Wu Ming 4's Blog, page 103
May 29, 2014
Termodinamica della Fantasia. 14 e 15 giugno a Cupramontana (AN).
Tra una presentazione dell’Armata, un reading e un concerto del Wu Ming Contingent, continua l’avventura del Wu Ming Lab.
Partita a febbraio con tre laboratori in quel di Bologna, la sezione “formativa” della Wu Ming Foundation ha fatto tappa in aprile sulla Francigena Cimina, in provincia di Viterbo, e ora è pronta a sbarcare a Cupramontana (AN) per un week-end di cantarchivistica applicata condotto da Wu Ming 2.
Come sempre, il laboratorio è a numero chiuso, ma i posti non sono ancora esauriti: ci si può iscrivere ai contatti che segnaliamo in fondo al post.
Cosa faremo in questi due giorni, battezzati col nome di Fantarchivio?
Per cominciare, prenderemo le mosse da una vicenda reale e dalla sua traccia d’archivio (giornali, sentenze, fotografie, lettere, testimonianze).
Cercheremo poi di risalire all’origine di quella traccia, chiedendoci chi ha prodotto i documenti, chi li ha archiviati e per quale scopo.
Analizzeremo il materiale di partenza per farci un’idea delle sue caratteristiche: punti di vista rappresentati ed esclusi, narrazioni tossiche, motivi di fascino e di frustrazione, coni d’ombra da illuminare, silenzi da interrogare, interpretazioni possibili e verifiche necessarie.
Quindi lavoreremo sugli spunti narrativi offerti dall’archivio e li svilupperemo, con quella che abbiamo definito Termodinamica della Fantasia, ovvero l’insieme di trasformazioni e invarianti che fa passare una storia dallo stato di “oggetto d’archivio” a quello di “oggetto narrativo”.
Ragioneremo sull’intreccio, sui personaggi, sull’incipit e sul finale del racconto, sui temi e sugli archetipi, nonché sulle questioni etiche che bisogna considerare quando si plasmano storie in carne ed ossa.
La principale differenza tra questo laboratorio e il Cantarchivio bolognese è che in questo caso, avendo a disposizione circa 16 ore invece di 25, non prenderemo in esame le cavie d’archivio proposte dai partecipanti e non ci lanceremo in lavori di gruppo. Esperimenti, prove di scrittura e riflessioni avranno tutti come oggetto il materiale selezionato per l’occasione da Wu Ming 2.
Come tutti i laboratori del Wu Ming Lab, ricordiamo e sottolineiamo che anche il Fantarchivio NON è un corso di scrittura creativa, ma un officina di smontaggio, pulizia, riparazione e assemblaggio di storie, che può tornare utile a chiunque voglia indagare o applicare i meccanismi della narrazione. Gli “oggetti d’archivio” hanno le loro peculiarità, ma è chiaro che gli spunti di una termodinamica della fantasia potrebbero anche essere il giornale di domattina, le fotografie di un viaggio, la biografia di un nonno, la vita di un’associazione, un’esperienza di lavoro. Pertanto, il Fantarchivio è un’occasione formativa che può trovare applicazione in molti ambiti differenti.
Il laboratorio si svolgerà per due giorni, dalla mattina alla sera, il 14 e 15 giugno, presso l’agriturismo La Distesa. Venerdì 13, alle ore 21, sempre in loco, come prologo e introduzione, WM2 presenterà Timira e il lavoro sulle fonti del collettivo Wu Ming.
Per info, iscrizioni e quant’altro, vi rimandiamo al sito di Risorse Cooperativa.
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L’Agriturismo “La Distesa”
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Sabato 31 maggio, alle h. 17.30, presso il Palazzo Farnese di Caprarola (VT), si terrà la prima presentazione pubblica del laboratorio viandante Storie, attraversamenti, paesaggi, condotto a piedi sulla via Francigena da Wu Ming 2. Le foto, i video e i testi dei partecipanti sono stati raccolti, connessi e integrati tra loro in una versione 1.0 che farà da base per l’elaborazione definitiva.
Il testo, in particolare, è stato cucito da Wu Ming 2 ritagliando spunti e frammenti dai resoconti e dalle riflessioni scritti dai camminatori subito dopo il viaggio. A partire da questa stesura, il gruppo realizzerà nelle prossime settimane un testo collettivo, che presenteremo qui su Giap non appena sarà pronto.
Il Monte Soratte da Caprarola. Foto E. Moroni
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Infine, ricordiamo che sono aperte le iscrizioni al Wu Ming Lab Cantarchivio – edizione autunnale, presso il Laboratorio 41 di Bologna. I posti disponibili sono 25 e non c’è selezione: si va soltanto ad esaurimento. Abbiamo deciso di ripetere il laboratorio prima di fine anno perché la prima edizione si era chiusa lasciando fuori più di 20 persone. Ergo: consigliamo a chi è interessato di non arrivare troppo lungo…
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May 26, 2014
Sull’uso politico dei reati di diffamazione e ingiuria
di Luca Casarotti (guest blogger)
Questo articolo prende le mosse da uno spaccato di esperienza personale. Un convergere di circostanze mi ha portato, nell’ultimo anno, a seguire da vicino alcuni procedimenti per diffamazione nei quali sono stati coinvolti a diverso titolo compagni e amici.
È accaduto nel mio lavoro insieme al collettivo Senza Slot, sfociato nella scrittura a più mani del libro Vivere Senza Slot. Storie sul gioco d’azzardo tra ossessione e resistenza; è accaduto seguendo la campagna #Zittimai, connessa alla vicenda giudiziaria occorsa a Mauro Vanetti e terminata con la sua assoluzione.
Per tacere delle molte discussioni in cui qualcuno, rimasto a corto di argomenti o in preda alla rabbia, finisce col minacciare di querelare l’interlocutore o gli interlocutori. È successo anche qui su Giap, due volte.
Pochi mesi fa, nella discussione in calce a un post di Tuco e Andrea Olivieri, ultima parte (per ora) dell’inchiesta sul Movimento Trieste Libera, il libraio Paolo Deganutti, appartenente alla massoneria e molto attivo nell’ambiente del neoindipendentismo triestino (su Facebook si firma «Francesco Giuseppe») ha minacciato di trascinare Wu Ming 1 in tribunale «per insegnargli la buona educazione».
Pochi giorni fa, il post di Salvatore Talia su fascismo e Wikipedia ha incollerito l’utente «Presbite» che, nel forum di dibattito dell’enciclopedia on line (chiamato «Bar») ha minacciato di querele l’autore e il blog che lo ospitava (e ci ospita)… per poi intervenirvi direttamente con una sfilza di commenti iracondi e pieni di insulti (*).
Le banche dati sono piene di vicende simili, ben più gravi di queste. Esaminandole, si traggono due conclusioni.
La prima, e meno preoccupante, è che assai di frequente chi minaccia querele non sa in cosa consistano i reati di ingiuria e diffamazione.
La seconda è che di contro c’è chi si serve consapevolmente dell’istituto della querela, e lo stesso vale per le cause civili di risarcimento danni, come strumento per tacitare il dissenso e ostacolare il lavoro di informazione e documentazione, specie se intrapreso dal basso, a volte riuscendoci e a volte no.
Per cominciare a capire di cosa stiamo parlando, occorre anzitutto partire dalla norma del codice penale che definisce la diffamazione, ovvero quella dell’art 595.
«Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente [cioè fuori dei casi di ingiuria, V. più avanti], comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la multa da euro 258a euro 2.582 o la permanenza domiciliare da sei giorni a trenta giorni o il lavoro di pubblica utilità da dieci giorni a tré mesi.
Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della multa da euro 258 a euro 2.582 o della permanenza domiciliare da sei giorni a trenta giorni o del lavoro di pubblica utilità da dieci giorni a tré mesi.
Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tré anni o della multa non inferiore a euro 516.
Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario o ad una sua rappresentanza o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate».
A noi interessa in particolare il primo comma, in cui viene spiegato qual è il tipo di comportamento che dà luogo alla diffamazione: nei commi successivi sono previste delle ipotesi che il legislatore reputa più gravi, per via delle modalità o per il particolare rilievo attribuito al soggetto diffamato, ma il tipo di condotta rimane lo stesso.
Si tratta quindi di capire cosa si intende per «altrui reputazione». All’università ci insegnano che la reputazione è «la concretizzazione della dignità sociale che appartiene a tutti gli uomini, indipendentemente dal loro stato, dalla loro professione etc». Si esprime così, ad esempio, uno dei manuali più usati nei corsi universitari di diritto penale, quello scritto da Giovanni Fiandaca ed Enzo Musco.
Cosa queste parole vagamente oracolari vogliano dire in concreto, beh, è la prassi dei tribunali a deciderlo. Con le inevitabili differenze di vedute che possono esserci, specie in materie come il diritto di cronaca e di critica, in cui conta molto il convincimento valoriale di chi decide. E se oggi può far sorridere, ma nemmeno tanto, lo zelo pretorile d’inizio anni ’70 che spingeva un «giovane giudice con la toga» ad accusare Fabrizio De André di istigazione a delinquere dopo che nella borsetta di una ragazza vennero ritrovati un po’ d’erba e alcuni testi del cantautore trascritti a penna dall’abietta giovinastra (e cito una vicenda faceta, ché ben più colossali e dolorosi furono gli abbagli giudiziari di quella temperie), è persino tautologico dire che anche nella giurisprudenza odierna ci sono orientamenti più o meno rigorosi.
La Corte di Cassazione afferma ormai da tempo la massima per cui non si configura diffamazione quando sussistono i tre requisiti che caratterizzano il diritto di cronaca, tutelato dall’art. 21 della costituzione, ovvero: la verità (nel senso di scrupolosa verifica delle fonti») del fatto narrato, l’interesse pubblico a che quel fatto sia narrato, e la continenza del linguaggio utilizzato per narrarlo.
Alcune delle sentenze più recenti in cui è ribadito questo orientamento sono raccolte nella Rassegna penale 2013.
In una di esse si legge:
«Il diritto di critica, garantito costituzionalmente attraverso il riconoscimento della libertà di manifestazione del pensiero, incontra il solo limite della verità della notizia, della sua rilevanza sociale e della continenza espressiva», mentre l’eventuale illiceità della fonte può rilevare sotto altri profili ed «il soggetto leso […] non può contestare che la diffamazione sia scriminata dall’esercizio del diritto di cronaca, ove effettuato secondo le modalità ricordate». [sentenza della Corte di Cassazione, V Sezione penale, 19 febbraio 2013 - depositata il 12 aprile 2013, n. 17051.]
Già questa prima considerazione varrebbe a escludere la diffamazione in molti dei casi in cui l’interlocutore, incapace di replicare, finisce con il minacciare querele, come nei thread infuocati di cui si parlava prima. E anche qualora reato ci fosse, è verosimile che la giurisprudenza lo qualifichi come ingiuria (punita meno gravemente) e non come diffamazione. Sempre Fiandaca e Musco scrivono infatti che per esserci diffamazione
«L’offesa alla reputazione deve essere realizzata, “fuori dei casi previsti dall’articolo precedente”, e cioè in assenza dell’offeso […] Secondo la dottrina e la giurisprudenza largamente dominante l’assenza non va intesa in senso rigorosamente fisico-spaziale, ma come impossibilità di percezione fisica dell’offesa». [Diritto penale. Parte speciale, vol. II, tomo I, Zanichelli, Bologna 2013, p. 100]
Quindi se l’offeso partecipa al contesto nel quale gli è rivolta la frase offensiva (e magari controbatte), ammesso che la frase sia realmente offensiva, è probabile si ricada più nell’ingiuria che nella diffamazione.
Ma al proposito, ancora la Cassazione sostiene che non c’è alcuna ingiuria quando si esprime, pure aspramente, disistima per un comportamento o una presa di posizione altrui, dal momento che «non è obbligatorio stimare qualcuno». [Cass. Pen., 17 febbraio 2004, in «Diritto e giustizia», 2004, n. 34,49]
In un’altra sentenza precisa:
«l’esercizio del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto ed ogni altro mezzo di diffusione delle idee, sancito dall’art. 21 Cost., rende pienamente legittime anche forme di disputa polemica … pure … caratterizzate dall’uso di espressioni di dura disapprovazione o riprovazione e dall’asprezza dei toni, purché l’esercizio della critica non trasmodi in attacchi personali … e non sconfini nell’ingiuria, nella contumelia e nella lesione della reputazione dell’avversario». [Cass. Pen., Sez. V, 5 luglio 2013 - dep. 20 settembre 2013, n. 38971]
Invece di discutere di diritto penale, però, in casi del genere è più utile indagare il modo in cui tutti noi stiamo sul web, la ricerca più o meno ossessiva di microfama che rischia di coglierci, i dispositivi che sono all’opera mentre stiamo sui social network: come fa da anni il Collettivo Ippolita, come hanno fatto Loredana Lipperini e Giovanni Arduino nel loro Morti di fama, e come di recente ha fatto anche Giuliano Santoro nel saggio Cervelli sconnessi, che prosegue e amplia i ragionamenti sviluppati nel precedente Un Grillo qualunque.
Nonostante l’infondatezza, la querela o la citazione in giudizio possono comunque essere strumenti di pressione.
Quanto più è grande la sproporzione tra le parti in causa (nei mezzi economici, nel potere mediatico, anche solo nella disponibilità di tempo per poter seguire i processi), tanto più aumenta la pressione.
La vicenda di Senza Slot dice molto su come possono funzionare dinamiche di questo tipo.
Assotrattenimento contro Senza Slot
Nel maggio 2013, il collettivo pavese è stato oggetto di un esposto alla magistratura. A presentarlo era il legale del presidente di Assotrattenimento 2007, associazione che fa parte di Sistema gioco Italia, che a sua volta è componente di Confindustria: in pratica si tratta del sindacato padronale che difende gli interessi degli imprenditori nel settore del gioco d’azzardo liberalizzato. Quattro attivisti da una parte, un’associazione imprenditoriale e il suo collegio di avvocati dall’altra. Con ogni probabilità l’esposto era stato depositato nel tentativo di spostare al chiuso delle aule giudiziarie la battaglia contro la diffusione dell’azzardo nei luoghi della quotidianità, che stava facendo parecchio parlare di sè grazie alla presenza in rete di Senza Slot e al suo lavoro sul territorio insieme a molti altri soggetti. Su Carmilla e su Dinamo Press ho raccontato quei primi mesi di attività.
Convinta, non a torto, della superiorità dei suoi mezzi, Assotrattenimento emetteva comunicati stampa e il suo presidente Massimiliano Pucci rilasciava dichiarazioni pubbliche (dal minuto 07:24) in cui Senza Slot era definita una «cellula», termine quanto mai suggestivo, e i suoi componenti «delinquenti».
Era evidente il frame che queste esternazioni volevano far passare: imprenditori che agiscono nella legalità vs contestatori anticapitalisti che trasgrediscono le leggi e attentano al sistema. Ovvero, l’ennesima variante della sempiterna dicotomia violenza/non-violenza che abbiamo imparato a riconoscere nelle sue incarnazioni.
Ciò che Ass.tro non aveva messo in conto era che attorno al collettivo pavese si attivasse immediatamente una rete di solidarietà, che in seguito a ciò venisse lanciato un appello in grado di raccogliere un gran numero di adesioni nel giro di poche settimane.
E non aveva messo in conto che i quattro Senza Slot mantenessero i nervi saldi e si dedicassero a smontare pezzo per pezzo tanto i presupposti dell’esposto, che si basava sulla decontestualizzazione di alcune frasi contenute in un volantino distribuito dal collettivo durante la manifestazione nazionale contro il gioco d’azzardo liberalizzato del 18 maggio 2013, tanto il frame legalitario-formale su cui poggia tutto il discorso dei sì slot , scrivendone dapprima su senzaslot.it, poi nel libro Vivere Senza Slot, e ora anche in un blog sul fattoquotidiano.it.
D’altronde, reti solidali simili a quella che ha circondato il collettivo pavese non tardano ad attivarsi quando ce n’è bisogno, quando chi ne ha bisogno lotta per una causa che raccoglie appoggio e consensi diffusi. Ce lo insegna da vent’anni la Val di Susa. C’è da credere che la stessa LTF (che quanto a denunce non si risparmia) abbia provato una certa ammirazione vedendo l’esito della recente raccolta fondi promossa per sostenere le spese legali di Alberto Perino, Loredana Bellone e Giorgio Vair: più di 300.000 euro in un mese, importo addirittura superiore a quello che i tre attivisti hanno dovuto risarcire all’azienda.
La copertina del libro «Vivere senza slot». Clicca per ascoltare la presentazione bolognese del 12/04/2014, con gli autori e WM1.
Ma almeno un altro effetto collaterale l’esposto di Ass.Tro contro Senza Slot lo ha avuto: è stato un efficace punto d’attacco dal quale iniziare a raccontare la storia del progetto, nel libro uscito lo scorso novembre. Il timore della diffamazione in realtà ha agito ben più in profondità, influenzando -com’era inevitabile- tutta la fase della scrittura. E se è sicuramente vero che ciò è servito da stimolo per elaborare strategie argomentative e retoriche che consentissero al discorso di rimanere corrosivo senza incappare in denunce, è anche certo che questo «self restraint», quando ti influenza troppo, sfocia nell’autocensura preventiva.
Lo scriveva Girolamo De Michele in un commento di qualche mese fa: ci sono ansie che devi imparare a controllare e che ti possono cogliere impreparato, pure se ci sei abituato:
«L’intimidazione oggettiva di una querela/denuncia. L’impossibilità (se sei scafato) di poter dire in pubblico quello che magari in privato puoi dire, perché la parola sbagliata al momento sbagliato ti frega: e se non sei scafato, l’oggettiva inferiorità di essere un parvenu davanti a dei professionisti della parola che sanno anche come e quando ti potrebbe scappare la parola sbagliata. Il timore di essere punito con una sanzione economica che non potresti permetterti, a fronte della possibilità di dichiararti colpevole e transare per una cifra comunque pesante, ma ancora compatibile con le tue sostanze. E una condizione di vita non sempre compatibile con lo sbattimento che comporta l’iter di una causa legale con tre gradi di giudizio. […]chiunque può querelare chiunque, in teoria, ma non chiunque può vivere sotto querela».
Senza Slot, o meglio Pietro Pace, a nome del quale è registrato il sito, ha a sua volta sporto querela, per le dichiarazioni dei rappresentanti di Assotrattenimento linkate sopra: il procedimento è all’inizio, quindi se ne riparlerà più avanti. Di certo, il collettivo è riuscito a schivare il tentativo di messa all’angolo operato dal sindacato confindustriale: anzi, ha rilanciato la sfida comunicativa e prima ancora culturale, invece di finire ad occuparsi solo delle sue vicende giudiziarie e di conseguenza perdere mordente, com’è avvenuto spesso in casi analoghi.
Corrado Clini contro Gianfranco Bettin e altr*
Eppure, anche in fatto di tutela della parte debole, l’orientamento della Cassazione sembra essere netto. Con riferimento al caso di un giornalista imputato di diffamazione per aver riportato in un’intervista dichiarazioni diffamatorie dell’intervistato, la Corte argomenta in due distinte sentenze, una delle quali a sezioni unite:
«[l’intervista] è da ritenere penalmente lecita, quando il fatto in sé dell’intervista, in relazione alla qualità dei soggetti coinvolti, alla materia in discussione e al più generale contesto in cui le dichiarazioni sono rese, presenti profili di interesse pubblico all’informazione tali da prevalere sulla posizione soggettiva del singolo e da giustificare l’esercizio del diritto di cronaca». [Cass. Pen., Sez. Un., 30 maggio 2001 - dep. 16 ottobre 2001, n. 37140]
«l’esimente del diritto di cronaca può essere riconosciuta all’intervistatore non solo quando vi è l’interesse pubblico a rendere noto il pensiero dell’intervistato in relazione alla sua notorietà, ma anche quando sia il soggetto offeso dall’intervista a godere di ampia notorietà nel contesto ambientale in cui viene diffusa la notizia». [Cass. Pen., Sez. V, 11 aprile 2013 - dep. 2 luglio 2013, n. 28502]
In un’altra decisione leggiamo ancora:
«Quanto più è eminente la posizione o la figura pubblica del soggetto, quanto più socialmente, storicamente o scientificamente rilevante è la materia del contendere, tanto più ampia deve essere la latitudine della critica». [Cass. Pen., n. 38971/2013 cit.]

Rimini, 2012. Corrado Clini al meeting di Comunione e Liberazione.
E «socialmente, storicamente, scientificamente rilevante» è, ad esempio, l’interesse a conoscere se tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 il petrolchimico di Marghera smaltisse rifiuti radioattivi e in particolare uranio. Nel 2005 Corrado Clini, futuro ministro dell’ambiente e allora direttore generale dello stesso ministero (quindi, con le parole della Corte, persona di «eminente posizione e figura pubblica»), aveva citato in giudizio il giornalista Riccardo Bocca, la parlamentare Luana Zanella e il consigliere regionale veneto Gianfranco Bettin, che avevano pubblicato un articolo sull’Espresso l’uno e proposto due interrogazioni – rispettivamente alla Camera e al presidente della giunta regionale- gli altri, in cui chiedevano lumi sulla vicenda, che incrociava tra l’altro le inchieste di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.
Bettin ha ricostruito gli eventi in una lettera aperta che è molto importante leggere. Clini, al quale né l’articolo né le due interrogazioni, pur citandolo, muovevano alcun addebito, chiese danni per un milione di euro. Il processo si è concluso l’anno scorso con il rigetto della domanda risarcitoria dell’ex ministro. è da notare che Clini ha agito in giudizio contro una parlamentare e un consigliere regionale, che non potrebbero essere chiamati a rispondere per le opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni, come prevedono gli artt. 68.1 e 122.4 della Costituzione. Presentare interrogazioni costituisce senza dubbio un atto di esercizio delle funzioni.
[N.d.R. Mentre impaginavamo quest'articolo, l'ex-ministro Clini è stato arrestato per peculato.]
Paniz contro Vajont.info

Maurizio Paniz
Sempre in tema di diritto di critica, se i limiti sono quelli fissati dalla cassazione, parrebbero del tutto sproporzionati provvedimenti come quello con cui il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Belluno, nel febbraio 2012, ha imposto l’oscuramento del sito vajont.info. [Preciso che qui svolgo considerazioni di pura opportunità e che non ho potuto consultare per ovvi motivi gli atti del procedimento]
A chiederlo e ottenerlo erano stati due parlamentari pdl: l’avvocato Maurizio Paniz, resosi celebre per le sue dichiarazioni alla Camera sul caso-Ruby, e l’ancor più famigerato Domenico Scilipoti. Ragione della richiesta era una frase a loro avviso diffamatoria, contenuta in un post che li riguardava. L’ordinanza che disponeva il sequestro, e quindi l’oscuramento integrale del sito, era stata emessa in via cautelare, cioè prima che una sentenza accertasse se il reato fosse stato commesso o meno. Il tribunale ha poi ritenuto diffamatoria la frase incriminata e ha condannato il proprietario del sito, ma il sequestro è stato revocato. Resta il fatto che sulla base di una singola proposizione era stata imposta la rimozione di un intero archivio web sulla strage del 1963, con gli effetti che possiamo tutt’ora verificare ): a nessuno, credo, verrebbe in mente di disporre il sequestro di youtube perché contiene un video diffamatorio. E resta il fatto che due parlamentari hanno agito in giudizio contro una persona che forse ha una qualche notorietà in ambito locale, ma che di certo non gode della loro stessa visibilità mediatica. Visibilità che Paniz non ha mancato di sfruttare, rivolgendo al blogger parole di miele .
Dif€nd€r$i co$ta
Dall’analisi delle norme e delle sentenze che si è provato a fare sin qui, non è emerso ancora un altro ordine di problemi. Anzitutto non è detto che un processo arrivi in Cassazione, perché tre gradi di giudizio costano, e non tutti se la sentono di rischiare ricorsi dall’esito incerto. Ma anche un grado solo costa: se una querela non è tanto infondata da superare l’archiviazione, si dovrà celebrare un processo, e il processo comporta una serie di spese. Anche se l’imputato viene prosciolto, questo non significa che non debba pagare quelle di sua spettanza. Perché il querelante venga condannato a pagare le spese sostenute dall’imputato e a risarcirgli i danni devono ricorrere le condizioni previste dall’art. 427 del codice di procedura penale: richiesta dell’imputato, suo proscioglimento con le formule «il fatto non sussiste» o «l’imputato non lo ha commesso», per i danni occorre anche la colpa grave del querelante. Inoltre, proporre una querela non ha alcun costo, e per redigerla non serve per forza l’assistenza di un avvocato: anzi, può essere proposta anche oralmente.
Dunque è sufficiente un rinvio a giudizio per innescare il meccanismo. Lo dimostra il caso di Mauro Vanetti. Per i dettagli sulla sua vicenda processuale e sul clima pesante che si respira a Pavia rimando al post già linkato sopra e al relativo thread. Dopo un numero di udienze inusuale in un processo per diffamazione, Mauro è stato prosciolto: ciò nonostante, ha dovuto pagare quasi 1300 euro di spese, e la somma avrebbe potuto essere anche più alta. Se i costi sono questi, è evidente che in ben pochi si possono permettere di esporsi alle querele a cuor leggero: sicuramente non lo possono fare gli attivisti, i giornalisti freelance o precari, e in generale tutti coloro che fanno, spesso nemmeno per professione, quotidiano lavoro di documentazione, archiviazione, inchiesta.
Diverso è il discorso in una causa civile, dove chi decide di promuoverla deve pagare in partenza una somma, il contributo unificato, che varia in base al valore della causa. Se uno chiedesse un risarcimento danni da 52000 a 260000 euro, dovrebbe anzitutto sborsarne 660 di contributo unificato, che salirebbero a 1056 per una causa fino a 500000 euro e così via. Se poi la perdesse, dovrebbe effettivamente pagare anche le spese della controparte, come stabilito dall’art. 91 del codice di procedura civile.
E le prove?
Ma il processo a Mauro è interessante – e per certi versi paradigmatico – almeno sotto un altro profilo: quello probatorio. Si trattava di capire se uno screenshot, o addirittura la sua fotocopia (unico materiale prodotto dal querelante), potessero essere elementi sufficienti a provare la penale responsabilità dell’imputato. Della questione si era già occupato il giapster Flavio Pintarelli in un articolo sul blog Deep, che riportava l’opinione del giurista Marco Giacomello, avvocato e studioso di diritti e libertà digitali, secondo cui
«querele basate sulla produzione di meri screenshot di norma sono abbastanza deboli. Per sostanziarle tecnicamente sarebbe utile utilizzare strumenti di analisi e forensics come hashbot. Tuttavia questi strumenti – contrariamente a quanto si crede – non sono in grado di attribuire valore legale alle prove (giudizio che spetta solo al giudice), ma servono esclusivamente a fornire al giudice un aiuto per la certificazione della validità e la valutazione dei materiali prodotti».
Giacomello cita una sentenza della Cassazione in cui il concetto viene ulteriormente ribadito:
«Le informazioni tratte da una rete telematica sono per natura volatili e suscettibili di continua trasformazione, e […] va esclusa la qualità di documento in una copia su supporto cartaceo che non risulti essere stata raccolta con garanzie di rispondenza all’originale e di riferimento ad un ben individuato momento».
Dello stesso avviso è il giudice del processo a Mauro: in assenza di una norma che fissi in maniera univoca un criterio di valutazione dello screenshot o della sua fotocopia, ricorre all’analogia, e scrive nella sentenza, riprendendo alla lettera uno degli argomenti difensivi:
«La situazione processuale è paragonabile a una diffamazione a mezzo stampa in cui non sia stato verificato se la copia dell’articolo di giornale prodotta corrisponda a un giornale effettivamente uscito in edicola in una determinata data o a una diffamazione televisiva in cui non vi sia certezza sul fatto che il contenuto del video […] sia stato realmente oggetto di diffusione attraverso le trasmissioni del palinsesto dell’emittente o ancora, paradossalmente, a un omicidio privo di accertamento in ordine all’avvenuta morte della vittima».
E spetta prima di tutto al pubblico ministero l’onere di provare che sia stato l’imputato a commettere il fatto, non all’imputato dimostrare la propria estraneità: cosa che si dimentica, negli estenuanti dibattiti mediatici sulla giustizia penale, in cui l’imputato di solito è già colpevole per il fatto stesso di essere imputato: se è lì un motivo ci sarà!
Però della sentenza Vanetti colpisce specialmente un inciso:
«Ben altra impostazione – esclusivamente contenutistica – avrebbe avuto il giudizio se l’imputato avesse scelto […] di rivendicare l’avvenuta pubblicazione dei messaggi e farne proprio il contenuto, ma egli ha scelto un’altra, legittima via».
Quasi ci si attendesse che di default un militante politico, quale è Mauro, in prima battuta rivendichi in giudizio il contenuto di una frase, e non chieda, al pari di chiunque altro, di accertare chi ne sia l’autore. Ma anche il querelante di Mauro è un politico, assessore e esponente cittadino del Nuovo centrodestra. E non bisogna dimenticare che insieme a Mauro sono state querelate diverse altre persone, tutte politicamente attive. Che questi processi fossero la piega giudiziaria assunta da una battaglia politica, del resto, nessuno a Pavia si sognava di negarlo.
Dando pubblicità al processo, al contesto ambientale in cui si è collocato e all’assoluzione di Mauro, di cui ha illustrato bene presupposti e motivi in fatto e in diritto, la campagna #Zittimai si è occupata di mostrare quale fosse il contenuto, in senso ampio politico, sotteso a tutta questa vicenda.
Ecco allora che in casi simili, e visto da quest’angolatura, l’uso della querela si rivela per quel che nei fatti può diventare, cioè uno strumento di pressione politica.
Dissenso a Vigevano
All’incrocio tra i temi dell’utilizzo consapevole della rete, del valore probatorio degli screenshot e dell’uso della querela come silenziatore di dissenso sta un’altra vicenda accaduta in provincia di Pavia. Nel giugno dell’anno scorso, il sindaco leghista di Vigevano Andrea Sala dichiarava di aver querelato, ancora una volta per diffamazione, l’ottantina di persone che lo avevano criticato su due gruppi facebook, dopo che la trasmissione tv Le Iene aveva mandato in onda un servizio sulla gestione delle mense scolastiche cittadine: notizia che circolava sui media nazionali anche prima di quel servizio. Sala diceva di aver allegato alla querela «le immagini fotostatiche dei post pubblicati che toccavano la sfera personale e familiare, o che offendevano l’onorabilità della persona»; e il suo avvocato aggiungeva che «le indagini preliminari dovranno stabilire la connessione tra il nome che appare sul computer e la persona che ha scritto quelle frasi offensive».

Il sindaco di Vigevano Andrea Sala (a destra) con Bobo Maroni (a destra pure lui).
Resta valida anche in questo caso la considerazione di Giacomello per cui un’accusa fondata solo sugli screenshot ha più di un punto debole. Ma soprattutto non sembra diffamatorio chiedersi quanto sia intelligente il comportamento di un sindaco che preferisce prendersela con i suoi stessi cittadini e solleva cortine fumogene tutte localistiche, pur di non rispondere nel merito alle questioni politiche che gli vengono poste. Di quell’ottantina di utenti, alcuni si erano lasciati andare a commenti di pancia, altri si erano limitati a un «like»!
Questo naturalmente non legittima iniziative giudiziarie ritorsive e indiscriminate, ma dimostra che stare sui social network senza troppo preoccuparsi dei meccanismi disinibitori a cui essi conduconopuò anche costar caro, oltre a essere poco utile proprio in termini di efficacia della critica. Nemmeno si può dire che la querela di massa avesse quella gran valenza politica, dato il tenore medio dei commenti: più semplicemente, rivela la generale insofferenza al dissenso di chi occupa posizioni di comando, persino in contesti piccoli e piccolissimi: anche quando le critiche sono a bassa intensità, o banalissime espressioni di malessere.
La diffamazione al tempo del governo Renzi

Enrico Costa, viceministro della Giustizia del governo Renzi.
Di riforme al reato di diffamazione si sente parlare spesso. L’ultimo disegno di legge in materia è stato presentato da Enrico Costa, deputato prima in quota pdl, passato nel frattempo al ncd e divenuto viceministro alla giustizia del governo Renzi. La proposta contiene una classica norma-manifesto, l’abolizione del carcere per diffamazione, che se non è un’iniziativa ad hominem, di sicuro è ad paucos homines : la condanna alla reclusione per diffamazione è a dir poco infrequente. Comunque nessuno rischierebbe più la galera nemmeno in astratto, buona notizia! Non fosse che accanto all’abolizione della pena detentiva, il ddl prevede un notevole inasprimento di quella pecuniaria: fino a 22.500 euro per la diffamazione commessa «con qualsiasi mezzo di pubblicità, in via telematica ovvero in atto pubblico», fino a 60.000 per la diffamazione a mezzo stampa, fino a 7.500 per l’ingiuria (queste sono solo le multe, cui si deve aggiungere il risarcimento del danno).
Inoltre, qualora il ddl dovesse diventare legge, la diffamazione a mezzo stampa verrebbe estesa a categorie di pubblicazioni non comprese nella versione vigente della norma, come le testate giornalistiche online registrate. Ad oggi, la legge sulla stampa, la n. 47/1948, prevede (art. 8) che «i soggetti di cui siano state pubblicate immagini od ai quali siano stati attribuiti atti o pensieri o affermazioni da essi ritenuti lesivi della loro dignità o contrari a verità» possono chiedere la rettifica al quotidiano, al periodico o all’agenzia di stampa. Il ddl vorrebbe che la rettifica venisse pubblicata senza titolo, senza commenti ed estenderebbe la disciplina non solo alle testate online, ma anche alla stampa non periodica, vale a dire ai libri: alla prima ristampa, l’editore dovrebbe inserire la precisazione dell’interessato, e se non c’è nessuna ristampa, oppure è tardiva, lo dovrebbe fare sul proprio sito ufficiale.
Da questi pochi rilievi si capisce che dietro all’intento abolizionista con cui la proposta è stata propagandata, si celano due chiari obiettivi di politica legislativa: includere esplicitamente le comunicazioni telematiche nell’ambito della diffamazione (cosa che già avviene, senza bisogno di alcun intervento legislativo) e prevedere sanzioni più elevate proprio per chi si esprime soprattutto su internet.
Invece di affrontare i problemi strutturali e le limitazioni alle libertà fondamentali che da tempo cercano di evidenziare le stesse sentenze della giurisprudenza più attenta, e con essa anche pericolosi antagonisti , una riforma in questi termini avrebbe l’aria di un ennesimo esempio di politica delle emozioni , sull’onda della recente condanna alla reclusione inflitta a un giornalista conosciuto, e dei frequenti strali sugli insulti di anonimi via internet . È vero che la proposta contempla una sanzione da 1000 a 10.000 euro che il giudice può applicare al querelante in caso di infondatezza della querela, ma solo se viene emessa una sentenza di non luogo a procedere perché «il fatto non sussiste», o «l’imputato non lo ha commesso». Quindi, ogni volta che il processo supera l’udienza preliminare, cioè il momento in cui può essere emessa una sentenza di non luogo a procedere, la sanzione non opera, anche se l’inputato viene prosciolto esattamente con le stesse formule. Senza contare che una sanzione simile potrebbe essere un’arma a doppio taglio, e scoraggiare chi non potrebbe permettersi di pagarla dal far valere in giudizio il suo diritto.
Quanto a quei problemi strutturali, poi, filosofi e sociologi seri, non l’orecchiante che è chi scrive, possono dire qualcosa in più: possono spiegare con lessico più appropriato del mio i dispositivi che li hanno determinati e le tattiche per metterli in discussione. Magari, visto che così tanto si discetta di rete, partendo proprio dall’idea di reti di deleuzo-guattariana memoria. Io sono un giurista (per quanto laureato con una tesi di diritto romano… su Deleuze) e mi fermo qui. Nella speranza che questo post possa fare da spunto per mettere in condivisione altre storie, altre esperienze, e per elaborare strategie e pratiche che rendano sempre più difficile alla più o meno potente suscettibilità di turno chiuderci la bocca, tapparci la penna, scollegarci la tastiera… Scegliete l’immagine che volete: il concetto è quello.
Disclaimer: al momento in cui scrivo, ho conseguito la laurea in giurisprudenza da nemmeno sei mesi, e cominciato la pratica forense da poco più di due. Data la mia esperienza professionale meno che minima, ho ritenuto doveroso far vagliare il testo dell’articolo all’avvocato presso il quale svolgo la pratica, Marco Sommariva del foro di Pavia, affinché controllasse che le tesi che sostengo abbiano fondamento e stiano in piedi nella prassi quotidiana dei tribunali. Lo ringrazio per i suggerimenti e per il tempo che mi ha dedicato.
N.d.R. I commenti a questo post saranno attivati 72 ore dopo la pubblicazione, per consentire una lettura ragionata e – nel caso – interventi meditati (ma soprattutto, pertinenti).
§
* Presbite: «l’articolo di Talia è merda secca. Così come è merda secca l’alato commento di Wu Ming 1 qui sopra [...] Fammi capire: il problema adesso qui dentro e’ che wualcuno scrive “cazzo” e “pippare”? E che siamo, alle orsoline? Volete un colloquio fra gentlemen, tipo club inglese? Dopo aver ospitato questo po-po di cesso d’articolo di Talia, che da’ del fascio a destra e a manca a cazzo di cane? [...] Tutto il resto sono le solite, inqualificabili, incommensurabili caz-za-te [...] E questa incommensurabile c-a-z-z-a-t-a sarebbe invece “rendere conto del suo comportamento complessivo” [...] Basta con queste stronzate da giudizio polpottiano, Wu Ming! [...] Tutta questa fuffa che propali qui dentro fa letteralmente vomitare [...] Ma visto che delle manipolaziini di Talia non frega nulla a nessuno, mi vuoi anche togliere il gusto di scrivere che uqeste sono delle vaccate, e che gran partr delle circonvoluzioni da tale articolo derivate sono delle vaccate anch’esse? Visto che qui dentro un tale po-po di alati commentatori non riesce a dimostrare la mia fascitudine per tabulas, posso almeno mandarvi afffanculo? [...]»
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May 22, 2014
Tolkien, la fine degli dèi e L’Armata dei Sonnambuli
Wu Ming 4
1. Il Ragnarök e la Terra di Mezzo
Su L’Indice dei Libri del mese di maggio è uscita una doppia recensione scritta da Fulvio Ferrari, germanista e scandinavista, insieme al quale l’anno scorso ho partecipato a una bella conferenza, all’Università di Trento, sul riuso del mito nordico.
Ferrari recensisce l’ultimo libro di A.S. Byatt, Ragnarök – La fine degli dèi, insieme a Difendere la Terra di Mezzo.
Della Byatt mi ero già occupato qui su Giap, a proposito del suo romanzo Il libro dei bambini. Ragnarök invece non è un vero e proprio romanzo, ma piuttosto un oggetto narrativo non identificato. In parte è una riscrittura dei miti nordici con l’espediente di un personaggio di finzione (ma vagamente autobiografico) che li legge e li interpreta in un momento particolare del XX secolo. Per usare le parole di Ferrari: “una rinarrazione filtrata dalla memoria, ampliata dalla fantasia, integrata dalla cultura personale dell’autrice e rimodellata sulla sua visione del mondo”. Non solo questo, però. Alla fine del racconto, anzi, dei racconti, il libro si conclude con una decina di pagine di “Pensieri sui miti”, in cui l’autrice spiega sulla base di quali suggestioni ha lavorato, su quali fonti, e perfino qual è secondo lei l’allegoria che quei miti possono contenere per il presente. Si crea così una sovrapposizione di allegorie. La “bambina magra”, protagonista-lettrice della narrazione, legge il Ragnarök nordico nel clima da fine del mondo durante la Seconda Guerra Mondiale. E’ una bambina inglese, una di quei “children of the King” mandati in campagna per sfuggire ai bombardamenti sulle città, il cui padre è un aviatore della RAF, partito per la guerra sui cieli d’Africa. A.S. Byatt, che forse è l’alter ego di quella bambina, o la sua versione adulta, suggerisce invece che il mito della fine del mondo, la fine degli déi che periscono nella battaglia contro i mostri del caos, ci racconta la prospettiva dell’autoestinzione che si affaccia nella storia umana contemporanea, grazie all’impatto sempre più insostenibile della specie sul pianeta.
E’ come se l’autrice volesse dimostrarci – e in effetti lo dice in quelle pagine finali – come funziona il mito, qual è la sua forza eterna e il suo carattere di racconto universale: lasciarsi declinare sul presente, in chiave storica o personale. 
Leggendo il libro di A.S. Byatt mi veniva in mente Il Ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm, dove appunto per sostenere la propria interpretazione poetica (di un poema, in quel caso, non di un mito) Tolkien produce sia una nuova narrazione sia l’apparato saggistico-filologico che la compendia.
Questo mi porta alla critica mossa da Ferrari al mio libro, che potrei sintetizzare così: l’intento di liberare Tolkien dalle incrostazioni e dai pregiudizi che gli si sono sedimentati addosso nel corso del tempo non dovrebbe impedirci di sottoporre a una lettura critica i suoi limiti. Dunque il Tolkien “borghese” e “cattolico” va contestualizzato criticamente tanto quanto ogni altro autore. Il mio libro invece tenderebbe a universalizzarlo un po’ troppo. In particolare l’accusa di agnosticismo che rivolgo alla generazione di scrittori di fantasy successiva a quella di Tolkien suonerebbe ingiusta per scrittori impegnati come, ad esempio, Michael Moorcock e China Miéville.
Non a caso, suppongo, vengono citati due autori dichiaratamente di sinistra, impegnati dentro e fuori le pagine di narrativa. I due, pur appartenendo a generazioni diverse, condividono anche il disprezzo per le opere di Tolkien, che reputano reazionarie e in grado di ispirare in negativo la loro stessa produzione letteraria.
E’ il caso di notare che questa è la prima critica seria mossa al mio libro “da sinistra” (alla buon ora, verrebbe da dire) e per di più espressa da un filologo. Vale senz’altro la pena replicare.
2. Epater le bourgeois?
Se la necessità di individuare le ragioni della persistenza dell’opera di Tolkien nell’immaginario contemporaneo ha forse impedito un’analisi più in chiaroscuro, bisogna dire che in effetti tale analisi non era lo scopo che mi ero prefisso. Ciò che intendevo indagare era proprio il motivo per cui l’opera di Tolkien incontra l’ammirazione di lettori delle più varie appartenenze generazionali, ideologiche, culturali, religiose, nonostante sia evidentemente figlia di una visione dell’Uomo e del mondo piuttosto orientata. Proprio l’inserimento in appendice di un saggio di Tom Shippey che polemizza con certa critica letteraria di sinistra, doveva servire, nelle mie intenzioni, a non sottacere gli aspetti citati da Ferrari. In quelle pagine, Shippey ammette e dimostra che i valori positivi nella creazione letteraria di Tolkien sono figli di una visione cattolica e borghese, e tuttavia, aggiunge Shippey, questo non impedisce all’autore di sottoporli a un vaglio critico e di metterli sotto stress attraverso il confronto e l’attrito con altri sistemi valoriali.
China Miéville
C’è dell’altro. La tesi di Shippey ripresa nel mio saggio è che Tolkien scommettesse sulla sopravvivenza di certi princìpi etici – cristiani, ma in parte già “virtuosamente” pagani – in un mondo post-cristiano. Il suo racconto fa anche questo: proietta determinate virtù evangeliche in un mondo ostile e non evangelizzato, creando così un parallelo tra due zone liminari della storia: Alto Medioevo e contemporaneità. In altre parole Tolkien, nelle sue storie, scinde l’etica dalla religione, quindi dalla promessa di redenzione. Non proprio un esercizietto di stile per un cattolico preconciliare come lui, bensì un’affermazione alquanto coraggiosa, che infatti gli attirò non poche critiche da parte degli amici cattolici. Il limite che probabilmente avrei dovuto sottoporre a un vaglio più stringente costituisce anche uno dei punti di forza della sua poetica, e ne sancisce, per così dire, l’universalità. Universalità che ovviamente è da considerarsi tutt’altro che indiscussa, bensì, a sua volta, figlia di un’epoca storica (e di questo ho scritto a lungo).
Ciò che sancisce l’efficacia, la longevità e finanche l’imprescindibiltà di una narrazione, di un mito rideclinato, non è né l’impegno politico-sociale del suo autore (Tolkien non fu affatto un intellettuale engagé), né l’inserimento di determinate tesi ideologiche o allegorie nel racconto stesso, bensì la capacità di raccontare in maniera originale dilemmi epocali, antropologici, culturali, psicologici. In questo senso è ovvio che solo il tempo può essere giudice, e per il momento, piaccia o no, la sentenza è a favore di Tolkien.
Da questo punto di vista un esempio lo offre proprio il libro di A.S. Byatt, con l’allegoria contemporanea da lei proposta per il Ragnarök: il male storico rappresentato dal nazi-fascismo è stato sconfitto, ma il male che la civiltà umana porta con sé ancora oggi è altrettanto se non più pernicioso. Della serie: quanto nazismo continuiamo a portarci dietro/dentro? Non mi viene in mente niente di più tolkieniano, forse perché Il Signore degli Anelli – romanzo che di archetipi mitici ne utilizza un bel po’ – ha un’applicabilità piuttosto calzante con questa riflessione. Poco importa che ciò sia possibile “a prescindere” o proprio “in virtù” dei valori morali di matrice cristiana che ne percorrono le pagine.
3. Magia e filologia creativa
Durante la presentazione de L’Armata dei Sonnambuli al centro sociale NextEmerson di Firenze mi è stata rivolta una domanda che ritengo in qualche modo connessa alla riflessione fatta sopra.
Mi è stato chiesto se e come il mio lavoro su Tolkien è entrato nell’elaborazione dell’ultimo romanzo del collettivo. Riporto qui la mia risposta, provando a elaborarla ulteriormente.
Ritengo infatti che almeno sotto due aspetti tra le pagine de L’Armata dei Sonnambuli si respiri aria tolkieniana.
Severus Snape
Il primo riguarda la “magia”. Già in Manituana la magia era presente. In quel romanzo c’era un personaggio che si trasfigurava in un picchio e perfino un caso di ubiquità. Si trattava però di fenomeni connessi alla cultura dei nativi americani, quindi in qualche modo esotico-ancestrali. Ne L’Armata dei Sonnambuli la magia è portata nel cuore della civiltà europea, in pieno secolo dei Lumi, tanto che qualche lettore ha storto il naso di fronte a quello che è stato definito, non a caso, uno sconfinamento di Wu Ming nel “fantasy” (con l’immancabile accusa di facile commercializzazione, ché si sa, il fantasy mica è narrativa per lettori seri…).
Come è stato discusso nel thread a spoiler libero qui su Giap, è evidente che nel nostro romanzo gli effetti più eclatanti del magnetismo sono soggetti a due possibili letture. Si possono attribuire alla suggestione, alla credenza (“Credete e Volete” è il motto di uno dei magnetizzatori), oppure, se si preferisce, si possono interpretare alla stregua della “forza” degli Jedi di Guerre Stellari. Nell’un caso e nell’altro, ciò che conta è che tale forza, qualunque sia la sua natura, agisce realmente. Era questa la risposta di alcuni sostenitori della teoria del magnetismo animale già alla fine del XVIII secolo, di fronte agli scettici: ciò che conta è che funzioni.
Secondo i magnetisti “democratici” del nostro romanzo, si tratta soltanto di acquisire una tecnica, non c’è bisogno di nessun carisma individuale, non esiste il magnetista, soltanto il magnetismo, che chiunque può praticare.
I magnetisti “elitari” invece ritengono che soltanto una ferrea volontà possa padroneggiare appieno il fluido magnetico, e dunque connettono il magnetismo alla natura del singolo individuo eccellente, che riesce così a imporsi sul prossimo.
Quello che si scopre nel corso del romanzo – e nel corso della storia contemporanea, possiamo dire – è che al lato pratico il confine tra le due interpretazioni è più labile di quanto si pensi, giacché anche il fine terapeutico, o di riscatto sociale collettivo, può celare una forma di controllo e di imposizione paternalistica della volontà sul soggetto debole.
Dunque la magia non è soltanto questione di tecniche acquisite (non si impara a Hogwarts, per intenderci), ma si fonda su un doppio legame tra credenza e volontà. Di mezzo c’è il limite etico che il soggetto forte impone a se stesso oppure no. Personalmente trovo che questo tema, l’esercizio più o meno cauto del proprio carisma e del proprio potere sul prossimo, sia assolutamente tolkieniano (basti pensare alla diversità d’approccio “filosofico” tra Gandalf e Sauron, o alla stessa corruzione di Saruman, tanto per restare in tema di stregoni e negromanti). In altre occasioni ne ho trattato lungamente.
Il secondo aspetto riguarda la relazione tra fonti e fiction. Abbiamo detto che il quinto atto de L’Armata dei Sonnambuli contamina le fonti storiche con la narrativa e addirittura fa entrare noi autori, il nostro lavoro, dentro il testo.
E’ un passaggio ulteriore rispetto a quello praticato in Altai, ad esempio. Alla fine di quel romanzo compariva un memoriale, sorta di autobiografia scritta da uno dei personaggi, che raccontava le avventure di un eretico ribelle nell’Europa del XVI secolo fino al suo approdo alla corte del Sultano. Se si considera il fatto che Q è scritto in io narrante, con la voce di quello stesso personaggio, non ci vuole molto per collegare il manoscritto finzionale al romanzo pubblicato nel nostro piano di realtà.
L’espediente del manoscritto ritrovato non è certo una novità né una rarità, e non basta quindi ricordare che l’intero ciclo tolkieniano dell’Anello si basa su questo per stabilire una connessione. Credo infatti che il legame, o l’influenza indiretta, sia d’altro tipo. Trattare le fonti storiche alla stregua di quelle finzionali è una scelta narrativa che mi ricorda – sia detto ex post – proprio la filologia creativa di Tolkien. Confrontando le Appendici del Signore degli Anelli e il quinto atto de L’Armata dei Sonnambuli si possono riscontrare due elementi in comune: l’idea che i racconti proseguono oltre il finale del romanzo e che quindi il volume che si ha in mano contenga altri potenziali romanzi; e l’idea che quelle storie si inscrivano in un quadro storico più allargato assolutamente coerente. Coerente con le fonti attestate, nel nostro caso; ma nel momento in cui andiamo a riscriverle o, appunto, a contaminarle, ci avviciniamo proprio alla produzione del Tolkien “storico” della Terra di Mezzo, che agisce da filologo creativo, fornendo un’infinità di apparati, notizie biografiche, elementi di contesto, sequel e prequel.
Sospetto che esista un ulteriore piano di affinità, che però pertiene più strettamente alla poetica tolkieniana e wuminghiana, ma non tocca a me inerpicarmi per quella salita. Mi fermo qui, nelle basse brughiere del Riddermark.
4. Credits + postilla
Grazie a Fulvio Ferrari, per la cordialità e per la bella recensione di Difendere la Terra di Mezzo.
A Marco Meacci, per aver formulato la domanda che mi ha dato l’occasione di riflettere sui legami tra il mio saggio e L’Armata dei Sonnambuli.
Ad Antonia Susan Byatt, per avere scritto tutto ciò che ha scritto.
Agli spoileristi e trap-hunters che in questo blog animano la discussione su L’Armata dei Sonnambuli.
A mo’ di postilla vale la pena ricordare che sta per essere pubblicata in Gran Bretagna e Stati Uniti la traduzione in inglese moderno del Beowulf fatta da Tolkien negli anni Trenta. Si tratta della sua traduzione di lavoro, ad uso dell’attività di docente, incompleta, con un lessico ormai obsoleto, e della quale erano già stati pubblicati stralci nel corso degli anni. Un’operazione editoriale che ha lasciato perplesso più di un commentatore e che a me fa nascere spontanea la domanda: a quando la pubblicazione della lista della spesa di Tolkien? Ne parla con dovizia di particolari Roberto Arduini QUI.
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May 20, 2014
Te lo si cAnta noi! Florilegio di commenti su #Bioscop.
Bioscop è in volo da poco più di mese, il RévolutiontouR del Wu Ming Contingent procede di pari passo con L’Armata dei sonnambuli, la band wuminga sarà in concerto il 22 maggio al Blah Blah di Torino e il 24 al festival Fuori chi legge di Luino (VA). Nel frattempo, sono uscite numerose recensioni del disco e la nostra presenza sulla scena musicale diventa il pretesto per gettare uno sguardo obliquo su quel mondo, come facciamo da una quindicina d’anni con quello delle patrie lettere.
In particolare, ci sembrano rilevanti tre considerazioni:
1) Molta enfasi – positiva o negativa – viene riservata al contenuto politico e storico dei testi, quasi che la canzone di protesta italiana sia una tradizione ormai remota e disconosciuta. Si parla di agit-prop e di edutainment, come se un testo schierato e militante fosse una bestia rara, da guardare con ammirazione o sospetto. Su questo, ci piacerebbe capire come la pensate.
2) L’abitudine a recensire senza conoscere è piuttosto diffusa anche da queste parti. Federico Guglielmi (l’omonimo del nostro), inizia il suo articolo su Bioscop per FanPage sostenendo che “Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la letteratura e la cultura alternativa italiane conoscerà di sicuro i Wu Ming”. Beh, troppa grazia. Non siamo certo così imprescindibili. Tuttavia, per scrivere di noi con un minimo di cognizione, basterebbe anche solo farsi un giro su Wikipedia. E invece…
3) La diffusione di cultura in Creative Commons, senza tutele SIAE, suscita ancora reazioni scomposte, come quella del direttore di Musica & Dischi, storica rivista dell’industria discografica italiana, 65 anni su carta e 4 in pdf. Nel numero di maggio 2014 – l’ultimo prima della chiusura definitiva delle pubblicazioni – l’elzeviro di Mario De Luigi “Penna Rossa” se la prende con il nostro concerto al centro sociale Zam di Milano:
«I brani non sono registrati alla SIAE, il che significa che quando li eseguiamo dal vivo, chi ci invita a suonare non deve pagare balzelli”. Non ci è chiaro dove siano andati a finire i 5 euro pagati dagli estimatori del gruppo per l’ingresso alla serata di presentazione milanese dal vivo dell’album, il 24 aprile scorso: ma saremmo curiosi di conoscere se i titolari dell’etichetta condividono la filosofia degli intraprendenti musicisti Wu Ming, nonché i termini del contratto con essi stipulato. Se esiste. In caso contrario, le schiere dei pirati (Wu Minga Cumprà) hanno via libera.»
@Wu_Ming_Foundt ora sappiamo che settant’anni son pochi per capire la diff. tra cachet e proventi siae— bastaunosparo (@bastaunosparo) 2 Maggio 2014
@Wu_Ming_Foundt Non capisco. Intende che con la entrata a una serata ci si può solo pagare la SIAE? Non ci sono altre spese per nessuno?
— Lo Chignon della Col (@LaColChignon) 2 Maggio 2014
Di seguito, un’antologia di estratti da recensioni, interviste e commenti, con il link alle versioni integrali.
- E il video qui sopra, che roba è?
E’ una libera interpretazione del nostro Soldato Manning a cura di Spakkiano.
Buona visione, buona lettura e buon ascolto.
⁂
«Immaginate lo stesso approccio che un romanzo come Altai ha per la narrativa…applicato alla musica.
Un genere definito ed un modo di raccontare che abbiamo già saggiato (quasi tutti i brani sono basati su precedenti eroi ed anti-eroi trattati da Wu Ming Wood, una rubrica che tenevano su GQ) da Ho Chi Minh a Steve Jobs, da Wikileaks agli ufologi radicali.
Un disco che al primo ascolto può sembrare “immaturo” e “quel tipico disco che scriveresti tu quando vuoi essere politico”.
In realtà è Bioscop: un perfetto mix di cultura di genere e ricerca di quel suono caro a quel determinato periodo storico e sociale.
I Wu Ming, questa volta nella figura di 2 e 5, propongono un disco che a suo modo è elegante e diretto, senza sbavature “casuali” bensì di “genere” e ricercate.
Il cortocircuito musicale fa si che questo disco venga associato a forme molto più moderne di esposizione di idee, quando invece probabilmente è figlio di primo letto di quello che le modernità attuali scimmiottano senza caricargli di significato a parte il mero buffonismo: lo scopo dei Wu Ming Contingent è quello del servizio pubblico.
Informare, educare ed intrattenere.
Niente rocambolesche idee di marketing, casomai guerriglia psicologica.
Un disco assolutamente da avere, soprattutto perchè è totalmente in CC e nemmeno un centesimo va alla SIAE.
Applausi a scena aperta per la Woodworm che ancora si conferma una realtà che sa investire oculatamente e su progetti di qualità senza spocchia e senza glamour.»
David Colangeli su Oca Nera Rock
- Wu Ming Contingent, un nome dal netto profilo orientale: come mai questa scelta?
Il “Contingente Senza Nome”, Wu Ming Contingent, deriva il suo nome dal più famoso gruppo di scrittori Wu Ming, ossia “Senza Nome” in cinese. Quelli di Manituana, 54, Altai e dell’ultimissimo L’armata dei sonnambuli, per intenderci.
- Un errore che vi augurate di non commettere per la vostra carriera?
Fare da backing band a Jovanotti.
- Infine alla domanda “Perché ascoltare BIOSCOP?”, i Wu Ming Contingent rispondono..?
Sballa come i tamponi di certi spray nasali, ma non ha effetti collaterali dannosi.
Roy & Grace – Musica su Facebook
Artwork by Enrico Miceli
«Il loro esordio esce proprio nei primi mesi di quest’anno e, per gli appassionati del genere alla Massimo Volume o Offlaga Disco Pax, rappresenta sicuramente una sorpresa del tutto positiva. Ottime basi e testi declamanti che raccontano la società odierna attraverso le storie di 10 personaggi maschili. Troviamo il soldato-eroe di Soldato Manning, il celebre calciatore brasiliano Sòcrates nell’omonima canzone, il rivoluzionario vietnamita Ho Chi Minh in Uno Spettro, per poi concludere con la libera interpretazione di The Revolution Will Not Be Televised di Gil Scott-Heron in La Rivoluzione (Non Sarà Trasmessa Su Youtube).
Una miscela incredibile e innovativa di musica e cultura, un audiobook d’intrattenimento dal sapore punk-rock.»
Viviana Sbriglione su Clap Bands Magazine
«L’approccio è quello “letterario” di Wu Ming con la differenze che, se gli ultimi romanzi del collettivo hanno un po’ deluso ripetendo una formula ormai consolidata, l’album è caratterizzato da una sorprendente freschezza anarchica.»
Divine su Dagheisha
- L’impronta musicale ha il sapore del punk, della new wave. Wu ming 5 (Riccardo Predini) suona la chitarra nei Nabat. La radice musicale e il risultato fanno pensare ad esperienze musicali come i Cccp, i Massimo Volume…
I due attuali chitarristi dei Massimo Volume, Egle Sommacal e Stefano Pilia, hanno cominciato a suonare insieme una decina d’anni fa – Sommacal alla chitarra, Pilia al contrabbasso – in un reading musicale declamato da WM2 e tratto dal suo romanzo solista Guerra agli Umani. Quindi, certo, tutto si tiene… Però – a prescindere dal modo di usare la voce in alcuni brani – non si può dire che WMC e MV si somiglino davvero, così come non si somigliano i MV e gli Offlaga. Ricordo che quando uscì il nostro primo romanzo, Q, molti lo paragonavano a Il nome della rosa, che ha una struttura narrativa completamente diversa. Eppure, siccome in entrambi i libri c’erano gli eretici, tutte le altre differenze diventavano minuzie. Alle mie orecchie, i riferimenti italiani più vicini sono i CCCP di Emilia paranoica, i Diaframma di Gennaio, i Kina di Quanto Vale e naturalmente i Nabat.
- C’è un senso “politico”, in questa direzione la vostra musica ha un legame con un certo folk?
Mi pare un paragone molto azzeccato. Primo, perché per noi, nati e cresciuti nelle metropoli del boom economico, della crisi petrolifera e della Milano da Bere, il vero folk non è quello di prima della guerra. La nostra musica folk è l’hardcore, il punk, l’hip hop.
Secondo, perché il nostro lavoro sui testi si avvicina all’esperienza della canzone politica di protesta, della canzone come racconto in musica di fatti e di vite rilevanti per una comunità, da Sante Caserio alla Ballata di Sacco e Vanzetti, dal Canzoniere delle Lame ai Gang. Una tradizione che, a nostro parere, si sta smarrendo e che va rinnovata.
- Che differenza c’è tra il lavoro del collettivo su un libro e quello in sala prove?
Il lavoro su un capitolo parte sempre da una discussione collettiva, poi si scaletta l’intreccio, quindi uno da solo si occupa della scrittura e gli altri ci intervengono con successive revisioni, stesure alternative, taglia e incolla, cancella e riscrivi.
In sala prove si parla molto meno: uno arriva con un’idea musicale e gli altri cominciano subito a scriverci sopra, a vedere cosa ci sta e cosa non ci sta, se il pezzo prende forma o non la prende. C’è meno pianificazione, si procede a partire da un nocciolo. Però la fase di rifinitura è simile: per i nostri romanzi, la prova del nove è la lettura ad alta voce. Tutto quello che non “suona giusto” deve staccarsi, levigarsi, cambiare posto. Come in una galleria del vento. E lo stesso accade con il testo e la musica di una canzone: si suona, si cambia e si taglia finché il pezzo non mostra la sua logica, il suo filo conduttore.
Bioscop, il folk punk di Wu Ming Contingent su Coolclub
«Questa è la musica che al Wu Ming Contingent piace: qualcosa che fa parte della loro gioventù musicale certo, ma che rimanda POLITICAMENTE al tema portante e alle suggestioni stilistiche e concettuali della rivoluzione, dell’ipnosi, dell’irretimento di massa, della dimensione teatrale e della necessità di cambiare nome come lo zio Ho di Uno Spettro.»
Alfredo Cristallo su Micsugliando – Musica & Idee
«Nati dalle ceneri di una moltitudine di band della scena Hardcore italiana (Nabat in primis di cui faceva parte il chitarrista Riccardo Pedrini a.k.a. Wu Ming 5), gli Wu Ming Contingent prendono il loro nome dall’album Wu Liao Contingent, pubblicato nel 1999 dai quattro principali collettivi di Oi! Punk cinese. Il brodo primordiale fatto di Offlaga Disco Pax e dell’inevitabile connubio CCCP/CSI di cui Bioscop è ghiotto, non presenta raggi di sole melodici in nessuna delle dieci tracce, eccezione fatta per La Notte del Chueco, probabilmente la canzone più potabile del lotto. In realtà Bioscop è costituito da storie, che hanno per protagonisti sbilenchi personaggi storici, narrate dalla ridondante voce dell’ex Frida Frenner Giovanni Cattabriga, che agisce qui con l’alias Wu Ming 2. Se non si è vigili all’ascolto anche per un solo secondo, si potrebbe solo sentire un brusio e le parole scorrere pressappoco così: “BlahBlahBlah…Bono Vox….BlahBlahBlah…Che Guevara…BlahBlahBlah…Apartheid”.»
Giovanni Panebianco su Rockambula Webzine
«Non un comizio intellettuale, ma il tentativo perfettamente riuscito di rendere vivide le vicende di uomini ed eroi non sempre riconosciuti dai canoni ufficiali. Poter ballare al ritmo di questa gioiosa rivoluzione artistica è la sensazione magnifica che ne consegue.
Forte è l’impronta di un punk primordiale e diretto in pezzi come Soldato Manning o in un brano come La notte del Chueco, uno dei più coinvolgenti dell’album: la voce – altrove volutamente priva di variazioni significative – vira verso il cantato accantonando per un lasso di tempo pur breve le modalità espressive che richiamano alla memoria gli Offlaga Disco Pax.
L’unica fame ammessa, alla fine di ripetuti ascolti, è quella che deriva dai maldestri fremiti che Bioscop procura: osservare con occhi spalancati le ambiguità del mondo, festeggiare le derive festose dei suoni netti e rudimentali, attendere impazienti il seguito di un album tanto intenso.»
Roberta D’Orazio su Rockit
⁂
«Urgenza filo-punk e trame di scuola wave si sposano così in un sound compatto ed energico, dove la voce del frontman – dotata di un suo ruvido magnetismo – è costretta a “spingere”. Stilisticamente collocabile a mezza strada fra i vecchi Disciplinatha e gli emergenti Management del Dolore Post-Operatorio, il Wu Ming Contingent non difetta insomma di una sua urticante efficacia, smentendo l’idea – sulla carta, nient’affatto peregrina – del semplice divertissement e/o del passatempo da dopolavoro.»
Federico Guglielmi (l’omonimo) su Fanpage
«Nelle dieci tracce di Bioscop si ritrova il cantato alla maniera degli Offlaga Disco Pax o dei Massimo Volume, l’arte declamatoria scardinata dalla musica di sottofondo cui si unisce l’assoluta irriverenza alla Roberto “Freak” Antoni (fra i dedicatari del lavoro). Per mettersi all’ascolto di Bioscop è necessario che l’orecchio sinistro non sia condizionato da quello destro e ciascuno si concentri su quanto gli pertiene; sulla batteria muscolosa di Cesare Ferìoli e il basso di Yu Guerra (già membri degli X-Ray Men), sul sax di Guglielmo Pagnozzi oppure sullo sciorinare di nomi, date e luoghi la cui precisione è fonte di incanto e meraviglia. Con Bioscop la tradizione oi! del punk italiano riemerge a distanza di anni con maggiore impellenza e una maturità contenutistica maggiorata da anni di attivismo sul campo e non a caso entrambi i Wu Ming hanno all’attivo una militanza in gruppi di rappresenta di quel periodo, Frida Fenner per Wu Ming 2 e Nabat per Wu Ming 5. Il “ruvidismo” è il tratto distintivo di ogni traccia dove il suono poderoso, poco conciliante e totalmente energico riempie senza moine l’ascolto, inchiodando – nolenti o volenti – all’ascolto vigile e attento della storia declamata. E non si tratta di storie impalpabili, di amanti senza nomi e di disagi collettivi. E del resto non ci si poteva aspettare niente di diverso. Protagonisti di Bioscop sono personaggi legati al corso storico e calati in vicende politiche, sportive o militari. Individui dove si cristallizzano in forma microscopica, meccanismi la cui eco ha un risvolto mondiale.»
Giulia Bertuzzi su Indie-Eye
«Al di là delle figure che nel bene o nel male attraversano l’album (una su tutte, la strepitosa vicenda narrata in Peter Norman), l’opera è anche e soprattutto un impietoso ritratto dei tic e delle anomalie dei nostri tempi, dalla lobotomia digitale de La Rivoluzione (non sarà trasmessa su Youtube) – libera reinterpretazione di Revolution Will Not Be Televised di Gil Scott-Heron - agli anti-slogan che riempiono le nostre giornate mentre l’altra metà del mondo piange (Stay Human). Parole forti, spesso taglienti, accompagnate da sonorità alt-rock (Soldato Manning), funk (Italia mistero Kosmiko), punk (La notte del Chueco), post-punk (Cura Robespierre), influenze world (Uno spettro). Ed è proprio questo variegato e puntuale corredo sonoro a diventare il valore aggiunto di un album divertente e ben congegnato, che aggiunge un inedito tassello al panorama musicale italiano.»
Fabio Guastalla su Onda Rock
⁂
«Un bel viaggio che si sviluppa sulle coordinate di un rock teso e vibrante, metà punk (nell’animo), metà wave, citazionista ma in maniera (pro)positiva, memore di ascolti classici e ben storicizzati così come di una urgenza comunicativa che ben si adatta al messaggio dell’album. Menzione particolare per l’opener Soldato Manning e i suoi echi Fluxus, la free-funk-wave di Italia Mistero Kosmiko, il (pop)punk 77 revisited alla maniera dei Television di La Notte Del Chueco e la fourth worldish Uno Spettro. Pollice su, in attesa del secondo volume, dedicato per giusta par condicio alle figure femminili.»
Stefano Pifferi su SentireAscoltare
«Ci stanno i Wu Ming Contingent che snocciolano canzoni come fossero attimi di incorposa e sinuosa crudeltà verso un mondo polverso fatto di strade tra alti palazzi dove il fumo si alza in cielo nascondendo il reale, il vero e tutto ciò che può sembrare tale.
Un gridato che abbraccia la new wave e il post rock and roll toccando Lindo Ferretti quando ancora aveva qualcosa da dire e quando ancora il sudario era un pezzo di straccio pieno zeppo di pioggia dopo una performance da urlo.
Un disco di protesta e congiunzione, di rabbia e ricongiungimento verso un orizzonte che stenta ad arrivare, verso un’alba ancora priva di colore; per fortuna ci sono gruppi come i Wu Ming Contingent ad illuminare la via e a dare un senso a tutto questo.»
IndiePerCui
«Non che noialtri, qui, si abbia alcun problema con le forme di agitprop più invasive e inculcate in gola a partire dal culo. Anzi.
Sorbirsi, però, una dose di pop eutanasico, filtrato attraverso fantomatiche griglie wannabe post-punk a furia di qualche sventagliata di sax, manierismi assortiti e professionalità bicolore, non rafforza la militanza che è in voi. Si adducono parentele e si richiama il passato, mettendo in campo canzoni funzionali alla loro natura catchy e agli slot disponibili tra Feste dell’Unità/csoa, MiAmi e rimpatriate bolognesi.
Funziona proprio bene, suona come si deve ma è tutta noia che ti aspetti, ti aspetti, ti aspetti.»
Bastonate
«La scorsa estate ho letto, con colpevole ritardo, Post-punk di Simon Reynolds, straordinario tomo di 800 pagine (più grosso dell’Ads) sulla scena musicale 1978-1984, che definisce La rivoluzione incompleta.
Testo che affronta sul piano musicale alcuni argomenti teorici urgenti: Cosa è possibile dire dopo che è stato detto tutto? Cosa è possibile fare dopo che il futuro è finito? Baudrillard si chiederebbe cosa c’è dopo l’orgia.
Se il punk rappresentò un ritorno alle forme elementari del rock’n’roll per smascherare i dispositivi spettacolari dell’industria discografica e la decadenza della propria epoca, il post punk doveva affrontare la questione di come muoversi quando la catastrofe era già avvenuta.
In questo senso, rappresentò un’occasione straordinaria per abbandonare ogni appiglio e non darsi limiti e confini di genere.
Il post-punk è appunto un non-genere, uno stratagemma attraverso il quale provare a battere terreni nuovi.
In questo senso Bioscop mi sembra totalmente un disco post-punk, non tanto per i riferimenti a gruppi storici (anche se mi vengono in mente i Wire, i This Heat o i Fall sopra ogni altro), quanto perché è un disco in cui si aprono delle brecce, in cui si tastano terreni inediti, in cui si prova a vedere cosa è possibile fare con una band.
Il risultato è un disco fresco, potente, diretto che non si dà protezioni “colte” con le quali fare un’operazione intellettualoide. Bioscop a me suona innanzitutto come il disco di una band e in secondo luogo come il disco di una band in cui due membri fanno gli scrittori.
Esattamente come quando leggo un vostro libro non penso che è stato scritto da un collettivo in cui ci stanno un cantante e un chitarrista.»
Toto, commento su Giap al post #Bioscop. Parole & Musica di Wu Ming Contingent.
WMC sul palco di Strike, Roma, 7.02.14. Foto by D.DeGregorio
«Checché ne dicano i nostri, siamo molto dalle parti degli Offlaga Disco Pax e di certe tirate di gola dei Diaframma. Nulla di miracoloso, ma è sempre bello sentir cantare di eroi.»
Claudia Bonadonna su Rumore
«Dribblando con sorprendente abilità stereotipi e ripetizioni di formule già sentite e strasentite, il Wu Ming Contingent dà vita a un album dinamico, militante nei contenuti e divertente nella forma.»
Fabio Guastalla su Mucchio Selvaggio
«Storia e attualità proposte attraverso un supporto sonico anziché cartaceo, edutainment in prosa, a voler calcare l’enfasi sui tesi più che sulla musica. Ascolto altamente istruttivo.»
Elio Bussolino su Rockerilla
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ALTRI LINK
Emanuele Bellentani intervista il WMC su Alta Fedeltà n.258.
Il profilo Facebook del Wu Ming Contingent.
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May 16, 2014
L’accusa di «terrorismo»? Caduta. L’aggressione all’autista? Sbugiardata. Oggi è una bella giornata #NoTav!

È stato un grande inizio di giornata.
[Abbiamo chiesto al comitato NoTav Spinta dal Bass un commento sulle buone notizie giunte nelle ultime ore. Eccolo.]
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Ieri sera la Cassazione ha annullato con rinvio l’ordinanza del Riesame di Torino che confermava i pesantissimi capi di imputazione (attentato con finalità terroristiche e di eversione) con cui la procura di Torino accusava quattro NoTav: Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò.
Non è certo la vittoria finale in questa vicenda, i compagni per il momento restano in carcere, ma di sicuro è un bello squarcio nella pesante cappa che Procura, media e politici cercavano di mettere su questa storia. Il 22 maggio si aprirà il processo, ma questa decisione della Cassazione cambia l’atmosfera, come ha detto uno dei difensori questo pronunciamento
«incide positivamente sul processo che è imminente e che ora si svolgerà come un processo “normale” una volta sgomberato il campo da questa accusa pesante».
La pronuncia della Cassazione potrebbe inoltre migliorare le pesantissime condizioni detentive (Alta Sicurezza 2) a cui sono sottoposti i quattro NoTav. Condizione detentiva che si protrae ormai da 5 mesi proprio sulla base dell’accusa formulata dalla Procura.
Da un anno ormai la Procura di Torino si sforza di spingere sul terrorismo e l’eversione per fatti che di terroristico non hanno nulla. L’ex capo della procura Gian Carlo Caselli aveva, esattamente dodici mesi fa, parlato di «atto di guerra» relativamente all’iniziativa per cui sono accusati i quattro. A sostenere le tesi della Procura si sono messi poi molti giornali e una infinità di politici. Illuminante un editoriale de La Stampa (diretta da Mario Calabresi) in cui senza tentennamenti si affermava che «c’è una cosa che bisogna sapere: in Valsusa il terrorismo c’è già». La sentenza della Cassazione, ribaltando le tesi della Procura, getta aria nei polmoni di chi in questi mesi ha dovuto resistere a questo fuoco basato su accuse assurde e teoremi.

La Stampa, editoriale del 12 settembre 2013. Si concludeva così: «Possibile che questo Paese sia eternamente condannato alla caricatura di se stesso? C’è qualcuno che ha la faccia di dire che in Valsusa il terrorismo c’è già e bisogna evitare di passare alla successiva e tragica caricatura: quella dei colpi di pistola?» Ebbene, tale «faccia» l’hanno avuta in parecchi. Oggi dovrebbero proprio guardarsela allo specchio. Ma è sicuro che non lo faranno.
Anche se, a dirla tutta, il movimento ha resistito assai bene. Sabato 10 maggio a Torino hanno sfilato decine di migliaia di persone, contro l’accusa di terrorismo e per la liberazione di Chiara, Claudio, Mattia e Nicco. Un appello firmato un mese fa da artisti, scrittori, giornalisti e docenti universitari, ha permesso di creare un diffuso senso di solidarietà e vicinanza. Il 22 febbraio in decine di città e paesi c’erano state mobilitazioni per la libertà dei no tav. E poi una infinità di iniziative, azioni e prese di posizione. Modi diversi, ma un unico scopo.
Chi esce pesto da questa vicenda è sicuramente l’ex procuratore capo Caselli, che sull’accusa di terrorismo contro i NoTav si era giocato l’ultimo pezzo di carriera. Ha sbagliato i suoi conti. E poi escono pesti i due PM che conducono le accuse contro il movimento: Antonio Rinaudo e Andrea Padalino. Quei due ricorderanno a lungo queste settimane.
Prima una inchiesta del movimento NoTav dove si legge di inquietanti amicizie del PM Rinaudo, cene con persone legate alla ‘ndrangheta, legami con Moggi ai tempi di Calciopoli evidenziati da intercettazioni imbarazzanti, e molto, molto altro. La lettura dell’inchiesta è fortemente consigliata anche perché porta dritta al cantiere di Chiomonte, approdo che dà da riflettere se si pensa che il PM è il principale accusatore della resistenza NoTav.
E poi la vicenda grottesca dell’autista di Rinaudo. Questo tizio, un ex carabiniere, aveva denunciato un mese fa una aggressione ai propri danni, fatta da tre uomini che l’avrebbero apostrofato «servo dei servi». Immediatamente si era alzata una montagna di indignazione e accuse contro i NoTav, automaticamente associati all’episodio. Proprio ieri, in una curiosa coincidenza temporale con la pronuncia della Cassazione, si è concluso che l’autista di Rinaudo si era inventato tutto. Nessuna aggressione, nessun aggressore.
[Nota di Wu Ming: non per dire «Noi l'avevamo detto» ma... l'avevamo detto! Il giorno stesso. In compagnia di tutto il movimento.]
Tweet del giornalista Mario Bocchio del 15 aprile 2014. Un consiglio: quando hai finito di leggere il post, clicca su quest’immagine.
Il problema è che nel frattempo Rinaudo e Padalino si erano lasciati andare a dichiarazioni che rilette ora fanno impressione per il tentativo dei pm di associare l’aggressione con il movimento.
Rinaudo: «Colpiscono chi è indifeso. Se è vero che non hanno mai aggredito le persone? Certo, ma c’è sempre un’ora zero. Un momento in cui accade qualcosa di diverso che cambia il corso della storia».
Padalino: «L’aggressione dell’altra notte è un tipico atteggiamento intimidatorio mafioso. Queste cose le ho dette anche in aula, durante il processo per un’altra aggressione. Lì il teste era imbarazzato, impaurito. L’ho detto che, certe scene di minaccia appartengono ad altri mondi, ad altre parti d’Italia. Ma questa, ormai, è l’atmosfera che si respira. […] Stanno tentando di far vedere che ci sono, che esistono. Il 22 maggio si avvicina e quella è una data chiave».
Il richiamo al 22 maggio, cioè al processo a Chiara, Claudio, Niccolò e Mattia è certamente spericolato, considerando che si basava su una bufala, su una montatura.

La Stampa del 12 aprile 2014. Nessun condizionale, nemmeno il barlume di un dubbio: è accaduto e sono stati i NoTav!
Non è la prima volta che la Cassazione smonta i teoremi della Procura di Torino.
Il 21 novembre 2001 venne annullata la condanna per associazione terroristica con finalità eversive a Silvano Pelissero per vicende legate al Tav e alla Val Susa. Non poterono sentire la pronuncia della Cassazione Sole (Maria Soledad Rosas) e Baleno (Edoardo Massari), due giovani accusati insieme a Silvano e nel frattempo morti durante la detenzione.

Solo ieri, quando ormai non serviva più, sul giornale diretto da Mario Calabresi è apparso un condizionale: «avrebbero». Ne usiamo uno anche noi, un condizionale composto: «A molti sarebbe piaciuto!»
Nessuno ha dimenticato quella storia. E forse anche in questa consapevolezza, nella capacità di contrapporsi alle prepotenze, ai tentativi di annichilire chi si oppone, sta il motivo per cui i NoTav fanno paura. Portare in piazza decine di migliaia di persone contro l’accusa di terrorismo e la forza di resistere tutti insieme alle ingiustizie. Questo fa paura alla controparte. E si impara solo stando nella lotta.
Liber* tutt*.
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May 12, 2014
Torna in libreria «Amianto» di Alberto Prunetti
La nuova edizione di Amianto. Clicca per ordinarla all’editore con il 15% di sconto e senza spese di spedizione. Oppure ordinala alla tua libreria di fiducia, meglio se indipendente.
Le Edizioni Alegre prendono il testimone dai leggendari compagni di Agenzia X e riportano in libreria un titolo davvero importante: Amianto. Una storia operaia di Alberto Prunetti. La nuova edizione ha un capitolo in più e… un’appendice giapster, perché il libro si conclude con la conversazione a tre De Michele – Prunetti – Wu Ming 1 apparsa su questo blog il 3 febbraio 2013.
Per l’occasione, riproponiamo l’audio della presentazione bolognese del libro, svoltasi il 20/03/2013 in un’aula della facoltà di Lettere occupata per la bisogna.
Con l’autore c’erano WM1, Massimo Vaggi (scrittore e avvocato civilista, redattore della rivista «Letteraria», collaboratore della FIOM, esperto di cause per morti da amianto) e Babe del collettivo Bartleby.
La registrazione dura un’ora e quarantadue minuti. L’intervento introduttivo di Babe è un po’ distorto, poi si sente tutto bene. Per scaricare il file, cliccare sulla freccia. Buon ascolto!
Presentazione di Amianto, Bologna, 20 marzo 2013
Presentazione di Amianto, Bologna, 20 marzo 2013.
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May 11, 2014
Decolla l’ORigami Révolution! #Armatadeisonnambuli
Mille papaveRi Rossi (by MaRco). Come nel Romanzo, l’AmmazzaincRedibili omaggia De AndRè… Ma ogni papaveRo è un muschiatino.
ScaRamouche e ARlecchino, mascheRe senza padRone (by Michele).
La Rivoluzione è una fatica d’amoRe (by CRistina)
Il lungo fil Rouge della stoRia (by Michele)
E dopo i diagrRammi in pdf, c’è anche il video tutoRial!
Già che ci siamo, toRniamo a segnalaRe un bel documentaRio d’annata e dannato, CacciatoRi di muschiatini. Racconta come si oRganizzaRono i sanculotti dei foboRghi, dopo TermidoRo, peR difendeRsi dalla Jeunesse DoRée e dai Sonnambuli. CuRiosamente, nei titoli di testa fRanzosi appaRe un titolo sbagliato. Sottotitoli in italiano.
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May 9, 2014
Prefazione alla nuova edizione di «Teppa» di Valerio Marchi – di WM5
[Ci manca sempre di più, Valerio Marchi (1955 - 2006). In questi giorni di rinnovati e pericolosi sproloqui su curve tifoserie daspo Genny 'a Carogna - sproloqui funzionali a distrarre l'attenzione del cetomediume titillandone le pulsioni autoritarie - è addirittura frastornante l'assenza di quella voce, ruvida che più ruvida non si poteva.
Negli anni a cavallo tra ventesimo e ventunesimo secolo, un libraio skinhead e comunista, sociologo col culo nelle strade di Roma, cercò di mappare i nuovi rapporti tra antagonismo sociale, stadio, culture giovanili e resistenza simbolica attraverso i rituali. Quel lavoro è ancora valido, è un'indicazione di metodo, è una bussola etica.
Ebbene, bisogna essere riconoscenti a Cristiano Armati e alla Red Star Press per la riedizione di Teppa. Storie del conflitto giovanile dal Rinascimento ai giorni nostri, ricostruzione ambiziosa eppure agile (160 pagine) dei fenomeni di teppismo che hanno accompagnato la nascita e la crescita del capitalismo e della società borghese.
Teppa torna in libreria con una prefazione di Wu Ming 5. Ve la proponiamo qui di seguito.]
Non occorre che un’opera d’arte, un libro, un film o una musica siano “belli” per incarnare una temperie o per illuminare particolari in ombra nel gioco scenico dei vari presenti che si succedono e che per accumulo formano il passato e quindi la nozione ideologica che ne abbiamo, cioè la Storia. Così accade che un film autoindulgente e innocuo racconti un racconto del paese che significa in modo esemplare tutta l’impotenza apparente che pervade la nostra vita di italiani , qualsiasi cosa voglia dire, del 2014. Già. A dispetto del fastidio che si prova nel vederlo, bisogna ammettere che La Grande Bellezza dice bene molte cose.
Tipo: in una scena il protagonista, Gambardella, l’autore che dopo l’acclamato romanzo d’esordio non ha scritto più nulla, riduce al silenzio, in un salotto romano, un’autrice impegnata, che aveva svolto la sua carriera sotto l’egida del Partito. Un intellettuale organico, insomma. L’attacco di Gambardella è spietato. L’unico merito della donna è l’asservimento, tutto ciò che ha scritto non ha valore. Fa parte di un ceto di fastidiosi grilli parlanti che in realtà sono uguali, nella propensione al compromesso o alla vera e propria prostituzione, ai ceti, alle classi o agli individui sui quali, per mestiere, moraleggiano. Privilegiati, in malafede e rompicoglioni, quindi: in più, incapaci di godersi la vita, proni ai sensi di colpa. Il protagonista del film di Sorrentino sintetizza in modo esemplare quello che molti fabbricanti d’opinione, molti ideologi della borghesia pensano di una parte dell’intellettualità italiana, quella, per l’appunto, che una parte ce l’ha. Lo fa con estrema durezza, con ripugnante machismo, con il livore che si deve a una donna che “non sta al proprio posto”.
Il film ha vinto l’Oscar, capace come è di fornire una visione esotica, decadente e estetizzante, adatta a una fruizione compiaciuta, estatica, come quando si mangia molto formaggio, si beve molto vino e magari si fuma una canna subito dopo. Film adatto a un paese che da decenni tiene la testa dentro il buco del culo, e che anche in questo incarna una paradossale avanguardia mondiale. Il film del resto conferma uno stereotipo classico sull’Italia-Babilonia e non stupisce che il mondo anglosassone ne sia stato così compiaciuto.
È chiaro che quasi tutti quelli che fanno un uso pubblico della ragione, gli intellettuali del mondo reale, vivono vite lontanissime dallo stereotipo che il film di Sorrentino ci spaccia ancora una volta. Un ceto vastissimo che non per forza finisce sulle pagine dei quotidiani nazionali pronta a fornire un’illuminata, filosofica opinione sulla crisi ucraina, sulla crisi dell’Inter, sulle elezioni o su qualche tema etico, magari in compagnia di un prete o di uno sbirro.
Un esempio di uso pubblico, e critico, della ragione è la vita e l’opera di Valerio Marchi. Difficile pensare a un intellettuale più lontano dallo stereotipo disegnato dalle parole di Sorrentino/Gambardella. Chissà cosa avrebbe pensato e detto Valerio di un film simile.
Uno storico del conflitto. Un’intelligenza acuta, capace di muoversi sullo street level, sul piano dove il conflitto si esplica, si annoda, si scioglie e riannoda nel quotidiano, nelle vite di tutti e di tutte. Non è lecito aspettarsi che l’accademia riconosca la portata del suo lavoro, e in fondo non ha nemmeno molta importanza. Niente Oscar di nessun tipo, nessun riconoscimento ufficiale per libri come questo. A pensarci bene, è una fortuna Quello che conta davvero è che le parole di Valerio, le sue idee e la sua visione continuino a circolare, a essere fruite e rideclinate, che contribuiscano alla riflessione e perchè no alla formazione di quelli che di fronte alla pervasività del conflitto non si tirano indietro e sono pronti a giocare una parte dalla parte dei molti, cioè dalla parte giusta. Già, le cose diventano interessanti se Lenin, Gramsci, la scuola di Birmingham e Dick Hebdige escono dai corsi di storia o di sociologia o dalle sedi di minuscoli partitini e ci arrivano davvero, sullo street level, cioè sul piano dove avveniva negli ultimi anni la quasi totalità dell’azione intellettuale e politica di Valerio Marchi, intellettuale di strada. Tutto diventa interessante se libri come Teppa, che Red Star provvede opportunamente a ristampare, diventano piccoli breviari storici per sostenere la capacità di riflettere, analizzare, e quindi resistere e attaccare.
Figlio di un’altra temperie, Teppa ha ancora molto da dire al lettore contemporaneo, anche grazie alla cifra fruibile e apertamente narrativa. Merita nuovi lettori, dovrebbe essere consegnato a una generazione più giovane perché un filo rosso, quello della resistenza e della ribellione, non si perda, perché la bellezza dei corpi in rivolta non scompaia dalle nostre vite, inghiottita dal vaniloquio del potere, dalla voce meccanica dei suoi gadget mortiferi.
Negli anni in cui apparve, gli anni novanta del secolo scorso, si stava producendo un fenomeno interessante. Membri delle sottoculture stilistiche (dei culti, per dirla all’inglese) di cui parla il libro incominciavano a produrre discorso in prima persona. Le sottoculture, quella skinhead in particolare, giungevano hegelianamente all’autocoscienza. Con questo, da una parte, la purezza (preoccupazione in fondo borghese) era perduta, ma dall’altra si aprivano nuove possibilità, che gli anni successivi hanno cominciato ad esplorare. A metà anni novanta era possibile pensare in termini non meramente resistenziali. Appena dopo (il libro è del 1998) sarebbe esploso il movimento altermondialista.
Teppa, storie del conflitto giovanile dal Rinascimento ai giorni nostri, si presenta come una carrellata di stili, una narrazione di corpi che si assoggettano a disciplinamenti alternativi, alle volte in aperto antagonismo rispetto a quelli del potere, e che negli interstizi della legge erigono spazi di vivibilità simbolici e concreti, biotopi nei quali forme di vita alternative proliferano, si diffondono, si contraggono e si espandono, subiscono mutazioni, attraversano filiazioni e riscoperte. In realtà tutti gli stili sottoculturali di cui parla il libro, dai Merveilleux agli Zazous agli Skinhead fino, in maniera già autocosciente, al Punk, incarnano l’equilibrio precario che è la rappresentazione/risoluzione simbolica del conflitto. Che può sfociare, e spesso sfocia, in conflitto aperto, ma fondamentalmente risiede nel rapporto tra sé e identità individuale e sociale. Rapporto che è segnato dall’appartenenza di classe, se è vero come è vero che in una società divisa in classi ogni pensiero ha un’impronta di classe. Stili che conoscono pregnanze effimere, che dicono simbolicamente tutto il loro dicibile nel volgere di una stagione, ma che poi si radicano, diventano opzioni percorribili, significative per molte generazioni, che conoscono evoluzioni e storie che coprono interi decenni. Stili che, come ci si diceva in un’estate romana di molti anni fa, sono ancora capaci di incarnare una problematica, non compiacente bellezza all’interno della metropoli globale. Questo, in tempi di autoassolutorie, sedicenti Grandi Bellezze continua a essere un dato importante.
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May 8, 2014
ORigami Révolution! Piega anche tu la MascheRa di ScaRamouche #ArmatadeiSonnambuli
Ci sentiamo come Gilles Deleuze quando, dopo aver scritto La piega. Leibniz e il barocco, ricevette lettere dai soggetti più svariati, a partire da surfers che si erano riconosciuti nel pur astruso libro, nella visionarietà con cui il filosofo parlava di «pieghe», «pieghe nelle pieghe», «pieghe che si prolungano all’infinito» etc. Per i surfer è tutta una faccenda di prendere la piega giusta, ed è così per chi si diletta di origami. Infatti, a sentire Deleuze, a farsi vivi furono entrambi, i surfer e i piegatori di carta:
«Arrivano i piegatori di carta e dicono: “la piega siamo noi”. Gli altri di cui parlavo mi hanno inviato esattamente lo stesso tipo di lettera, è impressionante, sono i surfisti. A prima vista non c’è nessun rapporto con i piegatori di carta. I surfisti dicono: “siamo completamente d’accordo, perché ci insinuiamo continuamente nelle pieghe della natura. Per noi la natura è un insieme di pieghe mobili. Ci infiliamo nella piega dell’onda, abitiamo la piega dell’onda, è il nostro compito”. Abitare la piega dell’onda. Ne parlano in modo eccezionale…»
I nostri libri hanno sempre avuto diramazioni e prosecuzioni transmediali, le storie che abbiamo raccontato sono proseguite in musica, nel teatro, nelle fan fiction, nei giochi di ruolo, nei giochi di carte, nell’escursionismo a tema… Ma quel che sta succedendo con L’Armata dei Sonnambuli spinge tutto molto oltre: si è iniziato subito con il cosplay e i calchi linguistici “sanculotti” nei social media, coi détournements di pubblicità cinematografiche, con la tipografia vintage, per non parlare dell’intenzionale rimbalzo nell’album Bioscop del Wu Ming Contingent… Poi ci si è spinti più in là.
Pochi giorni fa, a Torino, il «Laboratorio di magnetismo rivoluzionario» curato da Mariano Tomatis ha realizzato l’incontro live di letteratura e illusionismo – quest’ultimo inteso come “progettazione di esperienze magiche”, si veda il libro L’arte di stupire – e, davanti a una platea prima stupefatta e poi commossa (alla fine anche noi avevamo gli occhi umidi), ha portato la transmedialità in una nuova e promettente dimensione.
Ecco, ora tocca all’折り紙. Ieri abbiamo ricevuto una lettera da Marco:
«Quando 2 settimane fa mi è balzata in zucca l’idea di provarci con la vs maschera di Scaramuccia.. per una fortuna che ancora non comprendo… dopo un paio di tentativi andati a vuoto con la base della gru, mi trovo tra le mani l’origami bello e finito, tanto semplice da essere banale, tanto insolito da usare pieghe “curve” e fare ricorso a una mossa spettacolare: l’infossamento orbitale!
L’ho presa forse male, perché mi sono detto che dovevo immediatamente diagrammare il modello (non conosco precedenti di questo modello e non ho attinto a nessun modello di mia conoscenza) e farvelo pervenire al più presto.
In quest’opera mi ha aiutato Gabriella con cui mi incontro spesso a piegare carta e mio fratello Luca, che mi ha aiutato nei diagrammi (fatti di scatti fotografici).
Siccome ci avete regalato gratuitamente tante vs opere, ricambiamo il favore. Questo modello è un omaggio al vs collettivo e alla vs opera. Desideriamo che chi vuole piegarlo possa farlo senza limitazioni. Non vogliamo che i nostri cognomi compaiano sul modello. Se allora volete e ne avete la possibilità saremo contenti che lo pubblicaste sul vs sito. Magari un domani vedremo spuntare le mascherine di Scaramouche…
Alcuni commenti alle foto twittate parlano di maschera diversa ecc… ebbene sappiate che un modello origami non può mai essere preciso all’originale e questo non fa eccezione. Però sono certo sia la maschera di Scaramuche… insomma fidatevi… l’ho voluto io così… nei giorni che dal 25 aprile portano al 1* maggio… dico sul serio.»
E allora, ecco i RivoluzionaRi diagRammi. Piega anche tu la mascheRa di ScaRamouche!
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May 4, 2014
Vox Plebis! Florilegio di commenti su L’#ArmatadeiSonnambuli

«Cura Ludovico» e «Cura Laplace» – by Mariano Tomatis, 2014
Sembra ieri, perché il passaparola è appena al suo inizio, ma dall’uscita del romanzo è già passato quasi un mese. Tre edizioni sono uscite e presto ne arriverà una quarta. La conversazione è più vivace che mai e questo post ne offre, come da titolo, una prima campionatura. Una scelta di pareri apparsi in rete, a cominciare da questo stesso blog, dove è in corso una discussione animatissima riservata a chi ha già finito di leggere, e per questo l’abbiamo chiamata «Spoiler Thread», il filo [di pensieri ad alta voce] che rovina [le sorprese]. Non cliccare se non hai già letto il libro, se clicchi lo stesso son tutti cazzi tuoi! ^__^
Quel che sta accadendo nello «Spoiler Thread» lo ha riassunto bene Maurizio Vito [Spoiler anche qui, clicca a tuo rischio e pericolo].
Noi abbiamo prelevato alcuni stralci, omettendo i passaggi guastafeste. A seguire, estratti da recensioni comparse altrove, con link ai testi integrali. Buona lettura, e ci si vede in giro.
- Ok, ma dove?
Beh, ecco un colpo d’occhio sul nostro maggio.
Il calendario completo fino a luglio (incluso) è qui.
DALLO SPOILER THREAD
Adrianaaaa
«[…] Qualche parola su Marie Noziere. L’adoro. L’adoro perché mi piacciono i fumetti, e lei è una supereroina stracciona e rosa dalla vita proprio come sono i supereroi nei fumetti belli, che cadono in basso che più in basso non si può, e poi riescono a risalire, con la voglia di riscattarsi, perché di mazzate la vita non gliene darà mai abbastanza da abbatterli. E voi avete fatto vivere questa parabola, che nessun Frank Miller si sarebbe sognato di regalare a una donna – ma che anzi avrebbe condito, appunto, del peggiore superomismo, con la sua esclusività, il suo appartenere ai pochi veri eroi, quelli a cui il mondo da le spalle ma che comunque rimangono della loro idea, che sono sempre invariabilmente uomini – proprio a una donna, e per di più del popolo. Una di quelle destinate ad essere ricordate nel gregge, indistinguibili come individui, gregarie per forza, e ricordate solo se grandi sante o ancora più grandi puttane/infami/assassine. Donne del popolo di cui non si conoscono i pensieri, le parole, le idee, perché non scrivevano e, salvo i casi citati sopra, non attiravano le penne altrui.
(Che poi anche quando scrivevano, come Mary Wollstonecraft – il nome c’entra qualcosa? Immagino c’entri di più Marianna -, finiscono dimenticate per secoli e anche quando vengono tirate fuori finiscono solo sugli scaffali delle librerie delle donne)
Un enigma. La sconosciuta su cui non si scervella mai nessuno, che persino (anzi, soprattutto) quando piange un caduto per la patria è solo un cuore di donna tra i tanti, che deve, dopo la perdita, battere solo nel dolore e nel ricordo. Marie no. La vita di Marie va avanti dopo uno stupro, dopo la nascita di un figlio, dopo la morte dell’amato, dopo il fallimento, dopo la separazione da suo figlio, dopo essere diventata disfatta e rugosa ed essere invecchiata troppo presto, senza l’unica cosa che da dignità a una donna che invecchia: la dedizione totale agli altri.
E, cosa più bella di tutte, sceglie di rivoltare contro i propri nemici l’accusa di essere poco più di una bestia, incapace di fare politica per sé, portatrice di istinti animali da governare, buona solo a sgobbare con gli spilloni da maglia. Lei, quegli spilloni da maglia, li trasforma in artigli […]»
Andrea Strippoli
«[…] Wu Ming pone l’Armata dei Sonnambuli come manifesto definitivo della propria ventennale esperienza letteraria e politica. Annulla una volta e per tutte la diversità ontologica con cui gli storici ufficiali diversificano la rivoluzione borghese dai moti plebei, unificando il conflitto in un unico indistinto momento insurrezionale in cui tutte le parti in causa sono coinvolte consapevolmente e mobilitate in maniera attiva per il raggiungimento dei propri interessi. Per le due ragioni fin qui esposte. La rivoluzione, abbiamo detto, non ha fine, è essa stessa il fine. Una rivoluzione che si definisce compiuta altro non è che un nuovo ordine, con nuove gerarchie e nuove discriminazioni. La Storia, non Wu Ming, ce lo insegna. La plebe, abbiamo detto, non colpisce mai a cazzo. La plebe, abbiamo detto, il suo calcio nei coglioni sa sempre a chi assestarlo. […]»
Tommaso De Lorenzis
«[…] L’Atto quinto opera uno scarto tra uso romanzesco della Storia e non-fiction novel indicando una nuova prospettiva d’intervento. Tra la finzione che scorre nelle pieghe del documento e la fonte utilizzata attraverso tecniche narrative, si fa strada un approccio terzo. Varrebbe la pena verificare quali fonti, nell’Atto quinto, sono davvero documentarie, quali finzionali – benché confezionate nella forma del documento – e quali hanno subito, come nel caso di [Omissis], un “trattamento” immaginativo. L’esperimento richiama – tra le mille altre cose – quello di un mockumentary storiografico, per così dire. Cioè il gestire la finzione attraverso un ricalco dello stile delle fonti. Nella narrativa (anche non romanzesca) italiana contemporanea questo tipo d’intervento non ha ancora acquisito una centralità paragonabile a quella che si è faticosamente guadagnato il non-fiction novel.»
Paul Olden
«[…] L’impressione è che questo sia un gran bel libro, semplicemente. Dico solo “gran bel libro”, focalizzandomi sulla semplicità di questa affermazione: è un romanzo profondo e leggero allo stesso tempo, un libro che ha i numeri per essere oggetto di grandi dibattiti e riflessioni culturali, ma anche tutte le caratteristiche per essere un grande successo di vendite, addirittura raggiungendo “grande pubblico”, persino – in qualche modo – quello dei non-lettori! In questo vedo la differenza sostanziale con le precedenti opere dei Wu-Ming: qui, come sempre, c’è la sostanza, ma c’è anche il divertisment, lo spettacolo-kolossal di qualità, un po’ – insomma – una cosa come forse potrebbe essere Matrix per il cinema di fantascienza, fatta di qualità e divertimento, esagerazione e riflessione, piani di lettura profondi ma non obbligatori… un prodotto che sembra adattarsi al lettore che lo tiene in mano, lasciandosi leggere (e rileggere) in più e più modalità, tutte lecite. La qualità si potrebbe dire “magnetica” del libro è: “persone diverse leggono ciascuna un’Armata dei Sonnambuli diversa”. […] Il quinto atto io l’ho sentito come se il romanzo me l’avesse contato un cantastorie, o un nonno davanti al fuoco, oppure un vecchio incontrato per caso in una taverna di Montmatre… e io gli chiedo se è tutto vero, se questa gente è davvero esistita, se i personaggi sono storici… e lui dice di sì, e me racconta il perché e percome. Insomma, non mi fa un elenco delle fonti: me le racconta.»
Saint-Just
»Direi che la scommessa è questa…se si è riusciti a raccontare in modo così efficace e persino mirabile il rapporto giacobini, arrabbiati, hebertisti… ed incredibilmente anche a vincerci sopra uno scommessa commerciale vuol dire che di atti Sesti se ne possono ancora scrivere tanti… La terrificante macchina giacobina continua a lavorare anche in fase di Termidoro.»

Orfeo Signora Bianca scende all’Averno – by Mariano Tomatis, 2014
FRAMMENTI DI LETTURE MAGNETICHE
«E leggendo queste pagine sulla Rivoluzione par exellence non possiamo fare a meno di pensare ai nostri tempi di crisi, alla criminalizzazione dei movimenti, all’austerity, alla repressione violenta (cronaca di questi giorni) delle occupazioni abitative.
Ma pensiamo anche, senza lagnanze, a quelli che Wu Ming 1 definisce i divenire rivoluzionari; magari non si tratta dell’alba del Sol dell’avvenire, ma di una grande quantità di lotte che in questi anni, nel mondo come in Italia, testimoniano di una tensione rivoluzionaria che non si spegne e che è bene continuare a inseguire, nei libri e nelle strade.»
Da: Radio Sherwood / Global Project, introducendo la videointervista a WM1, Sa.L.E. Docks di Venezia, 16 aprile 2014
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«L’Armata dei Sonnambuli è un romanzo eccezionale: è una miniera di invenzioni stilistiche geniali (la prossima volta che andrò a Parigi mi aspetterò che al mercato si parli il ferrarese), con una cura straordinaria delle immagini (la galleria di nasi nell’incipit, il naso a rostro di Scaramouche contro il naso mozzato che contrassegna i cattivi, per contrappasso), una ricerca e una successiva operazione di cucito delle fonti originali, entrambe da prendere come esempio [...] E pure se in fondo racconta la storia di una controrivoluzione, di un’occasione persa, di una colossale sconfitta, il messaggio è inequivocabilmente ottimista: è valsa la pena di fare la rivoluzione, anche se poi ce l’hanno sbattuta nei denti, anche se “troverai sempre qualcuno che dice di no, si tratti del senno di poscia (troppo facile) o del senno dei servi (più facile ancora). Fosse per quelli così, non si farebbe mai una sega. Noi abbiamo provato a costruire la torre, ricordi? La torre che permettesse di sguardare il mondo, e i tiranni del mondo cadere dabbasso.”
Per quanto oggi, ovunque ci si giri, sembra di riconoscere il senno di poscia e il senno dei servi (più facile ancora), dobbiamo ricordarci che le cose cambiano in fretta, e cambiano sempre.»
Da: Avvocato Laser, Viva Scaramouche
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«L’armata dei sonnambuli è un libro che va letto e basta – e poi eviscerato, mandato in infinitudine, a contagiare come mesmerismo tutto e tutte e tutti, in un rovesciamento della “cattiva infinità” di cui fu padre teorico Hegel, uno di quelli che mi sembrano essere espliciti nemici di questa narrazione, il filosofo che vede Napoleone dalla finestra di casa e inventa su quella figurina a cavallo la categoria dell’”uomo cosmico-storico”, ulteriore restaurazione che lotta contro l’eroe, cioè il personaggio principale e ambiguo di cui il racconto della storia non può fare a meno di narrare. Vabbè, sono appunti impressionistici, ma davvero è difficile dire qui perché Marie Noziére si chiama davvero così e cosa c’entrano gli Area e perché D’Amblanc si chiami Orphée e quale inferno scenda a violare per riportare cosa in superficie e fallendo in che modo. Leggete questo romanzo e unitevi al coro di tutti noi, adepti di Scaramouche e del fluido magnetico che, esattamente come accade per il veleno, che in greco fa “phàrmakon”, può essere mortale o salvifico: dipende dalle prospettive e dai modi d’uso e dall’impiego quantitativo di quella qualità.»
Da: Giuseppe Genna, Leggere L’Armata dei Sonnambuli

Kill Black – by Mariano Tomatis, 2014
«La forza di questo libro è quindi completata dal magnifico Atto Quinto: “Come va a finire”. Se già prima in ogni passaggio il lettore può trovarci tante metafore di altri passaggi storici (dalla rivoluzione russa allo stalinismo? la fine della seconda guerra mondiale? il post-anni ‘70 in Italia?), dopo aver letto l’ultimo capitolo del volume ci si può davvero sbizzarrire per partire in una sorta di viaggio nel tempo.
Per quanto riguarda l’intreccio, l’ho trovato appassionante fino alla fine, con un “cedimento” alla letteratura di genere forse più marcato che in altri libri del collettivo [...] Personalmente, anche da ex giocatore di ruolo, ne sono rimasto entusiasta e mi sono immaginato possibili varianti e bivi ad ogni passo.
Il libro è intrigante poi per i rimandi “nascosti” ad altri testi, a cominciare da “Manituana“, il volume del collettivo Wu Ming ambientato in America. Le citazioni di brani utilizzati per dialoghi dei personaggi, gli articoli di giornali d’epoca sono tutti stimoli alla curiosità, non del tutto appagata dall’atto quinto del libro.
L’Armata dei Sonnambuli infine parla di Rivoluzione: chi la fa, chi la mantiene, chi la combatte. Ne parla in modo romanzato e complesso, e andando a rimestare nella rivoluzione che ha dato il via alla storia contemporanea, epoca in cui ci troviamo ancora a vivere oggi.
Da: Lorenzo Cassata, 108 – L’Armata dei Sonnambuli
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«Per questo i mesmerizzatori e ipnotisti del libro non curano, ma asservono l’altro. Per questo l’ipnosi e la cura tanto in voga in quegli anni che poi si è evoluta in ipnosi attraverso la propaganda e la psichiatrizzazione, non creano un legame se non di dipendenza. Infondo questo è un libro anche per tutti gli addetti alla psiche, che non devono mai scordare che solo il legame vero e il contatto con il dolore cura, non la volontà onnipotente di farlo. Non a caso Jung parlò di contro transfert e di ferita feritoia dell’analista che solo se si incontra allo stesso livello di quella del paziente, solo in uno stato di uguaglianza, può curare.
Un gran romanzo, ognuno di voi ci leggerà mille sfaccettature, ne ho accennate alcune e vi invito alla lettura che sarà divorante perché tutto scorre, fascinoso come Parigi durante la rivoluzione.»
Da: Barbara Collevecchio, L’Armata dei Sonnambuli, il capolavoro dei Wu Ming

L’uomo chiamato Laplace – by Mariano Tomatis, 2014
«Il ribaltamento di prospettive è fantastico. Restituisce il punto di vista proletario degli eventi centrali della rivoluzione. Non solo, il tessuto sociale viene reso in tutta la sua complessità, in tutte le sue contraddizioni. Come in tutta la produzione wuminghiana, la rivoluzione è un evento liberatorio, salvifico, ma gli autori non fingono mai di non vedere gli effetti nefasti del dividere il mondo tra buoni e cattivi. Cosa resta di una rivoluzione fatta solo di ghigliottina e di teste mozzate, se il pane dell’uguaglianza è una colla che si attacca ai muri, e il popolo non ha di che mangiare?
Ma si può fare una rivoluzione senza ghigliottina? Si può ottenere una società ideale, in cui tutti possano avere le giuste cure, il giusto trattamento, solo per mezzo del mesmerismo, a patto che si voglia il bene del paziente?
In più le lotte delle donne, per il pane, per i diritti, o per il pane e i diritti.
Sembra un po’ una mistura di Q, per il fervore rivoluzionario, il fallimento del sogno rivoluzionario, e ciò che resta oltre questo fallimento, e di 54, per la complessità dell’intreccio e le storie di diversi personaggi che partono da lontano per poi confluire magistralmente. E se possibile, con ancora maggior sapienza: il controllo sulla narrazione è totale, la portata dei temi vastissima…»
Giulio Fatti, dal gruppo “Wu Ming” su Anobii
«Il paradigmatico precipitare degli eventi, delle speranze e delle conquiste eccita e deprime gli animi di chi ancora oggi vuole azzardarsi a credere nella disposizione dell’uomo a tendere al progresso, a costruirsi futuri migliori. La forza dell’Armata dei sonnambuli, composto da una pluralità di lingue e di voci dal timbro pressoché impeccabile, lingue che spesso si spingono al limite con risultati davvero eloquenti e godibili, sta proprio nella sua capacità di raccontare fatti avvincenti e, dietro o sotto di loro, sommovimenti ideali e culturali. È il marchio di fabbrica dei Wu Ming, d’altronde, ma stavolta la posta era altissima, perché grossomodo veniamo tutti da lì, dalla Parigi di quegli anni, da quelle vittorie e soprattutto da quelle sconfitte, e allora ancor più alto è il loro merito di essere riusciti in quest’ambizioso proposito.»
Giovanni Dozzini, Wu Ming, la rivoluzione francese come non l’ha mai raccontata nessuno
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«Di libro in libro, i Wu Ming hanno messo a punto una formula magica che è facile imitare e difficilissimo eguagliare. Lavorano con cura meticolosa sulla realtà storica, ma riescono a farla parlare con altrettanta precisione del presente: questa vicenda di rivoluzione e controriv0luzione, cosa ben diversa dalla mera restaurazione, è una parabola che abbiamo vissuto anche noi, nell’Italia degli ultimi decenni. Procedono lungo i binari di una narrativa epico-popolare, che guarda a Dumas più che a Ken Follett, ma allo stesso tempo lavorano sul linguaggio con passione sperimentale degna della più sofisticata avanguardia. Di romanzo in romanzo, i Wu Ming perseguono un progetto che è tanto letterario quanto politico, spostare i riflettori sui dimenticati della storia, le insorgenze cancellate e oscurate dai vincitori perché se ne perdesse anche la memoria: i contadini d’Europa infiammati e poi traditi dalla Riforma in Q, i partigiani disarmati e non domati del dopoguerra italiano in Asce di guerra, le tribù guerriere e destinate allo sterminio nell’America di Manituana, le rivoluzionarie e i sanculotti di Parigi in quest’ultimo romanzo. Sono storie di sconfitte che invece di scoraggiare accendono speranze e restituiscono fiducia. Dicono che, comunque sia finita, è valsa ogni volta la pena di lacerare, anche solo per un momento, l’ordine eterno delle cose.»
Andrea Colombo, Wu Ming, storie di sconfitti all’ombra del Terrore
«Wu Ming ci racconta esattamente questo tornante storico, e lo fa servendosi delle vicende di particolari personaggi, che attraverso le proprie storie ci restituissero la percezione della Storia, quella con la s maiuscola. Un racconto in medias res, nel vortice degli accadimenti, nel momento più alto della Rivoluzione e un attimo prima che questa imploda su se stessa. Quel vortice dove le forze della rivoluzione e della reazione si giocano loro la partita storica. Nel costruire tale impostazione, non è possibile non riconoscere il debito inevitabile con l’opera di Victor Hugo, 1793, probabilmente il miglior romanzo sulla Rivoluzione (di tutte le rivoluzioni). Il metodo utilizzato infatti è lo stesso. Impossibile dare un riscontro oggettivo degli eventi, come se questi costituissero un blocco omogeneo in marcia. Ogni avvenimento epocale si porta dietro tante vicende personali quanti sono gli essere umani coinvolti in quegli eventi. E se c’è un insegnamento che Wu Ming ci impone da anni, è quello di non sacrificare mai sugli altari delle ragioni della Storia le vicende dei singoli individui che la determinano. Soprattutto se questi individui fanno parte di quel mondo di sfruttati che la Storia dovrebbe farsi carico di emancipare. Dunque un ventaglio di voci, ognuna capace di descrivere un pezzo di Rivoluzione.»
Colllettivo Militant, L’Armata dei Sonnambuli
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«I personaggi sono magistralmente costruiti, come sempre per i Wu Ming. Quattro protagonisti della storia minore – che non passa alla Storia ma che forse la Storia l’hanno cambiata – di estrazione differente che parlano, pensano, agiscono in modo diverso. Tre i personaggi positivi che combattono il cattivo, l’unico nemico comune, che poi sarà anche il nemico della Francia repubblicana e che alla fine vincono …. Forse.
I luoghi della narrazione, innumerevoli. I vicoli di Parigi, i palazzi del potere, l’Alvernia, sperduta provincia francese reazionaria e refrattaria, Bicetre e le sue stanze ricolme di matti e “disturbati”.
Il tempo della narrazione contenuto: due anni che però nella storia dell’umanità hanno avuto il peso dei secoli.
Romanzo corale, in cui tutti hanno una voce, sia personaggi positivi che negativi. La struttura è costruita tra narrazione e citazione di documenti dell’epoca. Ai capitoli narrativi si affiancano capitoli di largo respiro, meravigliosi come “ Marea” dove il flusso storico sembra inarrestabile e gli eventi inevitabili anticipazioni di una morte annunciata (Gabo che ci guarda dalla sua Macondo, non me ne voglia!).»
Tatiana Larina, L’Armata dei Sonnambuli
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«Il modo di agire di questo “antagonista” è certamente la parte più evocativa ed inquietante del personaggio: un potere capace di controllare a distanza e rendere insensibili decine o centinaia di individui non può non ricordare metodi di comunicazione e controllo ben più moderni, così come la sua rappresentazione della rivoluzione nel manicomio di Bicetre ricorda la distanza tra i fatti e la loro rappresentazione mediatica, specialmente quando si parla di rivolte e movimenti. Abbiamo detto che è difficile, se non sbagliato, fare parallelismi tra il libro e l’oggi, ma certamente c’è molto del mondo dei mass media moderni, nel modo in cui è tratteggiata questa figura.
Non è un caso che per la sua sconfitta sia necessaria l’unione di tutti i protagonisti, e di ciò che rappresentano: la violenza vedicativa a volto coperto e la teatralità di Scaramouche/Modonnet, l’egualitarismo e la ricerca del Bene di Damblanc, Marie Nozière con la sua coscienza piena di dubbi e, visti i tempi, col suo essere donna, infine Treignac e il suo tentativo di mantenere quell’ossimoro che è l’ordine rivoluzionario.»
Andrea Parapini, L’Armata dei Sonnambuli: tra storie e Storia
ALTRI LINK
Videointervista a Wu Ming 2 su fanpage.it: “Siamo arrivati a un punto di svolta”
Flatlanda, Radio Onda d’Urto, Intervista a WM1 e WM2
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