Wu Ming 4's Blog, page 112
June 4, 2013
#Occupy Landscape
Dopo le riflessioni generali di ieri, ecco una meditazione più specifica su #OccupyGezi, i fatti di Piazza Taksim e cosa succede quando le persone si organizzano per rivendicare un diritto alla città, al tempo stesso territorio e civitas. Un diritto che è, più in generale, diritto al paesaggio. Sul sito di Internazionale.
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June 3, 2013
Da #OccupyGezi ai #NoTav e oltre: non esistono lotte «locali» – di Serge Quadruppani e Wu Ming
Spagna, Germania, Svezia e ora Turchia.
Sapevamo che il continente sarebbe riesploso. E non solo il continente: negli USA si rioccupano Zuccotti Park e tanti altri spazi, la polizia risponde con la repressione ma non basterà, come non è bastato l’anno scorso.
Sapevamo che chi parlava di “fine” o “esaurimento” del ciclo di lotte e rivolte iniziato nel 2010-2011 aveva torto marcio. Lo sapevamo, perché eravamo in ascolto. Alla fine del 2012, in Spagna erano già chiarissimi i segnali di una “seconda ondata” del Movimento 15 Maggio: escraches ovunque, manifestazioni, blocchi contro le confische di case da parte delle banche… E tanti altri sintomi si manifestavano in altri paesi. Da noi, invece, toccava sopportare le banalità, i luoghi comuni, le sentenze sputate da chi non si informava: «Gli Indignados non ci sono più! Occupy è morta! Le proteste in Grecia non sono servite a nulla! Le primavere arabe hanno solo sostituito nuovi regimi a quelli vecchi! Rassegnatevi, i movimenti che piacciono a voi hanno fallito, siamo molto più avanti qui in Italia, grazie al Movimento 5 Stelle! Negli altri paesi non combinano niente, noi vinciamo le elezioni! Ditelo, che siete invidiosi di Grillo!»
Sono passati solo tre mesi da quando quelle frasi erano moneta corrente, e sembrano voci di un secolo fa. Ovunque si fa movimento, i corpi si riappropriano di strade e spazi pubblici, si contesta l’austerity persino in Germania (nel ventre della Bestia). Da noi, invece, lotte importanti ma ancora a macchie di leopardo, e per quanto si scuota la bottiglia, non si è ancora riusciti a far saltare il tappo dei partiti, delle burocrazie sindacali e del qualunquismo travestito da “protesta”.
Il Movimento 5 Stelle ha fatto quel che avevamo previsto ed era facile prevedere: ha stabilizzato il sistema (speriamo solo temporaneamente). Sinceramente, si è visto poco di quelle “feconde ambivalenze” che certi avevano creduto di ritrovare nel partito-azienda di Grillo e Casaleggio, ambivalenze presuntamente sfruttabili dai movimenti di lotta. Si è vista anche poca rivolta interna, quella per cui tifavamo. Di scazzi ce ne sono stati eccome, ma ben poco “fecondi”, anzi, piuttosto squallidi e su questioni pitocche: gli scontrini, la diaria, Barbara D’Urso… Tutto questo, per dirla con Mengoni, mentre il mondo cade a pezzi.
Se poi vogliamo parlare dei contesti locali, in molte città il M5S si è inabissato o rivelato una sacca vuota: successi elettorali effimeri, ruggiti dei “leoni da tastiera”, ma assenza dalle lotte per mancanza di attivisti, come abbiamo visto in occasione del referendum bolognese. Nelle città dove governa, il “moVimento” amministra austerity e devastazione, come qualunque altro partito, come una masnada di Enrichi Letta qualsiasi.
Intendiamoci, il ruolo di “pompiere” di Grillo e Casaleggio non è terminato: se il tappo salta, un movimento confusionista e diversivo sarà più utile che mai. Saranno i poteri che a parole il M5S contesta a fare di tutto per tenerlo in piedi, perché l’alternativa fa paura.
Riuscirà a vincere battaglie strategiche questa “seconda ondata” della sequenza avviata nel 2010? Riuscirà a consolidare soggettività, a contare nella politica?
Non lo sappiamo. Sappiamo, però, che queste lotte sono espressioni di una coscienza transnazionale: a New York si sentono parte di quel che accade ad Ankara e viceversa, come a Madrid si sentono parte di quel che accade a Francoforte e viceversa.
E noialtri, lo capiamo che, pur con tutti i limiti del caso-Italia, i manifestanti di Istanbul sono parte di quel che avviene in Val Susa e viceversa? Che i manifestanti No Muos di Niscemi, i cittadini “liberi e pensanti” di Taranto e i lavoratori della logistica i cui scioperi infiammano l’hinterland bolognese sono tutti parte di quel che accade a Istanbul e Smirne? Che la lotta per Gezi Park, scintilla della rivolta turca, tocca molte delle contraddizioni già toccate dalla lotta No Tav, e per questo le due lotte subiscono una repressione molto simile?
No, sembra che troppi non lo capiscano, o non vogliano capire. I media italiani denunciano con sdegno la repressione ordinata da Erdogan (per inciso: altro amicone di Silvio, come Mubarak), e addirittura parlano male del gas CS, senza dire che noi lo abbiamo respirato a Genova e in Val Clarea viene usato da anni, a centinaia di ettolitri, e si continuerà a usarlo.
Non siamo certo i primi a dirlo: a molti commentatori nostrani le rivolte piacciono soltanto se lontane da casa. Ancor meglio se possono essere “etnicizzate”, se se ne può fare una questione religiosa (quella turca viene semplicisticamente ridotta a rivolta… “anti-islamica”), se si può posare su di esse uno sguardo “orientalista”, ovvero razzista, in modo da non far percepire che quelli là siamo sempre noi.
Insomma, ci stanno riproponendo la solita narrazione tossica della rivolta, e forse può tornare utile un nostro intervento di un paio di anni fa, intitolato Disintossicare l’Evento, ovvero: come si racconta una rivoluzione.
Per spazzare via queste mistificazioni e orientarci nel tumulto dei giorni, possono essere utili i due testi che proponiamo qui sotto.
Da pochi giorni è uscito in libreria il n. 7 di Nuova Rivista Letteraria, semestrale fondato da Stefano Tassinari. Questo numero è interamente dedicato al tema dell’incontro. Qui si può leggere l’editoriale di Wu Ming 1. Il numero ospita anche un articolo scritto da Serge Quadruppani e intitolato “Non esistono lotte «locali»”.
Sentiamo profondamente nostre le considerazioni di Serge. Ormai da molto tempo riflettiamo sui rapporti fra territorio, conflitto, paesaggio, tempo, viaggio e pulsione utopica. Da Il sentiero degli dei a Point Lenana (per citare solo due titoli), dalla defascistizzazione della ricezione di J.R.R. Tolkien in Italia allo svisceramento delle differenze tra l’idea di società di destra (corpus organico, unitario, minacciato solo da nemici esterni) e l’idea di società della sinistra (insieme contraddittorio, costitutivamente diviso, dove i conflitti sono endogeni), dal recupero delle riflessioni di Furio Jesi sui “miti tecnicizzati” alla messa in guardia sui pericoli del “grillismo”, tutto il nostro lavoro può essere riportato a questa dichiarazione d’intenti: sgombrare il campo dalle narrazioni tossiche e diversive, andare al nocciolo del conflitto, mostrare che tutte le lotte sono la stessa lotta.
Sempre in questi giorni, e sempre con la firma di Serge, è uscita la traduzione del saggio La politique de la peur (tit. it. La politica della paura).
La “politica della paura” è quella che i poteri costituiti oppongono alla minaccia (che si guardano bene dal sottovalutare) della nascita di un nuovo “sindacato”, l’unione dal basso di tutti quelli che hanno subito “un torto universale”. Riportiamo qui la prefazione scritta da WM1.
N.B. Di tutto questo parleremo insieme a Paolo Rumiz il 12 giugno, fuori dalla nostra “zona di comfort”, in un luogo per noi inusuale, un altro “ventre di bestia”: il Centro San Domenico di Bologna (!)
Troppo facile – si fa sempre per dire! – e troppo scontato riflettere su #occupygezi e orientalismo, territorio e conflitto, lotte locali che toccano l’universale… in un posto dove tutto ciò potrebbe suonare come predica ai convertiti. La vera sfida è farlo in un incontro su Istanbul organizzato dalla casa editrice Il Mulino come parte della rassegna “Viaggi d’autore”.
Il Mulino ha chiamato Wu Ming perché Altai si svolgeva sul Bosforo, nella capitale dell’impero ottomano. Tempismo perfetto. Nei giorni scorsi abbiamo presentato Altai in Inghilterra, e più volte è stato fatto il collegamento tra la Costantinopoli del romanzo e l’Istanbul degli scontri di questi giorni.
Ok, per ora è tutto. Buona lettura.
***
NON ESISTONO LOTTE «LOCALI»
di Serge Quadruppani
Dalla Val di Susa al Cotentin, dalle vallate basche a Creta, dalle Saline Joniche alle foreste intorno a Mosca, da Niscemi al bosco di Morvan, da Gorleben allo stretto di Messina, dalle città marocchine alle campagne polacche si può stimare in centinaia di migliaia il numero di persone che negli ultimi anni si sono mobilitate contro progetti che distruggono territori e modi di vivere che in quei territori si erano sviluppati. Se aggiungiamo i contadini e cittadini in lotta dall’India all’Ecuador, contro il land grabbing nel quadro dello sviluppo agricolo «moderno» o contro progetti minerari; gli abitanti dei villaggi in lotta contro l’appropriazione delle foreste in Cambogia; i residenti cacciati dai loro vecchi quartieri in Cina etc. si può dire che questi movimenti d’opposizione coinvolgono milioni di persone. Di fronte a queste battaglie, a tutte le latitudini, il potere non cessa di ripetere il suo mantra: progresso, sviluppo, posti di lavoro. Ciononostante, si può prevedere che la moltiplicazione e l’amplificazione su scala planetaria di queste lotte sarà uno dei fenomeni più importanti nei decenni a venire. Simili manifestazioni di resistenza non sono certo nuove. In Francia non ci si è scordati del Larzac, qualcuno in Italia ricorda ancora la Val Bormida [Cfr. Alessandro Hellmann, Cent’Anni di Veleno, Stampa Alternativa, 2005; Patricia Dao, Bormida, Oxybia Editions (edizione bilingue)]. La lotta di una parte degli abitanti di una valle tra Liguria e Piemonte contro una fabbrica di esplosivi (prima) e prodotti chimici avvelenanti (poi), è durata praticamente 117 anni, dalla fondazione dello stabilimento alla sua chiusura nel 1999. Nei suoi ultimi dieci anni, quel movimento seppe conquistarsi solidarietà diffusa nella penisola, tuttavia non c’è mai stato nulla di paragonabile a quanto accaduto dopo che Luca Abbà, arrampicatosi su un traliccio dell’alta tensione di fronte al cantiere TAV in Val Clarea, è rimasto fulminato. Una reazione di solidarietà di un’ampiezza senza precedenti è dilagata per la penisola, con manifestazioni spontanee in una decina di città, a volte seguite dal blocco delle stazioni o delle tangenziali. Va ricordato che, due giorni prima dell’«incidente» occorso a Luca, circa 100.000 persone avevano manifestato in valle. Qualcosa di simile è accaduto in Francia, su scala minore, dopo le prime espulsioni che hanno colpito la ZAD a Notre Dame des Landes.
Nel 1963, per la costruzione di un nuovo aeroporto vicino a Nantes, fu scelta una zona rurale punteggiata di boschi e zone umide protette. A partire dal 1972, questo progetto ha incontrato l’opposizione di numerosi contadini del luogo, ai quali si sono presto uniti gruppi ecologisti. Nel 2008 in quella che le autorità chiamano ufficialmente ZAD [Zone d’Aménagement Différé, Zona di Pianificazione Differita] si è sviluppata un’altra ZAD, la Zone à Défendre [Zona da Difendere], dove «squatters» di diverse nazionalità si sono dapprima insediati in edifici venduti dai loro proprietari a chi proponeva il progetto (la multinazionale dell’edilizia Vinci e il Consiglio regionale) e poi, una volta abbattuti tali edifici, dentro capanni costruiti nei boschi.
Il 16 ottobre 2012 l’operazione di polizia «César» ha mobilitato 1200 poliziotti, elicotteri e blindati per ottenere scarsi risultati, vista la resistenza incontrata. Resistenza che ha assunto tutte le forme possibili, dalle barricate alla reazione non-violenta al denudarsi. La solidarietà spontanea di centinaia di persone che hanno offerto provviste e materiali, seguita dall’imponente manifestazione del 14 novembre sfociata nella ricostruzione e rioccupazione dei capanni abbattuti, ha avuto una tale risonanza che il governo e in particolare il primo ministro Jean Marc Ayrault – che è stato a lungo sindaco di Nantes e ne aveva fatto una questione personale – sono dovuti scendere a compromessi. Il passo indietro è consistito nel creare una «commissione per il dialogo». Dialogo il cui esito dipenderà interamente dal rapporto di forza che gli oppositori alla costruzione dell’aeroporto riusciranno a creare dopo una tregua di alcuni mesi.

Nostra signora delle lotte.
Una questione di potenza
Nel clima deprimente che tocca le lotte sociali in Francia come in Italia, Notre-Dame des Landes e la Val di Susa costituiscono significative eccezioni, sia per la forza del movimento sia per la rilevanza del sostegno ricevuto. Le ragioni di questo sono molteplici. La prima è la stessa che attrasse decine di migliaia di persone nelle grandi manifestazioni del Larzac. Quando, in un determinato territorio, il rifiuto dell’arbitrio statale acquisisce una forza sufficiente a resistere nel tempo, si crea uno spazio al tempo stesso geografico e simbolico, dove possono confluire tutte le lotte contro i comandi imposti dall’alto che devastano la vita di chi sta in basso.
Studenti medi e universitari che rifiutano l’ennesima ristrutturazione neoliberista dell’istruzione, operai che resistono allo smantellamento del diritto del lavoro, oppositori di diversi altri progetti, tutte queste moltitudini sempre più numerose, anno dopo anno, sono affluite nella valle che resiste, perché riconoscono in quel luogo ciò che avevano bisogno di costruire per loro stessi: una potenza. Questa potenza è ancorata alla realtà di un territorio, che è l’incontro tra il suolo e gli umani che lo abitano, e di tutto ciò che tale incontro ha prodotto: paesaggio, produzione materiale, relazioni umane, immaginario… La concretezza di un luogo preciso si oppone all’astrazione di aerei luoghi virtuali, ai poteri disseminati negli uffici da Roma a Bruxelles passando per Parigi, nei corridoi delle multinazionali, nelle transazioni sottobanco delle mafie, negli intrighi dei partiti e negli scambi di favori, dal Municipio di Bussoleno fino alle altitudini smaterializzate degli scambi elettronici istantanei della finanza globale, delle grandi compagnie e delle strutture statali e mafiose – tutto il rumore di fondo di questa rete di poteri ultimi che è piuttosto pratico ed efficace definire Impero. Il tardo capitalismo, con la sua utopia di sviluppo sganciato dal territorio (utopia perché basata sull’ipotesi di un pianeta dalle risorse illimitate), è il nemico diretto delle lotte locali.
Anche gli operai che rifiutano la delocalizzazione delle loro fabbriche – o una certa delocalizzazione «sul posto» che consiste nel far lavorare a condizioni semi-cinesi – si scontrano con l’Impero e con la difficoltà di dargli una fisionomia precisa. Ma lo fanno da una posizione di debolezza, perché si dice loro che quello spazio dove la loro vita, per mezzo del loro lavoro, si valorizzava, adesso non vale più niente, e di conseguenza nemmeno la loro vita vale più niente. Patetico spettacolo, quello dei lavoratori che occupano una fabbrica che deve chiudere. Situazione di stallo, con operai alla ricerca di un acquirente, vale a dire un nuovo sfruttatore che consenta loro di essere sfruttati. I più radicali potranno forse, facendo un po’ di tumulto o prendendosela coi politici, ottenere un minimo di risarcimento per andare a tirare la carretta altrove. Lì dove sono non sono più niente. Il delocalizzato viene così restituito alla condizione di proletario assoluto, perché nessuno vuole più saperne della sua unica ricchezza, la forza-lavoro, e non può nemmeno dire che ha da perdere solo le proprie catene: le catene, da tempo, sono passate ai suoi omologhi cinesi o bulgari.
Al contrario, la potenza delle lotte sul territorio colpisce luoghi indispensabili alla delocalizzazione: occupandoli, la si blocca. Per far funzionare una società che si nutre della parcellizzazione della produzione, della produzione a basso costo, della circolazione incessante di informazione, finanze, uomini e prodotti, servono luoghi ben concreti dove i flussi passino, aeroporti per far decollare tanto i manager quanto i turisti low cost, tunnel di 57 chilometri per far correre più veloci le merci tra Lione e Torino… Serve la linea ad alta velocità Poitier-Limoges perché il capitale possa circolare. E’ in questo che le lotte del territorio di oggi si distinguono da quelle del passato, come quella del Larzac, il cui motore essenziale rimase il rifiuto dell’autoritarismo statale: oggi non è più solo un «modo di governare» a essere messo in discussione, ma un intero mondo.
Per tracciare il volto di questo mondo, ecco il numero 4 della rivista Territoires 2040, edita dal DATAR [Direction à l’aménagement du territoire].
Qui si trova la massima elaborazione teorica a cui possa giungere l’intelligenza salariata al servizio del mantenimento dell’ordine delle cose. Nell’introduzione al dossier, opera di un brillante barone universitario, tre punti attirano l’attenzione: bisogna accettare l’ineluttabilità delle innovazioni dettate dalla tecnoscienza e dalle necessità economiche; la lezione di Fukushima non è che bisogna impedire le catastrofi, ma che bisogna preparare a esse le popolazioni; si va verso un mondo dove si svilupperà la segregazione spaziale: comunità ultra-securizzate per i ricchi, ghetti per i poveri.
Col supporto di tesi, analisi e scenari di fiction (secondo le strategie dello storytelling, segno di modernità), si presenta lo spazio del futuro come quello dove poche metropoli producono valore mentre, nel mezzo, restano le terre desolate delle popolazioni devalorizzate. Nello spazio tra le città ci sono le vie di circolazione e le dighe, i parchi eolici o le centrali destinate a farle funzionare: le cosiddette Grandi Opere. Il capitalismo «sospeso» ha bisogno, di tanto in tanto, di posare i piedi sul terreno, ed è quel terreno che le lotte cosiddette «locali» gli toglieranno da sotto i piedi.

Giacu.
Volti dell’altro mondo
Come dice lo slogan «Contro l’aeroporto e il suo mondo», dietro ogni grande opera c’è ben più di uno specifico progetto. Per questo migliaia di persone sono venute a sguazzare nella fanghiglia dei campi di Nantes. Ed è perché sentono che è tutto un modo di vivere a voler trivellare la montagna che migliaia di altri sono venuti in val di Susa. La cosa più notevole è che, opponendosi a un mondo, ne stanno creando un altro. Questa è la seconda ragione che attira persone in questi luoghi, ragione tanto più forte e nuova perché rompe con l’irragionevolezza fondamentale dell’epoca.
Un giornalista alla ricerca di un portavoce nel mezzo di centinaia di capanni oggi esistenti nella ZAD, lo/la troverà forse alla No-TAVerna, luogo di socialità annaffiata il cui nome è un chiaro omaggio alla Val di Susa. Ad ogni incontro, il/la portavoce dichiarerà di chiamarsi «Camille», e se il giornalista dovesse avere un livello di intelligenza da televisione francese, si appunterà seriamente quel nome, che in francese è unisex, senza accorgersi che tutti i portavoce interpellati dai media si chiamano sempre Camille. Questa pratica spontanea, che soddisfa il gusto del nome collettivo ben conosciuto da qualcuno dei miei amici italiani, è solo una delle molteplici manifestazioni di creatività degli abitanti della ZAD. Se ne possono elencare all’infinito.
I nomi dei luoghi: si va dal Phare Ouest (Faro Ovest, ma si pronuncia come «Far West») allo Chat Taigne («Gatto tignoso», ma anche «Castagna») passando per il «Black Bloc sanitaire» (il gabinetto).
Le forme dell’abitare: dalle case sugli alberi che rendono necessario l’intervento di squadre specializzate per sloggiare gli abitanti, alla bella dimora offerta dall’altopiano di Millevaches, fabbricata, trasportata e montata in una quindicina di giorni, passando per le case concepite da scuole di architettura e le barricate ormai abitate, spesso precedute o seguite da enormi fossati e da fortificazioni in costante miglioramento (c’è addirittura un progetto di ponte levatoio!).
Il ricorso alle icone popolari: anche nella ZAD, come in Val di Susa, si muovono i personaggi di Asterix, favorite dal nome in codice dell’operazione di polizia «Cesare».
Le periodiche cerimonie di magia nera per far impazzire gli sbirri.
Lo scambio di saperi: meccanico, agricolo, botanico, medico ecc…
Le canzoni, i film, le celebrazioni della «barricata come una delle belle arti»… Tutto questo esprime la concretezza di un altro modo di vivere insieme, basato sulla gratuità e la presa di decisioni senza gerarchie né rituali assemblearistici congelati e raggelanti.
Come hanno mostrato anche i Wu Ming nel loro reportage Folletti, streghe, santi e druidi in Val Clarea, l’immaginario della valle piemontese è tanto fertile quanto quello del boschetto normanno: détournement e creazione di miti («Giacuuuu!»); rivitalizzazione – da parte degli amici della rivista Nunatak – del ricordo delle repubbliche partigiane; invenzione di assemblee mobili che combinano il piacere della marcia con la difficoltà per i poliziotti di registrare le decisioni; sviluppo e affinamento di tattiche intelligenti per gli assalti al cantiere/fortino; sviluppo, come a Notre-Dame des Landes, di una conoscenza popolare sulle questioni ambientali ed economiche nettamente superiore a quella degli esperti asserviti.
Nella valle si può incontrare una realtà che tanto manca a questa post-sinistra, Bersani e Hollande e Amendola e Valls, a questo personale politico senza più un’ideologia nemmeno socialdemocratica, che non finirà mai di collassare intellettualmente, umanamente e anche – ben gli sta! – elettoralmente. Là si trova in tutta la sua concretezza e carnalità ciò di cui i piccoli politici hanno perso persino il ricordo: un popolo.
Quando la più normale delle famiglie – lei vigile urbano, lui dipendente comunale in pensione, due figli, uno alle superiori e l’altro all’università – si riunisce per mostrarti, divertendosi molto, video di scontri con la polizia; quando i commercianti di Bussoleno lanciano lo «shampoo di solidarietà» per sostenere un loro collega arrestato; quando gli sforzi congiunti dei procuratori e dei loro assistenti mediatici non riescono mai a incrinare l’alleanza tra le donne che pregano Padre Pio e i ragazzi dei centri sociali, accade un evento come è accaduto nei bei giorni di Piazza Tahrir, quando l’isolamento della rivoluzione non minacciava ancora di deteriorarla e i cristiani vegliavano in piedi per proteggere i loro fratelli musulmani in preghiera.
Accade quel che è accaduto quando i trattori dei contadini della regione di Nantes e non solo sono venuti a incatenarsi per difendere il Gatto Tignoso, manifestando chiaramente che i presunti black bloc, gli hippie e loro stessi erano una sola e identica cosa, One Big Union, il «sindacato» di coloro ai quali non è stato fatto un torto particolare, ma un torto universale. Vincendo contro Vinci (aeroporto di Nantes e autostrada di Mosca), contro le cooperative (Si-Tav e pro-Ikea), contro la partnership pubblico-privato (socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti), contro l’euforia dell’alta finanza, il suo discorso di crisi e la sua ansimante trinità Sviluppo-Lavoro-Progresso, vincendo contro tutto questo il popolo, la moltitudine o come si vorrà chiamare quest’eterogenea soggettività collettiva, diversa eppure unita, conquisterà per tutti noi un po’ d’aria, di spazio, di tregua, per trovare il coraggio, l’immaginazione e il tempo necessario ad affrontare nelle condizioni meno sfavorevoli la catastrofe a venire.
- [Traduzione di Massimo Vaggi e Wu Ming 1]
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Il governo Letta.
PREFAZIONE A «LA POLITICA DELLA PAURA»
di Wu Ming 1
Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta mi capitava di leggere una rivista anarchica che in teoria era trimestrale, ma in pratica usciva con cadenza aleatoria, a seconda di quanti e quali collaboratori fossero in quel momento fuori dalle patrie galere, o di quale espediente di autofinanziamento fosse andato a buon fine.
[Quanto appena detto vale, a pensarci bene, per buona parte della stampa «di movimento» degli anni Ottanta, anarchica o comunista che fosse.]
Galeotto fu il trimestrale ( non soltanto i redattori!), perché su quelle pagine lessi in traduzione alcuni brani tratti da La Banquise , una rivista radicale francese. All’epoca non sapevo che tra i principali animatori e autori de La Banquise c’era Serge Quadruppani. Lo sentii solo nominare più tardi, quando conobbi meglio la pubblicistica di quella che Oltralpe viene spesso chiamata «ultragauche».
Io e i miei compagni di collettivo conoscemmo Serge nell’estate del 2000, quando partecipammo alla Semana negra , il festival letterario che Paco Ignacio Taibo II organizza ogni anno a Gijon, nelle Asturie. All’epoca, Serge era già un romanziere affermato, oltreché il traduttore francese di alcuni dei nostri più rinomati scrittori, da Camilleri a Evangelisti, da Fois a Carlotto. Parlando del più e del meno, riscontrammo una grande consonanza di vedute politiche e letterarie.
Lo rivedemmo esattamente un anno dopo, in tutt’altro contesto: le strade di Genova piene di corpi e fumiganti di gas CS ( orto-clorobenziliden-malononitrile). Da allora ci siamo visti e sentiti spesso, e abbiamo condiviso lotte e viaggi. Dal 2007 è anche il nostro traduttore francese.
Ho letto il saggio La politique de la peur quand’è uscito in Francia nel 2010. In quell’occasione, ho preso appunti che non ho avuto l’occasione di utilizzare, e quando mi è stato proposto di scrivere la prefazione all’edizione italiana (riveduta e aggiornata rispetto all’originale), ho colto la palla al balzo.
ADESSO MI CHIEDO, COSA FAREBBERO I BUONISTI DI STI COGLIONI SE FOSSERO PARENTI DI QUESTE VITTIME? E CHE CONTINUANO A DIRE COSE SENZA SENSO SPARANDO SUL “SIGNOR” GRILLO CHE HA ESPOSTO UNO DEI PROBLEMI PIù SERI DEL NOSTRO PAESE? PROBLEMI PALESI!!! PURA E SEMPLICE VERITà!!! LA REALTà DEI FATTI!!! LUI DICE: CHI PAGA PER QUESTA INSICUREZZA SONO I PIù DEBOLI!!! ALLORA QUANDO CAZZO VI SVEGLIATE BUONISTI DI STI COGLIONI!!! O CONTINUERETE A SOSTENERLI ANCHE QUANDO VIOLENTERANNO LE VOSTRE SORELLE E AMMAZZERANNO I VOSTRI GENITORI? SVEGLIATEVI RAGAZZI, IL PROBLEMA è SERIO!!! MI DISPIACE SOLO DI UNA COSA, CHE SECONDO ME VOI BUONISTI DI STI COGLIONI NON SIETE COSI IGNORANTI NEL CAPIRE IL PROBLEMA CHE CI CIRCONDA MA SIETE FISSATI NELLE VOSTRE IDEE E QUESTO è ANCORA PIù GRAVE!!! ALLORA ANDATE A-FFA-NCU-LOOOOOOOOOOO!!!!!!
Ne La politica della paura , Serge stende un lungo e ragionato elenco dei «nemici» che, volta per volta, abbiamo visto indicare come minacce alla nostra «sicurezza». E’ una vera e propria folla: il terrorista insospettabile, il giovane marginale riottoso, il disadattato sociopatico, il migrante clandestino, il senzacasa che porta degrado nel quartiere, il pedofilo/pedopornografo, l’utente di Internet che viola la proprietà intellettuale, lo zingaro… I peggiori sono quelli che appartengono a più insiemi: il migrante clandestino terrorista, lo zingaro che rapisce i bambini e li vende ai pedofili, l’utente di Internet che incita i marginali riottosi… Sull’apparire di questi soggetti si fonda un’industria della paura, prospera un mercato mondiale della paura, si estende una nuova sfera giuridica della paura.
Noi crediamo che a Pontedera la questione dell’immigrazione e dell’integrazione sia molto meno rosea di quello che si vuol fare apparire: Pontedera città dell’integrazione razziale? Con interi quartieri che ormai sono diventati dei ghetti per immigrati, come la Stazione e il Villaggio Piaggio, dove una donna non può camminare tranquilla la sera dopo cena per paura di essere molestata da qualcuno che magari per la sua “cultura” (ma vogliamo chiamarla cosi’?) considera le donne esseri inferiori di proprietà dell’uomo?
Serge descrive con andamento inesorabile il Grande Gioco di innovazioni tecnologiche e procedure di polizia, propaganda mediatica e attività legislativa, rimozione/riscrittura della storia e costruzione dei nemici pubblici di oggi e domani. Non c’è nemmeno bisogno di condividere in toto le premesse teoriche dell’analisi o i giudizi storici espressi per trovare utile la carrellata e ispiranti le conclusioni.
Quello che Serge ci mostra non è altro che il nostro mondo, senza la minima trasfigurazione o «licenza poetica». Un mondo che a moltissimi appare normale, avvolti come sono nei cartocci dei «pacchetti-sicurezza», abituati come sono ai mostri in prima pagina o in homepage o in prima serata, usi come sono a considerare entertainment i processi sommari di mondane inquisizioni. Sì, è il nostro mondo: viviamo nel traffico di dati, attraversiamo l’incrocio degli schedari e delle informazioni «sensibili», andiamo in giro circondati da macchine-gendarme, macchine che spiano, apparati che origliano e registrano, scie di impulsi che pedinano persone o addirittura altre scie di impulsi.
Novecento obiettivi puntati su strade, piazze e parchi che aiutano le Forze dell’Ordine a controllare e presidiare il territorio milanese 24 ore al giorno per 7 giorni alla settimana. Lo rende noto il Comune di Milano in un comunicato. Novecento occhi “per togliere spazio a criminalità e degrado”: 70 sono posizionati nell’area della Centrale, insieme a 8 telecamere urla e sparo, e a 11 colonnine Sos. Gli altri impianti sono divisi poi fra parchi cittadini (come il Parco delle Cave che ne conta 56, Parco Sempione 75 o Parco delle Basiliche 23), quartieri e “zone a rischio” come Sarpi (5), viale Umbria (3) o viale Monza (10). “Con circa 900 telecamere Milano è la città più videosorvegliata d’Italia, eguagliando la dotazione di una città come Londra, da sempre tra le capitali europee più avanzate nell’uso della tecnologia della sicurezza”. Così il vice Sindaco di Milano e assessore alla Sicurezza, Riccardo De Corato, durante il suo intervento al convegno “Tvcc: integrazione e futuro”, dedicato al tema della videosorveglianza.
Ogni tanto, per così dire, ci diamo una «botta di vita»: ci giungono periodiche esortazioni al linciaggio e noi rispondiamo, linciamo volentieri. La nostra insoddisfazione è incanalata in scoppi di collera eterodiretti, che non solo non turbano l’ordine, ma sono funzionali alla politica della paura.
La polizia si mette in mezzo, un ispettore cerca di far ragionare queste donne furenti. Siete brava gente, dice, la domenica andate in chiesa, e adesso volete buttare per strada dei poveri bambini? «Sììììì» è il coro di risposta. Dai pannelli divelti si affaccia una ragazza, il capo coperto da un foulard fradicio di pioggia. Trema, di freddo e paura. Quasi per proteggersi, tiene al seno una bambina di pochi mesi. Saluta una delle donne più esagitate, una signora in carne, che indossa un giubbino di pelo grigio. La conosce. «Stanotte partiamo. Per favore, non fateci del male». La signora ascolta in silenzio. Poi muove un passo verso la rom, e sputa. Sbaglia bersaglio, colpisce in faccia la bambina. L’ ispettore, che stava sulla traiettoria dello sputo, incenerisce con lo sguardo la donna. Tutti gli altri applaudono. «Brava, bravissima».
E’ molto significativo che uno dei «casi di studio» scelti da Quadruppani sia quello di Cesare Battisti. Nell’Italia degli anni Zero vi fu un lungo, allucinato momento in cui Battisti sembrò l’uomo più meritevole di odio sulla faccia della terra. In tutta serietà, persone che nulla sapevano di lui né della sua vicenda giudiziaria si auspicavano, sbraitando ed eiettando lapilli di saliva, che il governo italiano mandasse un commando clandestino in Francia o in Brasile, per ficcare una buona volta un proiettile in testa a quel «terrorista di merda».
Si stava parlando di un uomo che, dopo aver fatto parte di un gruppo armato minore, sconosciuto ai più e sbaragliato quasi trent’anni prima, aveva completamente cambiato vita, sposando una donna francese e crescendo con lei una figlia. Lavorava come portinaio, scriveva romanzi, da molto tempo non commetteva reati di alcuna fattispecie e, pur senza rinnegare gli ideali di un tempo, aveva espresso nei suoi libri una chiara autocritica sulla lotta armata. Inoltre, le sentenze che lo avevano condannato in contumacia erano piene di passaggi contraddittori e più le si leggeva con attenzione, più suscitavano dubbi. Last but not least , Battisti non era che uno dei numerosi «ex-terroristi» italiani residenti all’estero, più o meno al riparo da estradizioni. Alcuni di questi avevano militato in organizzazioni più famose e preso parte ad azioni ben più eclatanti, compreso il sequestro Moro, eppure i media scelsero lui.
Ogni giorno e metodicamente, Battisti era presentato come l’epitome del soggetto pericoloso. L’immagine era costruita a colpi di fandonie sui suoi reati («Ha sparato a un ragazzino che adesso è sulla sedia a rotelle!»), fisiognomica lombrosiana («Ha una faccia da stronzo!», «Guarda che sorrisetto cattivo!», «Gli spaccherei quel muso da carogna!») e consueto, italianissimo odio per il «culturame» («Si è messo a fare lo scrittore e a frequentare i salotti di Parigi, il signorino!»). A quanto mi consta, nessun altro, nemmeno Pietro Valpreda quand’era creduto il bombarolo di Piazza Fontana, ha mai subito un trattamento pari a quello riservato a Battisti. Addirittura, gli si carpivano foto con modalità teppistica, per poi pubblicarle senza correggere l’«effetto occhi rossi» dei flash, in modo da ottenere un volto prêt-à-demoniser . Occhi rossi = Satana.
Correttamente, Quadruppani scrive che l’odio per Battisti si fondava sulla rimozione di quel che era accaduto in Italia negli anni Settanta. Da tempo – già dalla metà degli anni Ottanta – la memoria di un movimento radicale di massa fatto di studenti, operai, femministe e controculture giovanili era stata mortificata nella cornice narrativa degli «anni di piombo»; ora quella cornice si faceva ancora più piccola e angusta, fino a inquadrare una sola persona , divenuta il Terrorista per antonomasia.
Tutto ciò sul vasto sfondo della War On Terror bushista, dello «scontro di civiltà», della psicosi di Al Qaeda. In un altro contesto internazionale, la querelle su Battisti non sarebbe mai scoppiata in quei termini.
Quando la fabbrica dei mostri, pilastro e motore della grande industria della paura, trova un prodotto che «tira», si dà da fare per «infilare una macchina da guerra in ogni anfratto e in ogni buco». Quest’ultima è la definizione di fascismo data da Deleuze & Guattari, e funziona anche per la politica della paura, perché ogni fascismo è impastato con la politica della paura, e ogni politica della paura, presto o tardi, produce fascismi (si veda Alba Dorata in Grecia). Poiché la logica della guerra, del nemico da distruggere, deve permeare ogni poro della nostra pelle, non un giorno trascorre senza esortazioni a odiare il nemico di turno.
Mi sento di dire che il principale target della propaganda securitaria è il «ceto medio» o, al plurale, i «ceti medi».
Quest’espressione sociologizzante e indifferenziata serve a occultare la realtà di una piccola borghesia sempre più proletarizzata. Più lo strato basso della piccola borghesia si impoverisce e diventa precario, e quello alto corre il rischio di scivolare giù, più nel discorso pubblico si usa l’espressione «ceto medio». «Medio» nel senso che sta a metà strada tra i proletari e i ricchi. Ma in realtà non sta affatto «a metà strada»: è vicinissimo ai proletari e sideralmente lontano dai ricchi, che negli ultimi trent’anni sono diventati molto più ricchi, sempre più ricchi. Chiamare la piccola borghesia impoverita «ceto medio» serve a illuderla di avere ancora un barlume di status, a impedirne l’alleanza coi poveri. L’impoverito deve odiare e temere il povero. L’ossessione securitaria serve a fomentare la guerra tra poveri, e prevenire scenari come quelli che Serge descrive nell’ultima parte del libro: quelli di lotte che creano comunanza e dissipano la paura.
Quando il dispositivo securitario addita un nemico pubblico ai «ceti medi», non li arruola per combattere in prima persona, ma li esorta a esprimere una delega. Il cittadino precarizzato e impaurito deve affidarsi ai difensori professionisti della società. Nel farlo, deve anche cedere un po’ di libertà in cambio di una promessa di sicurezza.
Al tempo stesso, il cittadino non va escluso dalla mobilitazione: nell’era della millantata «interattività», del «2.0», della «condivisione» e dei «social stream», il cittadino può e deve «fare la sua parte», coadiuvando il lavoro di chi difende la società, prendendo parte a linciaggi virtuali e/o agendo da occhiuto delatore, magari pubblicando su Internet foto e video di «violenti» che spaccano vetrine o rispondono alle manganellate della polizia. L’uso dei social network (soprattutto di Facebook) come strumento/ambiente per la delazione di massa è sempre più frequente.
In Italia, lo abbiamo visto con la massima chiarezza dopo gli scontri del 15 ottobre 2011 a Roma. In frangenti come quello, il nemico diventa «quello con il casco». Indossare un casco, strumento difensivo che impedisce ai manganelli di spaccare teste come fossero meloni, diventa condizione sufficiente per essere incatenati alla gogna del web e indicati alla polizia come «violenti», «facinorosi», «provocatori», financo «terroristi». questi sono i famigerati “fascisti” che da sempre si intrufolano nelle manifestazioni !!!
il porco (2° da sx) ha sulla maglia lo scudetto del Milan: che sia uno di quelli iscritto a libro paga di berluskatz ?
questi sono i veri delinquenti supporter’s del potere dittatoriale degli ignavi e del capitalismo becero!
L’uomo con la felpa bianca ha i baffi brizzolati e sta parlando con un microfono…vediamo quanti black block possiedono questa teconologia….!!!!
quel coglione con la maglia del milan. UCCIDETELOOOOOOOOOOO
Non potrei essere più d’accordo con Serge quando scrive che la lotta (non la guerra: la lotta) può dissipare la paura e far dimenticare i diktat securitari. Il «farsi popolo» delle comunità ribelli della Val Susa è l’esempio più alto, immediatamente comprensibile a chiunque abbia visitato quelle lande senza paraocchi o interessi di bottega da difendere, ma tanti altri esempi sarebbero possibili.
Chi ha vissuto momenti di lotta vera e condivisa, di lotta «fusionale», è più aperto alla comunanza – e quindi più immune alla paura – di chi si è sempre e solo fatto gli affari suoi. Quando si porta nelle strade e nelle piazze il «savoir vivre» della comunanza e della sovversione, allora le paranoie si dissipano e la «cultura del sospetto» appare ridicola, perché lo vediamo tutti che quel cingalese non è un kamikaze ma un lavavetri, e il signore che guarda i bambini giocare non è un maniaco pronto a insidiarli ma un pensionato che si sente solo e vuole assorbire un po’ di gioia e vitalità, e la festicciola di compleanno del bimbo marocchino nel giardino pubblico sotto casa non è una riunione di fanatici islamisti ma un’occasione per far conoscere a mia figlia un nuovo amico.
Quanto al fatto che gli africani o le altre comunità si frequentano solo tra loro, per verificare che non è vero basterebbe liberarsi dalla tossicodipendenza da internet e tornare finalmente alla vita reale. Iniziative di socializzazione sono ormai largamente diffuse, ad esempio la Festa dei Popoli, vari progetti di cooperazione, corsi di italiano per stranieri, tornei sportivi, eventi culturali e mille altre iniziative che vedono insieme le diverse comunità che vivono nel nostro territorio. Staccandosi ogni tanto dalla tastiera è possibile conoscere amici di ogni nazionalità. Naturalmente se si ritiene che gli stranieri siano una minaccia “per le nostre donne” non è una prospettiva allettante. Ma allora non è questione dei partiti e delle loro possibili strumentalizzazioni, è proprio un problema di razzismo esplicito. Strano che su internet il nostro amico non abbia trovato i dati sulla violenza contro le donne: avrebbe appreso che chi considera le donne “esseri inferiori di sua proprietà” è il più delle volte il marito, il parente o il vicino di casa, italianissimo e insospettabile ma pronto a trasformarsi in assassino in nome di quei moventi “passionali” che fanno più vittime di una guerra civile.
Ed è così che, passo dopo passo, pregiudizio sfatato dopo pregiudizio sfatato, si può arrivare a capire che, sì, ci sono eccome minacce alla nostra «sicurezza», ma non sono quelle indicate dai media ansiogeni, dai fabbricanti di mostri, dai venditori di marchingegni sorveglianti. Le minacce alla nostra sicurezza sono lo sfruttamento degli umani e dell’ambiente, la precarietà, il razzismo e il sessismo, la repressione…
Ma la minaccia più grande, quella che finché non sarà rimossa impedirà di affrontare le altre, è la politica della paura. -
Citazioni (in ordine di apparizione nel testo)
- Commento firmato «dileo.v» all’articolo «I confini sconsacrati», beppegrillo.it, 5 ottobre 2007;
- Comunicato «Perché il Movimento 5 Stelle non aderisce alla manifestazione di domenica 18/11», firmato «Movimento 5 Stelle Pontedera e Valdera», valdera5stelle.it, 17 novembre 2012;
- «900 telecamere, il Grande Fratello è a Milano», Corriere della sera, pagine milanesi, 15 aprile 2008;
- Marco Imarisio, «In motorino con le molotov: ‘E’ la nostra pulizia etnica’», Corriere della sera, 15 maggio 2008;
- Commenti raccolti su Facebook dal blogger Mazzetta, «Ci mancava solo il linciaggio digitale», mazzetta.iobloggo.com, 17 ottobre 2011 (gli errori di sintassi e ortografia sono riportati fedelmente);
- Nello Gradirà, «Immigrati a Pontedera: ma chi raccatta il Movimento 5 Stelle?», senzasoste.it, 19 novembre 2012.
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May 28, 2013
#PointLenana. Nuove recensioni, foto, audio e fughe transmediali

Dro (TN), 22 maggio 2013. La tomba di Felice, dei suoi genitori e dei suoi fratelli con le rispettive mogli. Accanto al nome di Felice c’è lo spazio libero per quello di Stefania, Clicca per ingrandire.
[Sedici presentazioni in tre settimane, e dopo la pausa londinese il tour riprende. A metà giugno pubblicheremo anche le date di luglio e agosto. Intanto è partito il passaparola; del libro si discute intensamente (un bel dibattito è sotto questo post); un gruppo di lettori cura su Tumblr un blog interamente dedicato a Point Lenana (nella sezione "Audioteca" c'è anche l'audio integrale di alcune presentazioni: Trieste, Genova, Belluno, Milano); il bot di Einaudi e WM1 allestiscono giorno dopo giorno un board su Pinterest (il pin più apprezzato, sinora, è quello dove Elvira Banotti ne dice quattro a Indro Montanelli sulla questione della "moglie" dodicenne comprata in Africa orientale).
Di seguito proponiamo alcune recensioni di Point Lenana uscite su carta e online nelle scorse settimane. La prima è uscita sul quotidiano in lingua italiana di Trieste, Il Piccolo, il 15 maggio scorso.
Mentre succedeva tutto questo, la mattina del 22 maggio siamo andati a Dro a dare l'ultimo saluto a Stefania Marx Benuzzi . Abbiamo scelto di illustrare questo post con le foto di quel giorno.]
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Le spine di Trieste sulle tracce di Benuzzi
di Pietro Spirito
«Rileggere “Fuga sul Kenya” adesso, sapendo tutto quello che sappiamo, è come navigare un ipertesto. Ogni parola, ogni nome, ogni riferimento en passant è diventato “cliccabile”». Ed è esattamente questo ciò che hanno fatto Wu Ming 1, al secolo Roberto Bui, e Roberto Santachiara, in Point Lenana (Einaudi, pagg. 596, euro 20,00) racconto enciclopedico di no-fiction novel – genere di ormai consolidata fortuna – che si tuffa nelle pagine e nella storia del triestino (anche se nato a Vienna) Felice Benuzzi, e dei suoi compagni d’avventura Giovanni “Giuàn” Balletto (poi morto suicida) e Vincenzo Barsotti, fuggiti nel 1943 dal campo di prigionia di Nanyuki con il folle scopo di scalare la Punta Lenana (4985 metri) sul Monte Kenya per poi tornare al campo, in un anelito di libertà, patriottismo e riappropriazione della propria identità.
Vicenda molto nota soprattutto negli ambienti alpinistici, in particolare quelli triestini, raccontata appunto da Benuzzi nel long-seller Fuga sul Kenya, pubblicato per la prima volta in italiano nel 1947 e poi più volte ristampato nel corso degli anni. Libro – e vicenda – che gli autori di Point Lenana non conoscevano fino a qualche tempo fa, quando la lettura del libro scatena la voglia di calarsi nel mondo evocato da quelle pagine: «La storia e della scalata – meditano gli autori – l’ha già raccontata Benuzzi, ed egregiamente. Ma si può ripercorrerla a partire da quello spunto per parlare di Africa, di montagne, di fughe, raccontare tante storie, cucirle coi nostri appunti (…)».
Ed ecco che il lettore viene catapultato in un racconto che mischia come in un frullatore alpinismo e fascismo, colonialismo e imperialismo, saltellando tra passato e presente, sempre seguendo il filo delle tracce lasciate da Benuzzi e dai suoi amici. Tra biografia, inchiesta, saggio storico e reportage gli autori navigano nell’ipertesto tessendo una trama complessa che pesca come una rete a maglie fitte nella Storia e nel presente tirando su dal fondo anche scomodi relitti. Per esempio le pagine su Trieste affrontano i controversi rapporti fra alpinismo, irredentismo, fascismo e nazismo, frutto di letture e incontri con Dušan Jelincic, Livio Isaak Sirovich, Luciano Santin, Spiro Dalla Porta Xidias, Dario Marini e altri, rievocando l’intricata mappa irta di spine non solo del mondo alpinistico triestino ma della città intera. Ma è sempre la nobile figura di Felice Benuzzi e della sua famiglia – la moglie Stefania, morta proprio pochi giorni fa all’età di 96 anni, e la figlia Daniela – che guidano Bui e Santagata [sic] lungo la labirintica via che porta al Monte Kenya, «dove le storie prorompono in versioni differenti, divergono e di nuovo convergono, si contraddicono e si sfidano a duello a colpi di dettagli incongrui, senza mai avere il sopravvento l’una sull’altra».

La tomba di Giacomo Benuzzi, nonno irredentista di Felice. Clicca per ingrandire.
[Una bella recensione la dobbiamo allo scrittore e blogger Angelo Ricci. La riprendiamo dal suo blog Notte di nebbia in pianura.]
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Point Lenana, di Wu Ming 1 e Santachiara
Un altro pianeta si aggiunge all’universo wuminghiano. Point Lenana nasce dall’intrecciarsi delle narrazioni dell’ellroyano Wu Ming 1 e di Roberto Santachiara, il comandante Heriberto Cienfuegos e come ogni oggetto narrativo che scaturisce dalla fucina del collettivo bolognese fonde piani narrativi, stilemi, temporalità storiche e ricerca di tutti quei segnali sottotraccia che combinano punti spesso sconosciuti che, uniti assieme in una ricerca che fa dell’infinito la sua cifra, esibiscono al lettore tracce di percorsi, di cammini. Tracce che portano verso vie poco battute e spesso sconosciute.
Certo, Point Lenana è, come affermano gli stessi Autori, luogo narrativo e narrante che prende in parte le mosse anche da Timira, ma non solo. Point Lenana diviene, nel corso del suo snodarsi, momento imperdibile di contaminazioni e di fusioni che sfociano in una metanarratività che dal racconto approda al saggio e che dal saggio procede verso mete che fanno scoprire al lettore pieghe celate e ripugnanti della storia della nostra nazione.
Point Lenana, nella sua affascinante dimostrazione che tutte le narrazioni sono sempre in qualche modo collegate, si trasfigura a sua volta in narrazione che vive di vita propria, trascendendo dagli stessi suoi artefici letterari, gli Autori, portando in superficie quelli che sono i veri artefici della narrazione, i protagonisti. Protagonisti di un’epifania storica di umana sofferenza e di incrollabile resistenza nei confronti di tutti i mostri che il sonno della ragione non ha mai, purtroppo, smesso di generare. E così l’intreccio, la fusione dei piani narrativi e temporali diviene simbolo di quell’intrecciarsi di accadimenti che mai hanno fine e che, spesso, segnano in modo indelebile destini di odio e di violenza. E in questo cammino, in questo percorso, in questa scalata verso la purezza della parola che si fa strumento di lucidità, Point Lenana non è la fine, Point Lenana è il principio.
Un libro.

La bandiera di Mountain Wilderness alla sepoltura di Stefania, per un quarto di secolo segretaria e infaticabile motore dell’associazione. Clicca per ingrandire.
[Un altro collega scrittore, il calabrese Fabio Cuzzola (una delle anime dell'autore collettivo Lou Palanca e autore di un libro dolente e magnifico, Cinque anarchici del sud. Una storia negata ) ha parlato di Point Lenana sul suo blog Terra è libertà.]
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Point Lenana: la scalata è finita! Ora scendiamo e continuiamo la lotta.
Un romanzo, un’opera collettiva, un “oggetto narrativo non identificato” che una volta in più esplora e
sperimenta una metodologia della ricerca storica di ampio respiro.
Se fosse vivo Marc Bloch, padre delle Annales, storico e maquisard fucilato dai nazisti, sarebbe andato fiero di questo libro.
Geografia, linguistica, storia locale e globale s’intrecciano lungo arcate di breve e lunga durata, in un rimando continuo di analessi e prolessi che accompagnano il lettore in questa “scalata”!
Questo è Point Lenana di Wu Ming 1 e Roberto Santachiara, l’ultimo libro uscito qualche settimana fa dall’infaticabile lavoro di studio, ricerca e scrittura del collettivo più famoso della letteratura europea.
“La route entra dai piedi” ci ricordavano i nostri vecchi capi scout, e così anche Wu Ming 1 ha voluto provare direttamente l’ebbrezza delle alte vette, del resto per scrivere un libro che parla di montagna, guerre coloniali e storia bisognava scarpinare fuori dagli archivi.
Per salire, ascendere, scalare non serve solo ossigeno e fisico, ma serve spirito.
Ed è quello che ritroviamo nelle pagine del libro, uno spirito antifascista! Ogni pagina smonta e ricostruisce come il nostro paese è diventato colonialista e razzista, cancellando secoli di civiltà e tolleranza.
A questi tentacoli che soffocano e uccidono sfugge Felice Benuzzi, protagonista insieme ad altri due compagni di avventura, di una fuga sul monte Kenya, durante la loro prigionia inglese.
Una fuga dal significato che supera l’impresa alpinistica in sè, perchè i tre fuggitivi non si danno alla macchia, ma rientrano al campo di prigionia fra lo stupore e l’ammirazione degli inglesi.
Ancora una storia dimenticata quindi, ma in Italia, perchè le imprese di Benuzzi furono accompagnate anche dal successo letterario dei suoi libri, conosciuti ed apprezzati all’estero.
Ne esce stroncato anche il nostro eurocentrismo che spesso dimentica di considerare l’Africa e la sua storia come il teatro della coscienza sporca dell’uomo occidentale, dell’italiano.
Ma è anche un racconto che calamita altre storie, altri testi e invita a studiare e scrivere, a farsi un proprio percorso di esplorazione individuale attraverso oltre sessanta pagine in appendice di fonti e richiami, di film, musiche, link.
Un ultimo richiamo alla visione estasiata di Benuzzi quando rientra in Italia dopo la fine della seconda guerra e della prigionia, le prime montagne che vede sono quelle dello Stretto di Messina, a sinistra i Peloritani a destra l’Apromonte, già perchè anche il Sud è terra di montagna spesso irta da scalare.

Sotto la fotografia è scritto: Ciao Stefania. Clicca per ingrandire.
[Molto bella anche la recensione scritta da Claudio Castellacci nella sua rubrica on line "Al coniglio agile", ospitata sul sito su LeiWeb.]
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«Vai su una montagna? Stai attento a non cadere giù!»
E dunque, che razza di libro è questo Point Lenana che l’editore Einaudi (pagg. 604, euro 20) ha appena pubblicato? Lo si può definire in molti modi, a partire, da come spiegano gli stessi autori – Wu Ming 1 (pseudonimo dello scrittore e traduttore di Stephen King, Roberto Bui) e Roberto Santachiara (agente letterario) – «racconto di tanti racconti che parla di uomini che vagarono sui monti», in particolare del triestino Felice Benuzzi, funzionario coloniale a Addiss Abeba, catturato nel 1941 quando la città venne conquistata dagli Alleati (divenne il prigioniero di guerra n. 41033, internato dagli inglesi nel campo di Nanyuki, alle pendici del monte Kenya) e protagonista, insieme al medico genovese Giovanni Balletto (detto Giuàn) e al camaiorese Vincenzo Barsotti, di una clamorosa “evasione temporanea” di 17 giorni. Ma, badate bene, una storia senza retorica del tipo: «Il popolo italiano ha creato col suo sangue l’impero. Lo feconderà col suo lavoro e lo difenderà contro chiunque con le sue armi, eccetera, eccetera», solo il resoconto (con molto di più) di un gesto “sportivo” di tre civili che, come tale, sarà (molto) apprezzato dagli stessi inglesi.
Il 29 gennaio 1943 i tre evadono lasciando un messaggio per il responsabile del campo, in cui lo rassicurano che sarebbero tornati entro un paio di settimane, per andare a scalare il monte Kenya, la seconda cima più alta dell’Africa dopo il Kilimagiaro. A metà percorso, un malore di Barsotti e una tempesta di neve spingono però i tre a soprassedere all’obiettivo che si erano dati, la vetta principale del monte, per tentare di scalare l’obiettivo secondario: la punta Lenana (prende il nome da un capo Masai, alta 4985 metri) che raggiungono con relativa facilità e su cui issano la bandiera italiana. Raggiunto lo scopo, rientrano al campo e si consegnano all’ufficiale responsabile che, da buon inglese, riconoscendo la sportività del gesto, li condanna a una sola settimana di prigionia. La bandiera piantata dagli italiani sulla punta Lenana fu recuperata una settimana più tardi dagli inglesi e per anni rimase a Nairobi nella sede del Club della Montagna del Kenya. Nel 1948 il reperto fu (sconsideratamente) donato al Cai di Milano. Da allora se ne sono perse le tracce.
La notizia del gesto verrà addirittura ripresa dal Times di Londra e, in seguito, Benuzzi racconterà l’impresa in un libro scritto prima in inglese (No Picnic on Mount Kenya) e poi autotradotto e riadattato in italiano (con molti agiustamenti) col titolo Fuga sul Kenya, recentemente ripubblicato da Corbaccio. Nel settembre del 2007, anche la rivista National Geographic pubblicherà un reportage del giornalista Matthew Powell e del fotografo, Bobby Model, che ripercorreranno lo stesso tragitto di Benuzzi, Balletto e Barsotti, dal titolo Escape to Mount Kenya.
Ma torniamo alla domanda iniziale – che razza di libro è questo Point Lenana? La risposta non è semplice. Apparentemente è, come dicevamo, la storia di un’evasione e di una scalata, ma c’è di più. C’è il metodo con cui è stato messo insieme il libro che nasce da un’idea di Roberto Santachiara che in veste di agente letterario, prima, lancia l’idea che, poi, realizza come co-autore e che, infine, gestisce di nuovo come agente letterario. E poi c’è la tecnica giornalistico-documentaristica del secondo (o primo a secondo della prospettiva) autore che “stravolge” il genere e conduce il lettore in una labirintica indagine ai limiti del poliziesco dove una serie di testimoni diretti e indiretti sono interrogati per ricreare un affresco che va al di là della storia stessa. Uno dei «lettori di prova», Filippo Sottile, invitato dagli autori a dare un giudizio preventivo al testo aveva commentato: «È come se aveste preso tessere da puzzle diverse e le aveste utilizzate per creare una nuova figura, abnorme, frankensteiniana, ma viva. [...] Con Point Lenana è come se osservassimo il lavoro delle componenti di un ascensore antico di cui molte parti sono visibili attraverso griglie metalliche, che salendo e scendendo dalla tromba delle scale gli si avvolgono intorno, accompagnati dai ricordi del portiere del palazzo: sì, una volta, la Stoppani, quella del terzo, è rimasta chiusa per tre ore…».
Ma questo libro è anche un po’ Tre uomini in barca, soprattutto nella prima parte, quella in cui il Roberto che si cela sotto lo pseudonimo Wu Ming 1 cerca di dissuadere l’altro Roberto dal coinvolgerlo nell’impresa («Mi verrà il mal di montagna. Non si rischia l’edema cerebrale? Uno che morì di edema cerebrale era Bruce Lee (o forse fu ucciso da sicari della mafia cinese). Io sono un padre di famiglia. Ma il Kenya non è uno dei luoghi a più alta concentrazione di riccastri italiani? Villoni rutilanti, cafonauti carichi di platino e gioielli, sottoboschi di amici di politici in Lamborghini?»). Tutto inutile. L’altro Roberto smonta, pezzo per pezzo, le obiezioni dell’amico. E in tre (alla spedizione parteciperà anche Cecilia, moglie di Santachiara), più le guide, partiranno per la spedizione, nonostante lo scetticismo iniziale di Claudia, la compagna di Wu Ming 1, il quale però ricevette l’inaspettato sostegno della figlia Matilde di quattro anni che gli dette il consiglio più saggio di tutti: «Vai su una montagna? Stai attento a non cadere giù».
«Sin dagli albori dell’alpinismo il resoconto è stato parte dell’impresa», scrive Wu Ming 1. «Senza il resoconto, non solo non esisterebbe l’alpinismo, ma non esisterebbe nemmeno la montagna, intesa come costruzione culturale, mito che sempre si nara e sempre affascina. Sono stati i racconti di esploratori e alpinisti a creare la montagna quale oggi la conosciamo e a trasformare l’atto di scalarla in un’impresa che si inserisce in una tradizione». E lo stesso Wu Ming 1, mentre arranca per il massiccio del Kenya si chiede come sarebbe stato il suo scrivere di montagna. Il risultato, se i due Roberti mi passano l’analisi, è che questo libro di montagna non è un libro di montagna, ma una gran bella inchiesta giornalistica (lo dico con un pizzico di invidia) come non se ne fanno spesso. Ma soprattuto è il risultato di un’intelligente operazione editoriale da cui molti direttori di giornali, molti responsabili di case editrici, molti (patetici) amministratori delegati di grandi case editrici dovrebbero imparare, invece di aspettare, seduti dietro la scrivania, che qualcuno scriva il Grande Romanzo e glielo scodelli già editato e magari impaginato (tanto per risparmiare) o, in alternativa, piangere su «c’è la crisi dell’editoria» e giù tagli. Il problema è la (mancanza di) fantasia, di creatività, in fondo, di professionalità di molti “addetti ai lavori”. E non è un caso che una simile operazione editoriale sia partita dal (forse) più “americano” degli agenti letterari italiani, Roberto Santachiara, appunto, che, per l’occasione si è anche trasformato in art director (già perché l’elaborazione grafica dell’immagine di copertina è sua, a partire da un’immagina di Ginger Rogers e Fred Astaire che ballano il tip tap nel film Follow the Fleet, con sullo sfondo il monte Kenya).
Già, perché è così che si fa. È così che un “libro di montagna” può diventare un case history da manuale. Anche se poi, il traduttore di Stephen King, tornato a Bologna, per giorni se ne sarebbe andato in giro vestito da alpinista della domenica: «Non riuscivo a staccarmi dai giorni del Kenya», confesserà. Fin quando la moglie Claudia gli farà presente che, in fondo, era stato in Africa solo otto giorni e che avrebbe fatto bene a farla finita «con ‘sto trip alla Hemingway». Sì, ma che giorni, fu la risposta.
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[N.d.R. A scanso di equivoci, WM1 ci tiene a precisare che Claudia, passata la perplessità iniziale, gli ha dato pieno incoraggiamento e sostegno emotivo prima e dopo l'ascensione sul Monte Kenya e durante tutta la stesura del libro. Dopo l'infortunio alla schiena scendendo da Monte Adone, Claudia ha efficacemente prevenuto la crisi di autostima del suo compagno. Se nel libro c'è enfasi sulla scena del mezzo litigio, è perché l'autore ne esce come un complessato al limite della talassofobia, cosa che fa sempre ridere.]
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Questo invece è l’audio della presentazione veronese, una delle poche ma buone dov’erano presenti entrambi gli autori. Il luogo è il Museo africano dei padri comboniani, il tempo è la sera del 22 maggio. WM1, Santachiara e il librario Luigi Licci erano reduci dal viaggio a Dro. Luigi è uno dei personaggi di Point Lenana, ed è quello che ci mise in contatto con la famiglia Benuzzi. Interviene anche il medico e alpinista Federico Gobbi, anch’egli nominato nel libro. Dura esattamente un’ora e trenta minuti.
Libreria universitaria – IBS – Unilibro
InMondadori – Amazon – LaFeltrinelli
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Oltre Sparta
Dopo il commento a caldissimo di ieri mattina, ecco la nostra riflessione sull’esito del referendum di Bologna. Sul sito di Internazionale.
P.S. Dopo il détournement di 300 – che ad alcuni è piaciuto mentre ad altri ha fatto storcere il naso – ci teniamo a ricordare (o segnalare, per chi non conoscesse quell’analisi del 2007) cosa pensiamo di quel film.
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May 26, 2013
A #Bologna si riparte da 50.000
E così l’esercito di Serse è stato battuto. Cinquantamila bolognesi (59%) hanno risposto alla chiamata dei referendari e hanno votato A, contro circa 35.000 che hanno votato B (41%).
In totale poco più del 28% degli elettori. Una percentuale che a botta calda consente ai sostenitori della B, il Partito Democratico in testa a tutti, di provare a sminuire la valenza del voto e di spingersi a dire che “si è trattato di una battaglia ideologica che non interessa la gran parte dei cittadini. I bolognesi hanno capito che la sussidiarietà è la chiave di volta laddove lo Stato non riesce ad arrivare” (E. Patriarca). Come a dire: non è successo niente, tireremo diritto.
Invece qualcosa è successo, per quanto possano fare i finti tonti. Il PD infatti non ha sostenuto la linea dell’astensione, ha fatto l’opposto, ha mosso le corazzate e l’artiglieria pesante per mandare la gente a votare B. Si è speso il Sindaco in prima persona (che ha mandato una lettera a casa dei bolognesi per invitarli a votare B, e ha fatto un tour propagandistico per tutti i quartieri), gli assessori, il partito locale, i parlamentari da Roma… Ai quali si è aggiunta la propaganda nelle parrocchie, quella del PdL, della Lega Nord, di Scelta Civica, della CISL, e gli endorsement di Bagnasco, di Prodi, di Renzi, di due ministri della repubblica, più le dichiarazioni di Ascom, Unindustria e CNA.
Questa santa alleanza contro i perfidi referendari ideologici è riuscita a muovere soltanto 35.000 persone (incluse le suore, le prime a presentarsi ai seggi ieri mattina). Significa che una buona parte dell’elettorato di quei partiti e dei fedeli cattolici ha disobbedito agli ordini di scuderia ed è rimasta a casa oppure ha votato A.
Invece un comitato di trenta volontari, appoggiato solo da un paio di partiti minori e qualche categoria sindacale, che ha raccolto l’appoggio di tutti gli ultimi intellettuali e artisti di sinistra rimasti in Italia, ha portato a votare quindicimila persone in più.
Questo dato politico è il più interessante e pesante.
Da un lato perché significa che il tema della riaffermazione del primato della scuola pubblica rompe gli schieramenti, i vincoli d’obbedienza, le usuratissime cinghie di trasmissione, e allude a una sinistra reale che potrebbe e dovrebbe ricostruirsi a partire da alcuni temi fondativi.
Dall’altro lato perché se con le percentuali si può giocare al ribasso o al rialzo, invece con i numeri assoluti c’è poco da fare, vanno presi come sono. E cinquantamila sono esattamente la metà dei voti che Virginio Merola ha preso nel 2011, quando è stato eletto sindaco. Se questa giunta e questa classe dirigente hanno intenzione di tirare diritto, come traspare dalle prime dichiarazioni, dovranno considerare l’eventualità concreta che la marcia, scandita a ogni passo dall’incertezza e dalla paura, termini con una disfatta. Le notizie che giungono dalla capitale non saranno di conforto per lorsignori: un altro mix micidiale di scarsa affluenza e sconfitta; disgusto per gli schieramenti politici e per qualcuno più che per altri.
La risposta a tutto questo è quella di Bologna: organizzazione dal basso e ingaggio della cittadinanza sui temi importanti, sulle scelte di indirizzo. La dimostrazione che “si può fare”.
Dunque oggi si riparte da qui. Da quota cinquantamila. Avanti.
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May 25, 2013
Wu Ming’s Magical History Tour
Ecco… Beh… Oggi siamo sul Financial Times. Immortalati mentre indichiamo agli inglesi il cazzo di Nettuno (quello vero, che si vede solo da una certa prospettiva) e andiamo in pellegrinaggio sui luoghi della Resistenza bolognese. Buona lettura. Non abbiamo tempo di tradurre il pezzo, se qualcun* vuol farlo, grazie mille.
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May 23, 2013
Credits. Ai prodi trecento
Mancano 48 ore. I parroci bolognesi, in chiusura delle omelie di domenica, hanno detto ai fedeli di votare B. Il Resto del Carlino ha messo in prima pagina un sobrissimo invito a votare “per i Bimbi”. Buone ultime, sono arrivate anche la CNA e Confindustria a schierarsi con la B. Nel frattempo il Comune di Bologna ha annunciato che intende risolvere il problema degli esuberi di quest’anno alla scuola d’infanzia pubblica dando nuove sezioni in appalto alle cooperative (ma va?). En passant, ieri sera gli studenti sono stati caricati dalla polizia in Piazza Verdi (il copione è sempre più scontato).
Mentre guardiamo le orde di Serse dispiegarsi lì davanti e prepararsi all’assalto finale di domenica, vorremmo ringraziare un po’ di gente con cui abbiamo camminato in queste settimane. Perché certe cose è meglio dirsele prima, così, come regola generale che ci sforziamo di applicare.
Innanzi tutto grazie ai volontari e alle volontarie del Nuovo Comitato Articolo 33, per l’esempio che hanno dato. Persone che hanno speso una quantità incalcolabile del proprio tempo libero stando ai banchetti a raccogliere firme, parlando con la gente per strada, volantinando davanti alle scuole, ai supermercati, nelle piazze, alle manifestazioni podistiche, allo stadio (“i volantinatori della A sono più fitti delle cacche di piccione”, per usare l’espressione britannica di un sostenitore della B in una mailing list), rispondendo a tutti, senza mai cedere alle provocazioni di chi le insultava e cercava la rissa, si trattasse di semplici passanti o di esponenti politici. Persone che hanno prodotto un volume di centinaia di email al giorno nelle mailing list del comitato; che hanno discusso degli avverbi e delle virgole dei comunicati stampa, redatto documenti, curato pagine sui social network, partecipato a discussioni online, realizzato spot, veicolato informazioni con ogni mezzo necessario, ingrassato le compagnie telefoniche a proprie spese. Persone che sono andate in giro a scollettare, a reperire fondi, e quando non è stato sufficiente si sono autotassate. Persone diversissime, empatiche e respingenti, giovani e meno giovani, che spesso hanno litigato tra loro, anche ferocemente, ma non hanno mai mollato. Persone che dopo domenica forse rimarranno in contatto o non si rivedranno più, ma che hanno condiviso una piccola grande impresa con le loro sole forze, senza l’appoggio di grossi apparati o strutture. Chapeau.
A uno di loro va un saluto particolare, non perché abbia fatto più degli altri e delle altre, anche se ha fatto tantissimo, ma perché per settimane ci siamo stalkerati reciprocamente fino a bruciare i telefonini, e perché ci ha un po’ commosso trovarci in battaglia al fianco di uno dei ragazzi di Radio Alice.
Vogliamo ringraziare i grandiosi giovinastri de Lo Stato Sociale, che hanno accettato di condividere un concerto con noi altri seniores del Wu Ming Contingent. Steno, la voce dei Nabat, che non si tira mai indietro e canta ancora “contro di te / voglio la tua fine” con la stessa convinzione. Federico Minghini, alias Mingo dj di Radio Città Fujiko, che ha messo insieme le band e che ha organizzato la serata REFERENDANCE al Tpo. Vogliano gli déi che quell’energia abbia un’onda lunga. A Mingo ci unisce non solo quasi metà del nome d’arte e una lunga conoscenza, ma anche l’avere portato davvero lo scudo fianco a fianco, un giorno d’estate di dodici anni fa, a Genova.
Per qualcuno appoggiare la campagna referendaria è stato meno facile che per altri. Ci sono quelli come noi, che non hanno granché da perderci, e ci sono altri soggetti, che si sono messi in gioco in questa impresa con il loro mestiere, pro bono e lavorando nottetempo, consapevoli che questo avrebbe anche potuto comportare delle ripercussioni (o rappresaglie). Un grazie particolare va alle Lance Libere, cioè Vanessa e Orione, che oltre a realizzare l’iconografia e la comunicazione della serata REFERENDANCE, hanno ideato e prodotto la campagna multisoggetto del referendum che illustra questo post. La professionalità si vede nelle difficoltà. Come avremmo detto negli anni Novanta: massimo rispetto.
A proposito di rappresaglie, un ringraziamento particolare va a Francesca R., last woman standing, per l’incredibile prova di coraggio e resistenza. “Mai arrendersi finché l’incontro non è finito”. Nessun@ è da sol@.
Infine ringraziamo il pastore Michel Charbonnier, per l’ospitalità e per il bell’intervento sui “chierichetti laici con la fascia tricolore”. A dispetto di tutte le accuse di ideologismo antireligioso che i referendari si sono sentiti riversare addosso, vale la pena ricordare che tutte le riunioni del comitato si sono svolte nei locali attigui alla chiesa evangelica di via Venezian, a Bologna.
A tutti e tutte voi, prima di affrontare l’urto della più ampia alleanza di apparati di potere che si sia mai vista, come si suol dire… è stato un onore.
Wu Ming - 24 maggio 2013
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May 21, 2013
Benvenuti alle Termopili
Su Internazionale c’è il nostro ultimo articolo sul referendum bolognese del 26 maggio. Con questo chiudiamo il trittico pre-voto. Buona lettura.
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May 20, 2013
Nabat + Lo Stato Sociale + Wu Ming Contingent: «Laica Bologna», il video
Il concerto de Lo Stato sociale + Wu Ming Contingent al TPO di Bologna, culmine della serata REFERENDANCE, ha a sua volta toccato l’apice nella cover/riscrittura di un anthem dei Nabat, Laida Bologna, per l’occasione ribattezzato (Scuola) Laica (a) Bologna. Doverosamente ospite sul palco Steno, fondatore e vocalist della storica band. Una parte del Wu Ming Contingent coincideva già con una parte dei Nabat, e sul palco si è realizzata la fusione fra tre gruppi. Ecco il video che immortala l’evento. Scuola laica a Bologna! Ce li abbiamo tutti contro! Dipende da voi!
Contro di te
voglio la tua fine
Contro di te
voglio la tua fine
Contro di te
VOGLIO LA TUA FINE!!!
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May 17, 2013
Un sentiero luminoso da Bologna a Milano
E’ possibile andare a piedi da Bologna a Milano senza farsi investire da un TIR?
E quante storie si possono incontrare, scritte nel paesaggio tra le due città?
E’ proprio vero che “in pianura il TAV non ha fatto danni” e poi “tanto l’ambiente è già degradato”?
Esiste un’altra Padania oltre i capannoni, la nebbia, le ciminiere e i campi di neve fradicia?
di Wu Ming 2
Ai primi di settembre del 2012 sono tornato a camminare tra Bologna e Firenze, da Piazza Maggiore a Piazza della Signoria, tre anni dopo il viaggio che mi portò a scrivere Il sentiero degli dei (Ediciclo 2010). Accompagnavo un gruppo di viandanti per conto di un’associazione, la Compagnia dei Cammini. Tappa dopo tappa, mi sono reso conto che la “Guida Pratica” – pubblicata a suo tempo in fondo al volume – aveva bisogno di un aggiornamento, per tutti coloro che ogni anno scavalcano l’Appennino a Bassa Velocità.
Con l’arrivo della primavera, e l’aiuto del nostro ebooker Mozambo, ho così approntato una nuova versione del libro – solo digitale. Ecco i formati pdf, odt, mobi ed ePub.
Il sentiero degli dei nacque come sfida: due piedi contro due rotaie, il lento incedere di un cantastorie contro l’Alta Velocità e la Catastrofe Idrocosmica del Frecciarossa.
Nel marzo 2009, pochi mesi prima della mia partenza, i vertici del Cavet – il consorzio che gestì l’appalto per il TAV in Mugello – ricevettero pesanti condanne in un processo di primo grado per disastro ambientale e smaltimento illecito di rifiuti.
Mentre correggevo le bozze del libro, però, dovetti inserire al volo una nota per precisare che nel novembre 2009 la Corte d’Appello di Firenze aveva accolto il ricorso di Cavet e bloccato il pagamento dei risarcimenti previsti dalla sentenza precedente (una provvisionale da 150 milioni di euro).
Nel giugno 2011, la stessa corte assolse tutti i 39 imputati.
Infine (?), a marzo di quest’anno, la Cassazione ha annullato le assoluzioni e disposto un nuovo appello.
Un’ottima notizia – e per quanto mi riguarda, il proverbiale terzo elemento che sempre ne segue due similari. Non c’è due senza tre: e infatti, fino a quel momento, le piccole vittorie seguite alla pubblicazione del Sentiero erano state proprio due.
Due vicende che interesseranno anche chi non ha mai camminato per più di un giorno di fila e chi allo zaino in spalla preferisce il paracadute o le sacche da bici.
Due vicende che mi hanno convinto a lanciarmi in un nuovo progetto di viandanza.
Ma andiamo con ordine.
Nel libro, oltre agli scempi del TAV in Mugello, descrivevo emergenze ambientali grandi e piccole, lotte di cittadini, esempi di persone che si sono messe assieme per difendere il territorio, per renderlo più vivibile e più giusto.

Il Resto del Carlino, 11.8.83
Storie come quella dei Bregoli, un sentiero sui colli di Bologna, con tanto di Via Crucis e antico selciato.
All’inizio degli anni Ottanta, il primo tratto del popolare stradello divenne viale d’accesso di una villa appena ristrutturata. Cancello monumentale e muro di cinta lo resero inaccessibile agli estranei. Chi voleva camminare da Casalecchio alla Basilica di San Luca era così costretto a una deviazione insensata, e pure la Via Crucis risultava mutila di due stazioni. Ebbene: dopo trent’anni di cause, tribunali, mappe del catasto e contenziosi, pochi mesi dopo la pubblicazione del Sentiero, i proprietari hanno rinunciato al ricorso in Cassazione e si sono messi d’accordo con il Comune di Bologna per procedere come già stabilito in tutti i gradi di giudizio: aprire un passaggio di fianco al cancello e restituire alla comunità quel che le spetta di diritto.
E’ chiaro che il libro non ha avuto nessun merito in quanto accaduto, tutt’al più è stato di buon auspicio. Di certo ha contribuito a portare sui Bregoli camminatori e viandanti: il sentiero, infatti, fa parte del tracciato della Via degli Dei, il percorso a piedi da Bologna a Firenze che oramai per numeri e fama sta diventando una risorsa turistica – di quel turismo “povero” ma per nulla trascurabile in tempo di crisi. Turismo o no, è ormai assodato che l’andare a piedi, l’aprire sentieri, il mantenerli agibili, porta spesso a scontrarsi contro recinzioni di terre che dovrebbero essere, almeno sulle mappe, beni comuni, e ad aprire cause contro chi pensa che una terra di tutti è una terra di nessuno, e che una terra di nessuno è del primo che se la prende.
La seconda storia è quella del Parco Eolico del Monte dei Cucchi, un progetto della ditta AGSM di Verona che prevedeva di impiantare 24 pale alte cento metri, su un crinale a mille metri d’altezza, in terreno franoso, coperto da una foresta, per di più in assenza di una campagna anemometrica indipendente che garantisse un reale vantaggio, a fronte dei tanti disagi, in termini di energia pulita prodotta. A stabilire che l’opera “valeva davvero la pena” era la ditta stessa, per la quale, però, a “valere la pena” potevano essere gli incentivi statali per le rinnovabili e non l’elettricità immessa nel sistema.
Il progetto, che solo due anni fa sembrava inevitabile, risulta oggi definitivamente abbandonato, sconfessato dalla Provincia e dall’assessore che l’aveva sostenuto, grazie alla caparbietà di un comitato di abitanti e villeggianti del luogo. L’esempio è stato contagioso e comitati simili sono spuntati nelle zone circostanti, tutte minacciate dal business del vento: Fontanavidola, Monte Bastione, La Faggeta, Monte Gazzaro… Non solo: a cinque chilometri in linea d’aria dal Monte dei Cucchi, sorgevano già le dieci pale di Monte Galletto, di proprietà della ditta Riva Calzoni, il primo impianto eolico del Nord Italia, a suo tempo vanto della Regione, ma oramai vecchio e poco efficiente. La riflessione nata intorno al nuovo progetto (di AGSM), ha fatto sì che si rivedesse pure quello vecchio (di riva Calzoni), e quando a settembre sono passato da Monte Galletto, con mia grande sorpresa mi sono accorto che le dieci pale non c’erano più. Le stavano sostituendo con quattro pale di nuova generazione, capaci di produrre da sole più energia di prima.
Anche qui è chiaro che il libro non ha avuto alcun merito: chiesi all’editore di spedirne una copia al presidente del comitato per Monte dei Cucchi, Angelo Farneti, ma l’ho conosciuto soltanto a novembre dello scorso anno, quando mi ha scritto una mail per informarmi che il Monte dei Cucchi aveva ricevuto la qualifica di Sito di Interesse Comunitario.
Pensavo che il libro non gli fosse nemmeno arrivato (capita spesso, specie con i grossi editori). E invece:
«Ricordo che quando tutto e tutti erano contro di noi ricevetti, inaspettatamente, per posta una copia omaggio del suo libro. Anche il sapere che qualcuno che non conoscevamo aveva così ben compreso ed inserito in un capitolo la nostra battaglia ha contribuito a darci la forza per continuare.»
Perbacco, mi sono detto allora. Forse è vero che ‘sto libro porta bene.
E siccome l’idea di camminare e scrivere tra Bologna e Firenze è nata intorno allo scempio della TAV in Mugello, ecco il nuovo progetto: inseguire la ferrovia veloce fino in Val di Susa. Trovare un percorso pedestre da Bologna a Milano, poi da Milano a Torino, e quindi da Torino a Saint-Jean de Maurienne, in Francia. Non tutto in una tirata, ma tre percorsi diversi in tre momenti diversi, da qui al 2020 – la data più realistica (!) per il completamento della nuova linea Torino – Lione, secondo i calcoli dell’Unione Europea.
Alla fine dell’estate, prima del freddo, mi piacerebbe partire alla volta di Milano.
Il problema è che in questo caso non esiste, che io sappia, una “Via degli dei”, cioè un sentiero segnato e sperimentato. Bisogna inventarselo, e certo non me lo posso inventare da solo. O meglio: potrei inventarmelo da solo, come facevo a sedici anni: guardi la mappa, scegli le strade secondarie e ti metti in cammino. Ma allora, l’unico obiettivo era starsene via per un po’, stile di vita essenziale, tenda piedi zaino come uniche necessità. Oggi mi piacerebbe vagabondare con qualche linea guida in più.
Ad esempio:
1) Evitare l’asfalto il più possibile: scegliere un tracciato amico dei piedi e poco adatto alle ruote.
2) Attraversare luoghi interessanti, ma esclusi dalle guide turistiche. Siti colpiti da emergenze ambientali (dei danni TAV in pianura, ad esempio, non se ne parla mai, perché tanto la pianura “è brutta”). Borghi abbandonati o grandi fabbriche dismesse. Spazi indecisi della metropoli padana. Elementi (i geografi direbbero: iconemi) tipici del paesaggio. Nonluoghi e superluoghi. Oasi rimaste selvatiche o selvagge (finché penseremo alla Grande Pianura come a un luogo ormai spacciato, invaso dai capannoni e dalle infrastrutture, non smetteremo di svenderla al peggior offerente).
3) Incontrare persone interessanti legate ai luoghi del punto 2).
4) Tracciare un percorso vario, ma senza deviazioni assurde. (Per dire: vorrei evitare di farmi cento chilometri sempre sull’argine del Po, e preferirei non passare da Perugia o Belluno)
5) Utilizzare dove possibile la viabilità storica, i sentieri CAI, i percorsi che gli abitanti ancora utilizzano per spostarsi a piedi.
6) Raccogliere storie, aneddoti, leggende che permettano di leggere il libro del paesaggio, l’alfabeto dei luoghi, la scrittura collettiva di un’ecosistema.
Per questo ho pensato a un wikisentiero, un percorso a tappe da comporre insieme, grazie ai suggerimenti raccolti qui su Giap e su altri blog e siti web “di settore”.
Tali suggerimenti possono essere di qualunque tipo, ma in particolare dovrebbero concentrarsi su: a) Luoghi interessanti da attraversare/visitare, b) Pezzi di percorso già sperimentati e “potenzialmente utili” per mettere insieme l’intero tragitto. Insomma: chi conosce un sentiero o una cavedagna o una strada bianca per andare da Parma a Cremona ce lo segnali subito. Chi conosce una via pedestre tra Padova e Venezia ce la segnali pure, ma non credo la utilizzeremo a ‘sto giro.
I primi risultati di questa intelligenza collettiva verranno presentati al Festival della Viandanza di Monteriggioni, sulla Via Francigena, il prossimo 1° giugno, alle ore 18, in un incontro dal titolo: “Alla ricerca di un’altra Padania. Sentieri luminosi da Bologna a Milano.”
Per le segnalazioni potete usare i commenti qui sotto o il solito indirizzo di posta del collettivo.
***
P.S. Mentre rileggo queste righe mi arriva una mail di Stefano Galli. Stefano è uno dei tanti protagonisti del Sentiero (ma compare pure in Point Lenana…). Dieci anni fa, grazie a una vecchia foto di Luigi Fantini, ha scoperto e salvato dalle erbacce una pianta di vite ultracentenaria, nel territorio del Comune di Pianoro, lungo il percorso tra Bologna e Firenze. Questa vite – ribattezzata “del Fantini” – è una delle pochissime ad essere sopravvissute ai mortali attacchi di filossera di fine Ottocento. Si tratta dunque di uno dei vitigni più antichi d’Italia, unico nel suo genere, tanto da non essere nemmeno iscritta nel registro dei ceppi oggi conosciuti.
Morale della favola: la pianta madre presenta evidenti segni di malessere e Stefano vorrebbe parlarne con un esperto di viticoltura, per capire come comportarsi. Sebbene si tratti di un vero e proprio monumento vegetale, il comune non sembra volersene occupare. Chi ha le competenze per dare una mano, ce lo può segnalare e lo metteremo in contatto con Stefano Galli.
Volendo, non c’è tre senza quattro…
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