Wu Ming 4's Blog, page 108
November 5, 2013
Wu Ming + TerraProject = 4. Un viaggio di fotografie e racconti.

Sulla strada per Calitri, Irpinia, Gennaio 2007.
Questa è la breve storia del nostro primo libro fotografico (se mai vedrà la luce).
Ed è la breve storia di un nuovo “progetto transmediale multiautore” che ci vede coinvolti.
All’inizio – ormai sette anni fa – 4 era un reportage, un progetto di fotografia documentaria immaginato da TerraProject.
Michele Borzoni, Simone Donati, Pietro Paolini e Rocco Rorandelli hanno percorso l’Italia in cerca dei quattro elementi primordiali: Aria, Acqua, Terra, Fuoco.
Hanno immortalato l’inquinamento industriale, la cementificazione delle coste, le crepe di vecchi e nuovi terremoti, l’attività dei vulcani.
Hanno trovato un linguaggio comune, un’unità stilistica e di costruzione dell’immagine che va ben oltre la scelta del formato quadrato.
Ricordo alcuni loro scatti su un vecchio numero di Internazionale, ma allora non sapevo ancora chi fossero.
Poi, nel maggio 2010, ci arriva la mail di un “collettivo di fotografi fiorentini”, con oggetto: “fotografia collettiva – prova contatto”. La proposta di collaborazione è ancora vaga, si parla di “legare forme di scrittura a narrazioni visive”, di una mostra da tenersi a Firenze, di un catalogo da stampare in proprio.
Da lì, dopo varie prove e rimuginazioni, nasce l’idea di usare le immagini del reportage come tarocchi narrativi: selezionarne alcune, metterle in fila, ricavarne racconti. Non le storie immortalate dalle inquadrature – ché per quelle parlano già le foto – ma intrecci nuovi, monologhi dove i singoli elementi narrano in prima persona e gli uomini non sono mai protagonisti. Quattro favole patafisiche che mescolano miti e geologia, cronaca e invenzione, immagini e parole. Quattro racconti scritti da Wu Ming 2, cercando di tradurre il senso dei singoli reportage in una trama inedita e in una lingua d’aria, d’acqua, di terra e di fuoco.
Renata Ferri ci ha aiutato a scegliere le immagini, a calibrare i testi, a unire i due ingredienti in un ibrido fecondo.
Ramon Pez ha concepito il design e la grafica del libro illustrato – che poi sono diventati 4 libri in una confezione unica.
Daria Filardo si è presa cura della mostra, dove le 4 storie generano 4 audioracconti e un reading di 40 minuti.
Anna Iuzzolini ha coordinato l’intero progetto e ci ha impedito di perdere pezzi per strada.
Ma al termine di tutto questo lavoro, sette anni dopo l’idea iniziale, 4 non è ancora finito.
La stampa del libro, infatti, è legata a una campagna di crowdfunding, e le 1000 copie di carta e colla si potranno toccare solo grazie alla raccolta di 520 quote da 25 euro, entro il 23 dicembre 2013.
La mostra, invece, sarà a Firenze dal 9 al 30 novembre, allo spazio espositivo delle Murate.
L’inaugurazione è per sabato 9, alle ore 18, con una lettura concerto di Wu Ming 2 accompagnato da Giovanni Azzoni e Michele Freguglia di Frida X.
Il conto sulle dita è cominciato: 1..2..3…
4 – UN LIBRO DI FOTOGRAFIE E RACCONTI from TerraProject Photographers on Vimeo.
The post Wu Ming + TerraProject = 4. Un viaggio di fotografie e racconti. appeared first on Giap.








November 4, 2013
Difendere la Terra di Mezzo. Data di uscita e prime presentazioni
Difendere la Terra di Mezzo (Odoya 2013), il libro che raccoglie e amplia gli scritti e gli interventi pubblici di Wu Ming 4 su J.R.R. Tolkien, sarà in libreria il 28 novembre.
Entro quella data ci sarà una seconda tappa di avvicinamento (dopo quella di Lucca Comics & Games di domenica 3 novembre), dove Wu Ming 4 affronterà alcuni dei temi trattati nel libro:
- Trento, mercoledì 13 novembre, Università degli Studi, Dipartimento di Lettere e Filosofia, aula 1, nell’ambito del seminario permanente intorno al mito:
09:00, Fulvio Ferrari, Eroismo/Antieroismo: la riproposta del mito germanico.
10:00, Alessandro Fambrini, Science Fiction, Fantasy e mito.
11:00, Wu Ming 4, Tolkien, l’immaginario nordico e il lavorio dei simbolisti.
La prima presentazione del libro si terrà il giorno stesso dell’uscita:
- Bologna, giovedì 28 novembre, libreria Feltrinelli, Piazza di Porta Ravegnana 1, ore 18:00.
Si replicherà poi al Festival della piccola e media editoria, insieme a Roberto Arduini:
- Roma, venerdì 6 dicembre, Più Libri Più Liberi, sala turchese, ore 15:00.
The post Difendere la Terra di Mezzo. Data di uscita e prime presentazioni appeared first on Giap.








October 27, 2013
#PointLenana: calendario novembre-gennaio, «Speciale di speciali», recensioni, interviste, video

Point Lenana è tornato in Val di Fassa grazie ad Andrea Camilli e Sara Bonfili. Veduta dalla Val Contrin. Sullo sfondo, la Forcella Marmolada (2896 mt); in primo piano, la Cima Ombretta (3011 mt).
[Sono passati sei mesi dall'uscita di Point Lenana, sei mesi passati on the road. La fatica si fa sentire, il tour rallenta, ma prosegue e durerà fino a febbraio. Arriveremo a una settantina di presentazioni.
Il libro è alla seconda edizione in Italia e stiamo negoziando per un'edizione britannica. Un libraio ci ha detto: «Se il passaparola continua così, Point Lenana sarà uno dei rari casi di libro "natalizio" uscito ad aprile.» Forse esagerato, ma è vero che tante persone lo stanno scoprendo solo adesso, come molti articoli e recensioni escono solo adesso. «Point Lenana è un diesel», ha detto Paolo Repetti.
Non era scontata questa buona accoglienza, non lo era per niente. Si è dovuta perforare una sottile membrana di stupore e diffidenza. Si trattava di un'uscita molto spiazzante, anche perturbante. Bisognava accompagnare il libro in giro per l'Italia, far vedere e far sentire che ci credevamo e ci crediamo. Ora si è creato un circolo virtuoso tra sentieri di montagna e librerie, nonché tra carta e rete. Di questo circolo virtuoso beneficia anche la riedizione di Fuga sul Kenya di Felice Benuzzi, "classico sconosciuto" che sta finalmente uscendo dalla nicchia editoriale in cui era confinato da decenni.
Grazie a tutte e tutti, per averci creduto anche voi. Si va avanti. Ecco il nuovo speciale. C'è un sacco di roba. Buona lettura, buone visioni, buone scarpinate.]-
-
Da Il Manifesto, 05/10/2013:
ASSALTO ALLE TRINCEE STORIOGRAFICHE
di Alberto Prunetti

Alberto Prunetti
Il collettivo di narratori Wu Ming ci ha abituati a salti improvvisi di paradigma. Spiazzano tutti anche stavolta, a parte forse i lettori più attenti che sul blog-comunità Giap li accompagnano nell’evoluzione delle loro scelte narrative. Nell’ultima fatica, Point Lenana (Einaudi, euro 20), frutto della collaborazione di Wu Ming 1 con Roberto Santachiara, ci sono almeno due elementi di discontinuità con il passato. Innanzitutto, la scelta della prima persona, a tratti autobiografica (una soluzione adottata di rado dal collettivo); in secondo luogo, il fatto di aver scelto come principale attore di questa nuova storia non un’icona della sinistra o un eroe – magari dimenticato – della memoria popolare ma un personaggio sfaccettato e a prima vista tutt’altro che attraente. Il protagonista di Point Lenana è infatti Felice Benuzzi, prigioniero di guerra italiano che evade nel gennaio 1943 da un campo di prigionia inglese in Kenia e compie con due sodali un’impresa memorabile: scalare una punta del Monte Kenia (che dà il nome al libro) per poi ritornare, con un gesto di fair play , al campo di detenzione. Una scalata che rappresenta un superamento del fascismo e il recupero della propria dignità, costretta in un contesto carcerario. Ma Point Lenana non è solo la storia di un’evasione né la biografia di un alpinista. Il libro, come ha dichiarato in un’intervista Wu Ming 1, diventa l’occasione «di una scorribanda nel Novecento italiano».
Gli autori di Point Lenana camminano sulla pista di Benuzzi («scrivendo con i piedi») e attivano varianti su quel cammino che li conducono a Trieste, con la persecuzione fascista delle minoranze slovene, poi nei Balcani, in Libia e in Etiopia, riportando alla luce le vergogne e i crimini del ventennio fascista e del colonialismo italiano, come l’uso di armi chimiche quali l’iprite per lo sterminio delle popolazioni civili praticato, prima che in Siria, dagli italiani in Libia: un crimine di guerra negato per anni da tanti storici e giornalisti, a cominciare da Indro Montanelli. Itinerari così poco lineari che si possono cartografare solo con un mezzo molto più duttile e versatile del saggio accademico o del romanzo di finzione. Stiamo parlando di un «meta-genere narrativo», un ibrido letterario tra fiction e no fiction, tra saggio, memoria di viaggio, inchiesta storica o giornalistica, che i Wu Ming chiamano «oggetto narrativo non identificato». Difficile da collocare nelle collane e negli scaffali delle librerie, Point Lenana vive infatti in un regno di mezzo tra saggio e narrativa, con l’esposizione nel racconto delle fonti della ricerca documentale, la citazione di materiali iconografici, il dialogo con le scritture testimoniali e la bibliografia che espande l’opera e compie connessioni e agganci.
La scelta di Wu Ming 1 e Santachiara non è comoda. Ci vuole coraggio per prendere come «eroe» un personaggio difficile, con un piede nello scetticismo verso il regime – che non è ancora antifascismo ma che gli basta a sposare un’ebrea berlinese a pochi giorni dall’approvazione delle leggi razziali – e un altro in una carriera diplomatica. Qualcosa di diverso da quel «disseppellire le asce di guerra» che già il collettivo di storyteller avevano messo in cantiere con la storia di Vitaliano Ravagli. Il nuovo progetto solista ha forse più debiti con un’altra scrittura «meticcia», Timira di Wu Ming 2 e Antar Mohamed, che ricostruisce magistralmente la vita di Isabella Marincola. Una scelta che all’inizio risulta spiazzante e che poi, per i miracoli delle macchine narrative dei Wu Ming, funziona alla perfeziona e rischia di aprire falle devastanti nelle trincee storiografiche degli «italiani brava gente».
N.B. A proposito di Prunetti, del suo libro Amianto e degli “oggetti narrativi non-identificati”, si veda questa conversazione a tre con Prunetti, WM1 e De Michele .
-
⁂
POINT LENANA, UN LIBRO DI INCHIOSTRO E ROCCIA
La rivista on line Q Code Mag ha dedicato uno speciale non tanto e non solo al libro, ma a quella che un giapster ha scherzosamente definito la Point Lenana experience, formula che allude all’insieme di pratiche, viaggi, gesti, camminate, arrampicate, pellegrinaggi e performances fiorito intorno al tour di presentazioni – tour divenuto a sua volta, come abbiamo già scritto, un’opera transmediale. Tiziano “Occhiopesto” Colombi conclude così la sua riflessione (sottolineatura nostra:
«Quello che è successo a Point Lenana segna, forse, una via che va oltre la sperimentazione: nell’epoca digitale è l’oggetto libro, fatto di carta e inchiostro ad aver permesso un’integrazione innovativa tra il web e la polvere della strada.
Sono in molti ad aver camminato con una copia di Point Lenana nello zaino, gli scarponi nei piedi e in testa un mare di storie, e sembra che la scalata sia destinata a continuare.»
Occhiopesto è anche l’intervistatore di WM1 nel video di Umberto Diecinove incorporato sopra, girato durante un’escursione in Val Gravio (Val di Susa).
N.B. Se qualcuno, dopo avere visto il video, vuole approfondire gli spunti sulla “montagna ribelle”, come prima lettura consigliamo il libro di Marco Armiero Le montagne della patria. Natura e nazione nella storia d’Italia. Secoli XIX e XX .
-
⁂
[Una delle presentazioni più belle - tanto da essere definita su Twitter "la madre di tutte le presentazioni"! :-D - si è svolta a Pavia l'1 ottobre scorso, con la presenza di entrambi gli autori presentati da Mauro Vanetti e Girolamo De Michele, con la collaborazione musicale di Luca Casarotti. Poco prima della serata, lo scrittore e blogger Angelo Ricci ha intervistato WM1. Ricci non usa il registratore ed è interessante il suo modo di prendere appunti: ciascuna domanda è scritta su un foglio A4, per il resto assolutamente bianco. Mentre l'intervistato risponde, Ricci riempie lo spazio vuoto, poi passa al foglio successivo. L'intervista è apparsa sul suo blog Notte di nebbia in pianura. La riportiamo anche qui.]
–
Point Lenana. Come nasce questa collaborazione narrativa tra Wu Ming 1 e Roberto Santachiara?
Nasce da un’intuizione folle di Roberto Santachiara che mi fece leggere Fuga sul Kenya, di Felice Benuzzi e mi disse che, a questo proposito, mi doveva proporre una cosa. Ho letto quel libro e mi è piaciuto subito. Fuga sul Kenya era una sorta di ossessione che da tempo accompagnava Roberto. C’erano da scoprire e ricostruire accenni, punti di contatto, momenti nascosti e a volte criptici del passato di Benuzzi. Fuga sul Kenya rappresentava una specie di “evento matrice”, un evento che poteva aprirsi su altre storie, altre narrazioni. Roberto aveva bisogno quindi di un narratore che sapesse muoversi tra gli archivi, le storie, i documenti. E poi mi ha proposto di andare con lui sul monte Kenya. Da questi fatti nasce la collaborazione che ha portato alla stesura di Point Lenana.
Come avete collaborato, in senso propriamente tecnico, tu e Roberto Santachiara?
Roberto è stato il creatore, il portatore di questo “evento matrice”. Ha animato la volontà di giungere a questa narrazione. È stato sempre presente e sempre molto vicino a questa creazione. Ci siamo continuamente confrontati. Io mi sono fatto carico dell’onere dell’organizzazione e della stesura in senso narrativo.
Il collettivo Wu Ming, penso a quello che teorizzate da sempre, come per esempio nel vostro saggio New Italian Epic, interpreta il divenire storico trasfigurandolo in quello che definisce “sguardo obliquo”. Come si incardina Point Lenana in questa definizione?
Point Lenana è l’apoteosi dell’obliquità. È l’opera che inizialmente ha lasciato più perplessi diversi lettori “storici”, poteva sembrare una bizzarria. Una serie di storie incastonate le une nelle altre e che ha dovuto in qualche modo perforare la membrana, il feedback che c’è tra noi e la comunità dei nostri lettori. Point Lenana è il frutto di quattro anni di lavoro fitto. C’era la necessità di risolvere problemi di montaggio, di coordinamento tra le storie, tra i piani narrativi. Point Lenana rappresenta appunto quel nostro “sguardo obliquo” sul Novecento. Attraverso la storia di Felice Benuzzi raccontiamo l’irredentismo, il fascismo, il ruolo dell’Italia nella seconda guerra mondiale, la guerra fredda, il colonialismo.
Quanto per i Wu Ming è importante la ricerca dei punti sconosciuti, delle interzone, di quelle che si possono quasi definire fratture spaziotemporali del divenire storico?
Per noi sono luoghi e momenti fondamentali ai fini di quello che definiamo lo “sguardo obliquo”. Raccontare la grande storia attraverso le piccole storie. A differenza dei romanzi ucronici, che presentano una realtà storica completamente alternativa, noi scriviamo romanzi ucronici potenziali. Raccontiamo vicende che si sviluppano in quei momenti storici nei quali tutto può ancora accadere, biforcazioni temporali in atto, dove potenzialità in divenire possono ancora evolversi verso differenti direzioni.
Nelle vostre opere trovano spazio contaminazioni e ibridazioni letterarie, storiche, narrative. È questo il traguardo a cui doveva arrivare il romanzo dal suo punto di partenza, quello cioè del romanzo dell’Otto e Novecento?
È difficile dirlo perché la definizione stessa di romanzo è diventata sempre più inclusiva. Nel Novecento, per esempio, vengono definiti romanzi opere che invece non sarebbero state definite tali nell’Ottocento. Il canone romanzo si è ampliato e oggi la definizione della sua struttura è molto sfuggente. La definizione di questa categoria è ancora aperta e in continua mutazione anche spaziotemporale. Pensiamo a un romanzo del Settecento come il Tristram Shandy di Sterne, che ha caratteristiche simili a certe avanguardie che sono apparse solo due secoli dopo. Io stesso non saprei come definire Point Lenana, non mi sentirei di etichettarlo, di inserirlo in una categoria. L’importante è comunque raccontare storie. Con qualunque mezzo.
Mi pare di ricordare che i Wu Ming lavorassero a un nuovo romanzo, un romanzo che prendeva le mosse da un’altra interzona storica, gravida di sviluppi e di sguardi obliqui: la rivoluzione francese. A che punto è questo progetto?
Lo consegneremo a dicembre e, se tutto va bene, uscirà ai primi di marzo del 2014. E’ un romanzo su ipnosi e Terrore (il Terrore robespierriano). Uscirà sempre per i tipi di Einaudi Stile Libero e si intitolerà L’armata dei sonnambuli.
⁂

Chiappe al vento. Una delle fotografie che Rodolfo Graziani spedì da Addis Abeba a Roma nel 1937 per far vedere che era in perfetta forma fisica. Mossa che seminò tra i gerarchi del regime seri dubbi sulla sua salute mentale. Poco dopo, fu rimosso dall’incarico di Vicerè d’Etiopia e sostituito da Amedeo di Savoia, duca d’Aosta. L’episodio è narrato in Point Lenana. Questa e altre immagini si trovano sulla bacheca Pinterest dedicata al libro, clicca per visitarla.
[L'ultimo numero della rivista bimestrale Pagina Uno contiene un bello speciale Point Lenana dal titolo bislacco e arguto. Recensione e intervista a cura dello scrittore (e alpinista) Massimo Vaggi. Buona lettura.]
—
DALLE ALPI (QUELLE VERE) ALLE PIRAMIDI (METAFORA)
Conversazione con Wu Ming 1 a proposito di Point Lenana
di Massimo Vaggi

Massimo Vaggi
Felice Benuzzi fu scalatore, scrittore e funzionario diplomatico. Nell’ordine. Fu anche prigioniero di guerra: nel 1943 evase con due compagni di avventura dal campo Pow di Nanyuki per scalare il Monte Kenya, 4.985 metri sul livello del mare, respirare per qualche ora l’aria rarefatta di un quasi cinquemila e tornarsene dopo 17 giorni al campo di prigionia, dove si presentò a un ufficiale inglese che non fatichiamo a immaginare stupefatto, forse più di quanto non fosse imbestialito. Probabilmente, dunque, il nostro fu anche un visionario scriteriato.
Benuzzi avrebbe narrato l’impresa in Fuga sul Kenya , e nella sua versione inglese, No picnic on Mount Kenya, non del tutto identica a quella italiana, che ha conosciuto un grande successo internazionale
Non è difficile immaginare che ciò che di questa vicenda Roberto Santachiara e Wu Ming hanno ritenuto straordinario non è la storia, per quanto affascinante ma troppo densa di fascismo e nazionalismo, di un prigioniero di guerra che si fa beffe con un solo gesto degli inglesi e della montagna. Non vi riconoscono la truculenza della peggiore iconografia alpinistica, quella dell’uomo fotografato nell’atto di vincere la montagna dopo averla ingannata, per aver saputo scegliere quelle strade che il dio delle rocce ha dimenticato di disseminare di difficoltà insormontabili, per aver evitato valanghe e slavine, per aver affrontato i pericoli sino al limite, e a volte un poco oltre, delle sue possibilità. Non vi leggono la retorica dell’italianità e del riscatto, né l’esaltazione della forza fisica. Ciò che è sorprendente, nella vicenda di Benuzzi e dei sue due strampalati amici, è l’assenza di tutto questo, o forse, e meglio, l’indifferenza nei confronti di ciò che rappresenta.
Ma come? Non è l’orgoglio smisurato e la consapevolezza di aver vinto, vinto, vinto, che gonfia il petto di un alpinista e fa proporre il “saluto alla vetta” anche quando la vetta è poco più di una collina?
Nella lettura della vicenda di Benuzzi non c’è il senso della vittoria, pare ci sia invece una proposta di armonia e quasi dissoluzione nella perfetta potenza della montagna. Sensazione non nuova, per chi frequenta a diverso titolo l’alpinismo, e sensazione comune a tutti coloro hanno sperimentato l’assoluta nullità di qualunque io di fronte ai paesaggi infiniti di una savana al termine della quale possono alzarsi montagne o catene dai nomi evocativi come Kilimanjaro, Ruwenzori, Kenya…
A me piace immaginarlo così, Felice Benuzzi, e così lo lasciano immaginare Roberto Santachiara e Wu Ming 1: seduto sulla cima, felice di nome e di fatto, ma non certo pronto a urlare al mondo della sua vittoriosa impresa, ma invece a ridere della sua impresa (senza aggettivi), nella quale l’elemento umano e quello sportivo si dissolvono nella consapevolezza che è finita, siamo arrivati, torniamo. Senza sfida, con ironia e amore.
Una vicenda affascinante, tanto più se contestualizzata negli anni in cui l’alpinismo andava impregnandosi, anche per volontà feroce del CAI e del suo presidente Manaresi, delle parole e delle icone del fascismo. Erano fascisti gli scalatori dell’ambiente triestino dove Benuzzi si formò, anche i più famosi e controversi come Emilio Comici, ma – questa sembra essere la domanda – era necessariamente fascista anche il loro modo di intendere e proporre l’alpinismo, e cioè il rapporto con la montagna?
Molti anni più tardi Benuzzi avrebbe condiviso quest’affermazione:
«Per wilderness montana intendiamo quegli ambienti incontaminati di quota dove chiunque ne senta veramente il bisogno interiore può ancora sperimentare un incontro diretto con i grandi spazi e viverne in libertà la solitudine, i silenzi, i ritmi, le dimensioni, le leggi naturali, i pericoli.»
E dunque eccolo lì, il Felice felice, a sperimentare la solitudine di vetta.
Ma, una volta immaginatolo sulla cima del Monte Kenya, si comprende la decisione degli autori, che rifiutano di raccontare la storia di quella scalata cogliendo a piene mani dal libro del protagonista (di cui peraltro si parla ampiamente, ma del suo successo editoriale, delle sue due versioni, delle sue riduzioni cinematografiche…), e invece decidono di riviverla in prima persona. Come se nessuna scrittura fosse possibile se non dopo aver ripercorso gli stessi sentieri, e calpestato gli stessi sassi.
Un alpinista come Roberto Santachiara e un figlio della pianura totale, per dirla alla Piovene, come Wu Ming 1, arrancano (più il secondo che il primo) ad altezze desuete sino a raggiungere Point Lenana (e siamo solo all’inizio del libro). Perché lo fanno? Wu Ming 1 ha dichiarato a un intervistatore [Lorenzo Filipaz, N.d.R.] che
«Uno scrittore dovrebbe mettere alla prova la propria scrittura, favorirne l’evoluzione o addirittura forzarla, mettendola a contatto con esperienze che facciano da reagenti. Uso esperienze nel senso più pieno della parola, esperienze-limite che muovano il corpo come non si era mai mosso prima. Non ci si pensa mai, ma scrivere è un atto fisico, è un’azione del corpo. Quello che scrivi dipende dalla postura che assumi, da come il tuo corpo interagisce con lo spazio intorno. …. Per me è stato così: gli appunti che ho preso sul massiccio del Kenya, marciando a corto d’ossigeno, o in uno dei rifugi dove abbiamo dormito, o seduto su un lastrone di basalto, circondato da iraci che saltellavano sulle rocce, contengono concatenamenti di immagini che, riletti a mente fredda, hanno sorpreso anche me. Da quegli appunti ho sviluppato lo stile di scrittura della prima parte di Point Lenana, una lingua e un modo di passare da un tema all’altro, da un episodio all’altro, che non ritrovo in nessun altro libro uscito dalla fucina Wu Ming .»
Con questa precisazione, Wu Ming 1 risponde in modo implicito alla lettura più semplice di Point Lenana, secondo la quale sarebbe la traduzione narrativa delle tesi sviluppare in New Italian Epic. In quel saggio, che continua a rappresentare, per chi lo voglia e anche per chi non lo vuole assolutamente, un punto di vista e una lettura delle vicende della narrativa italiana recente da cui è difficile prescindere, il collettivo Wu Ming disegna e definisce le caratteristiche più feconde della migliore produzione nostrana: il mix di narrativa e saggistica, uno sguardo “obliquo”, la dimensione epica, che fanno di un romanzo un UNO (Unidentified Narrative Object).
Facile dunque ritenere che Point Lenana volesse costituire la logica conseguenza di una scelta teorica. Wu Ming 1 rifiuta però questa visione un poco meccanica, valorizzando al contrario il rapporto di consequenzialità con l’esperienza fisica (come se le tesi sviluppate in NIP fossero state da un lato “digerite” e ormai parte di una propria consapevolezza di scrittore e dall’altro fosse stata ribadita l’inesistenza di ogni velleità di costruire intorno a quelle tesi, così fortemente criticate e combattute, una corrente letteraria). Il collettivo Wu Ming d’altronde non ha mai fatto mistero di questa regola aurea: chi se ne frega dei critici e delle tesi. Ciò che importa è la prassi.
Prassi, sassi, piedi, fatica e appunti.
Eppure, se Point Lenana non è la rappresentazione narrativa delle tesi di NIP, ne costituisce in qualche modo una fotografia.
Come in ogni UNO che si rispetti, e forse al di là del prevedibile, gli autori approfittano della vicenda di Benuzzi per costruire una trama iperbolica di riflessioni storiche, di indagini, di giornalismo, connotate in modo quasi maniacale da quella che il romanzo definisce “acribia” della ricerca documentale. Una mole enorme di libri giornali riviste fotografie interviste film documentari. Tutto a bollire per restituire al lettore una visione piramidale dell’esistenza, dove la cuspide è costituita dalla vita del personaggio o dalla sua esperienza e la base da tutto il resto: in quale città nacque il nonno di Felice Benuzzi? E cosa accadeva in quella città e intorno a quella città? E alla Storia degli uomini e delle nazioni, in quei giorni? E alle società alpinistiche? E alla Libia e ai suoi guerriglieri, all’Etiopia e ai combattenti ustionati dall’iprite, al Negus Neghesti, agli inglesi, alla figlia di Benuzzi, a Emilio Comici, ai Gikuyu? E’ vero che per comprendere cosa fece Felice Benuzzi è indispensabile conoscere qualcosa dei Mau-Mau o di Omar Al-Mukthar?
Forse no, non è affatto indispensabile. Ma dalla vetta di un quasi cinquemila la prospettiva appare più ampia, e meno concentrata è la visione. Che sia per un’esperienza fisica o per una scelta consapevole, lo sguardo degli autori si propone come se venisse da lontano, sempre più da lontano, per questo motivo capace di abbracciare tutte le storie della Storia. La scommessa, in questi casi, è l’acutezza della visione.
Ebbene questa sì – direbbe Manaresi se fossimo nel ’40 e se gli autori fossero portati ad esempio di italico ingegno e fascistissima volontà – è scommessa vinta.
Perché le infinite trame che legano le vicende del duce a un’escursione nell’Antartide sono analizzate con la precisione dello storico: prova, questa, del fatto che la vita di chiunque può diventare un grimaldello per consentire la comprensione dei fatti della Storia, alla sola condizione che la lettura per quanto appassionata delle vicende non voglia prescindere dall’analisi rigorosa della documentazione. Eppure: se un elemento di collegamento deve essere immaginato, non lo vedo tanto nella vita di Benuzzi e nella possibilità che attraverso la sua cronologia possa essere rivista la storia italiana ed europea degli ultimi cento anni, quanto nel fatto che Benuzzi si è – per casualità – trovato ai confini di quella storia. Confini fisici, che accomunano Trieste, la Cirenaica e l’Africa Orientale Italiana nella cornice del delirio espansionistico del fascismo. Confini culturali, tracciati da un’idea di identità nazionale che nelle regioni che furono dell’Impero Asburgico vorrebbe contrapporre al multilinguismo e alla contaminazione l’imposizione di un’italianità fatta di cognomi storpiati e di repressioni durissime delle minoranze, e che in Libia e in Etiopia propone, senza peraltro ottenere successo plenario, il divieto della promiscuità razziale, la segregazione, l’apartheid. Figlie di un datato e profondissimo disprezzo: scriveva Ferdinando Martini, primo governatore civile dell’Eritrea (1897-1900) e Ministro delle Colonie (1915):
«Chi dice che s’ha da incivilire l’Etiopia dice una bugia o una sciocchezza. Bisogna sostituire razza a razza. Lo affermava il Munzinger trent’anni fa quando la schiettezza era lecita. All’opera nostra l’indigeno è un impiccio: ci toccherà dunque, volenti o nolenti, rincorrerlo, aiutarlo a sparire, come altrove le Pelli Rosse, con tutti i mezzi che la civiltà, odiata da lui per istinto, fornisce: il cannone intermittente e l’acquavite diurna… I colonizzatori sentimentali si facciano coraggio: fata trahunt, noi abbiamo cominciato, le generazioni a venire seguiteranno a spopolare l’Africa dei suoi abitanti antichi…»
Benuzzi, marito di un’ebrea, debitore della cultura austroungarica, amico di alpinisti sloveni, frequentatore di abissini, ha visto tutto questo. Non ha alzato la voce, non è diventato apologeta né brigante. Ha scalato il Monte Kenya, affermando nel modo a lui più congeniale un’idea di libertà.
Non è dunque la domanda che tutti sono tentati di fare e che gli stessi autori si pongono (“ che razza di libro è questo ?”) ma una diversa, alla quale vorrei una prima risposta:
Che razza di mondo ha visto, Benuzzi? Navi cariche di italiani brava gente che vanno a incivilire l’abissino?
Quando si attaccò l’Etiopia, c’era l’intenzione di fare tante cose all’abissino (e svariate cosette all’abissina, aspetta e spera che già l’ora si avvicina), ma «incivilire» non fu mai una di queste. Il regime strombazzò un sacco di cazzate ipocrite, perché nemmeno un regime fascista o nazista può dire apertamente che sta sferrando una guerra puramente offensiva, motivata soltanto da odio, interessi, desiderio di conquista e profitti. La guerra va sempre presentata come difensiva, come reazione a un attacco altrui, come azione preventiva contro un pericolo. La verità la trovi nel «verbale nascosto», in quello che i potenti si dicono in camera caritatis. Si capisce da questo l’odio per soggetti come Wikileaks, Julian Assange, Bradley Manning, Edward Snowden… Hanno reso noti i verbali nascosti. Le comunicazioni tra il duce e i gerarchi del regime sono macabre, ciniche, intrise di un razzismo esplicitamente rivendicato. E’ gentaglia che si compiace dei massacri, del numero di negri sterminati e anche delle balle che sta raccontando all’opinione pubblica. Ad Addis Abeba Benuzzi era un mezzemaniche, parte di un team che cercava di riconquistare la fiducia dei nativi dopo il sanguinoso viceregno di Graziani (un proposito assurdo, puro wishful thinking). Considerato il suo background, partecipò all’impresa coloniale senza fanatismi né eccessivi entusiasmi. Consideriamo che era cresciuto in una famiglia irredentista, seppure «mista» (mezza italiana e mezza austriaca). Era stato educato all’amor di patria e al culto di una «italianità» che a Trieste – per ipercompensazione rispetto a un’identità «bastarda» e di confine – è sempre enunciata in modo parossistico, estremo, caricaturale. Del resto, nemmeno nel resto d’Italia si è mai capito cosa sia, di preciso, questa «italianità». E’ una di quelle «idee senza parole», di quei concetti dati per non spiegabili, che secondo Furio Jesi sono alla base della cultura di destra (secondo lui ben rappresentata anche tra chi si crede di sinistra, e io sono d’accordissimo). In Etiopia, per l’Italia fu un disastro. Benuzzi ne fu consapevole più di altri, tant’è che non fu particolarmente nostalgico di quell’esperienza, non si confuse nel novero livoroso dei «reduci» organizzati, fu netto nel distacco dal fascismo. Detto ciò, non se la sentiva di buttare a mare quell’intera fase della sua vita. Anche perché, va detto, non tutti quelli che si trasferirono nell’Africa Orientale Italiana lo fecero perché fascistissimi credenti nel mito dell’Impero… Molti andarono nelle colonie perché nell’Italietta fascista si soffocava. In Africa c’era meno conformismo, perché il controllo sociale era meno stringente. La faccenda è complessa. Le (poche) pagine che Benuzzi scrisse in vecchiaia per ricordare quei giorni sono piene di amarezza. Rievocare era lacerante.
Che funzione – sociale, politica, storica, culturale – immagini per un’operazione di riflessione sul colonialismo italiano e sulle politiche di segregazione razziale? In altre parole, quanto ha pesato, sulla scelta dell’argomento, la possibilità di contribuire a restituire una più seria opportunità di fare i conti con il nostro passato?
Nell’introduzione a un suo libro del 2003, La nostra Africa, Angelo Del Boca faceva riferimento a due romanzi sul colonialismo italiano – Una pioggia bruciante di Franca Cavagnoli e Debrà Libanòs di Luciano Marrocu – e scriveva:
«E’ confortante apprendere da questi due libri che crimini così gravi come quelli commessi a Debrà Libanòs e in cento località etiopiche con l’impiego dell’arma chimica abbiano trovato uno strumento di comunicazione così immediato ed efficace come quello del romanzo [...] L’opera narrativa può contenere un messaggio più facilmente assimilabile e svolgere un’azione propedeutica, colmare lacune e sanare ingiustizie. Anche questo modo di fare storia, attraverso il romanzo, può riconciliarci con ‘la nostra Africa’, che attende da noi non soltanto sospiri di nostalgia, ma anche l’ammissione, se pur tardiva, dei nostri torti».
Praticamente, era un passaggio di consegne e un’investitura. Del resto, sai meglio di me che Del Boca iniziò come scrittore. Dal 2003 a oggi, svariati altri romanzi si sono occupati del nostro rimosso coloniale. Secondo noi, ciò che vale per i romanzi, a maggior ragione vale per quelli che chiamiamo «oggetti narrativi non-identificati». La «narrativa di non-fiction», la non-fiction con tecniche letterarie, è uno strumento potentissimo.
Il libro fa vivere di storia, di Africa e di alpinismo. Ne esce l’immagine di un rapporto nato troppo tardi, quello tra la montagna e il suo bacillo dei sassi con chi per alzarsi dal livello del mare saliva la torre degli Asinelli. O è virtù di quella montagna, nel mezzo di tutto ciò che c’è intorno, e dunque il Kenya?
Dimentichi di precisare che la maggior parte degli studenti universitari non sale sulla torre degli Asinelli perché, secondo una radicata leggenda, chi ci sale prima della laurea non si laurea più. Detto questo, in Point Lenana riportiamo una sorta di sentenza sommaria del camerata Angelo Manaresi, che guardacaso era di Bologna – di più: era il podestà di Bologna! – ed è stato l’unico presidente nazionale del CAI di estrazione appenninica anziché alpina. Questa sentenza sommaria dice:
«Un giornalista che scriva di montagna senza esserci mai stato o che si sia accorto dell’esistenza di essa a quaranta o a cinquant’anni, dopo avere fatto nella sua vita tutt’altro mestiere, scriverà forse cose letterariamente egregie, storicamente giuste, scientificamente esatte, ma non porterà mai, nella sua prosa, ardore, serenità e convincimento.»
Io rientro nella categoria: mi sono accorto dell’esistenza della montagna a quarant’anni. A trentanove, per essere precisi. E ne ho scritto. Ho scritto cose letterariamente egregie? Storicamente giuste? Scientificamente esatte? Spero di sì! Quanto ai tre valori enunciati, non credo che la serenità sia utile per fare letteratura, ma ardore e convincimento mi sembra di averli dimostrati. Adesso un po’ di bacillo dei sassi ce l’ho anch’io, sto andando in montagna, sto facendo escursioni etc. Merito del Monte Kenya, certamente, ma ogni montagna è un Monte Kenya, ogni montagna è un deposito di storie. Io vado in montagna per cercarle.
Un aspetto che affrontate direttamente in alcune occasioni, ma che è ragione e senso di molte altre pagine (a partire da quelle su Emilio Comici), è quello di ciò che viene definito “ antifascismo esistenziale ”.
Girolamo De Michele ha scritto che la vicenda umana di Emilio Comici, a dispetto di tutta la propaganda di regime sul suo conto, dimostra «il fallimento dell’antropologia fascista». Comici si credeva e si professava fascista, ma il suo coltivare relazioni, il suo andare in montagna, persino la sua depressione bipolare lo allontanavano dall’idealtipo del maschio guerriero fascista. Forse sarebbe eccessivo, nel suo caso, parlare di «antifascismo esistenziale», forse è più giusto parlare di afascismo. «Antifascismo esistenziale» va bene per descrivere gli operai delle fabbriche del Nord e, più in generale, chi portasse avanti nella vita quotidiana microstrategia di resistenza al conformismo, alla pervasività della propaganda, alle intrusioni del regime nelle condotte degli italiani. Il Benuzzi che sposa un’ebrea tedesca pochi giorni prima dell’entrata in vigore delle leggi razziali e la porta con sé in Etiopia, dove nessuno saprà che è ebrea, compie una scelta radicale, di consapevole sfida alla sorte e al regime. In questo caso, sì, penso si possa parlare di antifascismo esistenziale. Discorso che, attenzione, non ha nulla a che vedere col ciarpame caramelloso sul «fascista buono» di turno (Perlasca, Palatucci o chi altri), soggetto le cui buone azioni (a volte totalmente inventate, come si è appena scoperto di Palatucci) vengono strombazzate per redimere almeno in parte il regime. La categoria di «antifascismo esistenziale» serve a tutt’altro. Per esempio, a far capire l’inanità del luogo comune qualunquista: «Prima erano tutti fascisti, poi tutti antifascisti». E’ falso che gli italiani fossero tutti fascisti. Senza l’antifascismo esistenziale della classe operaia, coltivato sottotraccia per vent’anni, non sarebbero spiegabili i giganteschi scioperi contro la guerra del marzo ’43.
⁂
CALENDARIO DELLE PRESENTAZIONI DI POINT LENANA NOVEMBRE 2013 – GENNAIO 2014
4 novembre
BOLOGNA
h. 16:15 DAMS, via Barberia 4
Discussione sul libro nel corso di Storia e Media
tenuto dalla prof. Patrizia Dogliani
6 novembre
RAVENNA
h. 18.30, sala del Caffè Letterario
via Diaz 26
Nell’ambito della rassegna “Come gira il mondo”
29 novembre
GENOVA
h.19 Teatro dell’Archivolto
Sala Gustavo Modena
Reading da Point Lenana
e lettura in anteprima dell’ouverture del nuovo romanzo
L’armata dei sonnambuli
nell’ambito della “Notte degli scrittori”
12 dicembre
RONCHI DEI LEGIONARI (GO)
…anzi, RONCHI DEI PARTIGIANI
Funambolique & Wu Ming 1 nel reading/concerto
EMILIO COMICI BLUES
Dettagli a seguire.
14 dicembre
SCHIO
Funambolique & Wu Ming 1 nel reading/concerto
EMILIO COMICI BLUES
Dettagli a seguire.
9 gennaio
TORINO
Teatro Carignano
Reading da Point Lenana
e lettura in anteprima dell’ouverture del nuovo romanzo
L’armata dei sonnambuli
nell’ambito della “Notte degli scrittori”
16 gennaio
MORCIANO (RN)
Dettagli a seguire
25 gennaio
PADOVA
h. 16:30, luogo da definire
(comunque nel Quartiere 4)
Nell’ambito della rassegna “Un libro nel bicchiere”
Con WM1 ci sarà lo storico Santo Peli.
Seguirà un altro pugno di date – pochissime – nel febbraio 2014, infine il tour terminerà per lasciare spazio (e tempo) alle presentazioni del nuovo romanzo collettivo. Il reading/concerto Emilio Comici Blues, però, continuerà a girare senza scadenze. Per contatti, date etc. scrivere a Luca Demicheli dei Funambolique, bassluka@yahoo.it.
-
The post #PointLenana: calendario novembre-gennaio, «Speciale di speciali», recensioni, interviste, video appeared first on Giap.








October 23, 2013
Il 19 Ottobre e la saggezza della Roma ribelle | #19O #OccupyPortaPia
di Giuliano Santoro (guest blogger)
«A giovano’,
sta mano po esse fero e po esse piuma.
Oggi è stata ‘na piuma…»
Come si smonta uno schema che sembra destinato a lasciarti annaspare nella palude del già visto? Il campo di forze che ha costituito la narrazione del 19 ottobre e la strana coalizione di soggetti che si è ritrovata in piazza e ha stracciato la sceneggiatura dell’annunciato remake del 15 ottobre 2011 fornisce una risposta interessante a questa domanda.
Siamo nell’Europa della fine della socialdemocrazia: trionfano le larghe intese e le grosse koalition. Ci troviamo nel paese sciagurato in cui la principale forza d’opposizione parlamentare lavora quotidianamente per svuotare le piazze e deviare l’attenzione dei cittadini su questioni marginali, quando non velenose. Girovagando in mezzo alle macerie della sinistra qualcuno spera ancora che dalla crisi si esca riaffermando le vecchie regole invece che imponendone di nuove. Dal canto mio, ho vissuto il clima e le riunioni di preparazione, le chiacchiere di attesa per strada e gli articoli allarmistici sui mass media, in una strana condizione di sospensione. Il caso ha voluto che nei giorni che hanno preceduto l’evento mi sia capitato di dover chiudere, assieme agli altri tre autori, le bozze della Guida alla Roma Ribelle cui stiamo lavorando ormai da più di un anno.
Così sono sceso in strada inquietato dai fantasmi dell’allarmismo e sorretto dagli spiriti della rivolta romana, in preda a una specie di capogiro lisergico: Menenio Agrippa e i tribuni della plebe facevano capoccella dietro uno striscione sorretto da migranti, la maschera col pizzetto di Guy Fawkes mi appariva in mezzo ai baffoni dei militanti dei Volsci degli anni Settanta, le tende della acampada montate alla fine dello sciopero generale dei sindacati di base si mescolavano alle baracche dei calabresi venuti a Roma in fuga dalle fatiche contadine, i ritmi dei pink bloc della murga riecheggiavano le gesta del Tamburino che si lanciò contro le truppe di Napoleone III per difendere la Repubblica Romana del 1849.
Al netto di clamorosi casi di malafede, i giornalisti sono stati protagonisti di tragicomici numeri allarmistici prima e di assurde descrizioni guerrigliere e ci hanno messo qualche giorno a capire che il film che erano pronti a descrivere, che da qualcuno gli era stato promesso e che hanno continuato a girare sulle pagine dei loro taccuini, non è stato mai proiettato. Non era aria di rappresentazioni. Doveva essere la giornata dell’ «assedio» e della «sollevazione generale». Da mesi si annunciava il momento della Vendetta-con-la-V. In un certo senso tutto ciò è avvenuto, ma in forme felicemente inconsuete e probabilmente inattese per gli stessi protagonisti. Il 19 ottobre non è stato lo spazio d’inizio autunno dentro cui regolare questioni pendenti tra aree politiche. E non ci si è illusi di «fare giustizia» nello spazio di qualche chilometro di corteo. Al contrario, la saggezza della Roma ribelle sedimentatasi negli anni, quel misto di disincanto e senso di orgogliosa separatezza dalle beghe del potere che a volte viene scambiato per rassegnazione, ha trovato terreno fertile presso quelli che, nonostante il boicottaggio di Trenitalia e la crisi, hanno risposto alla chiamata dei movimenti di lotta per la casa di una città nella quale, come disse qualche anno fa a noi scolari diligenti un cattivo maestro, «si occupano le case fin dal tempo dei Gracchi».
Per costruire il frame si era parlato dell’arrivo dei No Tav a Roma, ma questa volta non c’erano fortini da accerchiare. Il potere, si sa, lavora più a fondo di una trivella dell’Alta Velocità, e i palazzi che ha ereditato come simbolo oggi sono vuoti, buoni giusto per archiviare faldoni e verbali compilati altrove. Così, in un gioco di inseguimenti semantici che ricorda i quadri di Escher più che le rappresentazioni statiche della guerra di trincea, man mano che il corteo avanzava e la città ribelle passava sotto i nostri occhi è diventato difficile capire davvero chi assediava cosa.
Ecco, vedi? Da lì si arriva su via Nazionale. È stato lì che i soldati nazisti nella Roma occupata spararono a Carlo Lizzani e ai suoi due compagni mentre facevano scritte in tedesco inneggianti alla Rivoluzione russa. A proposito, attento che adesso passiamo da CasaPound, pare che siano là davanti con caschi e bastoni a provocare i manifestanti. Lassù invece doveva esserci il parchetto dove il bambino Roberto Perciballi prese una sberla da un uomo in divisa e decise che qualche anno dopo avrebbe fatto il cantante punk nei coattissimi Bloody Riot. E poi, altro che petardi: la vera spina nel fianco del ministero delle finanze di via XX Settembre sono i rifugiati che occupano l’enorme stabile in piazza Indipendenza, alle spalle della sede governativa.
«Questi del Forte Prenestino tirano fuori l’autogestione anche nel giorno dell’assedio», dice il Duka commentando la coreografia con gli ombrelli degli attivisti del più antico centro sociale romano.
#19O video-tacco / #test from fratelli di TAV on Vimeo.
«Se prima eravamo tutti valsusini oggi siamo anche tutti romani», hanno detto gli organizzatori ai giornalisti. In effetti, i romani ribelli venuti da tutt’Italia sono gente abituata al fai-da-te: prima c’erano quelli che arrivavano alle porte della città e costruivano le loro baracche a ridosso delle mura storiche, assediando la città millenaria simbolo del potere eterno e sgretolando la severità di quell’Impero. Oggi ci sono gli occupanti di case, che riciclano il patrimonio edilizio dismesso e pretendono diritti di cittadinanza.
Erano le migliaia di persone che a Roma vivono nelle occupazioni il cuore del corteo del 19 ottobre. Si trattava dei migranti che difendono le case assieme ai loro bambini e i precari che non possono permettersi un mutuo. Guido Lutrario, che per conto del sindacato di base Usb ha vissuto da vicino l’organizzazione del 19 ottobre, per descrivere questa composizione parla della «rabbia della parte più povera della società». Assieme a loro c’erano le facce viste in questi due anni di lavoro sotto traccia nelle nuove occupazioni e nei comitati di quartiere. Hanno disegnato un serpentone lungo e denso di storie, che ha letteralmente ribaltato il percorso tradizionale delle manifestazioni, scampando la coazione a ripetere della ritualità: dalla Porta che affaccia su Piazza San Giovanni si è risaliti oltre piazza della Repubblica per andare fino a Porta Pia, seguendo un tracciato che ha unito due punti delle diverse porte di accesso alla città. Quel percorso ha spalancato l’ingresso del centro di Roma e adesso dovrebbe andare dritta verso una sollevazione che ha bisogno di essere europea per superare i vincoli di bilancio che si sono materializzati nel corso dell’incontro tra i manifestanti e il ministro Lupi del 22 ottobre.
Anche il movimento spagnolo del #15M è arrivato a cogliere il nesso tra speculazione edilizia e bolla finanziaria occupando spazi fisici: almeno su questo siamo qualche passo in avanti. Per questo Roma, ormai da anni intesa quasi inconsapevolmente da molti come «territorio di conquista» dei cortei, «terra di nessuno» da attraversare per poi tornare alla propria città, con il #190 è tornata inattesa protagonista. Più di uno dei palazzi occupati si trova dalle parti della piazza dell’accampamento. Nessuno ha mai creduto davvero che la tendopoli precaria romana di Porta Pia potesse trasformarsi nella acampada madrilena di Puerta del Sol. Perché il tempo delle acampadas è passato da un paio d’anni e perché a Roma e in Italia, a differenza che a Madrid e nello stato spagnolo, i ribelli possono accomodarsi in quelle case vere da cui penzolano striscioni rossi. Dispongono di accampamenti di cemento e mattoni, di quelli che rimangono in piedi. Case sulle quali il lupo dei cattivi presagi ha soffiato invano il vento della diffidenza.
P.S. Restano da liberare gli arrestati durante il corteo. Anche per loro converrà imbracciare la bandiera dell’amnistia, checché ne dicano i tutori della legalità ad ogni costo di ogni parte politica.
The post Il 19 Ottobre e la saggezza della Roma ribelle | #19O #OccupyPortaPia appeared first on Giap.








October 22, 2013
Wu Ming in Deutschland
Dal 24 al 31 ottobre, Wu Ming 2 sarà in Germania per un ciclo di incontri, reading, proiezioni e conferenze. Si parlerà di Timira, di Razza Partigiana e del nostro lavoro di cantastorie. Tra i tanti tour che abbiamo intrapreso fuori dall’Italia, questo è probabilmente il più ricco ed esteso in assoluto, sebbene non esistano traduzioni in tedesco dei libri firmati Wu Ming. Tredici anni fa la casa editrice Piper Verlag acquistò i diritti del nostro romanzo Q. Il libro ebbe un ottimo esito, venne ristampato anche in formato tascabile e continua ogni anno a vendere con continuità. Tuttavia, rimane un caso isolato. Pertanto, siamo grati a Catia di Mondolibro, la libreria italiana di Berlino, perché senza il suo entusiasmo il calendario che pubblichiamo qui sotto non avrebbe nemmeno preso forma. Ringraziamo anche Eva Tabea Meineke e Stephanie Neu dell’Università di Mannheim, Francesca Bravi dell’Università di Kiel e Renata Sperandio dell’Istituto Italiano di Cultura di Amburgo.
24.10 Berlino
Libreria Mondolibro, Torstr. 159
h. 20.30
Bologna meets Berlin
Concerti di Spakkiano (progetto solista di Federico Oppi) e di Egle Sommacal (storico chitarrista dei Massimo Volume). Entrambi fanno anche parte della band che suona in Razza Partigiana, il reading.
Ingresso 5€
25 e 26.10 Berlino
Ackerstadtpalast, Ackerstr. 170
h.20
WM2, Paul Pieretto, Egle Sommacal e Federico Oppi in
Razza Partigiana, il reading
Ingresso 10€
27.10 Berlino
Kino Babylon, Rosa-Luxemburg-str. 30
h.18
WM2 presenta Formato Ridotto
(contiene 51, cortometraggio di WM2 e HomeMovies)
28.10 Berlino,
Libreria Mondolibro, Torstr. 159
h.19
WM2 presenta Timira – Romanzo Meticcio
Ingresso 4€ (gratuito con il biglietto di Razza Partigiana)
29.10 Mannheim
Altefeuerwache, Brückenstrasse 2
h. 19.30
“Timira e la poetica del New Italian Epic”
Con Daniela Kopf (lettura brani tradotti) e Eva Tabea Meineke (traduzione)
Modera: Stephanie Neu
30.10 Amburgo
Istituto Italiano di Cultura, Hansastraße, 6
h.19
WM2 presenta Timira – Romanzo Meticcio
31.10 Kiel
Literaturhaus Schleswig-Holstein, Schwanenweg 13
WM2 presenta Timira – Romanzo Meticcio
in italiano e tedesco
Modera: Francesca Bravi
Ingresso: 6€
E a proposito di paesi dove i nostri libri non sono tradotti, il numero 3/2013 di Vinduet (Finestra), rivista letteraria norvegese fondata nel 1947, dedica ben 23 pagine al collettivo Wu Ming con una lunga intervista sugli Oggetti Narrativi Non-Identificati (Uidentifiserte Fortellende Objekter – cioè…U.F.O) e una traduzione di «Spettri di Müntzer all’alba» (Müntzers spøkelser ved soloppgang).
Chissà che alla prossima non si finisca a Tromsø…
The post Wu Ming in Deutschland appeared first on Giap.








October 21, 2013
Il Movimento #Trieste Libera cosa pensa delle esternazioni pazzoidi di chi usa il suo nome sul web?

Dalla pagina Facebook ufficiale del Movimento Trieste Libera, ieri. Clicca per ingrandire.
Ormai una settimana fa abbiamo pubblicato un lungo articolo di inchiesta sul neoindipendentismo triestino. Non solo sull’organizzazione che afferma di rappresentarlo in toto, il Movimento Trieste Libera, ma sull’intrico di interessi, il groviglio di temi, il miscuglio di umori che il recente riaffiorare della tematica al tempo stesso rivela (a chi decide di analizzarla con serietà) e copre (a chi si accontenta della facciata).
L’idea di dedicare spazio a quel che sta succedendo a Trieste è stata di Wu Ming 1, che con quella città intrattiene da undici anni uno stretto rapporto. La sua compagna di vita è triestina (di Opicina/Opčine, per la precisione); insieme, e con la loro bimba, trascorrono a Trieste diversi mesi all’anno; WM1 ha studiato a fondo la storia della “Venezia Giulia” nel Novecento e ha dedicato alle vicende triestine tra 1918 e 1947 buona parte del suo ultimo libro, Point Lenana, scritto insieme a Roberto Santachiara.
Perché occuparsi del neoindipendentismo triestino?
Perché da tempo facciamo inchiesta sulle ambiguità e le aporie dei movimenti che si dicono “né di destra, né di sinistra”.
Perché quel che sta accadendo a Trieste riguarda tutti/e.
Perché di fronte a un movimento “né-né” con una base di massa che, come da manuale, nega ogni divisione interna alla società triestina (“siamo tutti triestini“, sfruttati e sfruttatori); che afferma di rappresentare TUTTA la cittadinanza e se uno non è d’accordo vuol dire che non è triestino ma un infiltrato in città al soldo di oscuri poteri; che vuole (o dice di volere) vedere riconosciuto il distacco dall’Italia di Trieste per trasformare quest’ultima in qualcosa che, più ne parlano, più somiglia a un paradiso fiscale per il capitalismo di rapina (una sorta di Singapore sull’Adriatico)…
…di fronte a tutto questo, secondo voi è saggio stare zitti?
No, non è saggio. E’ folle. Eppure i media nazionali non se ne stanno occupando. Silenzio assoluto. Come mai?
E come mai il quotidiano di Trieste, Il Piccolo, che in teoria “antipatizza” per le rivendicazioni di MTL, sembra aver deciso di non farsi troppe domande?
A questo proposito, oltre al link appena proposto, si veda questo tweet del vicedirettore del giornale:
@AlessandroMetz @albolivieri sacrosanto che ognuno scriva ciò che gli pare Noi continuamo con il nostro lavoro, giornalismo non romanzo ;-)
— Alberto Bollis (@abollis) October 17, 2013
Ecco, proprio a causa di questo atteggiamento abbiamo deciso di muoverci noi.
L’articolo era firmato da Tuco, storico giapster triestino – anzi, goriziano che vive a Trieste da vent’anni - che i nostri lettori conoscono bene.
Tuco, come molti commentatori su Giap e in giro per la rete usa un nickname. In realtà, rispetto ad altri, ha qualche motivo in più per usarlo: in passato ha subito un’aggressione fascista, e dopo alcune discussioni on line qualcuno usò il suo nome e cognome cercando di procurargli problemi sul lavoro.
Tuco ha fatto inchiesta per diversi mesi. Lui per primo si è stupito di quanto materiale si trovasse in rete. Di fatto, tutto quel che ha trovato sta in rete. Bastava cercarlo.
L’articolo ha scatenato le ire di chi gestisce – li gestisce come gli pare? O prima di scrivere si consulta con il movimento? - i profili ufficiali di Trieste Libera sui social network. Sempre firmandosi col nome dell’intero movimento, costui (o costoro) partecipa a flame su forum e blog cittadini, ed è anche intervenuto su Giap. In quest’ultima circostanza, come quasi sempre, la sua replica è stata risentita ed evasiva. Tuco l’ha puntualmente smontata.
Nel frattempo, dalla discussione (seguitissima) in calce al post sono emersi sempre più elementi.
Su FB, questa persona che si firma “Movimento Trieste Libera” ha manifestato sempre più nervosismo, si è appigliata all’uso di un nickname da parte di Tuco, ha sostenuto che non poteva essere un triestino… Insomma, tutto il solito repertorio del nemico-che-è-sempre-esterno, unità retorica basilare della mentalità di destra. Il Popolo è Uno, non ha divisioni al suo interno, nella società non c’è conflitto endogeno, il conflitto è opera di mestatori da fuori, lobby senza radici etc.
A un certo punto, a Mister “Movimento Trieste Libera” è partita una scheggia, come diciamo dalle nostri parti. Già aveva mostrato di non avere proprio capito chi e cosa siamo, ma quel che ha scritto su FB (vedi screenshot in testa al post) è andato oltre e ha scatenato ilarità di massa quando l’abbiamo linkato su Twitter.
«I “compagni” del blog wu ming (parola che significa”anonimo”, bello, vero?) vorrebbero sottoporci ad un interrogatorio, che neanche nei peggiori uffici della questura degli anni di piombo …
Sono diretti da una parte dei servizi e sono – loro si – assai ben foraggiati dall’area pd, la loro spedizione squadrista ad un nostro banchetto (nella quale hanno avuto la peggio) di ieri, fa parte di questa strategia concertata, sono furenti perchè loro, ben che vada, solidarizzano con 20 persone, compresi parenti stretti, nessun triestino, va sottolineato … la loro frustrazione sfocia in teorie super complottiste.
Trieste libera, per loro, sarebbe un super concentrato di loschi finanzieri (non divise grigie) internazionali, chiaramente sfruttatori del “loro” proletariato triestino, la loro idiozia fa passare il “piccolo” per l’Herald Tribune [...] »
Quindi noi
1) saremmo pagati dai servizi;
2) saremmo addirittura “ben foraggiati” dal PD (il partito che una volta definimmo “fossa di scolo di ogni vergogna” e a cui ogni tanto dedichiamo affettuosi articoli come questo);
3) avremmo compiuto, nella giornata di sabato, una “spedizione squadrista” contro un banchetto di MTL, si suppone a Trieste (?!);
Dell’aspetto direttamente calunnioso di queste affermazioni il MTL risponderà politicamente e su altri terreni. Qui facciamo altre considerazioni.
WM1 leggeva queste portentose idiozie da Parigi, dove si trovava per lavoro, e mormorava tra sé e sé: “Minchia, il post di Tuco gli ha fatto ma-lis-si-mo…” Altri, su Twitter, commentavano: “Si vede che avete colto nel segno”.
Non contento, l’uomo che si arroga il diritto di esprimersi in rete a nome dell’intero Movimento Trieste Libera ha citato un passaggio del nostro romanzo del 2002, probabilmente trovato facendo su google la ricerca “Wu Ming Territorio Libero di Trieste” e del quale aveva letto solo le primissime pagine. Pagine dove un personaggio da noi ridicolizzato esprimeva un pensiero “italianissimo”:
«Ma leggete qui sotto cosa ne pensavano in tempi non sospetti a proposito del Territorio Libero di Trieste, dal loro libro intitolato “54″, chiaramente anonimo, libro che spiega molte cose a proposito del loro odio nei confronti dei Triestini [...]
“Le grandi potenze non volevano che i popoli della Venezia Giulia, d’Istria e di Dalmazia scegliessero liberamente il proprio destino, italiani tra gli italiani. Trieste era diventata un limbo, chiamato con sprezzo del ridicolo «Territorio libero». Né di qua né di là, né carne né pesce: la città e i territori a Nord assegnati al Governo militare alleato e denominati «zona A»; a Sud dei confini comunali, la «zona B», amministrata dalla Jugoslavia. L’umiliante imposizione era sancita dal cosiddetto «Trattato di pace» del ’47.
Ma la pace di chi?”»
A parte il non saper distinguere tra il pensiero di un personaggio e quello dell’autore;
a parte le cazzate sul romanzo “anonimo” (per trovare i nomi degli autori basta cercare “Wu Ming” e cliccare sul link che porta alla voce di Wikipedia, per dire);
a parte quanto appena detto, per sapere cosa si pensa dentro il collettivo Wu Ming della cosiddetta “italianità” di Trieste e della Venezia Giulia, sarebbe bastato leggere anche superficialmente una qualunque delle tante recensioni a Point Lenana immediatamente reperibili in rete.
Point Lenana, tra l’altro, è stato presentato a Trieste ben tre volte tra l’aprile e l’agosto 2013, sempre in occasioni partecipatissime, e l’ultima volta alla libreria In Der Tat, uno dei luoghi cittadini dove MTL lascia la sua pubblicistica.
Notare la differenza: mentre noi abbiamo lasciato a chi si firma “Movimento Trieste Libera” pieno diritto di parola qui su Giap, il tipo ha iniziato subito a bannare dalla sua pagina FB quelli che cercavano di spiegargli il giganteschio granchio preso coram populo.
Sono tante le risposte a cui lo sfuggente gruppo dirigente del Movimento Trieste Libera non accetta di rispondere. E allora quelle che vogliamo fare adesso non le facciamo alla nuova, piccola “casta” che vuole rappresentare il neoindipendentismo triestino, ma a tutte le persone che legittimamente e in buona fede ripongono nel riconoscimento del TLT le speranze in una “ripartenza” economica e sociale della città.
Triestine e triestini:
1) La misteriosa “voce ufficiale” che interviene in rete a nome di tutto il movimento rappresenta davvero tutto il movimento? Si consulta con qualcuno prima di scrivere certe cose? Tutti gli iscritti al MTL pensano che noi siamo pagati dai servizi e ci attribuiscono quanto ci attribuisce questa persona?
2) Eravate al corrente di quanto sta emergendo sui vorticosi giri di valzer di un nutrito gruppo di dirigenti di MTL, ex-dirigenti, ex-compagni di strada dei dirigenti, tra affaristi improbabili, società di brokeraggio che partecipano a gare d’appalto sette anni dopo essersi sciolte, piste russe e kazake, Credit Est, non meglio precisati imprenditori che sostengono la causa, neonazisti friulani in combutta con separatisti veneti che hanno la loro sede alla stessa via e numero civico di MTL?
3) C’è in seno al movimento conoscenza dei precedenti politici e affaristici di certi personaggi, ad esempio di alcuni dirigenti dell’ONG con sede a Londra che è diretta espressione di MTL?
4) Siete tutti d’accordo sulla più volte dichiarata “neutralità” del vostro gruppo dirigente rispetto alle idee e pratiche razziste e antisemite di un personaggio a cui MTL si è affidato per la battaglia sul piano legale?
5) Più in generale, pensate davvero che i triestini siano “tutti uguali”, o avete preso in considerazione l’ipotesi che qualche triestinissimo furbone stia manipolando per favorire i propri interessi il vostro desiderio di vedere rinascere Trieste?
Per ultima cosa, pubblichiamo qui, dandogli il posto d’onore, un commento giunto ieri sera e rimasto in moderazione. E’ firmato “Kshatriya“, parola sanscrita che significa “guerriero”. L’uso cialtronesco del sanscrito nella cultura Tradiz/Occult/Nazistoide è una costante almeno dai tempi di Julius Evola, che è un po’ il “nonno” di molti figuri che ritroviamo nel calderone di questi giorni. Buona lettura, e buona fortuna.
***
«gli antagonisti dovrebbero rendersi conto che il loro internazional-classismo è solo un figlio del mondialismo finanziario che ci opprime.
anche noi di destra non capivamo che il nostro nazionalismo era figlio della tirannide massonica che ha diviso il popolo triestino.
i triestini sono stati per quasi un millennio un popolo libero, prima indifeso, e poi, dopo la dedizione agli asburgo, parte dell’impero sovranazionale europeo che è stato anche l’ultimo sacro romano impero, erede dell’impero romano d’occidente.
per l’impero sovranazionale, e il proprio popolo che ne faceva parte, hanno combattuto e sono caduti i tanti triestini che saranno commemorati il 3 novembre
http://www.triestelibera.org/2013/10/3-novembre-2013-commemorazione-dei-caduti-e-combattenti-triestini-della-guerra-1914-1918/
allora come ora, essere contro l’europa dei banchieri non significa essere contro l’europa, ma per un’altra europa, composta da comunità di popolo e unita dall’idea sovranazionale che è stata a fondamento dell’impero.
‘tu ridi delle patrie, ridi delle nazioni!
sei tu la sola patria e non hai confini
uomini d’altre terre han te come bandiera
a renderci nemici non sarà certo una frontiera!
impero!’
le comunità di popolo e l’impero sovranazionale non sono nè di destra nè di sinistra perchè destra e sinistra sono state fatte nascere dai nazionalismi massonici per dividere i popoli al loro interno, tradendo anche l’originaria idea della massoneria che era sovranazionale.
triestini che erano di destra, come me, se ne sono resi conto, come altri triestini che erano di sinistra.
i promotori di destra di trieste pro patria e gli antagonisti di sinistra triestini dovrebbero capire che, attaccando trieste libera, combattono il popolo triestino facendo il gioco del nazionalismo degli stati artificiali e del mondialismo finanziario, l’uno funzionale all’altro, i cui interessi sono rappresentati in italia e a trieste dal sistema unico pdl + pd-l.»
APPENDICE
A proposito del fatto che ci pagherebbe il PD (partito-guida del governo contro il quale tifiamo asteroide), su Internazionale c’è un nostro nuovo articolo contro le basse intese e la “politica delle emozioni”.
The post Il Movimento #Trieste Libera cosa pensa delle esternazioni pazzoidi di chi usa il suo nome sul web? appeared first on Giap.








October 17, 2013
Il dejà-vu del cosiddetto «DDL sul negazionismo»

Paul Ginsborg, uno dei promotori dell’appello che ripubblichiamo.
[Con riferimento non casuale all'ennesima legge sciacqua-coscienza - inutile per gli scopi dichiarati e obliquamente dannosa per la lotta a fascismi e razzismi - in discussione in queste ore, ripubblichiamo una lettera aperta scritta e firmata nel 2007 dai più importanti storici italiani (e non solo). Sono passati solo sei anni, ma in Italia non si ricorda nulla, si sedimenta solo il peggio, ci si muove solo per riflessi condizionati, si prendono solo scorciatoie, si sa solo proibire per legge. Una tristezza infinita.]
-
Contro il negazionismo, per la libertà della ricerca storica
Il Ministro della Giustizia Mastella, secondo quanto anticipato dai media, proporrà un disegno di legge che dovrebbe prevedere la condanna, e anche la reclusione, per chi neghi l’esistenza storica della Shoah. Il governo Prodi dovrebbe presentare questo progetto di legge il giorno della memoria.
Come storici e come cittadini siamo sinceramente preoccupati che si cerchi di affrontare e risolvere un problema culturale e sociale certamente rilevante (il negazionismo e il suo possibile diffondersi soprattutto tra i giovani) attraverso la pratica giudiziaria e la minaccia di reclusione e condanna. Proprio negli ultimi tempi, il negazionismo è stato troppo spesso al centro dell’attenzione dei media, moltiplicandone inevitabilmente e in modo controproducente l’eco.
Sostituire a una necessaria battaglia culturale, a una pratica educativa, e alla tensione morale necessarie per fare diventare coscienza comune e consapevolezza etica introiettata la verità storica della Shoah, una soluzione basata sulla minaccia della legge, ci sembra particolarmente pericoloso per diversi ordini di motivi:
1) si offre ai negazionisti, com’è già avvenuto, la possibilità di ergersi a difensori della libertà d’espressione, le cui posizioni ci si rifiuterebbe di contestare e smontare sanzionandole penalmente.
2) si stabilisce una verità di Stato in fatto di passato storico, che rischia di delegittimare quella stessa verità storica, invece di ottenere il risultato opposto sperato. Ogni verità imposta dall’autorità statale (l’“antifascismo” nella DDR, il socialismo nei regimi comunisti, il negazionismo del genocidio armeno in Turchia, l’inesistenza di piazza Tiananmen in Cina) non può che minare la fiducia nel libero confronto di posizioni e nella libera ricerca storiografica e intellettuale.
3) si accentua l’idea, assai discussa anche tra gli storici, della “unicità della Shoah”, non in quanto evento singolare, ma in quanto incommensurabile e non confrontabile con ogni altro evento storico, ponendolo di fatto al di fuori della storia o al vertice di una presunta classifica dei mali assoluti del mondo contemporaneo.
L’Italia, che ha ancora tanti silenzi e tante omissioni sul proprio passato coloniale, dovrebbe impegnarsi a favorire con ogni mezzo che la storia recente e i suoi crimini tornino a far parte della coscienza collettiva, attraverso le più diverse iniziative e campagne educative.
La strada della verità storica di Stato non ci sembra utile per contrastare fenomeni, molto spesso collegati a dichiarazioni negazioniste (e certamente pericolosi e gravi), di incitazione alla violenza, all’odio razziale, all’apologia di reati ripugnanti e offensivi per l’umanità; per i quali esistono già, nel nostro ordinamento, articoli di legge sufficienti a perseguire i comportamenti criminali che si dovessero manifestare su questo terreno.
È la società civile, attraverso una costante battaglia culturale, etica e politica, che può creare gli unici anticorpi capaci di estirpare o almeno ridimensionare ed emarginare le posizioni negazioniste. Che lo Stato aiuti la società civile, senza sostituirsi ad essa con una legge che rischia di essere inutile o, peggio, controproducente.
22 gennaio 2007
Marcello Flores, Università di Siena
Simon Levis Sullam, University of California, Berkeley
Enzo Traverso, Università de Picardie Jules Verne
David Bidussa, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Bruno Bongiovanni, Università di Torino
Simona Colarizi, Università di Roma La Sapienza
Gustavo Corni, Università di Trento
Alberto De Bernardi, Università di Bologna
Tommaso Detti, Università di Siena
Anna Rossi Doria, Università di Roma Tor Vergata
Maria Ferretti, Università della Tuscia
Paul Ginsborg, Università di Firenze
Carlo Ginzburg, Scuola Normale Superiore, Pisa
Giovanni Gozzini, Università di Siena
Andrea Graziosi, Università di Napoli Federico II
Mario Isnenghi, Università di Venezia
Fabio Levi, Università di Torino
Giovanni Levi, Università di Venezia
Sergio Luzzatto, Università di Torino
Paolo Macry, Università di Napoli Federico II
Giovanni Miccoli, Università di Trieste
Claudio Pavone, storico
Paolo Pezzino, Università di Pisa
Alessandro Portelli, Università di Roma La Sapienza
Gabriele Ranzato, Università di Pisa
Raffaele Romanelli, Università di Roma La Sapienza
Mariuccia Salvati, Università di Bologna
Stuart Woolf, Istituto Universitario Europeo, Firenze
Aderiscono:
Cristina Accornero, Università di Torino
Giulia Albanese, Università di Padova
Franco Andreucci, Università di Pisa
Rosaria Marina Arena, Università di Siena
Barbara Armani, Università di Pisa
Elena Baldassari, Università di Roma La Sapienza
Luca Baldissara, Università di Pisa
Roberto Balzani, Università di Bologna
Giovanni Belardelli, Università di Perugia
Emmanuel Betta, Università di Roma La Sapienza
Fabio Bettanin, Università di Napoli L’Orientale
Roberto Bianchi, Università di Firenze
Anna Bravo, Università di Torino
Antonio Brusa, Università di Bari
Marco Buttino, Università di Torino
Davide Cadeddu, Università di Milano
Gia Caglioti, Università di Napoli Federico II
Marina Calloni, Università di Milano Bicocca
Leonardo Capezzone, Università di Roma La Sapienza
Vittorio Cappelli, Università della Calabria
Sonia Castro, Università di Pavia
Tulla Catalan, Università di Trieste
Alberto Cavaglion, Istituto Piemontese per la storia della Resistenza
Luigi Cajani, Università di Roma La Sapienza
Carolina Castellano, Università di Napoli Federico II
Franco Cazzola, Università di Firenze
Roberto Chiarini, Università di Milano
Giovanna Cigliano, Università di Napoli Federico II
Fulvio Conti, Università di Firenze
Giovanni Contini, Università di Roma La Sapienza
Daniele Conversi, University of Lincoln
Pietro Costa, Università di Firenze
Augusto D’Angelo, Università di Roma La Sapienza
Leandra D’Antone, Università di Roma La Sapienza
Fabio Dei, Università di Pisa
Nunzio Dell’Erba, Università di Torino
Giorgio Delle Donne, Bolzano
Mario Del Pero, Università di Bologna
Lucia Denitto, Università di Lecce
Giovanni De Luna, Università di Torino
Paola Di Cori, Università di Urbino
Patrizia Dogliani, Università di Bologna
Benito Donato, Cosenza
Angelo D’Orsi, Università di Torino
Paolo Favilli, Università di Genova
Giovanni Federico, Università di Pisa
Cristiana Fiamingo, Università di Milano
Enzo Fimiani, Biblioteca provinciale Pescara
Guido Formigoni, Università di Milano IULM
Vittorio Frajese, Università di Roma Tor Vergata
Giulia Fresca, Cosenza
Carlo Fumian, Università di Padova
Valeria Galimi, Università di Siena
Luigi Ganapini, Università di Bologna
Giuliana Gemelli, Università di Bologna
Aldo Giannuli, Università di Bari
Filippo Maria Giordano, Pavia
Gabriella Gribaudi, Università di Napoli Federico II
Yuri Guaiana, Università di Milano Bicocca
Giancarlo Jocteau, Università di Torino
Paola Magnarelli, Università di Macerata
Massimo Mastrogregori, Università di Roma La Sapienza
Marco Mayer, Università di Firenze
Roberta Mazza, University of California, Berkeley
Claudio Mellana, Torino
Marco Mondini, Università di Padova
Giovanni Montroni, Università di Napoli Federico II
Massimo Morigi
Stefania Nanni, Università di Roma La Sapienza
Gloria Nemec, Università di Trieste
Ivar Oddone, Torino
Chiara Ottaviano, Cliomedia Officina
Gianni Perona, INSMLI, Milano
Stefano Petrungaro, Università di Venezia
Vincenzo Pinto, Università di Torino
Maria Serena Piretti, Università di Bologna
Stefano Pivato, Università di Urbino
Leonardo Rapone, Università della Tuscia
Maurizio Ridolfi, Università della Tuscia
Gabriele Rigano, Università per Stranieri di Perugia
Domenico Rizzo, Università di Napoli L’Orientale
Giorgio Rochat, Università di Torino
Giovanni Romeo, Università di Napoli Federico II
Andrea Rossi, Università di Ferrara
Lucia Rostagno, Università di Roma La Sapienza
Silvia Salvatici, Università di Teramo
Enrica Salvatori, Università di Pisa
Ayse Saracgil, Università di Firenz
Laura Savelli, Università di Pisa
Giovanni Scirocco, Università di Bergamo
Guri Schwarz, Università di Pisa
Francesco Scomazzon, Università di Milano
Alfio Signorelli, Università di Roma La Sapienza
Francesca Socrate, Università di Roma La Sapienza
Simonetta Soldani, Università di Firenze
Carlotta Sorba, Università di Padova
Carlo Spagnolo, Università di Bari
Lorenzo Strik Lievers, Università di Milano Bicocca
Arnaldo Testi, Università di Pisa
Rita Tolomeo, Università di Roma La Sapienza
Anna Treves, Università di Milano
Alessandro Triulzi, Università di Napoli L’Orientale
Simona Troilo, Istituto Universitario Europeo
Gabriele Turi, Università di Firenze
Gian Maria Varanini, Università di Verona
Angelo Ventrone, Università di Macerata
Angelo Ventura, Università di Padova
Claudio Venza, Università di Trieste
Alessandra Veronese, Università di Pisa
Elisabetta Vezzosi, Università di Trieste
Vittorio Vidotto, Università di Roma La Sapienza
Loris Zanatta, Università di Bologna
—
LINK CONSIGLIATO
The post Il dejà-vu del cosiddetto «DDL sul negazionismo» appeared first on Giap.








October 15, 2013
TraumStadt. Paradisi fiscali, oleodotti e ritorno del rimosso: viaggio nel neoindipendentismo triestino
di Tuco (guest blogger)
-What kind of music do you usually have here?
-Oh, we’ve got both kinds, we’ve got country and western.
(The Blues Brothers)
Il 15 settembre scorso Trieste è stata attraversata da due cortei, uno al mattino, l’altro al pomeriggio.
Di mattina hanno sfilato gli italianissimi, quelli che Trieste è cara al cuore di tutti gli italiani, quelli che il Piave mormorava, quelli che torneremo in Istria, quelli che allora le foibe… Non erano molti, al massimo trecento. All’arrivo del corteo, in Piazza S.Antonio, un rappresentante dell’Associazione Arditi d’Italia ha letto i nomi dei morti del ’53 con voce strozzata. Un furgone preso a nolo – i drappi tricolori non riuscivano a coprire del tutto la scritta «35$ AL GIORNO»- ha gracchiato dagli altoparlanti canzoni patriottiche. Poi l’adunata si è sciolta. Il tutto è durato un’ora scarsa.
Il corteo del mattino era stato organizzato in fretta e furia da una lista di associazioni nazionalpatriottiche (se non apertamente fasciste) come risposta al corteo del pomeriggio, quello del Movimento Trieste Libera, organizzato da più di un mese per rivendicare la piena attuazione del Territorio Libero di Trieste.
Il corteo del pomeriggio è imponente, eterogeneo, gente di tutte le età e di tutte le classi sociali, cinquemila persone come minimo. Bandiere rosse dappertutto – solo che non sono le nostre: al centro c’è l’alabarda bianca, simbolo di Trieste. Il concentramento è davanti alla stazione, vicino all’entrata del Porto Vecchio. E infatti un gruppo di portuali arriva e srotola uno striscione. C’è scritto: «Porto Libero di Trieste – Prosta Luka Trst», in italiano e sloveno. Nel centro della piazza, tra le bandiere rosso-alabardate, spunta un bandierone con il leone di S. Marco. Più piccole, vicino alla statua di Sissi, compaiono alcune bandiere con l’aquila bicipite, la galina con do teste, come si dice a Trieste. Arriva un furgone con una specie di sound-system. Roba da quattro soldi, soprattutto se si pensa all’aereo che gli organizzatori hanno noleggiato per filmare il corteo dall’alto. Gli altoparlanti sparano una musica piuttosto incongrua. Difficile definirla: epico-fantasy, forse. Il tipo di musica che su YouTube accompagna i video amatoriali su rettiliani e illuminati.
Il corteo comincia a muoversi, sotto la direzione di uno strano doppio servizio d’ordine. Ci sono quelli con la maglietta bianca, che indicano ai vari spezzoni come posizionarsi, e ci sono quelli con la maglietta nera, muscolosi, muniti di walkie-talkie, che si piazzano in testa e in coda e non parlano con nessuno. Tra quelli in maglietta nera c’è anche Sandro Gotti detto “Tonfa”, ex pezzo grosso del Muay Thai italiano, che in gioventù aveva frequentato marginalmente l’ambiente dell’Autonomia. In testa al corteo c’è uno striscione che recita: «We, the people«. Venti metri davanti allo striscione c’è Roberto Giurastante, leader del movimento, circondato dalle sue guardie del corpo.
La sfilata attraversa tutto il Borgo Teresiano, per almeno due ore, e si conclude in Piazza Borsa. Nessun comizio, solo slogan ripetuti ossessivamente: “Trieste Libera / dall’Italia!”, “Porto Libero / dall’Italia!”, fino alla tarda serata, quando tre cannonate segnalano che la manifestazione è finita.
Ma non sono fuochi d’artificio.
I razzi traccianti e le cannonate di domenica sera non erano uno spettacolo pirotecnico, si è trattato di un segnale convenzionale militare il cui significato è: siamo sotto assedio.
⁂
Che giornata è stata il 15 settembre? Cosa è successo? Com’è possibile che nella città più fascista d’Italia i numeri dei due cortei abbiano decretato in modo impietoso la fine del mito fascista per eccellenza, quello di Trieste italianissima? Significa forse che è finito una volta per tutte il tempo dei fascisti?
⁂

I confini del Territorio Libero di Trieste (1947 – 1954).
Per capire il senso di quel che sta accadendo a Trieste, è necessaria una breve premessa di carattere storico. Il 9 settembre del ’43 i tedeschi occupano il nord Italia, e nel nord-est istituiscono la Zona di Operazioni Litorale Adriatico (Operationszone Adriatisches Küstenland), soggetta di fatto alla sovranità del Terzo Reich.
Il 1 maggio 1945 i partigiani di Tito, dopo una battaglia durata quattro giorni, sfondano l’ultima linea di difesa tedesca, entrano a Trieste, e la tengono per quaranta giorni, prima di ritirarsi e di consegnare la città agli Alleati angloamericani.
Comincia così un periodo di incertezza riguardo al futuro assetto dei confini in una delle zone più delicate per gli equilibri del dopo Yalta. Il Trattato di Pace del 1947 sancisce la fine della sovranità italiana su Trieste e su gran parte della “Venezia Giulia”, e istituisce il Territorio Libero di Trieste, sorta di stato cuscinetto tra Italia e Jugoslavia.
Il TLT è diviso in due parti:
- la zona A (che comprende la città di Trieste e le immediate vicinanze) amministrata dagli anglo-americani;
- la zona B (che comprende l’Istria nord-occidentale) amministrata dagli Jugoslavi.
Il Trattato di pace stabilisce anche che il Consiglio di Sicurezza dell’Onu dovrà nominare un Governatore del TLT, dando così inizio al processo costituente del nuovo stato. Il governatore però non sarà mai nominato, anche perchè con lo strappo di Tito del 1948 e con l’uscita della Jugoslavia dall’orbita sovietica la situazione internazionale muta radicalmente, e si determinano gradualmente le condizioni per una spartizione del TLT tra Italia e Jugoslavia.
Nel 1954, in seguito al Memorandum di Londra sottoscritto da Italia, Regno Unito, Usa e Jugoslavia, l’amministrazione della zona A passa dagli angloamericani all’Italia.
Nel 1975, con il Trattato di Osimo, Italia e Jugoslavia formalizzano la spartizione del TLT secondo i confini del ’54.
⁂
Diciamo subito che a Trieste l’indipendentismo non è una novità, e che a Trieste si sono sviluppati storicamente numerosi filoni indipendentisti, molto diversi tra loro per ispirazione culturale e ideologica: quello irredentista di Domenico Rossetti nell’Ottocento e quello austromarxista di Angelo Vivante (di cui si parla anche in Point Lenana di Wu Ming 1 e Santachiara) negli anni dieci del Novecento; poi quello austronazista al crepuscolo dell’Adriatisches Kustenland nel ’44/’45 (di cui parla Claudia Cernigoi su Carmilla), e quelli di stampo antifascista e filojugoslavo nel biennio ’45/’47 (di cui parla Andrea Olivieri su Carsica); durante gli anni del TLT (’47/’54) a Trieste erano presenti alcuni movimenti indipendentisti contrari alla spartizione del territorio tra Italia e Jugoslavia, e in quegli stessi anni fu indipendentista per un certo periodo anche il PC-TLT di Vittorio Vidali.
L’indipendentismo del Movimento Trieste Libera invece ha le sue radici più visibili nella protesta popolare esplosa in seguito alla firma del Trattato di Osimo nel ’75. In quel passaggio storico, la protesta ebbe un forte carattere nazionalista, anticomunista e antijugoslavo, e derivò soprattutto dalla percezione del Trattato come tradimento definitivo, da parte dell’Italia, delle aspirazioni e delle rivendicazioni degli esuli istriani sulla zona B del TLT.
In quegli anni di crisi economica e politica, le spinte autonomiste riuscirono a coinvolgere una fetta consistente della città, saldandosi con brandelli di precedenti autonomismi e indipendentismi. Nacque la Lista per Trieste, partito autonomista che per vent’anni avrebbe monopolizzato la vita politica cittadina, e che nel ’94 sarebbe diventata di fatto la frazione triestina di Forza Italia.
La frangia più radicale della protesta invece si coagulò in una sfilza di piccoli movimenti indipendentisti, che si connotarono fin da subito in senso marcatamente antiitaliano e filoaustriaco. Ci torneremo più avanti.
L’oggetto totemico di questo nuovo filone indipendentista è una lettera inviata da Giovanni Marchesich al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, nel lontano 1983, in cui si chiedeva al Consiglio di procedere alla nomina del Governatore del TLT. Secondo Marchesich, infatti, trattati multilaterali come il Memorandum di Londra del ’54 o bilaterali come il Trattato di Osimo del ’75 non potevano abrogare parti del Trattato di Pace del ’47; in particolare, non possono abrogare quelle parti che istituivano il TLT.
La risposta del Consiglio di Sicurezza, nel 1983, fu questa: la nomina del Governatore era stata tolta dall’ordine del giorno, su richiesta congiunta di Italia e Jugoslavia, in seguito alla firma del Trattato di Osimo. Per riportare la questione all’ordine del giorno, era necessario che uno dei paesi aderenti all’ONU lo chiedesse formalmente.

Jörg Haider (1950 – 2008)
Da allora a Trieste la percezione di una “questione pendente” (la nomina del Governatore) è sempre sopravvissuta sotto traccia, a livello di subcultura, riaffiorando ogni tanto nel discorso pubblico di qualche frangia dissidente della Lega Nord locale.
Tuttavia, questo “indipendentismo della carta bollata” difficilmente poteva scaldare i cuori e gli animi. Inoltre in città la destra tradizionale, italianissima e fascistissima, era ancora largamente egemone.
Un primo segnale di cosa stesse covando sotto la cenere si ebbe all’epoca in cui Jörg Haider terrorizzava un’Europa che nasceva già in crisi d’identità. Una parte dell’opinione pubblica triestina guardava a Klagenfurt con occhi da innamorata, e quando Haider si schiantò con la sua Volkswagen dopo una notte di bagordi, si sentì irrimediabilmente orfana. Ma perché nascesse un movimento di massa, era necessario che intervessero altri fattori.
Questi fattori cominciarono a manifestarsi nuovamente a partire dal 2008, l’anno della crisi.
⁂
Per capire cos’è accaduto a partire da quell’anno, bisogna fare un piccolo passo indietro.
Nel 2007 la Regione Friuli Venezia Giulia approva una variante del piano regolatore del Comune di Trieste, che prevede il cambio di destinazione d’uso per un’ampia zona del Porto Vecchio, da decenni in stato di abbandono. Diverse cordate di imprenditori, locali e non, presentano i loro progetti per il recupero e la gestione dell’area. Tra queste, una è guidata dall’imprenditore svizzero-triestino Marcus Donato, titolare della Helmproject, società di brokeraggio marittimo. Il suo progetto prevede la trasformazione integrale dell’area in zona turistica, con alberghi, piscine, cinema, eccetera eccetera, con investimenti per 850 milioni di euro.

“Fossile” del sito Helmproject. Notare l’italiano a dir poco stentato. Clicca per ingrandire.
Nel 2008 a sorpresa il progetto di Donato viene escluso dalla competizione, si dice a causa di carenze nella documentazione (e va detto che Marcus Donato e la sua Helmproject appaiono avvolti da una nube di vaghezza, almeno a una ricerca superficiale su Google, cfr. screenshot qui sopra). Partono i ricorsi. Ma intanto Donato ha una visione. Studiando le carte per il suo progetto e per i ricorsi, “riscopre” la lettera di Marchesich del 1983 e “si accorge” che il porto di Trieste non è soggetto alla sovranità italiana. Non solo, è l’intera provincia ad essere sotto amministrazione fiduciaria. Comincia a frequentare i forum locali su internet, tastando il terreno e studiando le reazioni dei commentatori. Di lì a poco, dà vita al Comitato Porto Libero di Trieste.
Intanto la crisi economica e finanziaria comincia a mordere, e il sistema politico italiano entra in una crisi di rappresentanza via via sempre più profonda. Il comitato si proclama rappresentante dei cittadini del TLT (zona B compresa) presso le Nazioni Unite, denuncia le speculazioni edilizie in Porto Vecchio (sic!), e dà vita a una serie di assemblee ed eventi, che culminano con la prima “Festa del Territorio Libero di Trieste” nel settembre del 2011, e vedono una partecipazione popolare non ancora di massa, ma sicuramente non trascurabile.
Una cosa nuova, che balza subito agli occhi, sono le scritte bilingui, in italiano e in sloveno: un segno che le tensioni etniche sono superate? Forse, ma anche no. Ci torneremo più avanti.
Come emanazione del comitato, nasce l’Associazione Cittadini del TLT, con presidente l’ex leghista Stefano Ferluga. L’ultima conferenza organizzata dall’associazione si intitola “Signoraggio e una nuova moneta a Trieste”, relatore Antonio Miclavez, un seguace delle teorie di Giacinto Auriti (cfr. queste FAQ sul signoraggio), poi candidato sindaco a Udine per Forza Nuova nel 2013.
Nel novembre del 2011 l’associazione si scioglie, e nasce il Movimento Trieste Libera. Il presidente è ancora Stefano Ferluga, e i soci dell’associazione vengono travasati nel movimento.
⁂
A questo punto entrano in scena due personaggi che saranno determinanti per le future fortune del movimento. Si tratta di Roberto Giurastante e Paolo G. Parovel. Entrambi provengono dall’associazione ambientalista Amici della Terra. Hanno alle spalle diverse battaglie contro discariche abusive e appalti poco chiari, e soprattutto contro il rigassificatore che la multinazionale spagnola Gasnatural vuole costruire nella zona industriale-portuale tra Trieste e Muggia.
Va detto che su Trieste convergono numerosi interessi, spesso contrapposti, nel campo dell’approvvigionamento energetico. Oltre al rigassificatore, sono in ballo il terminale del South Stream, il gasdotto della russa Gazprom (al progetto partecipa anche ENI) concorrente del Nabucco, e l’oleodotto che dovrebbe portare in Adriatico il petrolio proveniente dal Kazakhstan (anche in questo caso è coinvolta l’ENI).
Il fatto che Giacomo Franzot, vicepresidente del Comitato Porto Libero di Trieste, sia ingegnere presso la Agip KCO, proprio in Kazakhstan, produce comprensibilmente strane risonanze in chi cerca di districarsi in questo guazzabuglio.
Torniamo a Parovel e Giurastante.
Parovel è un giornalista d’inchiesta, che in passato ha rivelato coi suoi articoli alcuni intrecci politico-affaristici legati ala gestione della Tržaška kreditna banka. Di lui si dice che negli anni sessanta fosse iscritto alla Giovane Italia, organizzazione giovanile del MSI, e che negli anni settanta abbia cambiato radicalmente le sue posizioni, trasferendosi a Lubiana e cominciando a denunciare le manipolazioni della storiografia italiana nel trattare la questione di Trieste. Nel dopo Osimo, è stato tra i promotori di Civiltà Mitteleuropea, associazione che si proponeva appunto di recuperare le radici culturali mitteleuropee della zona di Trieste. Giurastante fa parte del direttivo di MTL ed è di fatto il leader del movimento. Parovel invece non è iscritto al movimento, ma dalle pagine del suo giornale La Voce di Trieste è quello che al movimento fornisce i contenuti culturali e ideologici.
⁂
L’azione politica di MTL si svolge prevalentemente in tribunale, oltre che in piazza. A partire dalla primavera del 2012 Giurastante e altri esponenti del movimento cominciano a impugnare in tribunale le cartelle di Equitalia, sollevando il difetto di giurisdizione dello stato italiano sul TLT. Un’azione di questo tipo ha un forte impatto simbolico ed emotivo, in un periodo in cui migliaia di artigiani e piccoli commercianti si vedono pignorare merci e immobili, mentre lo Stato rinvia di mese in mese il rimborso dell’IVA. La cosa più interessante però è la scelta dell’avvocato fatta da Giurastante. Si tratta del pordenonese Edoardo Longo, uno che di sé scrive:
«Difensore senza attenuazioni opportunistiche nei processi politici contro i dissidenti antimondialisti di destra, ha riversato la sua esperienza in materia in alcuni libri e in moltissimi articoli contro le aberrazioni del sistema giudiziario al servizio delle lobbies plutocratiche internazionali. […] Dalla metà degli anni ‘8O svolge una intensa attività di ricerca culturale e pubblicistica, dapprima in ambito culturale tradizionale ( con nette influenze del pensiero di Julius Evola e Domenico Rudatis di cui era amico personale), poi in ambito più marcatamente politico.»
È facile rendersi conto che Longo è molto più di un avvocato. In rete la sua attività pubblicistica è documentatissima (cfr. quanto segnalato da Claudia Cernigoi), e ci porta direttamente in quell’intermondo dove si incontrano estremisti di destra (prevalentemente terzaposizionisti) e indipendentisti veneti.
Non è quindi un caso che al corteo del 15 settembre, in mezzo alle bandiere rossoalabardate, campeggiasse un bandierone col leone di S. Marco. Si trattava della delegazione del “Governo Veneto in esilio”, frangia indipendentista che in Veneto ha intrapreso le stesse azioni giudiziarie di MTL, facendosi anch’essa rappresentare da Edoardo Longo.
⁂
Oltre alle contestazioni delle cartelle di Equitalia, MTL ha intrapreso, o perlomeno sostiene di aver intrapreso, una serie di azioni presso non meglio precisate corti internazionali, allo scopo di ottenere il riconoscimento della sovranità del TLT e la nomina del Governatore da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Ma se provate a chiedere ai dirigenti come intende muoversi il movimento riguardo alla zona B, quella attualmente sotto sovranità (o amministrazione, a seconda dei punti di vita) croata e slovena: vi troverete nel porto delle nebbie.
Per seguire le cause internazionali è stata creata una Organizzazione non Governativa, la Triest NGO, con sede (virtuale) a Londra.
La Triest NGO su Linkedin definisce se stessa «The Human Rights, Civil and Economic Development Initiative for the Free Territory of Trieste». Sul sito web della NGO, si può leggere: «The members of Triest NGO (…) believe in social justice, equity and respect for human rights, as all people should enjoy the rights they hold under international law and convention». Dichiarazioni d’intenti dal tono alato, che però stridono con quel che scriveva su facebook Sandro Gombač, vicepresidente di MTL e membro del direttivo della Triest NGO, nel marzo del 2011, a proposito dei boat-people tunisini.
In effetti MTL e la Triest NGO, più che i diritti umani, sembrano avere a cuore soprattutto questioni legate all’economia e alla finanza. L’applicazione completa del Trattato di Pace del ’47 infatti permetterebbe di estendere all’intera area del TLT il regime di zona franca in vigore nel Porto Vecchio, e di creare a Trieste un vero e proprio paradiso fiscale. E infatti l’off-shore finanziario, più che la portualità vera e propria, sembra essere la carta su cui punta MTL per lo sviluppo economico del TLT.
Oltre ovviamente all’incasso delle royalties per il passaggio degli oleodotti e dei metanodotti.
⁂
Il movimento, soprattutto attraverso gli scritti dell’intellettuale di riferimento Paolo G. Parovel, si dichiara multiculturale. I volantini, gli striscioni del corteo, i siti su internet, (quasi) tutto è rigorosamente bilingue, italiano e sloveno. Del resto è il Trattato di Pace del ’47 a stabilire che lingue ufficiali del TLT sono l’italiano e lo sloveno. Una parte non trascurabile dei simpatizzanti del movimento proviene dalla comunità slovena di Trieste, e in ogni caso la zona B del TLT ora è popolata in larga maggioranza da sloveni e croati.
In una città in cui la destra tradizionale nazionalista, dai fascisti ai liberali fino al PSI di Craxi, è stata egemone per 70 anni di vita repubblicana, la comparsa di un movimento che sventola bandiere bilingui può apparire, a prima vista, un fatto rivoluzionario. A un’analisi più attenta tuttavia non possono sfuggire alcuni dettagli incongrui.
In uno spot su Youtube, MTL parla dei triestini come di un unico popolo in cui non ci sono minoranze ma in cui si parlano due lingue.
Affermazione piuttosto strana: a Trieste solo gli sloveni sono bilingui, gli italiani sono in generale rigorosamente monolingui, e non hanno nemmeno la possibilità di studiare lo sloveno nelle scuole italiane.
Affermazione strana e pericolosa: in un ambiente a stragrande maggioranza italofono, la negazione dello status di minoranza produrrebbe necessariamente l’assimilazione della comunità slovena.
Affermazione strana, pericolosa e mistificante: quella italiana e quella slovena non sono solo due lingue, ma sono anche due culture, e due identità nazionali. Una cosa è praticare lo scambio interculturale, e magari auspicare un meticciato dal basso che produca nei tempi lunghi sintesi nuove e imprevedibili. Altro invece è proclamare dall’alto l’inesistenza delle differenze culturali e politiche e dei legami comunitari, sia nella maggioranza, sia soprattutto nella minoranza, e ridurre la questione identitaria interna alla società triestina a pura questione linguistica, inventandosi un «popolo triestino in cui non ci sono minoranze ma si parlano due lingue».
La sensazione è che da parte dei vertici di MTL ci sia un uso strumentale del bilinguismo, come bandiera da contrapporre al nazionalismo italiano e come foglia di fico per coprire lo sciovinismo e il micronazionalismo localista che permeano il movimento. Perché non va dimenticato che nel Trattato di Pace del ’47 c’è scritto anche che sono cittadini del TLT con pieni diritti civili e politici solo i cittadini italiani residenti nel territorio il 10 giugno 1940 e i loro discendenti. Di quale multiculturalismo si sta parlando, quindi? Di una versione semplificata del multiculturalismo di 100 anni fa. Non certo del multiculturalismo di oggi, quello creato dalle migrazioni e dalla globalizzazione dell’economia e dell’informazione.
⁂
Broker che promettono investimenti per 850 milioni di euro, ingegneri dell’ENI in Kazakhstan, piccoli artigiani tartassati da Equitalia, portuali senza porto, ambientalisti col feticismo della carta bollata, avvocati evoliani, giornalisti d’inchiesta col pallino della mitteleuropa, esperti di arti marziali, sloveni che desiderano un riconoscimento ufficiale dell’uso della loro lingua, esuli della zona B che sperano di recuperare i beni confiscati dalla Jugoslavia… Cosa li tiene insieme?
L’insofferenza per lo status quo, certo. Molti di loro magari avevano votato Grillo in primavera. Ma non basta. Non basta per creare un movimento di massa in grado di contendere la piazza alla destra nazionalpatriottica e di conquistarla a mani basse. MTL non è M5S. Dal vertice alla base del movimento c’è un rifiuto viscerale non solo dello status quo, ma di tutta la costruzione mitologica dell’identità nazionale italiana intorno al simbolo Trieste a partire dal 1914.
Attenzione, però.
Abbiamo visto che nel discorso di MTL, a Trieste non esistono minoranze – esiste un popolo, quello triestino, che parla due lingue – e abbiamo visto quanto sia mistificante questo discorso.
Abbiamo visto che per MTL l’antifascismo è una discriminante solo quando il fascismo è quello nazionalista italiano. Non lo è più quando il fascismo è quello tradizionalista di stampo evoliano.
Abbiamo visto che si tratta di un movimento in cui portuali e broker marittimi si trovano a sfilare idealmente insieme nello stesso corteo.
È evidente che un movimento identitario e interclassista di questo tipo, che si regge sulla rimozione del conflitto interno alla società triestina, per riuscire a contendere l’egemonia alla destra nazionalpatriottica italiana ha bisogno di un Mito. E deve essere un Mito abbastanza potente da potersi confrontare con l’altro Mito, quello di Trieste italianissima eccetera eccetera.
«Il 30 settembre, una settimana dopo l’equinozio d’autunno, è dal 1382 l’anniversario dell’atto di dedizione spontanea con cui la piccola città indipendente di Trieste si affidò a Casa d’Austria, rappresentata allora dal duca Leopoldo III d’Absburgo, per restare libera invece di diventare una colonia di Venezia come le altre cittadine costiere dell’Adriatico nordorientale.
Iniziava così [...] il legame volontario fra Trieste e l’Austria che durò 536 anni, sino al novembre 1918, garantendo per oltre mezzo millennio alla città la sua indipendenza, con la dignità di Paese membro dell’Impero, attraverso il legame personale diretto con il sovrano. […] Si deve quindi constatare, questo 30 settembre del 2013, la riapertura di un ciclo simbolico e pratico nel quale la popolazione vecchia e nuova di Trieste si trova nuovamente a dover difendere, nel mondo e nei modi di oggi, la propria sopravvivenza concreta e la propria dignità dai rappresentanti attuali dei medesimi interessi geoeconomici e politici aggressivi che minacciavano di travolgerla con la forza e l’inganno già nel 1382, quando ricorse per difendersi all’Austria. Oggi la difesa più diretta non consiste in un plebiscito di dedizione all’Austria, ma nell’esigere dal Governo italiano e dalla Comunità internazionale la piena e corretta attivazione, secondo il diritto vigente, dell’ordinamento di Stato della città di Trieste quale Territorio Libero […] Ma la stessa azione difensiva potrebbe anche tradursi, su richiesta della popolazione triestina alle Nazioni Unite, nel passaggio dell’amministrazione fiduciaria di Trieste al governo austriaco, che rimane il candidato storico più naturale e qualificato a gestirla se quello italiano continuasse scandalosamente a non voler adempiere ai propri doveri internazionali di amministratore provvisorio, e non di padrone coloniale.»
È Parovel che parla, dalle colonne della Voce di Trieste, alcuni giorni dopo la manifestazione del 15 settembre. Ed è il fantasma di Furio Jesi che risponde:
«-Che cosa vuol dire cultura di destra?
-La cultura entro la quale il passato è una sorta di pappa omogeneizzata che si può modellare e mantenere in forma nel modo più utile [...]»
Perchè è vero che Trieste deve le sue fortune del secolo d’oro al fatto di essere stata porto dell’Impero, e che la fine dell’Impero ha segnato l’inizio del declino della città. È vero che nel 1915 l’Italia è entrata in guerra con l’Austria da aggressore e in modo canagliesco. Ed è vero che l’Italia nel 1918 si è comportata nella “Venezia Giulia” nello stesso modo in cui si è comportata in Libia nel 1911 e in Africa Orientale nel 1935. Ma che Trieste debba le sue fortune all’atto di dedizione del 1382 e al “legame personale e diretto col sovrano” è Mito (tecnicizzato, ça va sans dire). Il fantasma di Karl Marx lo spiega in modo molto chiaro:
«Come accadde, quindi, che Trieste, e non Venezia, divenne culla della rinascita della navigazione mercantile nell’Adriatico? Venezia era una città di reminiscenze nostalgiche; Trieste condivideva lo stesso privilegio degli Stati Uniti di non avere alcun passato. Modellata da una masnada variopinta di mercanti-avventurieri italiani, tedeschi, inglesi, francesi, greci, armeni ed ebrei, non era incatenata dalle tradizioni come la Città delle Lagune.» (“The Maritime Commerce of Austria”, New-York Daily Tribune, 9 gennaio 1857).
Non è stato lo sguardo benevole dell’Imperatore a fare di Trieste il porto più importante del Mediterraneo. È stato il capitalismo. E dove c’è capitalismo c’è conflitto (di classe). E infatti nel 1902 i fuochisti del Lloyd scioperano. E come da manuale la polizia spara e lascia a terra 14 morti e 50 feriti. Eccetera eccetera.

Da sinistra: i caporioni delle SS Odilo Globočnik e Friedrich Rainer. Rispettivamente, un nazista sloveno nato a Trieste e l’ultimo austriaco ad avere governato la città.
E poi. Visto che si tratta di Mito, allora per magia dalla storia di Trieste secondo MTL scompare il nazionalismo italiano prefascista di Ruggero Timeus, e scompare il fascismo endogeno: quello dei fratelli Cosulich, che si servono degli sgherri di Giunta per reprimere gli scioperi nei cantieri navali; e quello di Giuseppe Cobolli Gigli, grande costruttore di strade in Etiopia con largo uso di manodopera indigena. Scompare il collaborazionismo del biennio ’43/’45, e scompare l’imbarazzante dettaglio che l’ultimo austriaco che ha governato a Trieste è stato il gauleiter Friedrich Rainer, coadiuvato da un triestino di origine slovena, un certo Odilo Globočnik, reduce dell’Aktion Reinhard e ideatore e direttore del campo di sterminio della Risiera di San Sabba – cinquemila morti, ebrei, zingari e partigiani sloveni, croati e italiani.
Non solo. Se il Mito è l’Austria, deve scomparire anche l’austrofascismo di Engelbert Dolfuss, e ovviamente deve scomparire l’entusiasmo con cui gran parte degli austriaci accolgono l’Anschluss, l’annessione al Terzo Reich.
A meno che…
A meno che non ci si lasci sfuggire l’indicibile: «Nel ’43 i tedeschi ci hanno liberati».

Commento lasciato da Franzot nel forum triestino bora.la
Infine deve scomparire la Resistenza, perchè è un dato di fatto che i partigiani di Tito, il primo maggio del 1945, entrarono a Trieste combattendo contro i tedeschi.
Insomma, per farla breve: ci troviamo di fronte a una narrazione alternativa della storia di Trieste, contrapposta a quella della retorica ufficiale italiana, ma ugualmente tossica.
-
N.d.R. I commenti a questa inchiesta di Tuco – che ringraziamo – saranno attivati 72 ore dopo la pubblicazione, per consentire una lettura ragionata e – nel caso – interventi meditati (ma soprattutto, pertinenti).
-
The post TraumStadt. Paradisi fiscali, oleodotti e ritorno del rimosso: viaggio nel neoindipendentismo triestino appeared first on Giap.








October 12, 2013
#NemicoPubblico, seconda edizione! Featuring @zerocalcare

La vignetta di Zerocalcare che apre la nuova edizione di Nemico Pubblico.
Tempo di seconde edizioni: in istampa la seconda edizione di Point Lenana, già in circolazione la seconda edizione di Nemico Pubblico. Pecorelle, lupi e sciacalli.
Nemico Pubblico è il libro No Tav che ci vede tra gli autori e racconta la storia di uno dei più nauseabondi linciaggi mediatici degli ultimi anni. Per questo, ha già fatto incazzare un sacco di gente.
Nella versione arricchita e aggiornata la copertina è un po’ diversa:
Poi ci ha messo lo zampino il compagno Zerocalcare con la vignetta che vedete quissopra (*), poi ci trovate un compendio di cos’è successo a Marco Bruno negli ultimi tempi (perché non si finisce mai davvero di sbattere il “mostro” in prima pagina, o almeno di provarci), infine c’è una favola scritta da due giovanissime No Tav, Matilde e Micol, 13 e 11 anni. Perché noi – lo sanno tutti – siamo di quelli che plagiano i bambini, e dovete ammettere che è un passo avanti: una volta li mangiavamo.
Oggi, domenica 13 ottobre 2013, h. 15, il comitato Spinta dal Bass, Marco Bruno e Wu Ming 1 presenteranno Nemico Pubblico al centro polivalente di Villar Dora (TO), via Pelissere 16.
Il 25 ottobre Spinta dal Bass presenterà il libro al centro sociale Pacì Paciana di Bergamo. Il centro sociale è in via Grumello 61 (in alcuni navigatori il nome è “Via per Grumello”).
Il 26 ottobre Marco Bruno presenterà il libro a Roma, allo spazio autogestito Casetta Rossa, via Magnaghi 14 (Garbatella).
Come sempre, per ordinarlo basta scrivere a postmaster@spintadalbass.org. Costa 10 euro e vanno tutti nel fondo per le spese legali dei No Tav colpiti dalla repressione.
–* Interessante confrontarla con quella che disegnò Makkox il 29 febbraio 2012.
The post #NemicoPubblico, seconda edizione! Featuring @zerocalcare appeared first on Giap.








October 5, 2013
Vo Nguyen Giap, nome dei dannati della terra

Vo Nguyen Giap (Cent’anni nel 2011 – RIP 2013)
“Sia chiaro: per noi “Giap” non è tanto la Grande Personalità, il Nome Famoso, l’Eroe, il “battilocchio” la cui contemplazione distoglierebbe lo sguardo dai processi collettivi e di lungo corso. Al contrario, per noi “Giap” è molteplicità, “Giap” sta per le miriadi di persone che, ciascuna a suo modo, hanno contribuito alla decolonizzazione, alla lotta planetaria contro razzismo e colonialismo, alla presa di coscienza degli spossessati di vaste aree del mondo. Per noi “Giap” è il secolo, la parte del XX secolo che vale la pena continuare a interrogare, con spirito critico ma senza revisionismi cialtroneschi. Né replicare né rinnegare, assumersi la responsabilità del phylum che ci porta all’oggi, senza affannarsi a strappare pagine dall’album di famiglia per paura che le vedano gli sbirri della memoria. Vengano pure a perquisirci: noi non abbiamo vergogne.” (Cent’anni di Vo Nguyen Giap, 2011)
***
[Dal capitolo 32 di: Vitaliano Ravagli - Wu Ming, Asce di guerra, 2000:]
Nell’ottobre del 1952 due divisioni del Vietminh occupano un villaggio Tai nella regione di Lai Chau, sul confine tra Laos, Cina e Tonchino settentrionale.
Il villaggio sorge in una valle lunga venti chilometri e larga undici, tagliata in due dal fiume Nam Yum, ed è appena stato evacuato da un battaglione laotiano collaborazionista. Nella lingua dei Tai si chiama Muong Thanh, ma i vietnamiti lo conoscono come Dien Bien Phu.
Da qualche mese il generale Giap sta pensando di passare il confine ed entrare in Laos, dove le guarnigioni francesi sono quasi tutte isolate e vulnerabili, a parte quelle di stanza a Vientiane e Luang Prabang. Giap non vuole impossessarsi del Laos, bensì provocare e intrappolare i francesi lungo il confine, dove le loro linee di rifornimento sono precarie.
Nell’aprile 1953 Giap penetra in Laos. E’ un’offensiva in grande stile: le divisioni Vietminh passano vicino alle fortificazioni francesi nella Piana delle Giare, cosparsa di monumenti funerari preistorici, e puntano su Luang Prabang, dove i cittadini sono stati allertati da un chiaroveggente cieco. Ma a un certo punto, per non farsi sorprendere dai monsoni, l’esercito di Giap ripiega e torna in Vietnam. Ha dimostrato di poter entrare nel Laos quando vuole, e può sempre riprendere l’affondo con la stagione secca.
I francesi si convincono che Dien Bien Phu è il punto strategico in cui bloccare l’offensiva Vietminh contro il Laos.
A maggio, il generale Salan viene sostituito dal generale Henri Navarre, ufficiale di carriera, reduce delle due guerre mondiali, che si dichiara ottimista sulle sorti del conflitto e proclama: «Vediamo chiaramente la vittoria come la luce in fondo a un tunnel.»
Navarre pensa di avere una missione: impedire a ogni costo l’invasione del Laos.
Il sottoposto di Navarre è René Cogny, lauree in legge e scienze politiche. Un altro consigliere è il colonnello Louis Berteil. Questo trittico di cervelli partorisce un piano ambizioso: prendere Dien Bien Phu e stabilirvi il punto d’appoggio per sfondare le retrovie di Giap.
A luglio, Navarre va a Parigi e sottopone il piano al primo ministro Joseph Laniel.
Il 28 ottobre, il Laos firma un trattato di alleanza e associazione con la Francia, che ne riconosce l’indipendenza e s’impegna a rispettarne la sovranità “in seno all’Unione Francese”.
La firma del trattato rafforza l’idea che il Laos vada difeso a ogni costo.
Nel frattempo, Navarre è tornato in Indocina, e dà inizio alla cosiddetta “Operazione Castoro”: cinque battaglioni francesi conquisteranno Dien Bien Phu.
Il colonnello Jean-Louis Nicot, capo dei trasporti aerei in Indocina, ammonisce che il cattivo tempo potrebbe ostacolare le operazioni. Nel frattempo, anche Cogny ha maturato dei dubbi e dice che Dien Bien Phu potrebbe diventare “un tritacarne”.
Navarre ormai è partito per la tangente, non sente ragioni, è convinto che il Vietminh non sarà in grado di fronteggiare un attacco su vasta scala.
In realtà, grazie a una serie di diversivi, Giap ha creato l’impressione che il grosso delle sue divisioni sia impegnato altrove: attentati ai convogli francesi sulle tratte che collegano il porto di Haiphong all’interno del paese, e ripetute incursioni nel Laos meridionale (“il manico della padella”). Giap sta preparando uno “scacco matto”: con la strategia degli attacchi sparsi blocca il Corpo di Spedizione francese in diverse regioni, e fa sì che non si possa fortificare un singolo punto senza sguarnirne un altro. Nel frattempo, i distaccamenti Vietminh si organizzano intorno a Dien Bien Phu.
Sa che i francesi si troveranno in posizione svantaggiosa, isolati, dipendenti dai rifornimenti aerei, mentre i suoi uomini si apposteranno sulle montagne che sovrastano la vallata, e potranno ricevere armi e rifornimenti dalle retrovie.
Il 20 novembre 1953, sei battaglioni del Corpo di Spedizione si paracadutano nella valle di Muong Thanh, e vi si insediano.
Al comando delle operazioni c’è un ufficiale di cavalleria, Christian Marie Ferdinand de la Croix de Castries, donnaiolo aristocratico, di discendenza militare fin dalle Crociate.
Nel frattempo tra i leader delle grandi potenze matura la convinzione che il conflitto in Indocina possa essere ricomposto, come è appena successo in Corea.
Stalin è morto da poco, e la nuova dirigenza sovietica vorrebbe attenuare le tensioni internazionali.
L’opinione pubblica francese è stanca della sale guerre, la sporca guerra, e preme su Laniel perché cerchi “una soluzione onorevole”.
I comunisti cinesi, al potere da soli quattro anni, sono ansiosi di svolgere un importante ruolo internazionale, per proporsi in chiave “moderata” e ottenere il riconoscimento dei paesi europei. Zhou Enlai, primo ministro, è dell’opinione che, cacciati i francesi, arriveranno a premere sul confine meridionale i ben più temibili americani, che non riconoscono la Cina popolare. Zhou è per concedere ai francesi un ruolo nelle loro ex-colonie del sud-est asiatico, anche scavalcando il Vietminh.
Tutt’altra tendenza manifestano gli usa: John Foster Dulles, segretario di stato di Eisenhower, insiste sulla linea del “contenimento” del comunismo, pensa che in Corea la partita sia ancora aperta nonostante la “tregua”, preme sui francesi perché rimandino ogni iniziativa diplomatica e migliorino le loro posizioni in Indocina. Concede loro un prestito di 500 milioni di dollari. I francesi accettano i soldi ma rimangono scettici sulla prosecuzione a oltranza del conflitto.
Nemmeno Ho Chi Minh è convinto che sia già il momento di trattare: preferisce piegare l’opinione pubblica francese e imporre lui le condizioni. Ma deve tenere conto delle esigenze cinesi: dopotutto, il Vietminh si avvale di consiglieri militari inviati da Pechino, e molti guerriglieri vietnamiti si sono addestrati in campi cinesi. Soprattutto, Zhou Enlai ha fornito al Vietminh cinquantamila tonnellate di materiali militari e vettovaglie. Infine, se la Francia ha paura è anche grazie ai duecentomila soldati cinesi schierati a ridosso del confine col Vietnam.
Il 29 novembre 1953 Ho Chi Minh comunica al mondo la sua disponibilità a porre fine alla guerra “con mezzi pacifici”.
Ma intanto s’avvicina lo scontro finale.
I francesi hanno già perso prima di combattere. La disfatta matura nel loro Quartier Generale di Saigon: Navarre non ha capito niente della strategia e del potenziale bellico di Giap, e non prende in considerazione alcuna ipotesi che non si adatti ai suoi preconcetti.
Secondo Navarre, Giap non può contare su ingenti forze, quindi si rifiuta di spostare i grandi distaccamenti francesi dal Vietnam centrale a Dien Bien Phu.
Ma Giap ha trascorso più di tre mesi a schierare gli uomini. A partire da novembre, da quando i parà francesi si sono sistemati nella valle, Giap sposta verso Dien Bien Phu trentatre battaglioni di fanteria, sei reggimenti di artiglieria e un reggimento del Genio. Alcuni di questi spostamenti durano 7-8 settimane, i soldati attraversano a piedi montagne e giungle, marciano di notte e dormono di giorno per evitare i bombardamenti.
All’inizio del ’54, a Dien Bien Phu ci sono cinquantamila combattenti vietnamiti, più altri ventimila lungo le linee di rifornimento. Invece i francesi sono tredicimila, metà dei quali sono nord-africani o indocinesi lealisti, poco e male addestrati al combattimento. Il resto sono quasi tutti legionari.
Navarre non crede che Giap possa disporre di un’artiglieria, figurarsi di una contraerea. Ma l’artiglieria è stata trascinata a mano o portata in bicicletta, un’impresa titanica. Il Vietminh dispone di ventiquattro obici da 105 mm., tutti di fabbricazione statunitense, trofei di guerra della Corea.
Navarre crede di poter usare i carri armati, che invece verranno bloccati dalla fitta boscaglia e, durante le piogge monsoniche, affonderanno in profondi acquitrini.
Insomma, l’esercito francese si trova soverchiato in un rapporto di cinque a uno, intrappolato in un buco di culo fangoso, cannoneggiato dalle colline circostanti (impossibilitato a contrattaccare perché le postazioni Vietminh sono perfettamente mimetizzate) e soprattutto isolato, senza possibilità di ricevere vettovaglie né di evacuare i feriti, perché gli obici di Giap devasteranno la pista d’atterraggio, bloccando tutti i voli in entrata e in uscita.
Come aveva predetto Cogny, Dien Bien Phu sarà “un tritacarne”.
Poco prima dell’alba del 13 marzo, l’assedio si trasforma in attacco. Gli obici aprono il fuoco, sorprendendo e paralizzando i francesi.
Castries ha fatto costruire quattro basi d’artiglieria, battezzate coi nomi di sue ex-amanti: Gabrielle, Anne-Marie e Béatrice sul lato nord della valle, Isabelle sul lato sud.
Giap scaglia la sua “onda umana” contro Gabrielle, Anne-Marie e Béatrice. Isabelle è troppo lontana per aprire un fuoco di copertura, inoltre è difesa da un terzo dell’intera forza francese, che non osa spostarsi nel timore di un altro attacco. Béatrice cade immediatamente, Gabrielle e Anne-Marie il giorno successivo. La pista d’atterraggio è completamente distrutta dagli obici.

Charles Piroth
Il vicecomandante francese, colonnello Charles Piroth, esperto di cannoni con un braccio solo, aveva dichiarato: «Nessun cannone Vietminh riuscirà a fare fuoco tre volte prima di essere distrutto dalla mia artiglieria.» All’alba del 15 marzo, Piroth stacca con i denti la linguetta di una bomba a mano e si fa saltare in aria. La sera prima lo hanno sentito dire: «Sono completamente disonorato.»
Quella dell’onda umana è una tattica tipica della guerra di Corea, e infatti l’hanno suggerita due consiglieri cinesi, Wei Guoqing e Li Chenghu. E’ una tattica costosissima in termini di vite umane, lo stesso Mao è contrario a ricorrervi. La forza di un esercito popolare dipende dalla coscienza politica di ogni singolo combattente, ciascun uomo è importante, non lo si può usare come carne da cannone.
Nei primi tre giorni di assalto, il Vietminh conta 2000 morti e 7000 feriti.
Giap decide di interrompere l’offensiva, lasciar perdere i suggerimenti dei cinesi e passare a una “strategia di attrito”. Nelle settimane seguenti, fa scavare gallerie e trincee fino a circondare la guarnigione francese con centinaia di chilometri di passaggi sotterranei.
Quest’impresa non sarebbe possibile senza l’impegno di 33.500 dân công (patrioti operai). Con più di 2700 biciclette modificate (chiamate xe thô), quasi altrettante giunche e più di 17.000 cavalli, i dân công portano al fronte ventimila tonnellate di riso, oltre a munizioni e beni di prima necessità. E’ grazie a questa mobilitazione che Giap può fare attrito . Tra il gennaio e il maggio del ’54, i dân công contribuiranno alla causa anti-francese con cinque milioni di giornate di lavoro.
Si avvicinano le piogge monsoniche, e i francesi sperano che il Vietminh affogherà nel fango. Succede il contrario: le nuvole basse impediscono all’aviazione francese di bombardare le retrovie di Giap e ostacolano i lanci di rifornimenti ai francesi assediati. A parte il problema di visibilità, c’è anche la contraerea Vietminh, che costringe gli aerei a volare troppo alti, così i lanci sono sempre più imprecisi. Molte vettovaglie, munizioni e, in almeno un caso, informazioni segrete destinate ai francesi assediati, atterrano in pieno territorio Vietminh.
Nel frattempo, molti indocinesi, e persino qualche regolare francese, disertano il Corpo di Spedizione. I legionari li chiamano, spregiativamente, “i sorci del Nam Yum”, perché spesso, al momento di fuggire, guadano il fiume portando con sé i viveri appena paracadutati.
E’ il momento dell’extrema ratio: il governo francese chiede aiuto agli americani. L’ammiraglio Arthur Radford propone che sessanta bombardieri B-29, scortati da cacciabombardieri della Settima Flotta USA, decollino dalle Filippine e facciano incursioni notturne contro il perimetro Vietminh intorno alla valle. Il progetto ha un nome: “Operazione avvoltoio”.
Il generale Paul Ély, capo di stato maggiore francese, comunica la notizia al suo governo, comprensibilmente contento. Ma il capo di stato maggiore americano, Matthew Ridgway, è contrario a un coinvolgimento diretto sul fronte asiatico: ancora scottato dalla Corea, teme l’intervento dei cinesi e l’ipotesi di dover spostare in Vietnam dalle sette alle dodici divisioni, distogliendole da altri settori strategici.
Il presidente Eisenhower è d’accordo con lui e rinvia la decisione al Congresso e agli Alleati. Senza il loro appoggio non intende muovere un dito.
Benché il vicepresidente Nixon e il segretario di stato Dulles facciano pressioni sui parlamentari, il Congresso non dà l’autorizzazione.
Nel frattempo, un gruppo di studio del Pentagono conclude che tre armi atomiche tattiche, “opportunamente impiegate”, sarebbero sufficienti ad annientare il Vietminh. Radford è entusiasta di quest’idea e spinge perché la si proponga ai francesi. Secondo alcune fonti, lo stesso Dulles è favorevole all’ipotesi atomica, ma i vertici del Dipartimento di stato non solo sono contrari, ma terrorizzati anche solo dall’eventualità che circoli una voce del genere. Un anonimo funzionario ammonisce: «Se la vicenda trapelasse, scatenerebbe un gigantesco grido di disapprovazione in tutti i parlamenti del mondo libero.»
La guarnigione francese a Dien Bien Phu è ormai condannata, e con essa il dominio coloniale francese in Indocina. Tutti lo sanno, ciò che conta è limitare i danni. E’ l’ora dei negoziati.
Si fissa per l’8 maggio l’avvio della conferenza di Ginevra sul problema dell’Indocina, a cui parteciperanno delegazioni di Francia, Stati Uniti, URSS, Cina, oltreché, naturalmente, del Vietminh.
Con sorprendente tempismo, Giap espugna Dien Bien Phu il 7 maggio. L’assedio è durato cinquantacinque giorni. Dalla parte dei francesi, si contano 1.142 morti, 4.436 feriti e 1.606 dispersi. Le perdite del Vietminh ammontano a 7.900 morti e più di 15.000 feriti.
A Ginevra, si comincia a discutere.
LINK
The post Vo Nguyen Giap, nome dei dannati della terra appeared first on Giap.








Wu Ming 4's Blog
- Wu Ming 4's profile
- 49 followers
