Wu Ming 4's Blog, page 105

February 10, 2014

La gonfia, tumefatta vicenda dei #marò: due anni di fascisteria, patacche e bombe al panzanio

guerraallIndia

«La guerra è già scoppiata, marcondirondero / la guerra è già scoppiata, chi ci aiuterà… / La bomba è già caduta, marcondirondero / la bomba è già caduta, chi la prenderà? / La prenderanno tutti, marcondirondero / sian belli o siano brutti, marcondirondà / Sian grandi o sian piccini li distruggerà / sian furbi o sian cretini li fulminerà.»


di Matteo Miavaldi (guest blogger)


Il caso Enrica Lexie, dopo due anni, si sta avvicinando alle fasi finali, dopo una serie di rinvii e complicazioni diplomatiche, mistificazioni e propaganda elettorale tanto in India quanto in Italia: elementi che hanno aperto la strada alla “narrazione tossica” della vicenda dei due marò, strapazzata da un’informazione generalmente superficiale e, in alcune circostanze, platealmente nociva.


Poco più di un anno fa, qui su Giap, pubblicammo due lunghi(ssimi) articoli, molto densi di dati e fonti, che smontavano punto per punto la ricostruzione offerta da Il Giornale, Libero e Il Sole 24 Ore: una storia che si basa sulle teorie raffazzonate del sedicente “ingegnere” Luigi Di Stefano, dirigente nazionale di Casapound.


Quei due post si sono presto trasformati in un’inchiesta collettiva, e hanno avuto un numero esorbitante di visite e condivisioni sui social media. Il primo dei due è stato visitato da oltre mezzo milione di IP unici, e ogni giorno continua ad attirare lettori.

Da quei post è nato anche un libro, presentato in giro per l’Italia e recensito su importanti testate nazionali.


Il libro di Miavaldi sui due marò


Eppure, a distanza di un anno, la quasi totalità dei media nazionali finge che quello smontaggio non abbia mai avuto luogo, e continua a raccontare falsità e mezze verità, stravolgendo completamente l’intera vicenda. L’impianto complottista e sciovinista della “ricostruzione Di Stefano” si è anzi arricchito di nuovi collaboratori, nuovi protagonisti e nuove bufale, abbracciate con entusiasmo da diverse testate giornalistiche, programmi televisivi, opinionisti e parlamentari.


Abbiamo individuato le principali criticità e incomprensioni di massa e qui sotto, per punti, proveremo a sciogliere la matassa spacciata per verità a una fetta considerevole dell’opinione pubblica italiana. Per tutte le altre questioni, rimandiamo ai due post precedenti e, soprattutto, al libro.


1. Il peccato originale, ovvero: che ci facevano i marò sull’Enrica Lexie?

Inserendo l’incidente tra il peschereccio St. Antony e la petroliera Enrica Lexie all’interno della lotta alla pirateria internazionale, l’impressione data in Italia è che l’India – cercando di perseguire per legge l’operato dei due fucilieri – stia intralciando gli sforzi internazionali della Nato e dell’Onu a contrasto della pirateria, mettendo automaticamente a repentaglio l’immunità di tutti i nostri soldati impegnati in missioni internazionali.


L’Italia, con la Marina Militare, partecipa attivamente – da anni – a due operazioni internazionali di contrasto alla pirateria: Atalanta, dell’Unione Europea, e Ocean Shield, della Nato. Entrambe le operazioni si concentrano in un’attività dissuasiva e di monitoraggio del Mar Rosso e del golfo di Aden, al largo della Somalia, dove il rischio pirateria è maggiore. I militari, a bordo di navi da guerra, scortano i cargo di passaggio e pattugliano le acque limitrofe.


Come si legge sul portale della Marina Militare:



«Il suo [dell'operazione Atalanta, ndr] mandato consiste nel proteggere le navi mercantili che transitano da e per il Mar Rosso ed inoltre svolge attività di scorta alle navi mercantili del Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite, incaricate di consegnare aiuti alimentari in Somalia [...] La Marina Militare partecipa all’Operazione Ocean Shield con unità navali inserite nella forza navale SNMG1 o SNMG2.»



Quindi l’Italia, quando partecipa come nazione alle operazioni internazionali di contrasto alla pirateria, lo fa con e su navi da guerra.


I marò a bordo dell’Enrica Lexie, invece, tecnicamente non partecipavano a nessuna missione internazionale.

Nel 2011 il Ministero della Difesa e Confitarma, la Confederazione Italiana Armatori, hanno firmato un’intesa, seguita da una convenzione, che permetteva, agli armatori che ne facessero richiesta, di imbarcare dei Nuclei Militari di Protezione (Npm) formati da fucilieri di Marina, impiegati in servizio anti pirateria a difesa, quindi, di navi commerciali italiane, ma private (nel caso specifico della Lexie, di proprietà dell’armatore Fratelli D’Amico).


Ignazio La Russa


Una legge votata a larghissima maggioranza (493 voti favorevoli, 22 contrari, 15 astenuti) che l’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa oggi rinnega a mezzo stampa, citando le perplessità espresse già nel febbraio 2011.


La protezione delle attività commerciali su navi cargo italiane veniva quindi “appaltata” a personale militare pagato, secondo quanto sancito dall’addendum alla convenzione, 467 euro a testa per giorno di navigazione.


Questo, legalmente parlando, è il “peccato originale” commesso dall’Italia: aver esposto i propri militari in attività private che non rientrano in operazioni internazionali, non vengono condotte su mezzi militari e ricadono in una zona grigia del diritto in cui l’India ha potuto, a rigor di legge, non applicare l’immunità funzionale garantita al personale militare all’estero poiché difendere la merce e gli interessi di privati non dovrebbe essere il lavoro dei soldati, ma quello dei contractor.


Un unicum a livello internazionale molto pericoloso, come ha spiegato il security advisor Antonio De Felice, in un’intervista contenuta nel saggio I due marò – Tutto quello che non vi hanno detto.



«Ad oggi [marzo 2013, ndr] nessun Paese occidentale consente a privati armati di salire a bordo. Le uniche bandiere che hanno varato una legge in tal senso sono Panama, Marshall Islands e Liberia, che da sole coprono però quasi il 75 per cento del tonnellaggio mondiale. In Europa, oltre all’Italia, gli unici Paesi che hanno accordato la presenza a bordo di Nuclei militari di protezione sono il Belgio e la Francia, ma imponendo condizioni di utilizzo molto ristrette. La Francia, ad esempio, utilizza soldati del proprio esercito solo per difendere pescherecci che operano nelle acque vicino Mahé, ex colonia francese nei pressi di Pondicherry, in India sud orientale. In tal senso anche il peschereccio italiano Torre Giulia, di proprietà Iat di Bari (Industria Alimentare Tonniera) e associato a Federpesc, ha ammainato la bandiera italiana a favore di quella Francese.


Un discorso a parte deve essere fatto per la Spagna che ha modificato con un Regio Decreto il proprio Testo di Pubblica Sicurezza introducendo la possibilità per i privati autorizzati dal Governo spagnolo di imbarcarsi con armi e materiali; tuttavia la norma studiata anch’essa per la flotta (due imbarcazioni…) di pescherecci che incrociano nell’oceano Indiano non è mai stata presa in considerazione da alcun armatore rendendo di fatto la norma inutile.


Ricapitolando: i contractor possono salire su navi battenti bandiera panamense, liberiana e delle Isole Marshall; l’Italia è l’unico Paese ad aver legalizzato un uso così esteso delle proprie Forze Armate a bordo di mercantili privati, esponendosi a rischi e conseguenze legali che il caso Enrica Lexie esemplifica in tutta la sua gravità.»



Resisi probabilmente conto dell’errore, a seguito del groviglio Enrica Lexie, Confitarma è riuscita a modificare la precedente convenzione col Ministero della Difesa, inserendo tra le opzioni di ingaggio anche le guardie giurate; i contractor, che sono dei privati e in caso di errori ne rispondono penalmente in quanto privati, non in quanto organi dello Stato.


Nonostante l’apertura, la Marina Militare gode comunque di una sorta di diritto di prelazione: l’armatore, secondo la convenzione, è obbligato a chiedere in prima istanza la disponibilità di Npm della Marina; se la Marina non potesse garantirne la disponibilità, allora il servizio potrebbe essere richiesto ai contractor.


Per questi motivi, equiparare lo status militare di fucilieri di Marina in servizio su navi private a quello di soldati in missione internazionale – siano essi uomini Nato o contingenti indiani in Congo, come piace ricordare a Fernando Termentini denunciando una diversità di trattamento strumentale – è un errore di fondo, un eccesso di semplificazione utile a rimarcare la presunzione di ingiustizia subìta. Creando questi presupposti, l’India diventa un paese arrogante che agisce disprezzando il diritto internazionale, si muove per sotterfugi e manipolazioni delle prove, approfittandosi della buona volontà di un’Italia che in questa vicenda non ha nulla da nascondere.


Il corrispondente tedesco di RTL Udo Gümpel, in una lunga discussione sulla sua pagina Facebook, ha rilevato che nel caso navi cargo ospitino a bordo del personale armato, l’armatore è tenuto a comunicarlo alle autorità indiane prima di entrare nelle acque pertinenti della Zona economica esclusiva (200 miglia nautiche), secondo la legge indiana SR-13020/6/2009, “Pre-Arrival Notification for Security”, entrata in vigore il 29 agosto del 2011 (quindi prima dell’intesa tra Ministero della Difesa italiano e Confitarma). Cosa che l’Enrica Lexie non ha fatto.


I marò, quindi, si trovavano ben all’interno delle acque di competenza indiana senza che le autorità locali ne fossero a conoscenza: circostanza quantomeno bizzarra se si pretende un riconoscimento internazionale di un accordo stipulato tra governo e armatori italiani.


2. Pirati, questi sconosciuti

Le coste del Kerala, stato dell’India meridionale, nell’immaginario collettivo italiano sono diventate una specie di Far West galleggiante dove, secondo varie versioni, spararsi addosso durante la navigazione è pratica comune: un mare “infestato” di pirati affrontati con la forza da fucilieri italiani, vedette cingalesi, contractor greci e guardia costiera indiana.


I pirati del Kerala


È necessario fissare una volta per tutte un punto centrale: al largo del Kerala i pirati non ci sono.


Lo dicono da anni gli indiani, abbastanza risentiti del fatto che le proprie coste occidentali rientrino nella cosiddetta zona ad alto rischio pirateria individuata dagli assicuratori del trasporto cargo internazionale, aumentando esponenzialmente il premio assicurativo per chi naviga in quelle acque. Ma lo dicono soprattutto i dati oggettivi dell’International Chamber of Commerce, sezione Crime services, che ogni anno raccoglie tutte le denunce di pirateria mondiali in un rapporto globale.


In tutto il 2013 lungo le coste occidentali indiane si è registrato un solo episodio di pirateria. O meglio, seguendo la dicitura ufficiale adottata a livello internazionale, di “piracy and robbery”. Il caso specifico, verificatosi il 14 febbraio, ha interessato un cargo ancorato nei pressi di Kochi, che è stato abbordato da tre ladri intorno all’una di notte. Svegliato dal rumore in coperta, un membro dell’equipaggio ha dato l’allarme e i tre sono scappati, dopo aver arraffato quel che potevano dalla cambusa.


Nel 2012, l’anno dell’incidente, nella stessa zona si sono verificati solo due episodi: un tentativo di rapina sventato il 15 febbraio – ed è il caso della petroliera greca Olympic Flair – e una rapina riuscita il 30 novembre, quando tre ladri incappucciati sono saliti su una petroliera rubando i beni contenuti nella cabina di comando e scappando non appena l’equipaggio, che stava dormendo, si è svegliato lanciando l’allarme.


3. I topolini di Capuozzo
Toni Capuozzo

Toni Capuozzo


Il giornalista Toni Capuozzo è tra i volti più noti del panorama televisivo italiano ad aver fatto proprie le teorie di Di Stefano, ripresentandole come Verità in una serie di servizi trasmessi dal Tg5 e in numerose puntate speciali del suo programma di approfondimento Mezzi Toni, affiancato ora da Luigi Di Stefano, ora da Stefano Tronconi, un “privato cittadino ex dirigente d’azienda che, nel tempo libero, si occupa del caso dei due marò”.


Capuozzo si rifà alle accuse irrealistiche mosse, l’anno scorso, contro la petroliera greca Olympic Flair, che secondo Di Stefano sarebbe la vera responsabile della morte dei pescatori Binki e Jelastine. Un’ipotesi abbondantemente sconfessata nel secondo articolo sulla vicenda pubblicato qui su Giap che, segnalato a suo tempo a Capuozzo, è stato da lui giudicato inattendibile.


A confermare la tesi dell’innocenza Capuozzo aggiunge un nuovo tassello, riportando la traduzione di un’intervista rilasciata a caldo dal comandante del St. Anthony, Freddy, che sostiene gli spari abbiano colpito la sua imbarcazione alle 21:30 del 15 febbraio 2012: diverse ore dopo lo scontro a fuoco che interesserebbe l’Enrica Lexie (16:30) e poco prima della denuncia di attacco pirata sporta dalla Olympic Flair. In sostanza, i greci avrebbero sparato e gli italiani, che non c’entravano nulla, sarebbero stati incastrati (secondo una teoria del complotto che smonteremo in seguito).


Dalle pagine online dell’Espresso ho provato a far emergere l’inconsistenza della teoria ricorrendo al buon senso:



«Il video utilizzato da Capuozzo è un estratto di un servizio andato in onda su Venad News , un canale d’informazione del Kerala, ed effettivamente pare proprio che Freddy dica “21:30″, la traduzione è stata confermata da amici fluenti in malayalam. Ma la stampa indiana non ha mai riportato questa versione, così ci è venuto il dubbio che si trattasse di un abbaglio, di una tara messa alle dichiarazioni di una persona in completo stato di shock (Freddy arriva in porto alle 23, balbetta, mischia malayalam e tamil, ripete più volte le stesse frasi).»



Perché non riportare per intero le dichiarazioni di Freddy? Probabilmente perché a tutti era noto che in quel momento il capitano stava straparlando, considerando il fatto che la stampa indiana era al corrente degli spari contro il St. Anthony almeno dalle 20, ora in cui il Times of India pubblica la breaking news sul peschereccio indiano, senza ancora essere in grado di indicare l’Enrica Lexie come sospettata numero uno. Le indagini erano ancora in corso e, a beneficio dei complottisti, ricordiamo che l’Olympic Flair avrebbe denunciato il tentato abbordaggio solo alle 22:20, due ore e venti più tardi. Quindi o la stampa indiana ha il dono della preveggenza, oppure le parole in stato di shock di Freddy sono da prendere con le pinze.


Ma in tutta risposta Capuozzo bolla il tutto come “una montagna che partorisce un topolino”, sostenendo nella sua lettera pubblicata dall’Espresso che:



«a giustificare lo “sbaglio” del comandante del peschereccio che parla di “21.30″, Miavaldi esibisce come un asso nella manica le breaking news del ‘Times of India’, che informa dell’incidente mortale attorno alle 20, e dunque molto prima dell’ora indicata dal capitano, e molto prima che il capitano parlasse alle telecamere.


Dal pezzo di Miavaldi  si può risalire a quella notizia, così datata: 15 febbraio ore 8.04. Ma se guardate i commenti, che alle otto di sera dovrebbero essere una valanga, vedete che il primo è di un certo Alwyn alle 11.36. Guarda caso, pochi minuti dopo le dichiarazioni del capitano del peschereccio alla televisione. Siccome non è difficile cambiare l’ora di una breaking news, forse è questo quello che è stato fatto al Times of India. Dimenticandosi, purtroppo per loro, di cambiare l’ora dei commenti, e lasciando così cadere nel vuoto una tragica notizia, senza nessuno che la raccolga.»



Siamo sempre immersi nella teoria del complotto, pronti a difendere tesi traballanti ricorrendo ad accuse – gravi – di manipolazione di dati. Come se un incidente avvenuto nella serata indiana fosse in grado, nel giro di pochi minuti, di mobilitare immediatamente con efficacia svizzera le più alte sfere della politica indiana, le forze dell’ordine e i gestori del principale quotidiano indiano: tutti uniti per ordire trame oscure anti italiane.


L’Espresso ha avuto la gentilezza di ospitare una mia controreplica:



«Il vicedirettore del Tg5 sostiene che gli spari contro il peschereccio St. Anthony siano arrivati dalla petroliera greca intorno alle 21:30. L’Olympic Flair, sappiamo dalla denuncia che lei stessa avanza alle autorità intorno alle 22:20, si trovava a poche miglia nautiche dal porto di Kochi: la posizione è confermata dall’International Chamber of Commerce – International Maritime Bureau e dall’International Maritime Organization, che inseriscono l’evento nei propri database (pubblici).


Il peschereccio doveva quindi trovarsi da quelle parti, per entrare nell’ipotetica traiettoria di tiro dei greci, e ci si troverebbe alle 21:30. Quindi, con due membri dell’equipaggio feriti a bordo, Freddy deciderebbe inspiegabilmente di dirigersi non verso il porto più vicino, Kochi, ma di fare rotta verso sud e tornare a Neendakara, nei pressi di Kollam, dove attracca alle 22:40, pronto a pronunciare la dichiarazione che Capuozzo utilizza come base della sua tesi, alle 23.


Kochi e Kollam distano, in linea d’aria, più o meno 125 km . Un volo di linea sulla tratta Kochi-Kollam impiega 48 minuti ad arrivare a destinazione, mentre lo stesso tragitto viene coperto, via terra, in almeno quattro ore.


La velocità massima di un peschereccio come il St. Anthony, mi dicono, si aggira intorno agli 8 nodi; approssimando per eccesso, equivalenti a 15 km/h. Per raggiungere Kollam partendo dai pressi del porto di Kochi sarebbero state necessarie – approssimiamo – almeno 8 ore, mentre Capuozzo posiziona il St. Anthony nei pressi di Kochi alle 21:30 e, magicamente, ricompare a Kollam un’ora e un quarto dopo.


Se sull’attendibilità del Times of India possiamo avere delle divergenze d’opinione, forse sulla fisica e sulla geografia ci potremmo trovare d’accordo. A fugare ogni accusa al Times of India, ecco qui l’istantanea dell’articolo scattata da WebArchive – archivio delle cache – proprio il 15 febbraio 2012. Il primo commento è di Kalyug (Usa) alle 8:55 pm. (guarda).»



Al momento della redazione di questo pezzo non è ancora pervenuta alcuna replica né da Capuozzo né dai suoi collaboratori, più impegnati a fantasticare sulla “vera” ragione che avrebbe spinto le autorità del Kerala a manipolare i fatti del 15 febbraio.


4. Complotto in Kerala

La narrazione della verità alternativa di Capuozzo, Di Stefano e Tronconi si sviluppa a ritroso: partendo da dati oggettivi impossibili da confutare dalle poltrone di casa propria, ci si inventa degli espedienti narrativi in grado di minare la veridicità dei documenti, uno su tutti il rapporto interno della Marina stilato dall’ammiraglio Alessandro Piroli, che Repubblica in esclusiva ha pubblicato parzialmente la scorsa primavera.


Nel rapporto si specifica che gli esami balistici condotti dalla scientifica indiana alla presenza “silenziosa” di specialisti italiani appartenenti all’Arma dei Carabinieri – i maggiori Luca Flebus e Paolo Fratini – indicano la compatibilità dei proiettili ritrovati sullo scafo e nei corpi dei due pescatori con i fucili in dotazione al nucleo di marò in servizio sulla petroliera: le armi che avrebbero sparato sono contrassegnate con le matricole di altri due fucilieri, Voglino e Andronico.


Limitare l'assunzione a casi di stitichezza occasionale.


Si tratta di un calibro 5,56mm, ma la teoria Di Stefano (basandosi su un’approssimazione di indiscrezioni non confermate) sostiene invece che gli indiani abbiano per le mani un calibro 7,62mm e che i documenti finali della perizia indiana – trasmessi anche sui nostri telegiornali nazionali – sono stati contraffatti, lanciandosi in una suggestiva indagine, sviscerata nel saggio I due marò – Tutto quello che non vi hanno detto, in particolare in questo passaggio illuminante per apprezzare la viralità della versione di Di Stefano:



«La svolta dell’esame balistico viene annunciata su tutti i Tg italiani il 14 aprile 2012. Il Tg1 e il Tg2 mandano in onda anche alcuni stralci della perizia indiana.


Si tratta di un documento ufficiale, una prova definitiva che sarà presa in considerazione dalla Corte chiamata a pronunciarsi sulla colpevolezza o meno dei due sottufficiali italiani. Gli indiani sostengono che i proiettili calibro 5,56 mm ritrovati sul St. Antony e nei corpi dei due pescatori siano stati sparati dalle armi in dotazione al Nucleo di Protezione Marina sequestrate a bordo dell’Enrica Lexie: 6 fucili SC 70/90 e 2 mitragliatrici Minimi, entrambi calibro 5,56 mm. Hanno fatto degli esami in laboratorio, dei test di tiro, sotto gli occhi dei due specialisti dei Carabinieri mandati dall’Italia, e hanno raggiunto conclusioni che negano quelle di Di Stefano.»



Allora il nostro ingegnere che fa? Si collega al sito della Rai, rivede le puntate del telegiornale, fa degli screenshot delle parti in cui vengono trasmessi i documenti della perizia, li analizza e sentenzia: la perizia è contraffatta.



«Nel documento presentato da Tg1 e Tg2 come uno stralcio della “Perizia Balistica” eseguita dalle autorità indiane appaiono evidenti segni di falsificazione dei risultati.


Dette falsificazioni consistono nell’aver modificato, in tempi successivi alla prima stesura, gli elementi che indicano la responsabilità italiana negli omicidi.


Elementi che evidentemente nella prima stesura erano diversi, altrimenti non sarebbe stato necessario modificarli.»



Siamo al delirio di onnipotenza di un’analisi scientifica fatta dal fermo immagine del Tg2 da un tizio che scova indizi e prove ingrandendo i pixel di una fotocopia dal proprio pc di casa, per accusare di falsificazione le autorità di un altro Stato.


Accuse di questo genere, che in un Paese normale sarebbero state ignorate o coperte dalle risate, in Italia diventano invece uno scoop, ripreso da Lorenzo Bianchi sul Quotidiano Nazionale e da Gian Micalessin sul Giornale del 19 aprile.



«Gli indiani la spacciano per la prova regina, la vendono come la pistola fumante capace d’inchiodare i marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. In verità le risultanze della perizia balistica passate ai giornali indiani e documentate il 4 aprile dai servizi del Tg1 e del Tg2 sono un banalissimo falso. Un falso confezionato alterando i risultati di una perizia capace forse di scagionare i nostri due militari. Una bufala data in pasto a giornali e televisioni per minare le certezze dei nostri diplomatici e convincere l’opinione pubblica indiana e italiana della colpevolezza dei nostri militari. A dimostrarlo è l’ingegner Luigi Di Stefano, un perito giudiziario 60enne famoso per aver cercato di far luce sui misteri dell’aereo dell’Itavia abbattuto nei cieli di Ustica.»


«Guardando il documento messo in onda il 4 aprile dal Tg1 e dal Tg2 – spiega a Il Giornale il perito giudiziario – balza immediatamente agli occhi che si tratta di un documento chiaramente contraffatto, realizzato con due macchine da scrivere diverse. In quel documento notiamo delle alterazioni evidenti. Ci sono delle cancellazioni, dei testi sottotraccia e dei timbri che non quadrano. Abbiamo davanti una perizia passata da più mani dopo la sua stesura originale e alterata per dimostrare conclusioni diverse e più favorevoli alla versione sostenuta dalla parte indiana”.»



La versione del proiettile 7,62 viene sbandierata anche nella puntata dello scorso due febbraio di Matrix, programma condotto da Luca Telese, dove si sostiene che il calibro sia in dotazione alla guardia costiera dello Sri Lanka, «impegnata in una lotta a tutto campo contro i pescatori di frodo indiani che spesso sconfinano nelle loro acque». Una panzana grottesca, considerando che le coste del Kerala affacciano ad Ovest mentre lo Sri Lanka si trova a Sud-Est rispetto ad un altro stato indiano, il Tamil Nadu! Gli scontri per le acque di pesca si verificano da anni tra il golfo di Mannar e la baia di Palk, le acque che dividono lo Sri Lanka dal Tamil Nadu. Il Kerala non c’entra nulla.


 Carta geografica politica dell'India


Pochi secondi dopo lo stesso servizio denuncia la “conclusione unilaterale” degli esami balistici indiani, che indicano invece un calibro 5,56, “contestata dall’Italia visto che agli esami non sono stati ammessi gli esperti italiani”. Come visto sopra, si tratta di un falso: gli esperti italiani c’erano e l’Italia non ha mai contestato ufficialmente l’esito della perizia balistica.


C’è spazio anche per la teoria della colpevolezza della petroliera greca dell’Olympic Flair. Insomma, il servizio ricalca tutta la tesi di Di Stefano, e nel resto della puntata, durante il faccia a faccia tra Ignazio La Russa e Nicola Latorre, nessuno contesta alcun punto della ricostruzione.

La mistificazione di Di Stefano, a Matrix è la realtà: gli indiani hanno manipolato il caso.


Luca Telese

Luca Telese


Una manipolazione delle prove di questa portata operata ad ogni livello dalle autorità indiane doveva essere giustificata da un movente eccezionale. Un movente politico, tratteggiato nei dettagli da Stefano Tronconi e ripreso acriticamente da Toni Capuozzo, senza il minimo fact-checking.


5. «Lo hanno fatto perché c’era la campagna elettorale!»

Tronconi collega il chief minister del Kerala Chandy, in quota Indian National Congress (partito di governo presieduto dall’ “italiana” Sonia Gandhi), al ministro nazionale della Difesa A.K. Antony, il predecessore di Chandy nello stato dell’India meridionale.


Chandy, a causa di elezioni imminenti in Kerala, avrebbe chiesto ad Antony di pilotare contro i marò le indagini della polizia del Kerala, così da poter strumentalizzare la vicenda in campagna elettorale. Si profila quindi la tesi del rapimento di Latorre e Girone a fini politici e Antony – parafrasando le parole di Tronconi pronunciate durante la puntata di Mezzi Toni dello scorso 2 febbraio – sarebbe «la vera mente dietro il sequestro».

Anche Capuozzo, nel gioco delle parti di Mezzi Toni, ribadisce che la manipolazione era avvenuta «alla vigilia di elezioni che [Chandy] rischiava di perdere».

Peccato che non abbiano mai detto di quali elezioni si trattasse.


16 settembre 2012. Il sindaco di Cervesina (PV) Daniele Fuso inaugura la nuova sede della Croce Misericordia.

16 settembre 2012. Il sindaco di Cervesina (PV) Daniele Fuso inaugura la nuova sede della Croce Misericordia.


Come ricordato qualche tempo fa sul blog Elefanti a parte ospitato da East:



«Trattasi in realtà di elezioni supplettive della circoscrizione di Piravom, previste per il 17 marzo 2012. In Italia, attraverso il prisma lisergico della nostra stampa, le elezioni locali di una delle 140 circoscrizioni locali che compongono il Kerala si sono trasformate nelle elezioni locali del Kerala, condizione di incertezza politica che ha giustificato, agli occhi del pubblico italiano, il sospetto di manipolazioni della faccenda dei marò a fini elettorali.


Il partito dell’Indian National Congress (Inc), guidato nello Stato meridionale indiano da Oommen Chandy, governa il Kerala dal 2011 e con la storia dei marò italiani non ha mancato di mostrarsi un esecutivo a parole duro e risoluto, capace di fare la voce grossa contro le potenze occidentali per difendere i diritti del popolo. Tema centrale in India, ex colonia britannica dove il revanchismo post-indipendentista è ancora molto forte, specie negli strati sociali disagiati, e in particolare nel Kerala, roccaforte comunista per decenni dove nel 1957, per la prima volta al mondo, fu eletto democraticamente un governo comunista.


Oommen Chandy, a colloquio con De Mistura, il 23 febbraio, si mostra inamovibile. Chandy esclude ogni spazio per eventuali trattative, dopo che nei giorni precedenti ha descritto le azioni dei marò come un “omicidio a sangue freddo”, promettendo al proprio elettorato duri provvedimenti legali.


Le elezioni della circoscrizione le vince l’esponente dell’Inc, che porta a casa 82.756 voti contro i 70.686 dell’avversario del Left Front (l’unione dei partiti comunisti indiani), ma più che per tirare la volata al candidato a Piravom [...] le parole di Chandy sono rivolte all’opposizione comunista e,  più in generale, alle opposizioni di governo, pronte a strumentalizzare ogni minimo favoritismo accordato agli italiani dal partito dell’Inc seguendo una strategia, in India, consolidata da anni.»



Secondo Tronconi e Capuozzo, quindi, l’India si sarebbe infilata in una gigantesca diatriba diplomatica… per un seggio vacante nella circoscrizione di Piravom dello stato del Kerala, stato abitato da 33 milioni di persone. L’India ne conta un miliardo e duecentodieci milioni, quindi il Kerala conta poco più del 2% della popolazione. A sua volta, Piravom ha 28.000 abitanti, quindi lo 0,002% della popolazione.

In proporzione, è come se l’Italia si fosse impelagata in una spinosa querelle internazionale per influenzare le elezioni a Cervesina.

Insomma, se nessuno ha mai approfondito il dettaglio delle «elezioni del Kerala», beh, adesso sapete il motivo.


N.d.R. I commenti a questa inchiesta di Miavaldi – che ringraziamo – saranno attivati 72 ore dopo la pubblicazione, per consentire una lettura ragionata e – nel caso – interventi meditati (ma soprattutto, pertinenti).

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Published on February 10, 2014 14:12

February 6, 2014

Wu Ming Contingent meets Roma Ribelle!

wmcontingent


- Che si fa domani? Andiamo al concerto del Wu Ming Contingent?

- Un concerto dei Wu Ming? Cazzo dici? Quelli so’ scrittori, mica suonano.

- Invece pare che adesso fanno pure un disco. Cioè, non tutti e quattro. Due di loro con altri due musicisti.

- Vabbe’, ho capito: robe come Cadillac, o Razza Pagana, o il blues di Reinhold Messner. C’è uno che legge e gli altri che ci suonano sotto. Sai che palle…

- Mio cuggino dice che li ha visti a Correggio e che di letture ne hanno fatte giusto un paio. Per il resto canzoni. Pezzi tipo ardcòr, gnu ueiv, crautrock…

- E il disco chi glielo fa? Einaudi?

- No, un’etichetta di Arezzo, la Woodworm Label.

- Quelli dei Julie’s Haircut, dei FASK, di Moltheni?

- Quelli. Io conosco Andrea Marmorini, che gli ha registrato l’album al Locomotiv di Bologna, un paio di settimane fa. Dice che sono 11 brani, ognuno dedicato a un personaggio. Tipo Vittorio Arrigoni, Robbespiere, il fu Cimin…

- Il fu Cimin?

-… poi un calciatore dell’Argentina che non ha giocato ai mondiali perché ci stava la dittatura, un tizio che scriveva libri assurdi sulle astronavi dei Maya…

- E come si intitola, ‘sto zuppone?

- Bioscop.

- Bioche?

- Bioscop.

- Cioè? Bio’s cop? O Bios Coop?

- Non lo so come si scrive, cércatelo su Internet.

[image error]- E quando esce?

- Non so manco quello. Però il 13 marzo c’è il rilisparty a Bologna, quindi il disco dovrebbe starci. E dovrebbe starci pure questo sassofonista tipo Fela Kuti che ha suonato con loro in tre pezzi. Pagnozzi, lo conosci?

- Mai coperto. Né lui, né Ferracuti. Ma domani sera c’è, ‘sto sassofonista?

- No, mi sa di no. Però guarda, qui c’è un intervista che hanno fatto su Dinamo Press e qui un’altra su Mola Mola. Se poi c’hai ancora domande, vieni domani allo Strike* e gliele fai a loro, okay?


*oppure dopodomani, sabato 8 febbraio, al Cinema Metropolis di Umbertide (NdR)



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Published on February 06, 2014 05:25

February 5, 2014

Oggi, settant’anni fa, i fascisti uccidevano Leone Ginzburg

Leone Ginzburg (Odessa 1909 - Roma 1944)

Leone Ginzburg (Odessa 1909 – Roma 1944)


Riproponiamo qui il testo che abbiamo scritto nel novembre scorso per gli ottant’anni della casa editrice Einaudi.


«Questa mia traduzione è nata nelle circostanze seguenti».


Il primo nome che ci è venuto in mente quando dalla casa editrice ci hanno chiesto un pugno di righe – un ricordo, uno spunto, qualcosa – sull’ottantennale della fondazione dell’Einaudi, è quello di Leone Ginzburg. A seguire, quello di Proust. Perché?

Perché nel giro di ventiquattr’ore si celebrano il centenario della pubblicazione di Du côté de chez Swann (14 novembre 1913) e l’ottantennale dell’Einaudi (il giorno dopo).

E perché c’è un collegamento forte tra Leone Ginzburg, la sua persecuzione da parte dei nazifascisti, la tragica fine a Regina Coeli… e la Recherche.


La traduzione «classica» del primo tomo della Recherche, quella che l’Einaudi continua a pubblicare (oggi nella Biblioteca ET) è di Natalia Ginzburg. Gran parte del lavoro fu svolto nel 1940 a Pizzoli, in Abruzzo, dove Natalia era al confino con il marito Leone. I volumi della Recherche, in un’edizione di gran lusso, li avevano ricevuti come regalo di nozze. Dopo l’Armistizio – del quale è appena ricorso il settantennale, quanti anniversari con la cifra tonda! – i Ginzburg lasciarono il confino, ma i fogli della traduzione rimasero a Pizzoli. Leone andò a Roma, incontro alla Resistenza e alla morte. Della quale è prossimo il settantennale.


Scrive Natalia:



«Per molto tempo, non pensai più a quei fogli protocollo. Se a tratti m’avveniva di ricordarli, ricordavo soprattutto il tempo felice trascorso. Leone era morto e la quiete di quei pomeriggi che passavo a tradurre apparteneva a un’età perduta».



Ma i fogli si erano salvati. Natalia poté recuperarli a guerra finita, e terminare la traduzione.


Quanto c’è di quell’età perduta nel lavorio di Natalia sul francese e sull’italiano? Quanto della quiete al confino, e poi della guerra, della morte, della perdita? Quali parole fanno da «spia» dell’esperienza vissuta?

Quanto c’è di Leone nella traduzione di Natalia?


Natalia scrive:



«Leone mi aveva detto che dovevo cercare tutte le parole sul vocabolario, anche quelle di cui sapevo il significato. Era sempre possibile trovare un termine più preciso e migliore. Questa frase la presi alla lettera e cercavo proprio ogni parola: anche maison».



Lezione più significativa e politica di quel che sembra. Il fascismo, con la sua retorica tronfia e tonitruante, delle parole e dei significati aveva fatto strame. E oggi non siamo messi molto meglio. Imperano «neolingue» eufemistiche, la cui unica funzione è ottundere. La lezione di Leone è più utile che mai.

Se, pensando alla fondazione dell’Einaudi, il primo ad apparirci è stato lui, vorrà pur dire qualcosa.

Leone Ginzburg, perseguitato e ucciso dai fascisti.

FascistiFascismo. Eccole, due parole da cercare. Proprio perché tutti credono di conoscerne il significato.


Storie dell’Einaudi, storie nel catalogo Einaudi. Un catalogo dove Proust, morto prima della Marcia su Roma, ha voce d’antifascista.

Del resto, lo scrisse un allora fascistissimo Bargellini su un numero del Frontespizio nel 1936:



«Chi ama Proust non può amare la serenità e la virilità italiana».



Dove «italiana», come ancora oggi spesso accade, sta in realtà per «fascista».

ItaliaItaliano. Ecco altre due parole da cercare. Proprio perché tutti credono di conoscerne il significato.


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Published on February 05, 2014 01:42

February 3, 2014

Lettera aperta a Carlo Lucarelli sulle violenze (quelle vere) alla #Granarolo

Quale dei due è Lucarelli?

Quale dei due è Lucarelli?


Caro Carlo,


una doverosa premessa: questa non è una “disputa tra intellettuali”, ma una storia dove lavoratori sono stati licenziati per un giorno di sciopero e poi denunciati, pestati e ripestati, gassati e calunniati dai media. Non sono in ballo le nostre reputazioni: sono in ballo le loro esistenze.


Chiarito questo: tu lo conosci quel «Carlo Lucarelli» che ha rilasciato dichiarazioni sui giornali di Bologna a proposito della vertenza che oppone i lavoratori della logistica alla Granarolo e della manifestazione di sabato scorso a Bologna? Quello che parla di «rabbia fine a se stessa che si traduce in minacce, violenze, liste di proscrizione»?


Te lo chiediamo, ricordando le molte occasioni di incontro e collaborazione che abbiamo avuto con te, perché i quotidiani sembrano voler contrapporre, con una furbesca titolazione, due generi di scrittori: quelli “buoni” e quelli “politicamente scorretti” che legittimerebbero la violenza. Una distinzione inaccettabile.



La «violenza»: ma quale violenza? Non c’è stato alcun atto di violenza da parte dei lavoratori in lotta, in massima parte migranti. C’è stato quell’uso della forza che è proprio di ogni sciopero e si esprime nei picchetti, nei blocchi, nell’intenzione di danneggiare gli interessi economici della controparte come forma di pressione sindacale.


Al contrario, la violenza fisica delle manganellate e degli spray urticanti, gli arresti ingiustificati dei delegati sindacali (in violazione delle norme), i licenziamenti, il mancato reintegro dei lavoratori in spregio agli accordi sottoscritti  (ed anche, a Milano, il pestaggio in stile mafioso del sindacalista del Si Cobas Fabio Zerbini) sono forme di violenza padronale. Una violenza fisica, reale, su cui avremmo voluto sentire da quel «Carlo Lucarelli» qualcosa di più che il semplice «sto dalla parte dei lavoratori». Perché se poi il dichiarante  «non entra nel merito», ma proprio nel merito ci sono la violenza e la negazione dei diritti, allora le parole non corrispondono alle cose, e questo tu e noi, come scrittori, giornalisti e lavoratori nella cultura, lo sappiamo bene.



In secondo luogo, nella dichiarazione di quello strano, non molto credibile «Carlo Lucarelli» si mescolano cose diverse in modo improprio: le «liste di proscrizione» di cui si parla sono in realtà una protesta avvenuta non alla Granarolo ma all’università. Una protesta a nostro avviso legittima, contro abusi e illegalità che avvengono ad opera di quelli che un tempo si sarebbero chiamati «baroni universitari», e che è giusto vengano denunciate da chi le subisce, se chi di dovere non se ne accorge, o non interviene. In ogni caso, è una battaglia combattuta con le armi della critica, come in democrazia dovrebbe essere pacifico.


Ma cosa c’entra questa vicenda universitaria con quella delle vertenze nella logistica? Nulla. Però l’accostamento tra le due cose, accompagnato dal nome di uno dei collettivi impegnati nello sciopero della logistica, crea l’impressione che esista un’organizzazione violenta che sovrintende a questo e quello. Abbiamo da tempo constatato che su alcuni giornali ogni volta che c’è un evento “politicamente scorretto” si corre a fare il nome di un centro sociale o un collettivo, per suggerire al lettore che non di movimenti sociali, ma di «cattivi maestri” (o “cattivi allievi”) si tratta. Lo stesso metodo poliziesco che troviamo nell’interrogazione parlamentare presentata da 10 senatori del PD e di Forza Italia, nella quale si nominano centri sociali e sindacati, esortando il Ministro degli Interni a visionare le pagine web dei loro siti. Questa sì ci sembra una lista di proscrizione.


Facchini in corteo a Bologna


I dipendenti comunali che hanno donato 300 buoni pasto ai lavoratori in sciopero, i lavoratori degli asili nido che hanno annunciato il boicottaggio dei prodotti Granarolo per non rendere i bambini «complici dello sfruttamento», o i partecipanti alla manifestazione di solidarietà che scendevano in piazza sabato scorso, contribuiscono forse a costituire «un clima preoccupante»? Forse preoccupano chi continua a raccontarci che i conflitti sociali, le lotte e i diritti dei lavoratori sono un retaggio del Novecento, epperò vuole il latte fresco in frigorifero ogni mattina, che è anch’esso un retaggio del Novecento.


A noi preoccupa invece il fatto che in questa vertenza – e non solo in questa – si stia perdendo il senso di parole come «padrone», «crumiro», «proletario», «diritti», «sindacato». Ci preoccupa che Granarolo e Legacoop possano comportarsi da padroni, e pretendere di essere considerate cooperative di sinistra, e avere la solidarietà congiunta dei senatori e delle senatrici PD e FI dell’Emilia-Romagna. E ci preoccupa, anche, l’uso della violenza contro i lavoratori in lotta – ma questa, tu ci insegni, è un’altra storia, o no?


Valerio Evangelisti -  Wu Ming -  Alberto Prunetti -  Girolamo De Michele


Bologna, 3 febbraio 2014


AGGIORNAMENTO 


Qui sotto c’è la risposta di Carlo.


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Published on February 03, 2014 11:10

January 31, 2014

Con i lavoratori della #logistica | Resistere a #Granarolo e ai padroni «buoni»

Ultima scena del film Lo squalo


Ne abbiamo scritto su Internazionale ormai svariati mesi fa; da allora la lotta dei facchini della logistica e, di conseguenza, la repressione si sono fatte ancora più intense e radicali. Soprattutto a Bologna e soprattutto alla Granarolo, ma anche in altre parti d’Italia. L’episodio recente che ha spinto il direttore della rivista Giovanni De Mauro a scrivere dell’argomento in prima persona è infatti accaduto a Milano: il pestaggio del sindacalista Fabio Zerbini da parte di una squadraccia padronale, o mafiosa, o entrambe le cose.


Qualche giorno fa ci chiama Guizzo, amico e compagno dai tempi dei tempi, e fa: – Sabato [oggi, N.d.R.] qui a Bologna c’è il corteo dei facchini, il padronato si è mosso coi carri armati ed escono articoli terribili, noi cerchiamo come possiamo di rompere, o almeno allentare, l’accerchiamento dei media. Abbiamo già chiamato Valerio [Evangelisti, N.d.R.], adesso lo chiediamo a voi: ci scrivete al volo un comunicato di solidarietà, anche solo quindici-venti righe? Per noi sarebbe importante.

All’altro capo c’è Wu Ming 1:  – Senti, io non so quanto possa spostare, ma lo scrivo volentieri.


Corteo dei facchini contro Granarolo, Bologna, sabato 12 febbraio, h. 15:30 in Piazza dell'Unità

[Dialogo interiore, cioè inter nos:]

- Che altro si può fare?


– Metterci in ascolto, trasmettere le voci della lotta, condividere informazioni e aggiornamenti…

– È qualcosa.

– Ma è poco, e non è giusto cavarsela con poco. Non è giusto, e soprattutto non è possibile.


Il testo è stato diffuso insieme a quello di Valerio. Dopo che Repubblica-Bologna ne ha parlato, ci è giunta voce di mugugni in viale Aldo Moro, in via Rivani e pure in quella via del centro, aspetta, com’è che si chiama? Hai presente, dove c’è quel palazzo coi bassorilievi…

Insomma, nel PD e dintorni commenti irritati, come nei giorni del referendum sulla scuola: – Ancora quelli là?!


Sì, ancora questi qua. E tifiamo asteroide. E quelli di noi che sono in città andranno al corteo.


- È qualcosa.

– Non molto.

– Si fa quel che si può.

– Si può quel che si fa.


Poco dopo si sono aggiunti i contributi di Alberto Prunetti, Girolamo De Michele e Wu Ming 4. In partnership con Carmilla, li pubblichiamo tutti uno in fila all’altro. Nell’ordine: WM1, Evangelisti, Prunetti, De Michele, WM4.

In coda, svariati link che spiegano la situazione.



Lo sciopero è sciopero, un picchetto è un picchetto e un crumiro è un crumiro e quindi, tagliando con l’accetta, uno che accetta la logica della guerra tra poveri e tradisce i suoi compagni.


Accetta

L’accetta che taglia corta la definizione di “crumiro” è la stessa che spacca il mondo in due quando la situazione arriva al dunque.


Il “dunque” è che la società è divisa in classi. Il “dunque” è che lo sfruttato sta da una parte e lo sfruttatore dall’altra.


Un padrone è un padrone, un padrone è uno sfruttatore e ogni padrone combatte incessantemente la lotta di classe.



Bologna. Poliziotti alla Granarolo contro i facchini in lotta

Bologna, 23 gennaio 2014. Poliziotti alla Granarolo contro il picchetto dei facchini.



Un padrone «di sinistra» è un ossimoro vivente (anzi, un ossimoro non-morto).


«Cooperativa» è una parola che non significa più un cazzo.


Dovrebbe essere l’ABC, ma l’analfabetismo di ritorno ci strangola.


Il grande, grandissimo merito dei lavoratori in lotta nella logistica, in Emilia e in altre parti d’Italia, è di aver ricominciato ad alfabetizzare.


In questi giorni più che mai afflitti da un discorso pubblico portato avanti quasi solo da infami e interamente composto da minchiate, e mentre i padroni indulgono nei più canaglieschi ricatti (si veda la vicenda Electrolux), le lotte nella logistica sono, come suol dirsi, ossigeno.


E ci sono tanti modi di usare l’ossigeno.


La bombola in bocca al mostro


Nella scena finale del film Lo squalo, una bombola d’ossigeno viene conficcata tra i denti del mostro e fatta esplodere. Del mostro non rimangono che frattaglie, e i nostri eroi nuotano verso casa.


Buona nuotata, compagne e compagni. [WM1]



Non avrei mai pensato di dover assistere, nel 2014, a eventi degni degli inizi del ‘900. Lavoratori licenziati per avere scioperato contro la riduzione ulteriore di paghe da fame, violenze contro poveri diavoli per spezzarne i picchetti, arresti arbitrari e pestaggi di sindacalisti, false promesse e false accuse da parte delle autorità, campagne stampa menzognere che addebitano le violenze a chi le subisce. Vittime di tanta prepotenza gli stessi sfruttati del 1900: i facchini, poverissimi e precari, costretti a un lavoro massacrante e a condizioni di vita indegne.


Quello della Lola

Vignetta di Moltitudine, ovvero Giorgio. Clicca per visitare il blog dell’autore.


La sorpresa viene dall’identità dello sfruttatore: cooperative che mantengono arbitrariamente quella denominazione ormai solo formale, appoggiate dal consenso, dalla complicità attiva o dall’indifferenza di sindacati “ufficiali” di cui il tempo ha ingiallito il colore e deturpato le funzioni. Forze che non si vergognano di tradire clamorosamente la loro stessa storia.


Io spero che i lavoratori della logistica tengano duro, in nome di quel valore supremo che ispirò proprio quei proletari come loro che fondarono cooperative e sindacati: la dignità. Auguro invece la sconfitta a coloro che l’hanno persa. [VE]



La lotta è possibile e va oltre la rappresentanza politica. Passa da istanze dirette e sollecita un nuovo sindacalismo conflittuale. I facchini hanno molto da insegnarci. Certo, sono molto strategici, perché muovono merci e le possono fermare. Ma hanno a che fare con un padrone che parla il linguaggio mellifluo di ogni padrone. Padroni che davanti alla rivendicazioni ricordano che sono compagni, che hanno fatto sacrifici, che stanno per chiudere. Che perdere diritti è l’unico modo di conservare un posto di lavoro.  Al dunque, le cooperative o l’imprenditore “illuminato”, di destra o di sinistra, pagano poco e sfruttano tanto. Chiedetelo ai facchini, alle maestre d’asilo o alle guide turistiche. Siamo tutti “soci” del capitale, salvo quando si tratta di dividerne i profitti o di subirne il fallimento.


Presidio alla Granarolo, giugno 2013


Niente sconti, allora: ci stanno prendendo in giro. Prima di buttarsi dalla finestra ci faranno morire d’inedia. Anche nella crisi c’è una gerarchia e un lavoratore working class dei nostri giorni (operaia, facchino, cassiera, commesso, addetto pulizie, operatore di call center) vive, lavora, fallisce e muore peggio di un imprenditore. O di un presidente o socio fondatore di una cooperativa, che è tale solo per i vantaggi fiscali delle cooperative.


E allora basta con le vecchie cooperative. Perché l’unica forma di cooperativa valida per il futuro sarà quella che espropria e annulla la figura del padrone o del presidente o dei soci fondatori. Facciamoci leveller: livelliamo i poteri nei posti di lavoro. L’esempio è quello argentino delle cooperative di lotta: imprese destinate al fallimento, recuperate dai lavoratori. Reggono il peso della crisi con un salario equo, lo stesso per tutti, senza mobbing o prevaricazioni gerarchiche. Con ruoli fluidi, tra amministrazione e produzione.  Così si resiste alla crisi e al capitale, che camminano mano nella mano per accumulare profitti, sottraendoli dalle tasche dei lavoratori. [AP]



«Gli uomini, salvo che non siano del tutto imbarbariti, non si lasciano apertamente ingannare e trasformare in schiavi inutili a sé stessi», scrive Spinoza parlando di un popolo che fronteggiava la pretesa d’autorità assoluta di Alessandro Magno: parole che marciano sui propri piedi, ovvero sulle gambe delle lotte per il diritto di non essere assoggettati, ogni volta che un suddito si alza in piedi e rifiuta di considerare superiore un proprio pari.


striscione_coop


«Caro Socio consumatore, vieni pure a fare la spesa in Coop. Troverai, oltre ai prodotti che cerchi, molti lavoratori che ti accoglieranno con la gentilezza e la professionalità di sempre. Troverai molti lavoratori che vogliono bene alla cooperativa, che non si tirano indietro davanti al lavoro, ma anzi si rimboccano le maniche, perché sanno che il lavoro è anche sacrificio e fatica», scrivono i consiglieri di amministrazione di una Coop (quella Estense, il 18 dicembre scorso: ma potrebbe essere Adriatica, o Granarolo): parole che rivelano la pretesa dei padroni che i sottomessi non si limitino ad obbedir tacendo, ma siano anche contenti di sacrificarsi e faticare.


Ogni volta che un subordinato rivendica il diritto a vivere non con la servitù volontaria, ma con la dignità dell’insubordinazione – quale che sia la sua lingua, il suo colore, la sua origine, alla catena siam tutti uguali – i padroni, quali che siano le loro lingue, i loro colori, le loro origini tremano e si rifugiano dietro il manganello del gendarme: perché sanno che ad essere messa in discussione non è solo la retribuzione e l’orario, ma la favola del guadagnarsi da vivere col sudore della fronte. E perché sanno che le lotte in corso parlano anche a quelli che sollevano tremanti la testa dai luoghi bagnati di servo sudore: perché quel volgo disperso che non ha altro nome, se non quello di servo, potrebbe imparare il significato di un nome comune – compagni. [GDM]



Ciò che evidentemente è andato perduto per strada – una strada lunga e tortuosa, ma che è stata percorsa di buon passo – è proprio un concetto fondamentale: difendere i lavoratori dai soprusi del padronato. Un tempo era la ragione sociale del sindacalismo, del resto, nonché il principale movente delle formazioni politiche di sinistra.


In questo senso un caso più tipico della lotta dei facchini della logistica non si potrebbe dare. I facchini sono il gradino più basso della catena lavorativa, la manodopera meno qualificata; per di più sono in maggioranza di origine straniera, quindi sottoposti a un doppio ricatto. Non sono né buoni né bellini, bensì proletari immigrati che fanno vite ben poco invidiabili. Difficile trovare un soggetto più debole e più esposto alla corsa al ribasso del costo del lavoro.


Azione dei facchini all'Ipercoop di Bologna contro Granarolo


E infatti si incazzano, insorgono, cercano di farsi notare come possono, bloccando i camion, inceppando la filiera logistica. Per questo vengono accusati di essere dei violenti, licenziati, denunciati.

Non solo: i senatori emiliani del PD inoltrano una richiesta d’intervento all’esecutivo, affinché i blocchi dei facchini vengano fatti cessare. Insomma: intervenga il governo a rimuovere l’ostacolo.


C’è stato un tempo in cui una richiesta del genere sarebbe giunta dai partiti di destra, mentre i partiti di sinistra avrebbero casomai chiesto di rimuovere o sanare la contraddizione sociale che produce quelle proteste, non già le proteste stesse. Ma da tempo ormai i sedicenti “democratici” ci hanno abituati a uno spettacolo che più che paradossale è davvero grottesco e miserabile (come quando hanno cercato di convincere i bolognesi – senza riuscirci – che finanziare le scuole private, a pagamento e confessionali, fa bene alla scuola pubblica).



La Cgil di Bologna segue a ruota, sostenendo che le lotte dei facchini rischierebbero di «scatenare una guerra tra poveri». Anche qui occorre dire che un tempo i sindacalisti avrebbero saputo che esiste un solo modo per sventare la guerra tra poveri, ed è stare compatti dalla parte dei poveri, esposti allo sfruttamento e al ricatto. Da quale altra parte si dovrebbe stare in una vicenda come questa? Con le cooperative che – lo sanno anche i sassi – conservano solo una lontana eco degli intenti che le fecero nascere e sono ormai a tutti gli effetti imprese d’affari?


E poi un’occhiata al contesto non la si vuole proprio dare? Stiamo assistendo alla più feroce offensiva padronale che si sia mai data dagli anni Settanta. I costi della recessione economica vengono scaricati sui più poveri e sul cosiddetto ceto medio in via di impoverimento. Mentre Marchionne avvia il trasferimento della Fiat all’estero, il ricatto che aveva lanciato qualche anno fa – «Andiamo a fare auto in Serbia» – viene già scavalcato dalla Electrolux, che invece la Serbia vuole farla qui, in Italia.


Sergio Marchionne e John Elkann


Mentre l’economia continua a franare, i partiti di governo, Confindustria e il più grande sindacato si trovano compatti su cosa?


Sul cancellare una lotta dal basso organizzata dai lavoratori più deboli, perché mette in discussione i profitti delle grandi cooperative.


L’origine storica del movimento operaio è il rifiuto del ricatto tra accettare condizioni di lavoro sempre più infime o perdere il lavoro stesso. Se si abbandona questa consapevolezza e si butta a mare la storia, allora significa che si sta rinunciando a tutto, alla propria stessa ragione d’essere.


Per fortuna è la storia stessa che torna a mordere il freno, e a ricordarci che le contraddizioni sociali ed economiche non spariscono solo perché si pretende di negarle con la bassa retorica di questi anni tristi. [WM4]



COSA STA SUCCEDENDO, ESATTAMENTE?



Vice.com: la logistica italiana è diventata un campo di battaglia

Un eccellente reportage di Leonardo Bianchi.


Scarichiamo Granarolo

Il sito dove si organizza il boicottaggio dei prodotti.


Le lotte nella logistica su Infoaut


Le lotte nella logistica su Global Project


Forza contro forza: la lotta di classe nella valle della logistica

Un’analisi di Anna Curcio e Gigi Roggero.



Comunicato del Coordinamento Migranti e altre realtà di Bologna.


#Granarolo su Twitter

(succedono cose quasi tutti i giorni)




- Allora? È qualcosa o no?

– Qualcosina. E non basta.

– Ovvio che no. L’importante è non pensare, nemmeno per un istante, di potersela cavare con poco.

– No, compadre, «l’importante» è sconfiggere i padroni.

– Grazie al cazzo! Socc’, sei un bello spaccamaroni, eh…


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Published on January 31, 2014 18:00

January 30, 2014

Loredana Lipperini recensisce «Difendere la Terra di Mezzo»

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Ieri su La Repubblica è uscita la recensione di Difendere la Terra di Mezzo scritta da Loredana Lipperini. Molto centrata e potente, a nostro avviso. Si può leggere sul suo blog, QUI. A margine vale la pena far notare che i titolisti di Repubblica non si smentiscono mai. L’ultima volta che Loredana Lipperini si era occupata del lavoro di WM4 su Tolkien era stato nel 2010, con un’intervista a cui era poi stato apposto il titolo “Compagno Hobbit” (sic!). Ieri si è fatto il bis, con un riferimento alla “terza via del fantasy”. Ma che vogliamo farci? Mica vorremo interrompere le vecchie abitudini…


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Published on January 30, 2014 01:31

January 26, 2014

Speciale #PointLenana & #Timira | Emilio Comici Blues e altre storie

Point Timira

Dall’ultimo speciale congiunto Point Lenana / Timira è trascorso un mese. E’ tempo di mettere in ordine i nuovi materiali (audio, recensioni, interviste e quant’altro) e proporre ai lettori una nuova scorribanda nel duplice “oggetto narrativo non-identificato”.


E’ anche tempo di pubblicare il calendario delle nuove presentazioni di Point Lenana.

La scelta di aprile 2014 come mese d’uscita de L’Armata dei Sonnambuli consente a Wu Ming 1 di programmare un’ultima coda di tour (de force), prolungare l’arco fino a congiungere un aprile all’altro (Point Lenana, lo ricordiamo, è arrivato in libreria il 30 aprile 2013, giorno del 43esimo compleanno di uno dei due autori) e protendersi fino a toccare l’ottantina di date. Speriamo che a quel punto sia già in libreria una terza edizione del libro.

What a long strange trip it’s been.



Dal giorno stesso in cui uscirà L’Armata dei Sonnambuli (presto comunicheremo la data precisa), WM1 smetterà di presentare Point Lenana, e l’intero collettivo Wu Ming si dedicherà a promuovere il romanzo scritto a ranghi completi.


E allora perché nel calendario in fondo a questo post ci sono anche date fissate a maggio?


Perché il reading/concerto Emilio Comici Blues, tratto da Point Lenana e non solo, continuerà a girare.

Ed è proprio da quest’ultimo progetto che, esaurite premesse e convenevoli, andiamo a incominciare.


Funambolique. Backstage a Ronchi dei Partigiani, 12 dicembre 2013.

Funambolique. Backstage a Ronchi dei Partigiani, 12 dicembre 2013. Foto di Claudia Mitri.


Il reading sta prendendo forma, serata dopo serata. Aggiungiamo, riarrangiamo, riscriviamo, smontiamo e rimontiamo. Continueremo a “prendere appunti” dal vivo (vere e proprie prove aperte) anche nei primi quattro mesi del 2014. Lo spettacolo completo debutterà alla fine di maggio al Festival del Camminare di Bolzano.


Qui proponiamo tre esempi, tre lacerti audio dalle serate di Ronchi dei Partigiani (GO) e Schio (VI), svoltesi rispettivamente il 12 e 13 dicembre 2013.

A proposito: proprio stasera, domenica 26 gennaio 2014, eseguiremo Emilio Comici Blues al laboratorio occupato Morion di Venezia. Alle 19.


Emilio Comici scende in corda doppia

Emilio Comici


CAMERATA EMILIO

FUNAMBOLIQUE & WU MING 1 – CAMERATA EMILIO

Lo strano, controverso, sfaccettato rapporto tra Emilio Comici e il regime fascista.

Live alla Biblioteca civica di Ronchi, 12 dicembre 2013. Durata: 9’14″

Registrazione ambientale dal lato sinistro del palco.


FUNAMBOLIQUE & WU MING 1 – LE ALI DELL’ANGELO (PRIMA PARTE)

FUNAMBOLIQUE & WU MING 1 – LE ALI DELL’ANGELO (PRIMA PARTE)

Imprese alpinistiche e difficoltà esistenziali di Emilio Comici dal 1928 al 1932.

Live alla Biblioteca civica di Ronchi, 12 dicembre 2013. Durata: 10’18″

Registrazione ambientale dal lato sinistro del palco (normalmente la voce non “esce” così tanto).


FUNAMBOLIQUE & WU MING 1 – LA FALCIATA DELLA MORTE

FUNAMBOLIQUE & WU MING 1 – LA FALCIATA DELLA MORTE

Il giorno che Emilio Comici e Osiride Brovedani si trovarono sotto una frana

Live al centro sociale autogestito “Arcadia” di Schio (VI), 13 dicembre 2013. Durata: 09’08″


I Funambolique sono:

Paolo Corsini – piano, Fender Rhodes, tastiere

Sebastiano Crepaldi – flauto traverso, flauti di varie parti del mondo

Luca Demicheli – basso elettrico, voce

Ermes Ghirardini – batteria


Per contatti, date etc. scrivere a funambolique AT yahoo.it


Emilio Comici



La magia avviene fuori dalla zona di comfort

Jessica Hagy, 22.11.2010.


Il prestigiatore, mentalista, «progettista di esperienze magiche» e storico dell’illusionismo Mariano Tomatis ha scritto e pubblicato sul suo blog una bella recensione di Point Lenana.


In cerca di elementi di “razionale meraviglioso”, lo sguardo di Tomatis ha portato alla luce “sottotesti” finora sfuggiti ai più, o meglio, percepiti solo sub limine.


MARIANO TOMATIS – UNA LETTURA MAGICA DI POINT LENANA



VIVA LA MORTE. Fregio della divisione Monterosa, gli Alpini di Salò al servizio di Hitler.

VIVA LA MORTE. Fregio della divisione Monterosa, gli Alpini di Salò al servizio di Hitler.


LA FACCIA OSCURA DEGLI ALPINI


Il poeta e scrittore Lello Voce ha curato sul sito del progetto Autoanalfabeta uno speciale sul mito popolare degli Alpini, mito che si è imposto nell’immaginario nazionale durante e subito dopo la Grande guerra. Il corpo militare con la penna nera è comunemente associato a immagini di bonarietà e allegro cameratismo, ma ha anche una storia sporca di cui non si deve parlare, storia indisturbata al crocevia di fascismo, colonialismo e collaborazionismo coi nazi. Poiché Point Lenana mette i piedi nel piatto della “cattiva memoria” italiana, Lello Voce ha deciso di intervistare Wu Ming 1 su quest’argomento specifico e sul centenario della prima guerra mondiale. Il risultato lo trovate qui.



Una bella recensione di Point Lenana l’ha scritta Giovanni Campailla e la trovate sul blog Irbis.


POINT LENANA, UN LIBRO DI SPOSTAMENTI


«[...] In effetti, è un soggetto che da un membro dei Wu Ming non ci si aspetterebbe affatto. Perché scrivere un libro su una storia così evidentemente nazionalista, impastata con la retorica dell’eroismo tipica dell’epoca? Tuttavia, scorrendo le pagine di questa sorta di racconto-inchiesta ci si accorge quanto sia importante spostarsi dagli schemi stabiliti per mostrare questioni che altrimenti sono condannate a restare liminari, o anche per costruire miti – come fa il collettivo Wu Ming da tempo – al fine di conservare e far riemergere i significati autentici che i racconti nascondono. Rompere gli schemi tra documentario e finzione è certamente il primo di questi spostamenti [...]»



Sul n. 68 di Chichibìo, rivista bimestrale prodotta nel e per il mondo della scuola, appare un lungo speciale su Point Lenana e Timira. Sono tre pagine grandi e dense a cura di Lucia Olini e Claudia Mizzotti, insegnanti del liceo Messedaglia di Verona: recensione di Point Lenana (Olini) + intervista a Wu Ming 1 (Mizzotti) + intervista a Wu Ming 2 e Antar Mohamed su Timira (Mizzotti). Trovate tutto il malloppo in questa cartella zippata, e l’intervista a WM1 anche qui di seguito.


Come nasce e si sviluppa l’interesse per Felice Benuzzi e la sua impresa, il progetto di scrivere un libro a lui dedicato?


Da anni la storia di quell’impresa volava a grandi colpi d’ala per la testa di Santachiara. Non dico «ronzava», perché poi pensereste a una mosca, mentre quella storia volava con la conturbante eleganza di una farfalla, con la differenza che le farfalle hanno vita brevissima, mentre la storia di Benuzzi ha da tempo «scavallato» il mezzo secolo. Il mio e nostro agente – quello che nei nostri racconti è trasfigurato come il «comandante Heriberto Cienfuegos» – si era imbattuto in Benuzzi e Balletto quando lavorava come commesso in una libreria, sfogliando un vecchio libro di Mario Fantin, Sui ghiacciai dell’Africa, opera monumentale sulla storia (alpinistica e non solo) delle tre montagne più alte del continente: Kilimangiaro, Monte Kenya e Ruwenzori. Fantin dava molto spazio all’avventura che Benuzzi aveva narrato in Fuga sul Kenya , così Santachiara si era procurato anche quest’ultimo libro, lo aveva letto e riletto… fino a maturare l’idea di scriverne, di scrivere un libro che prendesse le mosse da quell’avventura, prolungandone alcuni fili, inseguendone gli echi, contestualizzandola, indagando e sviluppando i brevi accenni autobiografici che Benuzzi – maestro di discrezione e understatement – si era come lasciato sfuggire.


Copertina di Sui ghiacciai dell'Africa di Mario Fantin


Cosa significa la frase posta in epigrafe a Point Lenana «Cosa sa di alpinismo chi sa solo di alpinismo»?


In realtà la frase di C.R.L. James riguardava il cricket, il nostro è stato un détournement. In realtà la domanda retorica può essere adattata a qualunque argomento. Nello specifico: esistono un andare in montagna e uno scrivere in montagna poco o per nulla consapevoli del contesto sociale e storico nel quale si inseriscono. Senza gli umani, il loro vivere in società, le loro relazioni reciproche e quella «seconda natura» che di solito chiamiamo «cultura», le montagne sarebbero solo muti blocchi di roccia. Siamo noi a trasformarle in qualcos’altro – in simboli, emblemi, metafore, depositi di storie – e a farle «parlare». Questa è la premessa «filosofica» del lavoro che abbiamo fatto in Point Lenana .


Come può essere interpretato (e frainteso) il gesto di issare una bandiera italiana sul Monte Kenya, in territorio inglese, nel 1943? Un esempio di risemantizzazione del simbolo del Tricolore?


Come l'impresa di Benuzzi & Co fu riportata dalla stampa popolare del 1943

Quel gesto, quando la notizia giunse – per sommi capi – nell’Italia in guerra, fu subito usato dalla propaganda. In realtà l’impresa di Benuzzi e compagni fu un modo di esprimere un netto rifiuto della guerra, la distanza non solo fisica dalla guerra è più volte rimarcata nelle parti di Fuga sul Kenya che si svolgono nella giungla e sul massiccio. Benuzzi, poi, descrive quel tricolore come qualcosa di più di un vessillo patriottico, lo trasforma in un simbolo di riscatto umano, di dignità riconquistata. E’ poi significativo è che, nel libro scritto in inglese, il tricolore quasi scompaia. Sono pochissime le righe dedicate a esso. Per noi questo dimostra che il «fulcro» della vicenda non è mai stato il tricolore, ma l’impresa in sé, la contestazione di una prigionia che era conseguenza di una guerra ardentemente voluta da chi sappiamo. Non a caso, dopo l’armistizio dell’8 Settembre, Benuzzi e Balletto scelsero di voltare le spalle a Mussolini e cooperarono con gli Alleati.


Felice Benuzzi fu anche scrittore. Soprattutto in relazione a Fuga sul Kenya e alla versione inglese No picnic on Mount Kenya, quali caratteristiche ha la scrittura di Benuzzi e quali sono, a vostro avviso, le ragioni, non solo di natura squisitamente letteraria, della modesta diffusione del libro in Italia e della sua notevole fortuna nel mondo anglosassone, dove è stato anche adottato nelle scuole?


In Italia il libro uscì nel ’48, quando il Paese si illudeva di avere già «voltato pagina». Se c’erano storie che l’Italia non aveva voglia di ascoltare, erano quelle dei prigionieri di guerra: non solo erano storie di prostrazione e umiliazione, di gente che aveva trascorso anni a «far niente», ma erano anche storie dalla parte sbagliata , dove i carcerieri erano gli Alleati che poi avevano liberato l’Italia dal nazifascismo. Ogni ricordo di prigioniero di guerra italiano era un memento del fatto che l’Italia era stata alleata di Hitler. Gli stessi ex-prigionieri ne erano consci, e scelsero di raccontare il meno possibile. Se aggiungiamo che Fuga sul Kenya fu pubblicato da una piccola casa editrice, L’Eroica, il cui proprietario era un ex-repubblichino, e si parlava del tricolore, direi che il cocktail è pronto. Probabilmente fu visto come un libro «fascista», per giunta appartenente a un sottogenere molto di nicchia, quello della letteratura di montagna. Da quel preconcetto faticò a liberarsi, e in quella nicchia rimase per decenni. Nel mondo anglosassone tutta questa sovrastruttura era assente, poterono leggere di quell’impresa in modo più libero, e la apprezzarono, anche perché Benuzzi l’aveva raccontata avendo ben presente i gusti e le atttudini dei lettori anglosassoni.


Come è costruito Point Lenana, questo «oggetto narrativo non identificato», ovvero questo «racconto di tanti racconti»? Come siete riusciti a gestire e mettere ordine punti di vista diversi, tempi e luoghi tanto distanti, eclissi narrative (volute e/o obbligate), excursus necessari, rigore dell’indagine storiografica basata su fonti, testimonianze dirette e ritmo narrativo, convenzioni proprie di più generi letterari? Qual è la formula che tiene insieme tutto?


Eh, ce lo chiediamo anche noi! Rileggendolo, ci pare incredibile che siamo riusciti a raccontare tutte quelle storie senza «stroppiare». Un piccolo segreto di Point Lenana è che non è diviso in capitoli numerati. Il testo è un unico flusso, diviso in cinque parti lunghe (come i movimenti di una partitura sinfonica) spezzate da «intermezzi». Questo ci ha dato maggiore libertà di associare, connettere, saltare da una storia all’altra, da un genere all’altro, da una tipologia testuale all’altra. L’unica pausa interna alle parti, una sorta di indicazione che in quel punto si può tirare il fiato, è un asterisma, segno tipografico molto démodé, composto da tre asterischi disposti a triangolo.


Amedeo di Savoia, terzo duca d'Aosta, con sua moglie Anna d'Orléans.

Amedeo di Savoia, terzo duca d’Aosta, con sua moglie Anna d’Orléans.


WM1 è l’autore di un saggio che negli ultimi anni ha fatto molto discutere il mondo delle lettere: New italian epic. Point Lenana è un libro epico? E Benuzzi è un eroe epico? Se sì, oggi abbiamo bisogno di eroi epici?


In New Italian Epic parlavo di storie con eroi «eccentrici», nel senso che non stanno necessariamente al centro delle narrazioni, ma possono assentarsi anche a lungo ed essere rimpiazzati da altri personaggi, esercitare un’influenza dai margini e «curvare» lo spazio della narrazione. Non solo Benuzzi e Balletto, ma tutti i personaggi di Point Lenana rispondono a questa descrizione: sono presenti anche quando assenti o comunque distanti dal focus della scrittura. Pensiamo a Emilio Comici, al duca d’Aosta, a Stefania Benuzzi… L’idea che si vuole trasmettere è che il vero «eroe» sia in fondo la moltitudine, e che la vera avventura sia scoprire le relazioni tra le persone, gli eventi, i destini, le scelte compiute. Da questo punto di vista, il concetto che troviamo illuminante è quello di «antifascismo esistenziale», che permette di collegare tra loro diversi modi di resistere al regime, strategie coltivate da singoli o piccoli gruppi, spesso invisibili ai radar del potere costituito. Ecco, abbiamo bisogno di eroi che ci insegnino a non cedere.


Copertina Timira


Cosa ha in comune Point Lenana con Timira, che WM2 ha scritto con Antar Mohamed, pubblicato nel 2012?


Da un po’ di tempo descriviamo i due libri come «gemelli eterozigoti». Sono nati quasi in contemporanea, e pur essendo diversi hanno molto in comune. Entrambi sono stati scritti da un membro di Wu Ming con un autore che non faceva parte del collettivo. In entrambi i casi, è stato quest’ultimo ad avere l’idea e pungolare l’altro a scrivere. Entrambi i libri parlano del grande «rimosso» del colonialismo italiano. Entrambi ibridano racconto e inchiesta, memoriale e resoconto di viaggio, saggistica e narrativa.


Wu Ming è un collettivo di scrittori che ha trovato un suo modus operandi avendo realizzato progetti, anche molto impegnativi. Parallelamente i membri del collettivo hanno però intrapreso avventure solitarie e hanno sposato anche progetti con altri compagni di viaggio: nel caso di Point Lenana , WM1 ha lavorato con Roberto Santachiara, che scrittore non è. Quali i rispettivi ruoli nell’impresa appena conclusa? Queste esperienze diversificate , per dinamiche relazionale, ambiti di interesse, esiti narrativi, cosa portano al collettivo Wu Ming? Si può avere un’anticipazione della nuova impresa collettiva, su cui comincia a crearsi una certa attesa? Perché la Francia della Rivoluzione?


Queste esperienze, «soliste» o «ricombinate», servono a sperimentare approcci diversi e tecniche di scrittura che poi diverranno patrimonio dell’intero collettivo. Senza Timira non avremmo scritto Point Lenana nel modo che si diceva, e a sua volta Timira è stato un tentativo di andare oltre certi limiti e difetti di Asce di guerra, che l’intera band scrisse nel 2000 insieme a Vitaliano Ravagli. All’inizio questi libri erano recepiti come «laterali» rispetto ai romanzoni scritti in gruppo, e molti lettori li consideravano meno importanti. Pian piano si inizia a capire che per noi stanno sullo stesso piano, non c’è nessuna gerarchia. Uno non impiega quattro anni per scrivere un libro «minore», anzi, ritengo la stesura di Point Lenana l’impresa più difficile in cui mi sia mai cimentato.

Quanto al romanzo sul Terrore, si intitolerà L’armata dei sonnambuli e probabilmente sarà più lungo di Q, caratteristica che in tempi di crisi e sotto l’ottica del marketing può essere vista come una follia, anche perché nel tempo che abbiamo impiegato a scriverlo avremmo potuto buttare fuori più titoli. Sì, forse è stata una follia. Vedremo!


Incontrare i lettori, i fedelissimi o i neofiti, come accade nelle scuola, è per alcuni scrittori una seccatura, per altri una parte del lavoro (quella commerciale), per altri ancora una sana concessione al narcisismo tipico dell’artista. Per te? Cosa pensi della proposta culturale che sempre più frequentemente assume la forma di “evento”?


Io da sempre incontro i lettori in bibioteche, librerie, circoli, centri sociali, scuole, università, persino case di privati… Da quando abbiamo cominciato, come Wu Ming abbiamo fatto certamente più di duemila presentazioni. E’ una parte imprescindibile del nostro lavoro e della nostra militanza culturale. Non so se siano «eventi», certamente sono incontri. E la vita, come dicevano Sergio Endrigo e Vinicius de Moraes, è l’arte dell’incontro.



Nella galassia Wu Ming non mancano segni di attenzione allo sviluppo sostenibile, alla ricerca di un contatto con la natura, al rispetto per l’ambiente: Point Lenana è anche un elogio dell’alpinismo e un invito alla scoperta wilderness (Felice Benuzzi è tra i suoi fondatori). Anche il collega WM2 in Guerra agli umani e ne Il sentiero degli dei mostra grande sensibilità per questi temi. Si tratta di una manifestazione del vostro impegno che va oltre la letteratura e che utilizza anzi la letteratura, le storie come strumento?


Per noi il paesaggio è composto di storie e plasmato dalle relazioni sociali, relazioni di cooperazione e conflitto. Ci stiamo occupando sempre più di questo aspetto, che riteniamo centrale: il «diritto al paesaggio» come diritto delle comunità umane a vivere il territorio in pienezza e profondità, nella consapevolezza che ogni intervento sul territorio non è mai «neutro», ma è sempre un intervento politico, che riguarda la pòlis e sul quale la pòlis deve potersi esprimere.



CALENDARIO PRESENTAZIONI DI POINT LENANA

FEBBRAIO – MAGGIO 2014


Domenica 2 febbraio

MONTICELLI D’ONGINA (PC)

Circolo ARCI «Amici del Po»

Via Meucci 30 - 0523/827781

Nell’ambito della rassegna «Un Po di cultura»


Domenica 9 febbraio

MORCIANO DI ROMAGNA (RN)

h. 17, Sala ex lavatoio

Nell’ambito della rassegna

«Itinerari Letterari – Storie di luoghi: dalla pagina alla voce»

Info: Biblioteca comunale “G.Mariotti”

via Pascoli 32, Morciano di Romagna

Tel 0541/987221 – biblioteca@morciano.it


Venerdì 21 febbraio

MANTOVA

Presentazione congiunta Timira e Point Lenana

Dettagli a seguire.


Venerdì 28 febbraio

BRESCIA

Dettagli a seguire.


Mercoledì 5 marzo

VIGNOLA (MO)

Circolo culturale Ribalta

via Zenzano

Nell’ambito della rassegna «Libri ribaltabili»

Altri dettagli a seguire.


Domenica 16 marzo

VAL MASINO (SO)

Rifugio «Centro della Montagna / Casa delle guide»

Località Filorera

Altri dettagli a seguire.


Sabato 29 marzo

CATTOLICA (RN)

Biblioteca Comunale

P.zza della Repubblica 31

Altri dettagli a seguire.


Venerdì 23 maggio

BOLZANO 

Festival del camminare 2014

Funambolique & Wu Ming 1 in

EMILIO COMICI BLUES

Altri dettagli a seguire.


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Published on January 26, 2014 05:53

January 16, 2014

Il giorno in cui Putin liberò #Trieste. Dietro la nostalgia del Kaiser, gli affari dello Zar

Putin libera Trieste


[Dato che i post precedenti hanno suscitato reazioni isteriche (*), siamo ben felici di proseguire la nostra inchiesta sul neoindipendentismo triestino - o meglio, sulla sfuggente organizzazione che vuole rappresentarlo di fronte al mondo, il Movimento Trieste Libera.

E' giunto il momento di approfondire certe liaisons lobbistiche e affaristiche, per mostrare cosa vi sia dietro la facciata del Rathaus di cartapesta e i cumuli di paccottiglia nostalgica sull'Austria Felix (bigiotteria non meno reazionaria e strumentale di quella irredentofascista sulla Trieste «Italianissima»). Non è difficile trovare la direzione oltre la fuffa, basta seguire l'immortale consiglio:

FOLLOW - THE  - MONEY!!!рубль;;Ξ!!€!?!‡копе́йка‰!№♠♠!!!]

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di Tuco (Martino Prizzi)


«Penso de gaver le balle piene de sta italia, che no fa altro che asecondar baluba, zingani, politici coroti, lesbiche, culatoni…. Che cojoni che go… Quando el Territorio Libero?» (dal profilo FB di un indipendentista, 19 novembre 2013)


E’ una bella mattina di novembre (la mattina del 27 novembre, per la precisione). Dieci minuti di pausa per la solita sigaretta tra una lezione e l’altra, coi gomiti appoggiati sul muretto. Via Valerio è ai limiti della città. All’improvviso si sente una sirena, e dopo alcuni secondi compaiono in sequenza: una macchina della polizia; una ZIL nera lunga 7 metri con finestrini neri e targa russa; altre 4 macchine con targa russa; una seconda macchina della polizia. La carovana scompare dietro la curva verso le colline. Il cielo è azzurro, l’aria è fresca, la luce è dorata. Trieste. È. Libera.


Lo ha detto la sera prima Enrico Letta davanti ai giornalisti: «Viva Trieste. Trieste Libera». Al suo fianco c’era Vladimir Vladimirovič Putin.



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Per il Movimento Trieste Libera non ci sono dubbi:


«Al di là dello slogan, nella nostra Trieste si è svolto l’importante incontro bilaterale tra Italia e Russia: perchè proprio qui da noi? Perchè, invece di svolgerlo a Roma dove Putin e Letta erano lunedì, la numerosa ed importante delegazione è venuta proprio a Trieste? Siamo stati scelti “solo” perchè storicamente siamo la porta dell’Est?


Ma, soprattutto, di cosa hanno parlato Putin, Letta, e gli eminenti emissari economico-politici riuniti qui?


Letta è meno sprovveduto dei precedenti presidenti del consiglio italiani; questa sua frase davanti a fotografi e telecamere non è quindi assolutamente detta a caso.


Sembra invece suggellare un accordo siglato in quel palazzo a cospetto di uno degli uomini più potenti del pianeta. E chi detta le regole di quell’accordo non è certo l’Italia sull’orlo del baratro economico.»


Del resto, non è un mistero: MTL ha sempre lasciato intendere di puntare sulla benevolenza di Putin per ottenere la finalizzazione del Territorio Libero. Questo commento sibillino ad esempio risale ad agosto:


Contatti tra Letta e MTL per il tramite del senatore Francesco Russo in previsione dell'arrivo di Putin a Trieste


E a partire dall’autunno le allusioni al ruolo di Putin nella questione triestina si sono intensificate:


Indipendentisti triestini, tra cui Giacomo Franzot, fanno l'apologia delle sparate anti-islamiche di Putin e dicono che dovrebbe diventare governatore del TLT


Franzot ricorda, sognante, che la Russia è membro permanente del consiglio di sicurezza dell'ONU


Franzot annuncia una bella sorpresa indipendentista in occasione della visita di Putin


Il 26 novembre sulla veranda della sede di MTL è comparso questo striscione di benvenuto in un russo approssimativo:


striscione_in_russo_sgrammaticato

La frase corretta sarebbe: «ДОБРО ПОЖАЛОВАТЬ НА СВОБОДНУЮ ТЕРРИТОРИЮ ТРИЕСТ». Hanno usato Google Tranzlejt.


Infine è stato lo stesso Sandro Gombač del direttivo di MTL a mettere le carte in tavola, proprio all’indomani della visita di Putin:


Gombac rivela che i contatti tra MTL e Putin sono iniziati nel 2012, un altro parla di 3000 raccomandate spedite da Trieste a Mosca nel 2013


Chi legge starà provando un forte senso di straniamento, e si starà chiedendo: ma che gliene frega a Putin del TLT e degli indipendentisti triestini?


Niente, ovvio. Fare di Trieste una Kaliningrad sul Mediterraneo sarebbe fantascienza anche per lo Zar di tutte le Russie. Probabilmente Letta ha fatto solo una battuta, e i dirigenti di MTL ci hanno costruito sopra una montagna di fantasie, per dare ai simpatizzanti l’illusione che qualche risultato sulla via dell’indipendenza si stia raggiungendo.


Però, però…


Letta è un democristiano navigato. Uno che sguiscia tra gli asteroidi come un bisato. Uno che è assolutamente privo di senso dell’umorismo, uno che se fa una battuta sa benissimo che non farà ridere nessuno. Se ha regalato a MTL una frase su cui vivere di rendita per giorni, forse per settimane, un motivo deve esserci. Forse è lo stesso motivo per cui il Piccolo evita accuratamente di farsi troppe domande e da mesi attacca MTL esattamente nel modo in cui MTL vuole essere attaccato… Quindi:



«Kameraden, sprechen wir von den Eigentumsverhältnissen!»



«Compagni, parliamo dei rapporti di proprietà!»(**). A Trieste Letta e Putin non hanno parlato solo di TLT. Hanno parlato soprattutto di affari.


In particolare hanno parlato di oleodotti, di gasdotti, di terminali, di piattaforme per le trivellazioni nell’Artico. E di investimenti in Porto Vecchio. Durante l’incontro al vertice di Trieste sono stati firmati 28 accordi commerciali tra Russia e Italia nel campo della finanza, dell’energia e dell’industria.


A latere, Putin ha incontrato Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’ENI, per parlare del gasdotto Southstream e dei giacimenti petroliferi di Kashagan sul Mar Caspio, e la Fincantieri ha strappato un contratto per la costruzione di piattaforme estrattive nell’Oceano Artico e di una nave per il recupero dei sommergibili nucleari.


Dal punto di vista strettamente politico, infine, Putin non ha perso l’occasione per mettere in guardia la UE dal tentare ingerenze in Ukrajina, e il giorno prima a Roma Prodi non ha perso l’occasione per buttarsi in torta nell’organizzazione del prossimo G8 in Russia sul tema dell’immigrazione.


Si ha l’impressione che l’incontro di Trieste sia stato una tappa importante nella ridefinizione dei rapporti di forza tra capitalismo russo ed europeo: la turbolenza del Nord Africa e la recentissima vittoria diplomatica russa in Siria sembrano aver affossato definitivamente il tentativo europeo di smarcarsi dalla dipendenza energetica da Mosca. La Croazia è entrata nel progetto Southstream mandando all’aria il progetto europeo di un corridoio nord-sud per l’immissione nei gasdotti di gas liquefatto proveniente da Qatar e USA. La Russia ha dichiarato guerra ai rigassificatori ovunque:


«I russi con South Stream – e con la testarda intenzione di portarlo avanti – inviano un messaggio a tutti i paesi in procinto di completare “terminali di rigassificazione” per esportare, e il messaggio è “non fatelo”.»


Alternative reference source per gli MTL-ini che non credono alla stampa italiana:


«Gazprom continues to rely on increasing its network of pipelines providing fuel to European markets even as global output of liquefied natural gas expands. A possible future competitor is the U.S., where soaring production of natural gas from hydraulic fracturing comes to dominate the American market, leading energy companies to consider investing in liquefied natural gas facilities to begin exports, with Europe eyed as a potential market.»


La Slovenia è sotto pressione e la Russia minaccia di tagliarla fuori se non concederà a Gazprom il monopolio della distribuzione del gas sul suo territorio in deroga alla normativa europea. Se Putin avesse visto questa scritta comparsa vicino a Koper/Capodistria nella zona B del TLT avrebbe ghignato sotto i baffi (che non ha):


Sveglia Territorio Libero di Trieste. Scritta multilingue, anche in russo, nell'ex-zona B, in Slovenia.


Ancora più piacere deve avergli fatto la notizia che l’Unione Europea ha cancellato dalla sua agenda la realizzazione del rigassificatore della Gas Natural nell’area portuale/industriale di Trieste, perché l’Autorità Portuale guidata da Marina Monassi, dopo anni di tira-e-molla, ha finalmente dato parere negativo sulla realizzazione dell’opera.


Uno dei cavalli di battaglia del MTL è stato proprio la lotta contro il rigassificatore. A partire dal 2011 MTL ha monopolizzato tutte le manifestazioni, relegando a un ruolo subalterno le associazioni che si erano mobilitate nel decennio precedente, soprattutto il combattivo comitato guidato dalla UIL dei Vigili del Fuoco.


Particolare interessante: l’argomento utilizzato più frequentemente dal MTL non è tanto quello del rischio ambientale, quanto piuttosto quello dell’incompatibilità dell’opera con lo sviluppo del porto e con il traffico di petroliere legato al terminale SIOT.


Inoltre salta agli occhi il fatto che gli ambienti vicini al neoindipendentismo triestino non manifestino affatto contrarietà ai progetti legati al transito e allo stoccaggio di gas e petrolio provenienti dalla Russia. Tra militanti indipendentisti si parla di terminali GPL da realizzare in golfo appena oltre le dighe frangiflutti, a poco più di 2km dai centri abitati della costa:



E si parla apertamente di concorrenzialità Gasnatural vs Gazprom e di vantaggi doganali che quest’ultima potrebbe ricavare dalla piena applicazione del Trattato di Pace del 1947:


Il TLT come zona a bassissima tassazione per il gas russo


La partita del gas tra Europa e Russia è ora più aperta che mai . Non c’è dubbio che vista da Mosca e da Bruxelles la questione di Trieste e del TLT appaia decisamente diversa che dal molo San Carlo.



O forse no. Stringiamo per un momento l’inquadratura. A Trieste si è parlato anche di Trieste, ed è stato siglato un accordo per un piano di investimenti russi in Porto Vecchio. Lo ha annunciato il presidente della Camera di Commercio Antonio Paoletti, suscitando un moderato entusiasmo tra le fila del MTL, o almeno del suo braccio economico:


Trieste Libera Impresa plaude alle dichiarazioni di Paoletti sui russi che stanno per investire in porto vecchio


L’accordo è stato reso possibile dalla rinuncia alle concessioni da parte della Maltauro e della Rizzani-De Eccher, vincitrici della gara d’appalto nel 2008: la gara da cui era stata esclusa la misteriosa Helm Project di Marcus Donato, fondatore del Comitato Porto Libero di Trieste.


Il progetto della Maltauro-Rizzani-De Eccher, all’epoca fortemente sostenuto dal presidente dell’Autorità Portuale Boniciolli, è sempre stato osteggiato dal MTL e in particolare da Paolo Parovel. Al punto che quest’ultimo ha concesso a Marina Monassi, subentrata a Boniciolli alla presidenza del porto, un’inaspettata apertura di credito, a patto che trovasse il modo di rescindere il contratto con i due colossi dell’edilizia. Detto fatto.


Le contraddizioni però cominciano a emergere quando si entra nei dettagli. Il MTL sostiene che il futuro del Porto Vecchio sia nell’emporialità e nella trasformazione di materie prime in regime di zona franca tax-free. Tuttavia il progetto della Helm prevedeva il riuso dell’area in chiave prevalentemente turistica, esattamente come quello della Maltauro-Rizzani-De Eccher. e probabilmente come quello, ancora non pervenuto, dei misteriosi investitori russi. E deve esserci qualche difetto di comunicazione interna nel movimento, se un dirigente del peso di Sandro Gombač , dopo qualche giorno, ha sconfessato la presa di posizione di Trieste Libera Impresa:


Siamo alle solite, Gombac smentisce Trieste Libera Impresa dicendo che MTL non crede alle dichiarazioni di Paolettii


E poi c’è la ferriera di Servola: una specie di ILVA nel cuore della città, una fabbrica obsoleta e inquinante che nessuno finora ha avuto il coraggio di chiudere, per non lasciare in strada 800 famiglie.


La ferriera è di proprietà del gruppo Lucchini, che fino a pochi anni fa era controllato dalla multinazionale russa Severstal. Alcuni mesi fa la Arvedi di Cremona ha manifestato interesse a rilevare lo stabilimento, bonificare l’area e ammodernare tutto l’impianto. Il sindaco Cosolini (PD) punta molto su questa proposta per il rilancio industriale della ferriera e del suo indotto. Ma Parovel, sulla Voce di Trieste, esprime più che giustificate perplessità sulla reale fattibilità del progetto, e a ragione paventa la possibilità che tutto resti com’è.


Sorprendentemente però Parovel concede una inspiegabile apertura di credito proprio all’accoppiata Lucchini-Severstal e al suo ipotetico piano di riconversione portuale dell’area. Non è ben chiaro perché i dubbi e le perplessità espressi nei confronti della Arvedi svaniscano di fronte alla Severstal, corresponsabile della situazione in cui versa la ferriera e forse coinvolta in traffici poco chiari di rottami radioattivi.


Nel 2012 Parovel e Giurastante  sollevarono  giustamente il problema dei rifiuti campani fatti arrivare di nascosto all’inceneritore di Trieste. Fa specie che non si dimostrino altrettanto sospettosi verso le multinazionali russe dell’acciaio e gli strani contenuti dei tir diretti ai loro altoforni in Italia.


La Ferriera di Servola


Tre indizi sono solo tre indizi. Ma sono comunque indizi di una convergenza di interessi tra i neoindipendentisti, un pezzo di capitalismo triestino e il grande capitale russo.


MTL ha oggettivamente aiutato i russi a far fuori un po’ di concorrenza, in porto vecchio a livello locale, e nella battaglia per il predominio nel campo dell’approvvigionamento energetico a livello europeo. E’ probabile che la presenza di MTL garantisca che in futuro non vi siano contestazioni di massa contro eventuali speculazioni russe in porto vecchio, e contro l’eventuale costruzione di terminali petroliferi o metaniferi russi a terra o vicino alla costa.


Inoltre MTL ha senz’altro inibito contestazioni di tipo nazionalpatriottico contro la “svendita della città al capitale slavo”, sbaragliando la destra veterofascista direttamente sul terreno identitario.


I ricorsi in tribunale, le azioni presso le corti internazionali, i richiami all’atto di dedizione all’Austria nel 1382, la principessa Sissi, eccetera, sono cose su cui a Trieste si può costruire militanza. Ma c’è una partita in corso, e come si è detto, la posta è la ridefinizione dei rapporti di forza tra capitalismo russo e capitalismo europeo. In ballo ci sono metanodotti, oleodotti, acciaierie… Il MTL è entrato nella partita. O forse è la partita che è entrata nel MTL:


Gombac ammette che la partita è quella di gasdotti e oleodotti e MTL vuole avere un ruolo nei nuovi accordi tra capitalismo europeo e capitalismo russo


Che ne sia consapevole o meno, in questa partita il MTL è solo una pedina, forse già meno importante di qualche tempo fa. Il 15 settembre il movimento aveva portato in piazza più di 5000 persone – i simpatizzanti dicono addirittura 8000. Però qualcosa da allora deve essersi inceppato, perchè due settimane dopo che Putin ha liberato Trieste, al corteo per il porto dell’8 dicembre i manifestanti non superavano i 2000. Gli stessi dirigenti del movimento hanno parlato con toni entusiastici di 3000 persone: un’ammissione implicita del flop, visto che nei giorni precedenti avevano fatto intendere di aspettarsi un bis del successo di settembre. Al termine della manifestazione, il MTL ha lanciato un ultimatum all’Italia:


«Se entro il 10 febbraio del 2014 non verranno applicate le disposizioni del trattato di pace del 1947 relative al porto.»


Non c’è nessun errore. Sul sito di Trieste Libera non c’è scritto cosa succederà se entro il 10 febbraio non verranno applicate le disposizioni eccetera. Secondo il Piccolo invece Giurastante avrebbe concluso la frase in questo modo:


«chiederemo l’intervento dell’Onu e eventualmente che l’intera zona A venga trasferita a un altro Paese. Indichiamo l’Austria ma potrebbe anche essere la Russia, come dimostra l’interesse per Trieste in occasione del vertice bilaterale di novembre.».


Ma si sa che è buona norma non scommettere sull’affidabilità del Piccolo. E’ più realistico pensare che in caso di mancato rispetto delle condizioni da parte dell’Italia il movimento potrebbe rivolgersi a un paese terzo affinchè porti la questione della nomina del Governatore del TLT al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Questo paese potrebbe essere l’Austria o più probabilmente la Russia. Di nuovo: perchè proprio la Russia? Lo spiega benissimo Paolo Parovel in questa trasmissione televisiva:



Perché la Russia ha interesse che vengano applicate le disposizioni del trattato di pace del 1947 relative alla realizzazione di una zona tax-free nel porto di Trieste.


Trieste Libera, Letta, Putin… ovvero: come spacciare per lotta di liberazione una partita a scacchi tra capitalisti.


POST SCRIPTUM


Mentre Putin si sollazzava con Letta, Scaroni e compagnia non bellissima, e MTL festeggiava la liberazione di Trieste, subito fuori dalla zona rossa alcune centinaia di triestini manifestavano contro le leggi omofobe appena varate in Russia e per la liberazione delle Pussy Riot e degli attivisti di Greenpeace in attesa di processo. I simpatizzanti di MTL erano sconcertati.


Perché manifestare contro Putin? Cos'ha mai fatto contro gli interessi della città?

Come metafora, l’ombelico non rende più l’idea.


Ai post-fascisti «Fratelli d’Italia» invece non è rimasto altro da fare che organizzare un volantinaggio…


Il volantino di Fratelli d'Italia

Clicca per ingrandire.


…a favore di Putin, difensore della stirpe, della virilità, e della famiglia tradizionale contro gli immigrati e i gay apolidi e incapaci di procreare.


NOTE

* Tanto che più di un malizioso, leggendole su FB, ha esclamato: «Troppa C17H21NO4»,  commento dal quale naturalmente ci dissociamo e che riportiamo solo come iperbole, per rendere conto del diffuso stupore di fronte a quelle che a suo tempo abbiamo definito «esternazioni pazzoidi».

** Bertolt Brecht, incipit del discorso pronunciato nel 1935 a Parigi al Congresso internazionale degli scrittori antifascisti.

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ventriloquo


Gastromanzia di frontiera

di Andrea Olivieri


Alla fine sembra che il Movimento Trieste Libera abbia trovato il suo miglior offerente. L’articolo di Tuco  in questo post – l’analisi degli intrecci economici che si sono coordinati tra loro nel recente vertice bilaterale russo–italiano – permette finalmente di intravedere la vera natura di questo Movimento neoindipendentista.


Meglio essere chiari però: non abbiamo mai considerato Trieste Libera il prodotto di una minuziosa strategia. Pare che difficilmente nuove offerte del mercato politico al tempo della crisi della rappresentanza possano essere pianificate a tavolino in ogni dettaglio. Tanto più se hanno come obiettivo il riconoscimento di una città–stato sotto tutela diretta dell’Onu, invocando un Trattato di pace vecchio di quasi settant’anni e superato nei fatti dalla ridefinizione di ogni equilibrio geostrategico che lo aveva determinato.


L’idea è sempre stata invece quella di credere alle parole di Sandro  Gombač, ex presidente di MTL e ora responsabile della Triest Ngo, ovvero che tutto abbia avuto origine da un gruppo di «personaggi borderline» (l’autodefinizione è di Gombač stesso) che avesse giocato, forse persino casualmente, la carta giusta al momento giusto.


[DISCLAIMER ANTILUDOPATIA: una singola botta di culo in una giocata d’azzardo né testimonia del fatto di avere qualche reale capacità nel gioco, né può impedire che nelle puntate seguenti non sia la sfiga a farla da padrona.]


La carta giusta del MTL è stata pescata dal mazzo della storia della città (mazzo spesso truccato, come si sa), reinventata e gettata sul piatto dell’offerta politica al tempo della crisi, avendo cura di infarcirla con gli elementi base della gastromanzia politica contemporanea: retorica della legalità, primato del popolo onesto contro la casta corrotta, unità dello stesso popolo oltre le inutili distinzioni tra destra e sinistra e le ancora più inutili e anacronistiche distinzioni di classe.


Per completare la giocata è stato aggiunto un elemento ancora più effimero e irrazionale, la triestinità, un’identità talmente priva di definizione da permettere a chiunque di farla propria, come di escluderne coloro che non si vogliono tra i piedi.


I tempi per un’operazione del genere erano del resto maturi, forse persino avariati. Difficile non scorgere nel discorso attuale del MTL grossi frammenti di quanto in molti avevano immaginato per questi territori con la fine del muro di Berlino: multiculturalismo, abbattimento delle frontiere e dell’odio etnico, libera circolazione delle persone e delle idee, plurilinguismo, cosmopolitismo. Sogni ben presto infranti contro  un altro muro, quello della guerra come nuovo paradigma del dominio globale, in quel caso mascherata da scontro fratricida, etnico o ideologico secondo le convenienze.


Se qualcosa almeno è maturato, è stata certamente la fine del mito di Trieste italianissima, della retorica nazionalista italiana che aveva dominato la vita politica della città per decenni, ormai inservibile per chiunque salvo qualche nostalgico. Testimone facile da raccogliere e da sostituire con altre nostalgie – quella asburgica in primis, ma anche quella titoista per una minoranza giustamente fiera della storia operaia della città, ma forse poco consapevole dei rischi che si corre a maneggiare tradizioni inventate e miti tecnicizzati.


Da qui nasce la possibilità per ampi settori del neoindipendentismo triestino di praticare uno strano paradosso: quello di dichiarare nemici i nazionalisti italiani – suscitando simpatie anche «a sinistra» – pur evitando di dirsi chiaramente antifascisti, e persino accettando tra le proprie fila personaggi dichiaratamente antisemiti o simpatizzanti di «zio Adolfo».


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È grazie a paradossi come questo che Trieste Libera può esistere pur essendo un nulla, un guscio vuoto, un’ampolla dei desideri con le fattezze di una bacheca Facebook, nella quale ognuno può gettare un bigliettino con su scritto il proprio sogno e convincersi che si realizzerà. I famigerati account con nickname «Trieste Libera» o «Movimento Trieste Libera», su Facebook e nei vari forum e blog, anche qui su Giap, sono «ventri che parlano» capaci di dire di tutto, ma a condizione di non dire nulla per non scontentare nessuno.


Certo, non sono mancati scivoloni clamorosi su questa linea, ma sarebbe un errore dichiarare esaurita la parabola di MTL, e irreversibile la caduta verso il basso della curva che ne descrive il consenso, a causa degli errori nella comunicazione, degli stucchevoli tentativi di serializzarla in formulette comprensibili e utilizzabili da tutti, delle evidenti contraddizioni interne che emergono di continuo.

Al netto dell’inesperienza e del dilettantismo, questi errori soprattutto riflettono appartenenze, tifoserie e affiliazioni dei singoli personaggi coinvolti nella vicenda.


Gli interessi in gioco sono molteplici, e qui Tuco descrive molto bene quelli più tosti: le mire del capitalismo russo su Trieste come possibile tassello della complessa partita sugli approvvigionamenti energetici europei, e la gara per la valorizzazione finanziaria del suo Porto vecchio sul modello di quanto visto a Barcellona e Città del Capo.


È così che nel MTL troviamo chi tifa per gli oligarchi russi del petrolio e del gas, augurandosi persino che Vladimir Putin prenda il potere della città, ma anche chi crede di poter manovrare gli interessi ben più modesti dei piccoli e medi imprenditori sloveni del Carso, o quelli ancor più modesti dei piccoli commercianti triestini.


Ai vertici di Trieste Libera c’è anche chi dichiara di voler fare pulizia di tutto il marciume della vecchia politica e degli interessi locali che paralizzano la città, mentre di fatto sponsorizza personaggi come Marina Monassi che è diretta espressione di entrambi (*)


È la varietà delle poste in gioco nella partita in cui sarebbe entrato il MTL, o da cui… sarebbe stato entrato, più che il valore di ognuna di esse, a far riflettere sull’emergere di un simile movimento. Gli sviluppi della vicenda italo–russa stanno a dimostrare che nel presente che viviamo ogni aggeggio politico può diventare uno strumento utile agli scopi del potere finanziario, alla necessità del capitalismo finanziario di definire la propria governance sui territori e i suoi stessi rapporti di forza interni.


Del resto chi è Putin se non una specie di MacGyver del business e della geopolitica? Come potrebbe un ex–agente del Kgb finito in disgrazia e poi rinato, restare al comando di una potenza mondiale per decenni se non fosse capace di usare creativamente qualunque strumento, compreso – why not? – un piccolo movimento indipendentista guidato da un gruppo di personaggi “borderline” in una città condannata al declino ma baciata dalla Storia?


Soprattutto questa varietà dimostra una volta ancora che proprio chi sostiene che la lotta di classe sia un ferrovecchio senza senso, in realtà non smette un attimo di combatterla, principio che vale per i grandi squali del capitalismo russo, per i pesci pilota di quello locale e più straccione, come per i piccoli pesciolini che nuotano intorno e dentro il neoindipendentismo triestino, i ribaltavapori del TLT che svoltano le giornate inventando nuovi gadget alabardati e spericolati progetti transfrontalieri da far finanziare all’Unione Europea.


motoskafo


Il problema non è il peso politico reale di MTL, ma la minaccia simbolica che esso è riuscito ad evocare – la morte di una città – e la delirante ricetta presentata come unico antidoto salvifico e taumaturgico per evitarla.


La distopia proposta dal MTL è una città che campa di depositi bancari secretati e defiscalizzati, di banchine portuali consegnate alla speculazione, di gioco d’azzardo e di chissà che altro, sotto l’egida di un governatore che potrebbe anche essere l’uomo più corrotto della terra, purché abbia la grana e tanta voglia di business. Un’isola felice costruita sull’illusoria convinzione che dalla crisi neoliberista ci si possa smarcare rifugiandosi nel proprio supposto particolarismo e consegnandosi mani e piedi proprio alla totale deregolamentazione del mercato, della fiscalità, dei vincoli ambientali, dei diritti sociali e di cittadinanza.


La distopia del MTL è l’ennesima versione politica dell’egoismo sociale contemporaneo, il capovolgimento completo di un famoso slogan zapatista: nada para todos, todo para nosotros!, dove il «noi» è concetto indefinito e indefinibile, i triestini, ovvero tutto e niente, ma popolo eletto che da decenni vivrebbe schiavo sotto il giogo di un paese governato da mafiosi (fino al punto di paragonarsi ai neri sudafricani!) e che pertanto avrebbe diritto a godere del privilegio di ballare sul ponte della nave, mentre attorno tutti gli altri affogano.


Ovviamente cantando: Viva l’A. e po’ bon!


* C’è poco da stupirsi, se si pensa che mentre l’avvocato / compagno di strada di MTL grida ogni giorno al complotto giudeo-massonico, su queste pagine un esponente MTL è venuto a dichiarare orgogliosamente la propria appartenenza alla massoneria.

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N.d.R. I commenti a questa inchiesta saranno attivati 72 ore dopo la pubblicazione, per consentire una lettura ragionata e – nel caso – interventi meditati (ma, soprattutto, pertinenti).

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The post Il giorno in cui Putin liberò #Trieste. Dietro la nostalgia del Kaiser, gli affari dello Zar appeared first on Giap.

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Published on January 16, 2014 11:29

January 14, 2014

Da Ronchi «dei Legionari» a Ronchi dei Partigiani. Di cos’è il nome un nome?

Da Ronchi a Fiume


di Marco Barone (guest blogger)


Nel centenario dell’inizio della Grande guerra, questo articolo affronta nodi simbolici ed eredità odierne della cosiddetta «impresa di Fiume». Evento che, per linguaggio, stile, retorica e violenza, fu un’anticipazione del fascismo e un anello di congiunzione tra le due guerre mondiali.


Partendo dalla Calabria raggiungeremo Fiume per poi fermarci a Ronchi dei Legionari, provincia di Gorizia. Attraverso una lettura critica dell’impresa di occupazione fiumana e del personaggio D’Annunzio, metteremo in discussione la denominazione «dei Legionari», cercando di restituire la giusta dignità a un luogo, a una comunità, a una cittadina che ha lottato contro il fascismo, per quella libertà che va difesa anche attraverso i simboli, proprio quello che ci accingiamo a fare.


«Egli sapeva amarmi come tu medesimo sai. Dal Vittoriale degli Eroi egli partì per la morte a tradimento. L’orbo veggente scoprì subito il tradimento. I testimoni sono vivi.»


Con queste parole di amicizia e amore fraterno Gabriele D’Annunzio ricordava il suo amico Luigi Razza, nato a Monteleone di Calabria (oggi Vibo Valentia). Razza fu redattore del Popolo d’Italia e segretario dei Fasci d’azione di Milano, poi Deputato (dal 1924), segretario e poi presidente della Confederazione dei sindacati fascisti dell’agricoltura (1928-33), membro del Gran Consiglio del fascismo e ministro dei Lavori pubblici (1935). Morì mentre si recava all’Asmara.

Il legame tra D’Annunzio e Razza passa anche attraverso i luoghi e i simboli, e attraverso il mito dell’Impero Romano, «spada lucente» usata per calpestare la dignità di intere comunità, popoli e semplici cittadini.

Nel 1939 a Vibo Valentia venne inaugurata da Benito Mussolini, durante la sua visita alla città, il monumento dedicato a Razza. Eccolo, in Piazza San Leoluca, su un imponente piedistallo, alle sua spalle una stele con l’effigie marmorea della Vittoria alata.



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A Razza «la sua città grata» ha riservato un’altra effigie nel Palazzo del Municipio, anche questo a lui intitolato. «La sua città grata» è scritto anche sul nastro della corona che periodicamente viene apposta alla base del monumento.

A Luigi Razza sono stati intitolati anche il locale aeroporto militare – base del reparto «Cacciatori Calabria» dei Carabinieri, lo stadio comunale, una piazza e la via principale del cimitero cittadino, ove primeggia su tutte l’immensa cappella del Ministro Fascista preceduta da un vialetto circondato, ancora oggi, da fasci littori, e ovviamente all’interno di quest’ultima si trovano foto di Mussolini e del periodo fascista. Del resto, sono a lui intitolate anche diverse vie in svariate città e cittadine d’Italia: Vibo, Milano, Palermo, Avola, Nicotera… Ma non finisce qui: Poste Italiane, su richiesta del Comitato Vibonese Luigi Razza, ha realizzato a margine di un recente convegno sul ministro fascista, uno stand per lo speciale annullo filatelico a lui dedicato, da apporre su una cartolina celebrativa a tiratura limitata.


Il 19 gennaio 1928, come molte altre città dell’Italia meridionale ma non solo, Monteleone venne richiamata con il suo antico nome latino di Vibo Valentia, in omaggio alla politica fascista di «romanizzazione» dell’Italia.


Le iniziative di omaggio e identificazione con l’antica civiltà dell’Impero Romano erano state anticipate proprio nel luogo che aveva fatto da base logistica (e null’altro) al caro amico di Razza, Gabriele D’Annunzio, ovvero Ronchi di Monfalcone, da cui era partita la marcia su Fiume.


Ronchi di Monfalcone divenne Ronchi dei Legionari. Fu uno dei primi, se non addirittura, il primo cambio di nome di un Comune d’Italia, nel pieno spirito della romanizzazione del Paese a opera del regime fascista. Ronchi dei Legionari deve il suo attuale nome alla spedizione capeggiata da Gabriele D’annunzio e sfociata nell’occupazione militare di Fiume. Una forza prevalentemente volontaria e irregolare di nazionalisti ed ex combattenti italiani, partendo da Ronchi, invase e occupò Fiume, città che – è bene ricordarlo – nel Patto di Londra del 26 aprile 1915 negli articoli 4 e 5 Fiume non era inclusa nelle richieste italiane in caso di vittoria.



«In nome di tutti i morti per l’Italia giuro di essere fedele alla Causa Santa di Fiume, non permetterò mai con tutti i mezzi che si neghi a Fiume l’annessione completa ed incondizionata all’Italia. Giuro di essere fedele al motto: Fiume o morte».



Questa la formula del giuramento di Ronchi. Venti ufficiali, duecentoventidue granatieri, quattro mitragliatrici, quattro pistole mitragliatrici, sedicimila munizioni per i fucili, la spedizione ebbe l’apporto determinante di una parte di esercito, soldati frustrati e confusi in seguito alla pace, alla riduzione di personale, alla smobilitazione, che vedevano in D’Annunzio ed in Fiume, con la piena complicità dello stesso Vate, mezzi utili per fini che solo la storia sarebbe riuscita a spiegare con gli eventi successivi. Fiume era solo uno strumento, non il fine. E’ interessante, a tale proposito, la testimonianza del maggiore Carlo Reina, Capo di Stato maggiore del comando fiumano dal settembre al dicembre 1919, poi per diversi motivi allontanato dal Vate e spedito in via punitiva a Zara.

Nella relazione sulle vicende fiumane che inviò a  Prezzolini nel 1921, Reina scriveva:



«veniva trattato l’invio di circa un centinaio di Ufficiali in Italia per avvicinare e lavorare gli ambienti più facilmente rivoluzionabili, studiare gli edifici che in ogni singola Città avrebbero dovuto essere occupati, come banche, stazioni ferroviarie, poste, telegrafi ed infine studiare il moto di armare la milizia cittadina […] Era intenzione del Poeta di inviare in Italia [durante il periodo delle elezioni politiche, NdR] un adeguato numero di legionari col preciso mandato di rompere le urne il giorno delle elezioni. Già tutto era pronto per questa spedizione quando corse a Fiume Mussolini ad impedire l’attuazione.»



Poco prima della partenza per Fiume D’Annunzio – in seguito uno dei primi firmatari del manifesto degli intellettuali fascisti – scrisse a Benito Mussolini: «domattina prenderò Fiume con le armi». Poi lo implorò di non lasciarlo solo nell’impresa. Il 23 marzo del 1919, a Milano, Mussolini fondò i fasci di combattimento, e sempre in tale anno finanziò l’impresa di Fiume raccogliendo quasi tre milioni di lire. Una prima tranche di denaro, ammontante a 857.842 lire, fu consegnata a D’Annunzio ai primi di ottobre. In una lettera successiva, D’Annunzio certificò che parte della somma raccolta era stata utilizzata per finanziare lo squadrismo a Milano, e invitò Mussolini a fare suo il motto degli autoblindo di Ronchi:



«Mio caro Benito Mussolini,

chi conduce un’impresa di fede e di ardimento, tra uomini incerti o impuri, deve sempre attendersi d’essere rinnegato e tradito “prima che il gallo canti per la seconda volta”. E non deve adontarsene né accorarsene. Perché uno spirito sia veramente eroico, bisogna che superi la rinnegazione e il tradimento. Senza dubbio voi siete per superare l’una e l’altro. Da parte mia, dichiaro anche una volta che — avendo spedito a Milano una compagnia di miei legionari bene scelti per rinforzo alla vostra e nostra lotta civica — io vi pregai di prelevare dalla somma delle generosissime offerte il soldo fiumano per quei combattenti. Contro ai denigratori e ai traditori fate vostro il motto dei miei “autoblindo” di Ronchi, che sanno la via diritta e la meta prefissa.

Fiume d’Italia, 15 febbraio 1920 Gabriele D’Annunzio.»



E’ vero che quell’impresa è stata ben vista anche da una parte di sinistra, anche per alcuni principi adottati nella Carta del Carnaro, ma quest’ultima aveva diversi aspetti di autoritarismo puro: vietava il diritto di sciopero, e in caso di grave pericolo per la Repubblica l’Assemblea Nazionale poteva nominare un Comandante per un periodo non superiore ai sei mesi. Il Comandante esercitava tutti i poteri politici e militari, sia legislativi che esecutivi. I membri del potere esecutivo funzionavano come suoi semplici segretari. Allo spirare del termine fissato per la carica, l’Assemblea Nazionale si doveva riunire e deliberare sulla conferma in carica del Comandante stesso, sulla sua eventuale sostituzione o sulla cessazione della carica. La Carta legittimava la proprietà privata e pur confermando la sovranità collettiva di tutti i cittadini senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di classe e di religione riconosceva maggiori diritti ai produttori.


Gabriele D'Annunzio


Certo, la Russia bolscevica fu l’unico paese a riconoscere la Reggenza italiana di Fiume, e alcuni esponenti politici e intellettuali della sinistra videro nell’impresa un’occasione per rivoluzionare l’esistente, ma è il caso di precisare che il resto della sinistra e molti intellettuali, artisti e persone di cultura giudicarono il tutto una buffonata.


Ecco cosa scrissero alcuni professori e intellettuali in merito alla volontà di realizzare il monumento a D’Annunzio a Ronchi:



«[...] Oggi risulta chiaro – anche secondo il giudizio della più recente storiografia – che l’impresa dannunziana rappresentò [...] la premessa ideologica e tattica del fascismo [...] D’altra parte la stessa impresa, esasperando odi locali e conflitti nazionalistici, ostacolò l’avvio ad un’equa soluzione dei problemi politici dell’Alto Adriatico. Celebrare oggi questo episodio significa screditare l’ordinamento democratico del paese e compiere opera di diseducazione politica e civile, particolarmente nei riguardi dei più giovani, ai quali si addita come esemplare un gesto irrazionale di sovversione e violenza



Pier Paolo Pasolini


Pier Paolo Pasolini ha scritto:



«[D'Annunzio] rappresenta e esprime l’Italia nel suo momento involutivo: nel momento cioè in cui il Risorgimento ha mostrato i suoi limiti, la sua vera essenza di rivolta aristocratica, il suo liberalismo apocrifo (cfr. Gramsci), e la nuova classe borghese è cominciata a diventare quello che è: una mostruosa riserva di egoismo, di conformismo, di paura, di mistificazione, di ristrettezza mentale, di provincialismo […] L’impresa di Fiume è stata una pagliacciata narcisistica. I poveri, onesti nazionalisti friulani ne sono delle ingenue vittime.»



Narcisismo e pagliacciate tra le antiche mura di Fiume. Reina, sempre nella relazione inviata a Prezzolini nel gennaio del 1921, denunciò che «ogni sera il Poeta andava a pranzo alla mensa degli Aviatori e sempre portava in regalo a ogni commensale una bottiglia di champagne; 27 erano i commensali e 27 le bottiglie che ogni sera venivano sturate da quei signori, mentre fuori la popolazione veramente soffriva la fame».


Veniamo al punto: il motivo reale del nome Ronchi dei Legionari. Dal libro di Silvio Domini Ronchi dei Legionari Storia e documenti, 2006, a pag. 147 emerge un documento tratto dall’Archivio Comunale di Ronchi, dove si evidenzia il chiaro intento politico di stampo nazionalistico e fascista. La proposta di ridenominazione presentata il 4 ottobre del 1923 dal Consiglio comunale popolar-fascista dice:



«rammentando la nobile ed audace Impresa del Comandante G.D’Annunzio, il quale partì con i suoi Legionari da Ronchi, per suggellare l’Italianità della Città di Fiume, rendendo con ciò noto per la seconda volta il nome di Ronchi nella storia delle rivendicazioni italiane.»



Mussolini ritardò l’accoglimento della richiesta come formulata dai fascisti di Ronchi, probabilmente perché in competizione con D’Annunzio. Ma quando comprese che la denominazione «dei Legionari» si conciliava perfettamente con lo spirito della romanizzazione dell’Italia che egli voleva imporre e avrebbe imposto, e pensando che la Marcia su Fiume altro non era stata che l’anticipazione della Marcia su Roma, non poté che acconsentire, ma perché acconsentisse fu necessario un mero atto di omaggio e di fedeltà che Ronchi doveva manifestare espressamente nei confronti del Duce.


Mussolini e D'Annunzio

Benito Mussolini e Gabriele D’Annunzio al Vittoriale, Gardone Riviera, foto di anonimo, metà anni Venti.


Il 17 maggio del 1924 il Consiglio Comunale a maggioranza fascista di Ronchi si riunisce in seduta straordinaria e delibera di nominare Benito Mussolini «cittadino onorario di Ronchi di Legionari».

Il 2 novembre del 1925, con il Regio Decreto firmato da Rocco e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n° 283 del 5 dicembre, il governo ufficializzò il nome «Ronchi dei Legionari».

Il 20 settembre 1938 Mussolini, dopo aver presentato a Trieste le Leggi Razziali (una delle scene-chiave del libro Point Lenana di Wu Ming 1 e Santachiara), si fermò a Ronchi dei Legionari per consacrare la fascistizzazione del toponimo in armonia con la fascistizzazione dell’Italia razzista.

Va precisato che la decisione di consacrare il nome di Ronchi ai legionari di D’annunzio, all’impresa di Occupazione ed italianizzazione di Fiume, avviene nel periodo delle leggi fascistissime, come la legge n. 2029 del 26 novembre 1925  che predispone la schedatura dell’associazionismo politico e sindacale operante nel regno, o la n.2300 del 24 dicembre 1925 che rimuove dal servizio di tutti i funzionari pubblici che rifiutano di prestare giuramento di fedeltà al regime, o la n. 563 del 3 aprile 1926 che proibisce lo sciopero. Il nome «Ronchi dei Legionari» cade proprio nel bel mezzo della fascistizzazione dell’Italia. Del resto, il fascismo si è appropriato dell’impresa di Fiume, ha fatto propri i simboli introdotti dal guerrafondaio D’Annunzio durante  l’occupazione della città, come il saluto romano con il braccio alzato, la camicia nera istoriata di teschi e il grido «Eia, eia, alalà!». Il nome «Ronchi dei Legionari» sarà fascista e non potrà che essere fascista.


«E’ necessario impiegare il maggior numero di persone nella propaganda in paese e fra le truppe, oggi bisogna agitare e far sì che la Nazione tutta senta l’ora storica che attraversa. Il gesto compiuto a Fiume deve aver termine a Roma», queste le parole di Giovanni Giurati nel rivolgersi a un esponente di primo piano del combattentismo giuliano, ringraziandolo per il contributo offerto da Trieste ai legionari.


Francesco Giunta, il capo dei fascisti triestini, disse che bisognava liberare l’intera regione dall’incubo slavo, dimostrare a certi subdoli stranieri che Trieste era una città italiana che non teneva affatto alla qualifica anseatica, e poi marciare su Roma e scacciare i mercanti del tempio (Cfr. A.M. Vinci, «Dannunzianesimo e fascismo di confine», in Pupo – Todero (a cura di) Fiume, D’Annunzio e la crisi dello Stato liberale in Italia, IRSML 2011)


Né si deve dimenticare che il fascismo inserì D’annunzio tra i suoi precursori anche grazie ad alcuni stretti collaboratori del Vate come Malusardi, Marpicati, Amilcare De Ambris, che senza perdere tempo alcuno si congiunsero al nascente regime.


Innanzi al palazzo del Municipio di Ronchi domina nella piazza un monumento dedicato alla Resistenza. Ronchi ha la decorazione al Valor Militare per la Guerra di Liberazione, perché centinaia e centinaia furono i nostri concittadini che combatterono per la libertà contro il nazifascismo e per questo persero la vita.



E’ stridente il contrasto tra la denominazione fascista e la reale storia di Ronchi, l’identità di Ronchi, la vita della comunità di Ronchi, il senso di appartenenza a Ronchi. All’impresa di D’Annunzio non parteciparono cittadini di Ronchi. La città fu ed altro non fu che una semplice base logistica temporanea.


In un giorno di fine estate 2013, un gruppo di cittadine e cittadini decide di aprire un gruppo Facebook chiamato Ronchi dei Partigiani. Lo scopo del gruppo, che ha centinaia di condivisioni, è proporre una riflessione, una discussione, un dibattito sull’imposizione della denominazione «dei Legionari». Al tempo stesso, ne proponiamo anche la cancellazione, in modo assolutamente democratico, partecipato e dal basso, perché la reputiamo impropria, estranea all’identità di Ronchi e figlia della cultura fascista.


Il 15 novembre 2013 ho inoltrato una istanza di Accesso agli atti al Comune di Ronchi, dove formulavo vari quesiti e risollevavo il problema della cittadinanza onoraria di Mussolini a Ronchi, fatto strettamente connesso all’attuale denominazione.


Il Sindaco di Ronchi ha risposto in modo positivo, prendendo pubblicamente l’impegno di adoperarsi il prima possibile per revocare la cittadinanza onoraria a quasi 90 anni dalla concessione.


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Anche il Partito della Rifondazione Comunista di Ronchi ha presentato una mozione per sollecitare la revoca della cittadinanza onoraria, e  l’ANPI si è espresso in termini analoghi.


La campagna ha iniziato ad avere un piccolo ma importante effetto domino. Sono ancora tanti i Comuni italiani che hanno riconosciuto la cittadinanza onoraria a Mussolini senza mai revocarla. Uno di questi è Gorizia. Già, anche Gorizia ha tra i suoi “cittadini” Mussolini.


Il giulivo sindaco di Gorizia Ettore Romoli (Forza Italia)


Il Piccolo del 13 dicembre 2013 riportava la risposta data dal Sindaco di Gorizia Ettore Romoli a chi parlava di revocare la cittadinanza:



«Mi aspettavo che prima o poi qualcuno mi avrebbe posto questa domanda. Mi sembra che ci siano cose più importanti da risolvere. Lasciamo che la storia continui a dormire».



No, la storia non può continuare a dormire, l’indifferenza è il male dei mali e l’antifascismo è sempre attuale. I principi, la dignità, i valori, i diritti civil e, l’etica, devono essere sempre al primo posto. «Ci sono cose più urgenti» è la solita scusa, adottata non solo per evitare di affrontare il problema, ma anche perché, probabilmente, si condivide ciò che non si vuole revocare. Revocare l’atto di cittadinanza a Mussolini non è un semplice atto formale e simbolico, inutile per la città considerata, è invece un atto di sostanza e questa sostanza si chiama rispetto per la libertà, per la dignità di una intera comunità, rispetto per chi ha lottato contro la dittatura. Non voler revocare la cittadinanza onoraria a Mussolini significa semplicemente essere favorevoli alla sua cittadinanza ed a tutto ciò che egli e il fascismo hanno rappresentato in questo Paese.


Nello stesso tempo, ecco risvegliarsi i sentimenti dell’Irredentismo. La Lega Nazionale di Gorizia ci accusa di essere antistorici:



«Nessuno può modificare la storia ed è pretestuosa qualsiasi divagazione sull’argomento. Il 12 settembre 1919 partì da Ronchi la Marcia su Fiume e in seguito la città divenne parte integrante dello Stato italiano!».



Ancora una volta, è il caso di rimarcare che il legame tra l’impresa di Fiume e la comunità di Ronchi è un grande artificio. E’ lo stesso d’Annunzio nei suoi diari a definire Ronchi «piccolo borgo inconsapevole». Inoltre, l’impresa non ha inciso minimamente nella coscienza collettiva dei ronchesi, che non vi hanno preso parte né ne sono stati condizionati. Ne è dimostrazione il forte impegno antifascista della popolazione durante la guerra di liberazione. Quanto a rivendicare l’italianità di Fiume, è un comportamento incomprensibile oltre che anacronistico.

La Lega Nazionale ci accusa anche di aver manipolato le foto storiche, e ciò sarebbe degno della Enciclopedia Sovietica. In verità, premesso che gli abbonati dell’enciclopedia Sovietica quando un personaggio eminente “scompariva” ricevevano nuove voci da incollare sopra quelle degli scomparsi, noi non abbiamo manipolato nessuna foto. Semplicemente, abbiamo realizzato un logo che vede cancellati con una X il nome i Legionari, sostituiti dai Partigiani.


Ronchi dei Partigiani


Ronchi non è dei Legionari, non appartiene ai Legionari e mai potrà appartenere ai Legionari.



«Il Dio di Dante è con noi», disse il Vate in un’altra occasione, il 20 settembre 1919. «Il Dio degli eroi e di martiri è con noi. È con noi il Dio tremendo e soave che ha i suoi oratorii sul Grappa, sul Montello, nel Carso, che ha le sue mille e mille croci nei cimiteri silenziosi dei fanti, che ha quattordicimila croci in quella terra arsiccia di Ronchi da dove l’altra notte ci partimmo credendo sentire nell’aria l’odore beato del sangue di Guglielmo Oberdan misto al fiato leonino dei combattenti di Marsala accorsi. […] Chi può sperare non dico di abbattere ma di flettere questa volontà umana e divina? […] E il Dio nostro faccia che il vento del Carnaro, passando sopra Veglia, sopra Cherso, sopra Lussin, sopra Arbe, sopra ogni isola del nostro arcipelago fedele e giurato, nel natale italico di Roma e di Fiume romana, giunga ad agitare vittoriosamente tutte le bandiere d’Italia.»



Queste parole di D’Annunzio sono tratte da Nel Natale di Roma, discorso pronunciato il 20 settembre 1919. E’ questo lo spirito che ancora oggi qualcuno difende e rivendica. La Fiume romana che festeggia i propri natali assieme a Roma, sua madre ideale; il ricordo di Buccari, con l’indiretto ma ovvio richiamo alla Grande guerra; l’italianità dall’area adriatica; il richiamo al luogo della cattura di Oberdan che era proprio a pochi passi dalla dimora che ospitò D’Annunzio prima di partire per Fiume; il richiamo al primo martire dell’irredentismo, alla redenzione, tutti elementi che ben connotano  la marcia su e di Fiume.


Ronchi è un luogo collocato vicino al confine. E ciò che era oltre il confine orientale veniva considerato barbaro e selvaggio. D’Annunzio, al quale recentemente è stato anche dedicato uno spazio espositivo – altamente celebrativo dell’impresa fiumana – a pochi passi dal Municipio di Ronchi, così si esprimeva parlando dei croati:



«il croato lurido, s’arrampicò su per le bugne del muro veneto, come una scimmia in furia, e con un ferraccio scarpellò il Leone alato oppure (…) quell’accozzaglia di Schiavi meridionali che sotto la maschera della giovine libertà e sotto un nome bastardo mal nasconde il vecchio ceffo odioso…» (dalla Lettera ai Dalmati)



Un altro esempio del suo razzismo è ne Gli ultimi saranno i primi. Discorso al popolo di Roma nell’Augusteo, 4 maggio 1919:



«Fuori la schiaveria bastarda e le sue lordure e le sue mandrie di porci!»



D'Annunzio a Fiume


«Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. Io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani.» Queste le parole esplicite, pronunciate da Mussolini durante un viaggio nella Venezia Giulia nel settembre del 1920. Come si può notare, c’è piena sintonia con il linguaggio, lo stile e l’intento dannunziano.


A tal proposito è interessante riportare quanto scrive Anna Di Gianantonio in relazione alle barbarie del fascismo in questa fetta di terra.



«Nel nostro territorio in quel breve lasso di tempo il duce aveva già mostrato il suo volto anti slavo, accanendosi contro gli sloveni della zona per non macchiare l’identità italiana di luoghi per la cui “redenzione” erano morte centinaia di migliaia di soldati durante la guerra. Territori per nulla compattamente italiani e che bisognava dunque stravolgere nella loro identità. Da qui spedizioni punitive nei villaggi intorno a Gorizia, legge Gentile sulla scuola che prima limiterà, poi impedirà di parlare la lingua slovena, inizio della procedura di italianizzazione dei cognomi, prime persecuzioni contro il clero. E siamo appena agli inizi della dittatura. Mi pare inutile continuare nell’elenco dei successivi, e ben noti, crimini del fascismo al confine orientale, segnati in maniera radicale dalla politica razzista nei confronti degli slavi, che non erano affatto, come ha recentemente affermato Sergio Romano, esclusivamente provenienti dal “contado” ma costituivano un pezzo importante della borghesia cittadina. Intervistato sulla questione della cittadinanza al duce, il sindaco Romoli ha detto che “bisogna lasciare dormire la storia”, dimenticando che è proprio perché la storia si è lasciata troppo a lungo sonnecchiare che la città ha un’identità così frammentata e debole. E’ proprio perché come italiani non abbiamo mai voluto chiedere scusa agli sloveni e riconosciuto i nostri errori che la città ha stravolto a fini ideologici il suo passato, cercando di guadagnare il più possibile dalla finta identità del “bono italiano”. Ora i tempi sono maturi per chiudere i conti con quelle vicende e iniziare una fase nuova di collaborazione tra le popolazioni del goriziano. Il GECT, l’organismo che lo stesso sindaco ha individuato come quello che dovrà rilanciare l’economia di Gorizia, è ospitato proprio nel Trgovski dom, edificio sottratto agli sloveni dal fascismo. Come si può collaborare senza togliere la cittadinanza al duce che ordinò il sequestro e la razzia di quell’edificio?»



Parole che ovviamente condivido.


Eppure in una delle pareti del Palazzo che ospita il Comune di Ronchi sono riportate due date: la prima è quella dell’impresa di Fiume, la seconda quella dell’annessione di Fiume all’Italia avvenuta il 16 Marzo 1924, quando Vittorio Emanuele III arrivò a Fiume e ricevette le chiavi della città.


Luca Meneghesso ha scritto:



«esistono, come nel caso di Ronchi, imposizioni di tipo ideologico. Più diffuse quelle di tipo nazionalistico: basti pensare a tutti i toponimi slavi (ma anche friulani?) stravolti. Ad esempio il caso del monte Krn che in italiano diventa monte Nero (per la somiglianza di Crn – nero in sloveno – e Krn) nonostante si tratti di un “becco affilato” che scintilla candido di neve per tutto l’inverno come ricorda Boris Pahor. Oppure il caso che unisce entrambe le imposizioni con Sdraussina (Zdravščine) che diventa Poggio Terza Armata: deslavizzazione, italianizzazione ed esaltazione dell’esercito al tempo stesso. Pasolini  però, che nella parte critica mi pare convincente, nella parte propositiva, un monumento (?) a Ascoli, mi pare ingenuo e fuori luogo. Graziadio Isaia Ascoli non solo non fu rivoluzionario, ma neanche fu una vittima del fascismo (essendo morto nel 1907). A lui inoltre è dedicata quella Società Filologica Friulana che, nata nel 1919, è cresciuta durante il fascismo senza rischi. Ascoli, inoltre, è stato l’inventore di quel nefasto neologismo concettuale di “Venezia Giulia” che è da rigettare per diversi ordini di motivi che «altri prima di me hanno analizzato e che sono gli stessi, più altri, per cui rigettare il monumento ai legionari (oltre che il suffisso a Ronchi). È possibile a posteriori una revisione critica di un’opera imperialistica anche su un piano semplicemente toponomastico? Ronchi dei Partigiani mi piace ma la questione è più complessiva e non la risolveranno i ‘taliani/talians/italiani in quanto amministratori (e gli amministratori anche se furlani bisiachi e sloveni pur sempre italiani restano). D’altra parte neppure i sottani, furlani, bisiachi o sloveni che siano, si interesseranno alla cosa. La nominazione-denominazione è annichilente atto d’imperio. Cose da padri e padroni: non è di là che passa l’emancipazione… Scardinare il linguaggio istituzionale, viralizzare i dialetti, imbastardirsi, ripartire dal basso. Nessuno in dialetto dice “Ronchi dei Legionari” o “Venezia Giulia”: è così che Legionari e gens italiche sono già morti.»



Chissà che magari un giorno, oltre a revocare la cittadinanza onoraria a Mussolini, non si proceda anche a cancellare la denominazione «dei Legionari». E chissà che in tale momento non sia possibile realizzare tra Fiume/Rijeka e Ronchi un gemellaggio, nel nome di una storia che non dorme ma è viva e sveglia, perché la storia siamo noi. Ronchi potrebbe essere uno dei primi comuni a essere intitolato formalmente ai partigiani, e la forma sarà sostanza, sostanza di dignità.


Fiume / Rijeka

Fiume / Rijeka oggi


Chiudo riportando la motivazione della Medaglia d’Argento al valor militare assegnata a Ronchi per l’attività partigiana svolta dai suoi cittadini dopo l’8 settembre 1943



«Già duramente provato dalle operazioni nel primo conflitto mondiale e, forte delle sue tradizioni di dignità civile e politica, reagendo con indomito coraggio alla lunga e crudele dittatura fascista, il popolo di Ronchi dei Legionari, pur se in condizioni di grave inferiorità tecnica e numerica, dopo l’8 settembre 1943, organizzò la Resistenza contro l’occupatore, impegnandolo in numerosi e cruenti scontri. Nel corso di venti mesi di lotta partigiana, malgrado persecuzioni, deportazioni nei campi di sterminio, distruzioni e torture, i Ronchesi furono tra i protagonisti della rinascita della Patria, lasciando alle future generazioni un patrimonio di elette virtù civili, di coraggio e di fedeltà agli ideali di giustizia.»




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Published on January 14, 2014 12:02

January 12, 2014

Difendere la Terra di Mezzo | Calendario presentazioni 2014

ontheroad


16 gennaio, Roma: C.S.A. Astra 19, via Capraia 19 (Tufello), ore 19:30 (qui un’articolata e interessante recensione che annuncia la presentazione romana).


24 gennaio, Teramo: Laboratorio Politico Gagarin Sessantuno,  via Mario Capuani 61, ore 21:00.


2 febbraio, Oderzo (TV): Spazio Zero, via Piave 2, ore 16:00.


15 febbraio, Torino: Luna’sTorta, via Belfiore 50/e, ore 21:00 (preceduta da aperitivo alle 20:00).

Contatti: beppemarchetti@gmail.com


16 febbraio, Aosta: Espace Populaire, via J. C. Mochet 7, ore 18:00


25 febbraio, Modena: Istituto Filosofico di Studi Tomistici, via San Cataldo 97, Ore 21:00


26 febbraio, Pavia: Spaziomusica, via Faruffini 5, ore 21:30

(modera Chiara Codecà)


15 giugno, Ara, frazione di Grignasco (NO), Casa delle Grotte di Ara, ore 14:00.


Tolkien Day, 7 dicembre 2013

Audio dell’incontro al Video Games Museum di Roma (VIGAMUS), nell’ambito del Tolkien Day, 7 dicembre 2013.

Con Roberto Arduini, Wu Ming 4 e Claudio A. Testi.


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Published on January 12, 2014 13:44

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