase dai cinque cerchi, tutto era olimpico: valli olimpiche, autostrada olimpica, notte bianca olimpica… Io ricordo persino una pizzeria dove misero in menù la pizza “olimpiade”. Ma la cosa peggiore erano le giacche a vento dei volontari olimpici, non potevi uscire di casa senza trovare qualcuno che la sfoggiava, erano ovunque! E poi, alla fine di due settimane di ubriacatura, la realtà post-evento: lavori in Valle lasciati a metà, boschi sventrati per piste mai più utilizzate e un debito enorme. E pensare che a noi ce ne avevano dette di tutti i colori perché a Bussoleno e ad Avigliana ci fu qualche problema con la fiaccola… Expo me l’immagino come le olimpiadi al cubo, e lo dimostra la pervasività con cui infiltra qualsiasi iniziativa, da Torino Spiritualità alla sagra di paese!»



Nella mailing list di Alpinismo Molotov, un compagno ha aggiunto alcuni elementi:



«La cosa diventa ancor più pesante nei comuni medio piccoli. Qui alla scarsità di risorse va sommata una generale disinformazione da parte degli amministratori che molto spesso ignorano i contenuti e le modalità messe in campo dall’EXPO. In questo modo “donano” all’EXPO anche eventi che concretamente sono territoriali e che negherebbero tutto ciò che la grande opera di fatto è.  Attraverso questo meccanismo si rischia di fornire ai signori dell’Expo un alibi e un bel vestito da contadino (finto).

Discorso ancor più grave naturalmente, è quanto sta accadendo in Toscana con Expo Rurale. Qui la regione, che già da tempo ha sposato un sistema turistico ed enogastronomico basato sull’autorappresentazione di una realtà che non esiste, si fa veicolo di un’iniziativa che cerca di sdoganare l’Expo a tutti gli effetti. “L’EXPO rurale” è quanto di peggio si possa fare.»



Expo dà lavoro precario e sottopagato
Che fare? Linee-guida e contromisure

1. Se vedete da qualche parte il nome «Wu Ming» associato a qualunque iniziativa «nell’ambito di Expo», sappiate che è un’annessione arbitraria, fatta senza informarci e contro la nostra volontà.


2. In secundis, per favore, contattateci, dateci la notizia.


3. Se ci sono i tempi e le condizioni per disdire l’iniziativa, lo faremo senza attendere un momento.


4. Se i tempi e le condizioni non ci sono, trasformeremo il nostro intervento in un intervento anti-Expo. In parole povere: dirotteremo l’iniziativa.


5. Nel caso di tale dirottamento, se in loco ci sono attiviste e attivisti anti-Expo, riteniamo doveroso coordinarci con loro, coinvolgerli, gestire la cosa insieme.


6. Chi sta pensando di invitarci a rassegne e festival futuri, sappia che l’estraneità alla cornice di Expo 2015 è una condicio sine qua non perché accettiamo l’invito.


7. Per chiunque abbia pareri, consigli da darci, proposte e ulteriori informazioni, i commenti sono aperti.


Grazie dell’attenzione.


ALCUNI LINK


Segnaliamo il libro-gioco Expopolis di Off Topic Lab e Roberto Maggioni, pubblicato da Agenzia X nel 2013 e scaricabile gratis qui.


NoExpo.org


Di che cosa parliamo quando parliamo di Expo 2015


Grandi opere e megaeventi: liberiamocene! 11 e 12 ottobre a Milano


The post Come difenderci dai tentacoli di #Expo2015? Dateci una mano! appeared first on Giap.

flattr this!



 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on September 18, 2014 04:29

Come difenderci dai tentacoli di #Expo2015? Serve il vostro aiuto!

I tentacoli di Expo 2015
Premessa: cosa pensiamo di Expo 2015

Riteniamo Expo 2015 – «Nutrire il pianeta. Energie per la vita» – un Grande Evento Deturpante, Insensato e Indecente, preceduto e accompagnato da Grandi Opere Dannose, Inutili e Imposte.


Le inchieste della magistratura stanno rivelando un alto livello di corruzione e una robusta presenza delle mafie nel sistema di appalti e subappalti di Expo 2015. Finora i poteri che vogliono il megaevento sono riusciti a far finta di nulla, dando la colpa all’occasionale «mela marcia», ma a essere marcio è il cesto, la corruzione è insita nella logica del Grande Evento Devastante, Inaccettabile e Idiota.


Come lo stanno tirando su questo baraccone mangiasoldi pieno di fuffa?



Lo tirano su a colpi di deroghe e poteri speciali, come già visto per altre “grandi opere” e “grandi eventi”, dal post-terremoto in Abruzzo al TAV Torino-Lione.


Lo tirano su accaparrando risorse: costerà almeno 10 miliardi di fondi pubblici.


Lo tirano su sfruttando la gente: per tipologie contrattuali e condizioni di lavoro Expo 2015 è stata definita «un vero e proprio laboratorio della precarietà».


Lo tirano su aggredendo i territori, spianando parchi, gettando grandi colate di cemento, progettando nuove autostrade.


Lo tirano su lavorando insieme alla mafia, ed è una cosa segnalata da tempo, si vedano questi articoli:

«Expo, le mani della mafia» (L’Espresso, 29/11/2012)

«Quanti affari tra mafia ed Expo» (L’Espresso, 17/07/2014).


Lo tirano su fingendo di essere “trasparenti”, come spesso accade con gli osservatorî sulle Grandi Opere, dove in realtà controllati e controllori sono gli stessi soggetti, e allora ecco a voi Open Expo!


Lo tirano su senza che ci sia stata alcuna discussione democratpffffffff… Ah! Ah! Ah! Ah! Dovevi vedere la tua faccia mentre leggevi!


Lo tirano su cercando di cooptare anche le voci critiche, non solo con la lusinga del denaro, ma anche con un classico ricatto ideologico: «Ormai l’Evento si fa, perché non ci aiuti a renderlo migliore? Noi siamo aperti e democratici, c’è spazio anche per il tuo punto di vista.» A patto che la critica non riguardi l’opportunità dell’Evento stesso. Come per le Grandi Opere, l’opzione zero non è contemplata.


In estrema sintesi: Expo 2015 lascerà in eredità una montagna di debiti, cemento e nuovi elementi di «stato d’eccezione».


Allora, è abbastanza chiaro come la pensiamo al riguardo? Sì? Bene, adesso spieghiamo cosa ci sta succedendo e perché abbiamo bisogno di aiuto.


La verità su Expo


Quel che ci sta capitando

Expo 2015 è una voragine spalancata per inghiottire denaro. Ma perché la trappola funzioni, bisogna almeno coprirla con qualche cespuglio, qualche brandello di vita.


Così, per “gonfiare” il pallone del megaevento e far comparire nel programma e in bilancio - abracadabra! – migliaia di eventi in tutta Italia, magari con contenuti sfruttabili per greenwashing e socialwashing, si è messo a punto un meccanismo che permette a Expo 2015 di cannibalizzare e far propria ogni sorta di iniziativa organizzata da qualunque comune d’Italia.


Il nome del meccanismo è ANCI per Expo. In sostanza, l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani ha fatto un accordo con Expo e ora qualunque municipalità, se vuole, può segnalare un evento (anche già programmato), metterlo “in linea” con i temi di Expo (non abbiamo ancora capito tramite quale procedura) e quindi avvalersi del logo di Expo 2015, e probabilmente anche di altro.

Dopodiché, la macchina promozionale del megaevento provvede a ghermire il tutto. Dalla fiera del rutto diplofonico alla sagra del pidocchio fritto in olio di calli asportati.


Questo gioco di prestigio ci sta colpendo direttamente. Succede che iniziative – reading, partecipazioni a rassegne ecc. – concordate e fissate da mesi senza alcuna menzione di Expo 2015 né sentore da parte nostra che potesse entrarci, all’improvviso e all’ultimo momento vengono riqualificate come parte del baraccone.


È quello che sta capitando a Vicenza, dove senza che ci venisse chiesto né detto nulla, il nostro nome è apparso in un terrificante comunicato stampa del comune, e il reading «Quattro» di Wu Ming 2 e Frida X è diventato parte di «un ricco cartellone di eventi sui temi dell’Expo 2015».


Vale la pena raccontarla bene, questa storiaccia.


Vicenza per Expo

E’ ormai dall’anno scorso che il Centro di Cultura Fotografica lavora per portare a Vicenza la mostra «Wu Ming + TerraProject = 4» e il reading, ad essa collegato, di WM2 + Frida X. Di sicuro, al momento dei primi contatti, non c’era traccia di Expo 2015 tra i promotori dell’iniziativa. Solo una collaborazione tra il Comune, che finanzia, e un’associazione del territorio.


Poi, con la candidatura di Vicenza a «testimonial per il Veneto del progetto Anci per Expo», ecco che il 21 settembre – già fissato come «domenica ecologica» – è diventato «il culmine di una rassegna pensata in ottica di territorio per sensibilizzare il pubblico sulle aree tematiche dell’Expo».


Traduzione: tutte le inaugurazioni possibili di iniziative, fiere, sagre, cartelloni, spettacoli, eventi sono magicamente confluite sul 21 settembre, «tanto che l’Anci stesso si è complimentato per la ricchezza e la varietà offerta da una città di piccole dimensioni come la nostra».


Questa valanga di lustrini ha travolto anche l’inaugurazione della mostra, che infatti si terrà proprio il 21 settembre.

Come ci ha scritto Pietro Paolini, del collettivo TerraProject:



«In questi anni abbiamo lavorato su tematiche che si legano alle contraddizioni di un evento come Expo: da una parte, la sua voracità e la violenza sul territorio, punta di diamante dell’Italian Style del XXI secolo; dall’altra, la produzione di cibo nel mondo, l’agricoltura industriale, l’ambiente».



Ma questo a Expo non interessa. Expo ha fame - sta hungry! - e deve nutrire sé stessa, altro che il pianeta.


In questo quadro, non ci è di nessun conforto sapere che nel materiale promozionale per il reading del 9 ottobre non è presente alcun logo di Expo, Anci per Expo, Vicenza per Expo ed altre exploitations. Non possiamo sopportare, infatti, che il nostro lavoro venga inserito di soppiatto e con uno stratagemma da quattro soldi, in una vetrina che ci auguriamo di vedere frantumata.


È come scrivere un articolo per la rivista del Circolo dei Fotografi e il giorno dopo trovarselo pubblicato su Libero.


Il mostro Expo


L’octopus arriva ovunque

Non è accaduto solo a Vicenza, purtroppo.


Wu Ming 1 doveva guidare una camminata con racconti sul Monte Musiné, Val di Susa, nell’ambito del festival «Torino Spiritualità», poi si è infortunato sul Triglav e la missione è passata a Mariano Tomatis, che ha lavorato davvero sodo e in due settimane ha costruito un’iniziativa bellissima, anch’essa prevista per il 21 settembre. Ebbene, a un certo punto abbiamo scoperto tra gli sponsor Expo 2015.


Superfluo dire che spirito e contenuti di quella salita al Musinè sono in totale contrasto con valori e ideologia del megaevento. Al momento non ci risulta un comunicato stampa come quello emetico emesso a Vicenza, ma il problema c’è lo stesso. È un problema, nello specifico, di imperialismo culturale.

Come ci ha scritto un attivista del comitato No Tav Spinta dal Bass:



«All’epoca delle olimpiadi invernali, Torino e provincia erano invase dai cinque cerchi, tutto era olimpico: valli olimpiche, autostrada olimpica, notte bianca olimpica… Io ricordo persino una pizzeria dove misero in menù la pizza “olimpiade”. Ma la cosa peggiore erano le giacche a vento dei volontari olimpici, non potevi uscire di casa senza trovare qualcuno che la sfoggiava, erano ovunque! E poi, alla fine di due settimane di ubriacatura, la realtà post-evento: lavori in Valle lasciati a metà, boschi sventrati per piste mai più utilizzate e un debito enorme. E pensare che a noi ce ne avevano dette di tutti i colori perché a Bussoleno e ad Avigliana ci fu qualche problema con la fiaccola… Expo me lo immagino come le olimpiadi al cubo, e lo dimostra la pervasività con cui infiltra qualsiasi iniziativa, da Torino Spiritualità alla sagra di paese!»



Nella mailing list di Alpinismo Molotov, un compagno ha aggiunto alcuni elementi:



«La cosa diventa ancor più pesante nei comuni medio piccoli. Qui alla scarsità di risorse va sommata una generale disinformazione da parte degli amministratori che molto spesso ignorano i contenuti e le modalità messe in campo dall’EXPO. In questo modo “donano” all’EXPO anche eventi che concretamente sono territoriali e che negherebbero tutto ciò che la grande opera di fatto è.  Attraverso questo meccanismo si rischia di fornire ai signori dell’Expo un alibi e un bel vestito da contadino (finto).

Discorso ancor più grave naturalmente, è quanto sta accadendo in Toscana con Expo Rurale. Qui la regione, che già da tempo ha sposato un sistema turistico ed enogastronomico basato sull’autorappresentazione di una realtà che non esiste, si fa veicolo di un’iniziativa che cerca di sdoganare l’Expo a tutti gli effetti. “L’EXPO rurale” è quanto di peggio si possa fare.»



Expo dà lavoro precario e sottopagato
Che fare? Linee-guida e contromisure

1. Se vedete da qualche parte il nome «Wu Ming» associato a qualunque iniziativa «nell’ambito di Expo», sappiate che è un’annessione arbitraria, fatta senza informarci e contro la nostra volontà.


2. In secundis, per favore, contattateci, dateci la notizia.


3. Se ci sono i tempi e le condizioni per disdire l’iniziativa, lo faremo senza attendere un momento.


4. Se i tempi e le condizioni non ci sono, trasformeremo il nostro intervento in un intervento anti-Expo. In parole povere: dirotteremo l’iniziativa.


5. Nel caso di tale dirottamento, se in loco ci sono attiviste e attivisti anti-Expo, riteniamo doveroso coordinarci con loro, coinvolgerli, gestire la cosa insieme.


6. Chi sta pensando di invitarci a rassegne e festival futuri, sappia che l’estraneità alla cornice di Expo 2015 è una condicio sine qua non perché accettiamo l’invito.


7. Per chiunque abbia pareri, consigli da darci, proposte e ulteriori informazioni, i commenti sono aperti.


Grazie dell’attenzione.


ALCUNI LINK


Segnaliamo il libro-gioco Expopolis di Off Topic Lab e Roberto Maggioni, pubblicato da Agenzia X nel 2013 e scaricabile gratis qui.


NoExpo.org


Di che cosa parliamo quando parliamo di Expo 2015


Grandi opere e megaeventi: liberiamocene! 11 e 12 ottobre a Milano


The post Come difenderci dai tentacoli di #Expo2015? Serve il vostro aiuto! appeared first on Giap.

flattr this!



 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on September 18, 2014 04:29

September 15, 2014

La morte di Davide Bifolco e il vittimismo del potere – di Wu Ming 1

Davide, 17 anni, ammazzato da un carabiniere.

Davide, ammazzato da un carabiniere prima di compiere 17 anni.


Il testo più utile e chiaro sull’uccisione di Davide Bifolco da parte di un uomo armato in divisa l’ho letto – e invito a leggerlo – sul sito dello Zero81 Occupato di Napoli. Si intitola Non è un paese per poveri: Davide Bifolco e il razzismo di classe in Italia.


Sul serio, andate a leggerlo, e solo dopo tornate qui.



Lo avete letto? Bene, riprendiamo il discorso.


Il fatto che gli amici di Davide e la popolazione del Rione Traiano non abbiano accettato in silenzio e a capo chino la solita versione del «colpo accidentale» (sono ormai centinaia i «colpi accidentali» da quando fu approvata la Legge Reale), ma abbiano espresso in vari modi la loro rabbia, ha scatenato i vermi brulicanti nel ventre di «quelli che benpensano», come li chiamava Frankie Hi Nrg.


Sono i vermi del razzismo verso chi sta peggio; dell’odio per gli esclusi spinto fino a invocarne l’esecuzione sommaria; del conformismo rancoroso che nutre gli intruppamenti sui social media; dell’inflessibilità verso i poveri che va sempre di pari passo con l’ammirazione per la furbizia dei ricchi, tanto bravi ad aggirare le leggi per farsi i cazzi propri.


«Se l’è andata a cercare», Davide Bifolco. Non si è fermato all’alt. Era in motorino con altri due. Era senza casco. Il motorino era senza assicurazione. Era in giro di notte. Soprattutto, era uno del Rione Traiano e quindi quasi geneticamente pericoloso, camorrista in potenza.


Sulla base di tali pseudomotivi, una parte di opinione pubblica – pungolata dalla marmaglia dei commentatori e opinion maker proni al potere in divisa – trova ovvio che un’auto dei carabinieri speroni un motorino, poi un carabiniere, pur potendo facilmente risalire alla sua identità, si accanisca a inseguire un ragazzo e infine lo ammazzi in mezzo alla strada. Lo trova ovvio e lo giustifica.

O meglio: dice di trovarlo ovvio perché vuole giustificarlo.


Tutto ciò nella completa assenza di qualunque reato. Per chi gira senza casco o assicurazione non è previsto un proiettile in petto, ma una multa o il sequestro del motorino. Eppure, sembra che molta gente abbia letto (parola grossa, lo so) un altro codice della strada:


Ha fatto bene ad ammazzarvelo!


Ammazzateli tutti!

Carabiniere santo subito!


Centoquaranta caratteri, tre menzogne. In media una ogni 46 lettere.

Centoquaranta caratteri, tre menzogne. In media una ogni 46 lettere. Si può ancora fare di meglio.


Sia ben chiaro: anche nel caso di un reato – ad esempio uno scippo – quella del carabiniere sarebbe stata una condotta ingiustificabile.


Anche nel caso con Davide ci fosse stato «un latitante» – circostanza già smentita dal diretto interessato – va ricordato che in Italia non c’è la pena di morte, in teoria. Men che meno irrogata a casaccio e messa in atto da un militare, per strada, senza la seccatura di un processo. In teoria.


Ma no, dicono quelli che benpensano: la vittima non è Davide, la vittima è il carabiniere. Poverino, immaginate lo stress, la rottura di coglioni a dover lavorare in quel quartiere, in mezzo a quella gentaglia. Pure Aldrovandi, in fondo, mica era un santarellino! Applausi ai poliziotti ingiustamente condannati per averlo ucciso! Facile criticare chi mantiene l’ordine! E Cucchi? Un tossico. Gabriele Sandri? Un ultrà. Non se ne può più di questa delinquenza, e tutti ‘sti negri che portano l’ebola, dove andremo a finire, ci vuole il pugno di ferro, solidarietà alle forze dell’ordine ecc. ecc.


A questo punto, di solito, arriva la citazione (a cazzo) di Pasolini. Se questi apologeti della repressione sapessero cos’ha scritto davvero Pasolini sulle forze dell’ordine, direbbero che han fatto bene ad ammazzare anche lui, comunista e pure ricchione.

[Molti, del resto, la pensano già così, e sovente sono gli stessi che lo citano a sproposito per difendere a priori chi manganella e uccide.]


Il 12 settembre scorso ho presentato L’Armata dei Sonnambuli proprio allo Zero81 Occupato, e ho parlato anche di questa vicenda, cercando di inserirla in un contesto ideologico e storico più ampio. Il tema è il vittimismo del potere e di chi ne giustifica o nasconde gli abusi, il «non è mai colpa nostra» come fondamento dell’ideologia dominante italiana, parte essenziale di un dispositivo che plasma le nostre vite tutti i giorni.


Su questa vera e propria macchina mitologica sto scrivendo da tempo un lungo testo, stimolato dalla visione di Magazzino 18 di Simone Cristicchi (lacrimogena apoteosi del «non è mai colpa nostra») e dalla lettura quasi simultanea di tre saggi usciti di recente: Critica della vittima di Daniele Giglioli, Fenomenologia di un martirologio mediatico di Federico Tenca Montini e Il cattivo tedesco e il bravo italiano di Filippo Focardi.

Per finire quel post ci vorrà tempo, ma intanto posso mettere a disposizione l’audio dell’intervento napoletano. È un intervento a braccio, non strutturato in precedenza e dunque con sbavature, ma penso contenga elementi utili. Dura poco più di dodici minuti. Se invece che ascoltare in streaming volete scaricare, cliccate sulla freccia a destra. “Buon” ascolto.


LA MORTE DI DAVIDE BIFOLCO E IL VITTIMISMO DEL POTERE

LA MORTE DI DAVIDE BIFOLCO E IL VITTIMISMO DEL POTERE

Intervento di Wu Ming 1 allo Zero81 Occupato di Napoli

12 settembre 2014 – Durata: 12’23″


L’audio completo dell’incontro si trova qui.

Durata: 1h e 49′.


N.B. A un certo punto ho accennato a prigionieri italiani «nelle carceri indiane» per detenzione di droghe leggere. L’ho detto che parlavo a braccio. In realtà volevo dire «indonesiane», mi riferivo a persone come il torinese Daniele Pierretto, arrestato a Bali nel 2012 perché (secondo l’accusa) in possesso di hashish, e presto dimenticato da quasi tutti. Di lui non ho trovato notizie recenti. Ricordo che in Indonesia per questo genere di reati c’è la pena di morte. La rischiò anche un altro italiano, il maremmano Juri Angione, che se l’è “cavata” con dieci anni di prigione.

Sono più di tremila i nostri connazionali chiusi nelle galere di tutto il mondo, spesso in condizioni terribili e in molti casi per fatti risibili o mai commessi, ma solo ed esclusivamente per i due marò si è assistito a una mobilitazione così affollata di politici, a una campagna tanto satura di bellicose intenzioni, infuocati proclami e momenti platealmente grotteschi. Per l’opinione pubblica mainstream, sono vittime solo Girone e Latorre.

In India, per la precisione in una prigione di Varanasi, ci sono anche Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni, i cui nomi non diranno nulla a buona parte di quelli che si indignano per la «montatura» contro i marò. Di Tomaso ed Elisabetta ha scritto anche il nostro amico Matteo Miavaldi.


DA LEGGERE ANCHE:


Napoli ProjectNun me parlà ‘e strada. Risposta a Cantone e alla Napoli per bene.


ACAD – Associazione Contro gli Abusi in Divisa


N.B. I commenti a questo post saranno aperti qui sotto tra 72 ore, per dare il tempo di leggere con calma e stimolare risposte meditate e, soprattutto, pertinenti.

-

The post La morte di Davide Bifolco e il vittimismo del potere – di Wu Ming 1 appeared first on Giap.

flattr this!



 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on September 15, 2014 23:30

September 14, 2014

#TifiamoScaramouche. StoRie di gueRRa di classe nello spiRito di MaRat

Tifiamo Scaramouche

Scaramouche visto da Alessandro Caligaris. Clicca per ingrandire.


[A cura di Marabou, da un'idea di Mauro Vanetti, con la collaborazione di Loulou L'Aubergine.]
-

Prima venne Tifiamo Asteroide, poi fu il tempo di Tifiamo 4 e ora tocca a Tifiamo Scaramouche: una raccolta di racconti che ha per protagonista proprio Scaramouche e la sua maschera. Dopotutto, le spoilerate post-lettura de L’armata dei sonnambuli non si erano fatte attendere e il flusso magnetico che attraeva centinaia di commenti su Giap preparava le basi per una nuova avventura collettiva.


Ora che l’asteroide ha fatto il suo dovere spazzando via il governo Letta (ma si sa: i replicanti delle larghe intese sono droni duri a morire e si riproducono incessantemente anche nelle voragini aperte dall’impatto) e i fotoracconti sull’acqua di #Tifiamo4 hanno aperto brecce alla frontiera tra terra e mare, non resta che calarsi sul viso la maschera di Scaramouche e viaggiare nel tempo insieme al suo rostro, nel tentativo di aprire nuovi squarci nella storia.


A questo scopo, dopo aver saggiato la sacca e studiato le mappe, sono state definite alcune rotte imprescindibili per portare a termine il viaggio-racconto:


1. Per prima cosa il viaggio sarà suddiviso in lustri dal 1640 al 2014 (1640-1644, 1645-1649, 1650-1654, ecc.).


2. Ogni partecipante dovrà prenotare un lustro nel quale ambienterà il suo racconto. Le prenotazioni si apriranno alle 0:00 del 16 settembre 2014 [Stanotte, N.d.R.]. Per candidarsi bisognerà inviare una mail all’indirizzo tifiamoscaramouche@gmail.com, indicando nome del partecipante e lustro desiderato. I lustri presi sono presi, chi prima arriva se lo piglia e gli altri devono scegliere tra quelli che rimangono. Nella mail i partecipanti dovranno indicare il proprio nome (o pseudonimo) e il contatto che desiderano rendere pubblico per facilitare la comunicazione fra tutti i partecipanti. In questa pagina verrà resa pubblica l’assegnazione di ciascun lustro, il nome dell’autore che se l’è aggiudicato e il suo contatto. I partecipanti sono incoraggiati, ma non obbligati, a comunicare tra loro, in special modo coloro che scelgono lustri adiacenti, in modo tale da creare connessioni tra un racconto e l’altro.


3. Nel racconto Scaramouche dovrà essere coinvolto in qualche evento storico realmente accaduto.


4. Nel racconto dovrà comparire una scritta su un muro.


5. Il racconto non dovrà superare le 20.000 battute spazi inclusi e dovrà seguire le seguenti norme redazionali: carattere Times New Roman, corpo 12, interlinea 1. Il corsivo si utilizza per tutte le parole straniere o dialettali non di uso corrente e per i titoli. Per dialoghi e citazioni si prediligono le virgolette basse o caporali (« ») e per le citazioni all’interno dei dialoghi le virgolette alte (“ ”). Le citazioni lunghe che superano le tre righe saranno riportate in corpo 10, senza virgolette e separate dal testo con una riga di spazio bianco. In presenza di virgolette si segua la seguente interpunzione:



Marie urlò: «Negoddìo!».

Bastien disse: «Negoddìo».

Scaramouche pensò: «Anch’io negoddìo…».



I racconti dovranno essere inviati entro le ore 23.59 del 21 dicembre in formato .doc o .odt all’indirizzo: tifiamoscaramouche@gmail.com


Alle armi etc.



The post #TifiamoScaramouche. StoRie di gueRRa di classe nello spiRito di MaRat appeared first on Giap.

flattr this!



 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on September 14, 2014 23:30

September 12, 2014

Per Stefano Tassinari. La sua voce, un archivio, il crowdfunding

Stefano Tassinari. Foto di Sandra Pareschi.

Stefano (1979?)



«Disperso nella “nube” della rete, nei dischi rigidi o in vecchie cassette e videocassette sparse per le case di chi ha incrociato Stefano, esiste un enorme archivio di interventi estemporanei ad assemblee e cortei, reading con e senza musica, presentazioni di libri (suoi e altrui), interviste e trasmissioni radiofoniche o televisive, monologhi teatrali… La voce di Stefano ha girato per l’Italia, lasciando tracce magnetiche, ottiche, digitali.»



Ormai più di due anni fa, dopo la camera ardente, un gruppo informale di compagn* e amic*, lanciò un appello.



«Chiunque abbia una registrazione della voce di Stefano (o ripresa video di Stefano che usa la voce), per favore ce lo faccia sapere, ci spieghi di cosa si tratta, che storia ha etc. L’intenzione è di raccogliere la maggior quantità possibile di materiali acustici, e renderli ascoltabili/scaricabili da un sito ad hoc dedicato a Stefano, accompagnati da note, testi e interviste in cui vari suoi “fono-collaboratori” (pensiamo a musicisti come Mauro Pagani, Yo Yo Mundi, Roberto Manuzzi, Dandy Bestia, ma anche ad attori e attrici come Marco Baliani, Matteo Belli, Micaela Casalboni e tanti altri) parlino del suo lavoro sulla voce, sul suono, sul rapporto tra voce e corpo, voce e immagini, voce e azione civile. [...] Facciamo risuonare forte la voce di Stefano.»



In questi due anni sono stati raccolti molti materiali, troppi perché la loro catalogazione e la creazione di un sito ad hoc venga lasciata al volontariato degli amici di Stefano. Amici che hanno vite complicate e percorsi che, senza Stefano a fare da collettore, oggi si incrociano molto meno di un tempo. C’è bisogno di qualcuno che lavori al progetto a tempo pieno. E c’è bisogno di soldi per pagare questo lavoro.


Sì, ce lo dicono tutti e ne abbiamo anche fatto esperienza: «Il crowdfunding è una bolla, molto più fumo che arrosto»… «Tutti linkano, ritwittano, spendono belle parole poi nessuno molla un centesimo»… «Sono pochissimi i progetti che riescono a finanziarsi così»…

Però noi ci proviamo lo stesso. La cifra da raccogliere non è alta (poco più di 2000 euro) e la formula adottata consente di tenersi e investire qualunque somma si riesca a raggiungere.



Ma forse, per chi non l’ha udita e non sa di che stiamo parlando, è necessario farla sentire, la voce di Stefano. E forse vale la pena riproporre una conversazione del 2012. Stefano era un vero scienziato del reading/concerto, della musica con parole. Per noi è stato un grande maestro. Molto di quel che abbiamo imparato, lo abbiamo imparato guardando e ascoltando lui.


Stefano Tassinari


LA VOCE, LA MEMORIA DEL CORPO

Conversazione tra Marco Baliani e Wu Ming 1

Tratta dal n. 6 di (Nuova rivista) Letteraria, novembre 2012


WM1. Partirei da qui: tutto quel che Stefano scriveva era finalizzato alla lettura ad alta voce, e più precisamente a una lettura scenica, con l’aggettivo inteso in senso lato, che si trattasse di un evento strutturato (uno spettacolo multimediale, un reading musicato) o più estemporaneo, ad esempio una lettura in piazza al termine di un corteo. La parola di Stefano, anche quando la leggi in solitudine e in silenzio, non è mai soltanto parola scritta, c’è una spinta all’oralità trasmessa dal fraseggio e dal ritmo, dalla “tornitura” delle parole, dalla ricerca delle assonanze. Naturalmente, i suoi testi – che siano romanzi, articoli o poesie – sono qualitativamente alti e compiuti già nella lettura silenziosa e solitaria; leggendoli sulla pagina non si percepisce una mancanza: si coglie un possibile, anzi, una promessa di voce, di ritmo, di suono che viaggi nell’aria e faccia vibrare i timpani, ovvero incontri un corpo. Ecco, c’è sempre un invito all’ascolto e all’incontro.


MB. Senza dubbio. La scrittura, per Stefano, sia quella propria che di altri scrittori, è sempre qualcosa da mettere in azione attraverso la voce, la presenza del qui ed ora di qualcuno che quelle parole le estrae dalla pagina per renderle suono. Nel farlo Stefano è consapevole di togliere alla pagina il suo statuto di immobilità temporale rendendo le parole di colpo effimere, vocali, perdute nell’attimo stesso in cui vengono dette.

Se lo si guarda nei video di alcuni reading da lui stesso agiti, si vede come l’atto della lettura non ha nulla di professorale o di didattico, ma come l’intero corpo del leggente, le mani, il volto, gli occhi cercano un invisibile da rendere manifesto. Come se la scrittura, da sola, non fosse sufficiente a interpretare il mondo. E questo nonostante Stefano credesse moltissimo nell’atto dello scrivere, nella stesura lunga nel tempo, nel lavoro di cesello sulle parole, e credesse anche alla necessaria “aura” che avvolge ogni scrittore, e forse, di più, dovrei dire, ogni scrivente, chè Stefano era consapevole di una specie di sacralità dello scrivere, di chiunque, anche non letterato, lasciasse le sue visioni su una pagina. Un atto sacro proprio perché umile, alla portata di tutti, uno scrivere sempre socialmente utile, necessario. Ma poi tutto il tempo che è racchiuso e sigillato nella pagina, lui lo voleva tirar fuori, voleva far uscire i cavalli dai recinti, a costo di farli sbandare. Tutto il lavorio solitario e concentrazionario dello scrivente doveva acquistare un peso diverso, fatto di leggerezza, doveva aprirsi alla moltitudine, qui e ora, come se per lui il lettore si trasmutasse in ascoltatore. Stefano era un “leggente”, le parole della scrittura non bastava dirle con la voce: dovevano diventare visioni, e pretendeva che anche i suoi lettori imparassero, quasi pedagogicamente, a divenire anch’essi dei buoni “leggenti”. In questo modo intuiva che alcune frasi, alcuni passaggi, alcune sequenze di immagini, sarebbero potute divenire”memorabili” in una forma di acquisizione empatica e immediata che nessuna lettura solitaria potrebbe rendere.


WM1. Trovo molto giusto il riferimento all’intero corpo del leggente. Mi ha sempre colpito e coinvolto, nel vedere Stefano leggere un testo, il suo peculiare uso delle mani. Era una specie di… conduzione d’orchestra, solo che l’orchestra era un singolo. Una conduzione discreta, mai enfatica, non certo alla Von Karajan! In rete si trovano molti video in cui si può vedere Stefano «condursi»: se in quel momento sta reggendo un libro o un foglio, usa solo la mano libera (solitamente la destra) e mima ogni parola una frazione di secondo prima di esclamarla. Non è un mero «riempitivo corporeo», un dover-pure-far-qualcosa con la mano: è parte integrante della lettura, è un modo di incarnare la parola. C’è un video di fine 2011, girato durante una presentazione a Torino, in cui Stefano legge il racconto A passo d’ombra. E’ già molto provato dalla malattia, lo sforzo è evidente, ma la lettura è impeccabile e la mano danza anticipando le parole, «coadiuvando» le immagini che si formano nella testa di chi ascolta. Se ascoltiamo guardando la mano, quando le parole escono di bocca sappiamo già se quella frase è parte di un movimento verso l’alto o verso il basso, di apertura o di chiusura, di avvicinamento o allontanamento, e se esprime un concetto isolato o prosegue un complesso concatenamento di immagini: «Da qui, [mano tenuta aperta, di taglio, orizzontale] sospeso a mezza via [indice verso l'alto, le altre dita rilassate] tra il cielo del mio salto [indice verso il basso] e l’acqua che mi ha accolto, ti vedo mentre invecchi senza pace [dita aperte, vago movimento circolare verso l'esterno] e tutt’intorno, gli sguardi frettolosi di chi non vuol fermarsi ad ascoltare la tua storia calpestata dalle colpe altrui…»



E poi, come giustamente mi facevi notare via email qualche tempo fa, ci sono momenti in cui Stefano non legge ma va a memoria, anche solo per il tempo di una frase: stacca gli occhi dalla pagina e lancia uno sguardo a chi sta ascoltando. E’ un modo di mantenere il contatto, ma è anche parte di quel «condursi» che dicevo, del coadiuvare un’immagine, del sottolineare un dato concetto.

Detta così potrebbe sembrare una cosa normale, quasi banale, ma io ho visto tanti, troppi scrittori «costretti» a leggere in pubblico i propri testi anche se non si sentivano minimamente «tagliati» per quella dimensione, scrittori piegati sul foglio, la voce smorta e lontana, nessun contatto tra loro e chi ascoltava, correre a testa bassa fino alla conclusione in nome dell’anche-questa-è-fatta. Direi che la maggior parte dei miei colleghi affronta la lettura pubblica obtorto collo. Forse è un problema che viene da lontano: ricordo un’intervista radiofonica ad Attilio Bertolucci in cui diceva qualcosa del genere (cito alla buona, non testualmente): «Ai miei tempi, i poeti italiani non leggevano in pubblico i loro versi. Quella consuetudine non ci apparteneva, imparammo a farlo solo più tardi, sulla scia degli anglosassoni. Tra i grandi poeti della prima metà del novecento, solo Ungaretti fa eccezione.» Se pensiamo all’ostilità che ha incontrato presso certa critica il lavoro di Lello Voce, il suo tentativo di far riscoprire alla poesia in italiano una primigenia dimensione orale e «pre-letteraria» (più o meno come si dice di un tumulto che è pre-politico), una dimensione prettamente sonora e comunitaria, ispirandosi anche al rap, alla dub poetry etc., beh, mi sembra che, pur avendo fatto passi avanti, non dovremmo illuderci di essere andati molto lontano.

Ecco, in un campo letterario dove la lettura solinga e silente è ancora ritenuta la modalità di fruizione principale di un testo, mentre il momento scenico e acustico – il momento del reading – è considerato accessorio e dunque prescindibile, poco più di un orpello, sicuramente l’attitudine di Stefano segna una differenza.


MB. In Stefano prevale una memoria del corpo, del suo corpo, come elemento scenico, un imprinting lontano nel tempo ma assai presente nella memoria immaginativa dello Stefano autore e organizzatore e intellettuale. Quando saliva, giovane e capelluto, sul palco a suonare col suo gruppo, l’adrenalina e le emozioni e quello statuto unico e affascinante che è lo stare in presenza degli altri, condividere lo stesso spazio- tempo di quel momento biologicamente interattivo, queste sostanze, una volta provate, non lo hanno più abbandonato, sono rimaste come un DNA silente ma sempre vibrante. E lo hanno condotto a pensare anche la scrittura come un atto performativo, un’azione in diretta che modifica la comunicazione e interagisce coi corpi degli ascoltatori. Credo che da qui derivi il suo interesse, che poi si traduceva sempre in percorsi progettuali concreti, fattivi, coinvolgenti, per una sinergia di linguaggi, per la musica in primo luogo, per la voce, per il montaggio di letture, composizioni, improvvisazioni, per quell’arte dell’intrattenimento intelligente, colto, senza essere snobistico esercizio, in cui potersi “parlare”, essere insieme tra orecchio e bocca, più che attraverso gli occhi.


WM1. Oltre a essere un musicista, musicofilo e «scrittore di musica verbale», Stefano aveva una formazione da psicologo e negli anni Settanta si era laureato con una tesi sul rapporto tra rock e movimento giovanile di protesta. Nel mettere mano al suo magmatico archivio, abbiamo trovato appunti sul funzionamento dell’apparato uditivo, scritti semielaborati sulla musica, dispense di corsi delle «150 ore» su test audiometrici e inquinamento acustico in fabbrica… Il suo interesse per il suono era a tutto campo.

Riguardo a quel che dici sulla sua missione, sulla perenne ricerca di un intrattenimento colto e aperto, penso a come questo si traduce in un preciso uso della voce: la voce di Stefano è bella e corposa, ma non ha nulla di istrionico o “mattatoriale”, non è impostata, non viene troppo “avanti”, non mira a riempire tutto lo spazio. Quello di Stefano non è mai un monologo, la sua è una vocalità democratica e dialogica, che rimane sempre un po’ indietro e lascia spazio all’ascoltatore. Infatti, quando legge con la musica, si sente che si “tiene”, che non vuole prevalere, per lui la musica non è solo accompagnamento o “tappeto” ma ha pari dignità rispetto al testo. Pensa alla traccia «Lettere. Frammento 5», da Lettere dal fronte interno (Moby Dick, 1997): prima di entrare con la voce, Stefano aspetta due minuti spaccati (su meno di sei complessivi), lascia che la musica si esprima pienamente, sviluppi il tema, si impadronisca dello spazio.


Lettere. Frammento 5 dall’album Lettere dal fronte interno

Lettere. Frammento 5

Dall’album Lettere dal fronte interno

(Moby Dick, 1997)


MB. Quando Stefano mi invitava a leggere qualche autore in compagnia di musicisti amici, voleva sempre fare una prova, un assaggio, aveva predisposto con precisione i tagli al testo, le incursioni musicali, gli appuntamenti tra voce e sonorità, e si ritagliava una parte da regista, ma quasi nell’ombra, un po’ discosto, come se si fidasse di tutti noi e dubitasse invece delle sue scalette. Aspettava di vedere cosa sarebbe successo, ed era bello vederlo così partecipe, attento, pronto a tutti i suggerimenti che puntualmente modificavano in qualche punto la struttura da lui predisposta. Quando accadeva un necessario cambiamento, quando addirittura avveniva nel farsi della prova, di colpo si eccitava, sorrideva e subito scarabocchiava gli aggiustamenti, come se, proprio in quelle rotture si annidasse il senso jazzistico, performativo , della comunicazione. Si vedeva che ne era contento, in un modo quasi infantile, per nulla turbato dai tagli o dagli spostamenti. Assisteva in diretta ad una azione creativa, ad una invenzione che poteva nascere solo agendo quei testi, sperimentando quelle sinergie tra artisti.

Penso che questo operare gli confermasse quel grado di aleatorietà, di “forme del possibile”, che appartengono all’action painting, all’happening, alle sperimentazioni furibonde degli anni settanta, quando il Living Theater agiva le sue nudità in mezzo alle strade, quando quelli della Comuna Baires mostravano la violenza da cui erano fuggiti.

Di queste e altre esperienze, come il Terzo Teatro di Eugenio Barba, Stefano si è nutrito e in questa molteplicità di esperimenti linguistici si è formato, aggiungendo all’anarchismo e alla dispersione creativa di quegli anni, un rigore metodologico, un pensiero che ne salvasse forme e esiti, piegandole ad un progetto politico, a una stesura riproducibile.

Lo Stefano progettista di eventi, promotore culturale, saggista, inventore di rassegne, creatore di riviste era tutt’uno con lo Stefano scrittore, con l’artista impegnato della parola. Aveva bisogno di connettere le esperienze, di farsi tramite e congiunzione tra linguaggi diversi, come cercasse strenuamente di non disperdere la tradizione appena ereditata, di dare un ordine alla proliferazione dei linguaggi, creando snodi, appuntamenti, messe a confronto. Ma era sempre nutrito, e lo si vedeva dalla curiosità che si stampava sul suo sorriso, dalla certezza che non tutto si sarebbe svolto secondo partitura, che all’opera c’era sempre il colpo d’ala dell’imprevisto, dell’imprendibilità biologica dei corpi e delle emozioni.


***


Sulla vita di Stefano esiste un lungo, corale documentario girato da Stefano Massari. si chiama Tass. Storia di Stefano Tassinari. Qui sotto, il trailer.



The post Per Stefano Tassinari. La sua voce, un archivio, il crowdfunding appeared first on Giap.

flattr this!



 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on September 12, 2014 23:30

Wu Ming 4's Blog

Wu Ming 4
Wu Ming 4 isn't a Goodreads Author (yet), but they do have a blog, so here are some recent posts imported from their feed.
Follow Wu Ming 4's blog with rss.